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Eve Arnold. Il cuore di tenebra della fotografia

Eve Arnold on the set of ‘Becket’, England, 1963. Photo by Robert Penn

Eve Arnold on the set of ‘Becket’, England, 1963 (ph. Robert Penn)

di Silvia Mazzucchelli

«Un fotografo di Philadelphia di cui sarei voluta diventare assistente mi disse: posso insegnarti i passi, ma tu devi sentire la musica». In altre parole, la tecnica si può imparare, il resto dipende da te, racconta Eve Arnold nella sua autobiografia In Retrospect. Per lei, ebrea di origini russe, cresciuta in una famiglia numerosa e non abbiente, ricercare il proprio sguardo sul mondo non è esattamente la priorità assoluta; dapprima è, invece, imprescindibile, trovare un modo per lavorare e così sopravvivere.

Nata nel 1912, una dei nove figli del rabbino Velvel Sklarski, che giunto dalla  Russia a Philadelphia sarebbe diventato William Cohen, sin da giovanissima deve direttamente constatare le difficoltà di vivere in un Paese che non aveva le strade lastricate d’oro, come lasciavano intendere i fotografi della Farm Security Administration, o come aveva ironicamente smascherato Margaret Bourke-White fotografando un famoso cartellone pubblicitario, There’s no way like the American Way, con la classica famiglia wasp di padre, madre, figli e cane incluso, che sovrasta una lunga fila di poveri, tutti neri, in attesa della distribuzione di un pasto a Louisville.

Migrant potato picker, Long Island, New York, USA, 1951 © Eve Arnold / Magnum Photos

Migrant potato picker, Long Island, New York, USA, 1951 (ph. Eve Arnold / Magnum Photos)

Nel 1943 l’immigrata Sklarski-Cohen diventa Arnod sposando Arnold Arnold, un graphic designer, e trova lavoro presso la Stanbi Photos di Hoboken, New Jersey, che stava cercando un fotografo alle prime armi per occuparsi di una nuova divisione dedicata alla lavorazione delle pellicole. La nuova occupazione è così soddisfacente che appena dopo sei mesi viene nominata responsabile di produzione, poi direttrice di piano, e infine le viene affidata la creazione di una nuova divisione a Chicago. Nonostante i risultati ottenuti, nel 1948 lascia il lavoro per dedicarsi al figlio appena nato, ma non si accontenta di fare solo la madre. A trentasei anni, incurante della propria età, si iscrive ad un corso di fotografia alla New School for Social Research di New York, tenuto da Aleksej Brodovič, art director di Harper’s Baazar.

Republic aircraft factory, Long Island, New York, USA, 1952 © Eve Arnold / Magnum Photos

Republic aircraft factory, Long Island,New York, USA, 1952 (ph. Eve Arnold / Magnum Photos)

Gli esiti sono disastrosi. Quando Eve Arnold mostra i suoi scatti, i giudizi dei compagni di corso sono aspri e categorici. «Mi sentii scorticata viva, ma quello che ne ricavai fu importante. Quella sera ho imparato più cose sul significato di una fotografia di quante ne abbia mai imparate da allora. Fu quello il mio vero inizio». Decide, tuttavia, di portare a termine il compito affidatole da Brodovič, ovvero quello di realizzare un servizio di moda.

Allora si reca nel quartiere di Harlem e qui fotografa una sfilata di modelle nere che si teneva nell’Abyssinian Baptist Church. Non vi è nulla del lusso che potrebbe evocare una sfilata di moda. L’ambiente è povero, gli arredi dimessi, le pareti rovinate. Nessun parrucchiere o truccatore si affaccenda intorno ai corpi delle modelle. Ciascuna fa per sé. Chi si sistema il trucco, chi si sveste e si prepara a indossare un nuovo abito, chi si spalma il corpo con un unguento prima di sfilare in costume da bagno, chi attende il segnale per uscire in passerella.

Charlotte Stribling aka ‘Fabulous’ models clothes designed and made in the Harlem community. Abyssinian Church, New York City, USA, 1950 © Eve Arnold / Magnum Photos

Charlotte Stribling aka ‘Fabulous’ models clothes designed and made in the Harlem community. Abyssinian Church, New York City, USA, 1950 (ph. Eve Arnold / Magnum Photos)

«Non fu facile portare il mio viso pallido in mezzo a quel pubblico di neri e trovare il coraggio di piazzargli la macchina fotografica sotto il naso». Di Harlem la affascinano il buio dei camerini, la nudità dei corpi, il contrasto tra la sensualità di ciò che vede e quanto, invece, è consentito di vedere. «Fabulous aveva un portamento straordinario. Si muoveva come una belva dorata, un leopardo, o una tigre». Raggiunge la modella nel backstage e scatta mentre si abbassa le mutande, mentre mostra il suo sedere come trofeo da sbattere in faccia a un’indiscreta ficcanaso bianca.

La scelta si rivela vincente, ottiene i complimenti di Brodovič, ma nessuna rivista americana vuole pubblicare le sue foto. Lo farà il Picture Post, l’equivalente britannico di Life, che già nel 1951 aveva dimostrato di essere open minded pubblicando A Schoolgirl Does Her Homework, il primo servizio di una giovanissima Grace Robertson. Con Fashion Show in Harlem, Eve Arnold si guadagna ben otto pagine sul Picture Post, e un trionfale ingresso nel mondo della fotografia.

Da questo momento in poi comincia a ricevere incarichi editoriali: una serata d’apertura alla Metropolitan Opera House e foto della Quarantaduesima strada di notte. Fotografa un peep-show e lo Hubert’s Museum a Times Square, dove vengono esposte stranezze e curiosità. È proprio nel buio, nella notte, nel sottosuolo, che affondano le radici del suo sguardo. Lo Hubert’s Museum, per pochi centesimi, offriva al visitatore varie bizzarrie, curiose esibizioni con pulci ammaestrate, “creature” metà uomo e metà donna: Alberta the sex mistery. Girl turn to a boy, si legge in un cartello all’ingresso del locale. È lo stesso posto in cui Lisette Model porta i suoi alunni della New School for Social Reserach, fra cui c’è Diane Arbus che fotograferà alcuni freaks come il lillipuziano che imita Maurice Chevalier o il famoso Congo, detto Il Malvagio della giungla.

Bar girl in a brothel in the red light district, Havana, Cuba, 1954 © Eve Arnold / Magnum Photos

Bar girl in a brothel in the red light district,
Havana, Cuba, 1954 (ph. Eve Arnold / Magnum Photos)

Ma l’orizzonte di Eve Arnold è diverso: se Diane Arbus sosteneva che «una fotografia è un segreto intorno ad un segreto», la Arnold sembra pensare che ciò che non viene nascosto può essere svelato e dunque guardato. Il modello è quello dei peep-show visti dentro lo Hubert’s Museum, dove dare sfogo alla curiosità di sbirciare, di andare verso l’abisso, come fa l’uomo intabarrato in un impermeabile con il volto nascosto da un cappello, che scende le scale seguendo, come un allettante invito, la scritta impressa sul muro: “to show”. E nel fotogramma successivo viene colto in flagrante, mentre per un centesimo si gode lo spettacolo Real moving picture. For men only, dentro il buco di un peep-show.

Marilyn Monroe reading ‘Ulysses’ by James Joyce, Long Island, New York, USA,1955 © Eve Arnold / Magnum Photos

Marilyn Monroe reading ‘Ulysses’ by James Joyce, Long Island, New York, USA,1955 (ph. Eve Arnold / Magnum Photos)

Anche New York è un luogo misterioso di cui svelare il segreto. Sembra un immenso Luna Park con le insegne dei locali che illuminano il buio della notte. Dall’alto di un edificio, Eve Arnold fotografa Times Square come da uno smisurato buco di serratura. Senza pagare il prezzo del biglietto, la «città che rende il sonno inutile» soddisfa la sua curiosità: file di auto in strada, finestre illuminate come tanti occhi, persone che si muovono sui marciapiedi. E su un manifesto pubblicitario, come se vi avesse scritto un’opportuna didascalia, si legge: Elliott Murphy Every Nite Aquashow.

Ma New York è anche il luogo dove osservare, imparare, muoversi velocemente, reagire immediatamente o aspettare il momento giusto. Nel 1951 è la prima donna, insieme all’austriaca Inge Morath, ad entrare a far parte della Magnum. Le sue parole danno l’idea della consapevolezza di sé: «sono stata povera e ho voluto documentare la povertà; ho perso un figlio e sono stata ossessionata dalle nascite; mi interessava la politica e ho voluto scoprire come influiva sulle nostre vite; sono una donna e volevo sapere delle altre donne». Dicono poco, però del suo lato voyeuse, che non sfugge a Robert Capa. Le foto della Arnold, afferma con saccente ironia, si collocano «tra le gambe della Dietrich e le vite amare dei raccoglitori di patate», e fa centro.

Marilyn Monroe in the Nevada desert during the filming of “The Misfits. USA, 1960 © Eve Arnold / Magnum Photos

Marilyn Monroe in the Nevada desert during the filming of “The Misfits. USA, 1960 (ph. Eve Arnold / Magnum Photos)

Della Hollywood che il poeta Don Blending descriveva «portentosa / per metà buffonata / ma per metà leggenda / colorata, disperata, stupenda», a Eve Arnold interessava quella disperata. Come già aveva fatto dietro le quinte della sfilata di Harlem, nella “Mecca del cinema” va alla ricerca del lato oscuro. I ritratti scattati alle dive mostrano dettagli che, secondo le logiche correnti, devono restare rigorosamente fuori dal fotogramma. Alla Arnold interessano i particolari che devono essere solitamente nascosti e taciuti. Di Marilyn Monroe ci mostra i piedi gonfi ed il segno impresso nella carne dalle altissime scarpe (1955). Scomposta e adagiata su una poltrona, con la testa reclinata all’indietro, avrebbe potuto essere una donna qualunque che si leva le scarpe dopo una cerimonia sfiancante, godendo di un attimo di solitudine, ridendo da sola per qualcosa di cui solo lei è a conoscenza.

Marilyn Monroe resting between takes during a photographic studio session in Hollywood for the film “The Misfits”. USA, 1960 © Eve Arnold / Magnum Photos

Marilyn Monroe resting between takes during a photographic studio session in Hollywood for the film “The Misfits”. USA, 1960 (ph. Eve Arnold / Magnum Photos)

Di Marlene Dietrich, invece, non ammalia il suo volto perfetto o l’indifferenza del suo sguardo gelido, ma la normalità. A cinquantuno anni, nel tentativo di rilanciare la sua immagine, si trovava presso gli studi di registrazione della Columbia Records, che stava pubblicando le canzoni eseguite per le truppe durante la Seconda guerra mondiale. In sala prove canta, alza gli occhi al cielo, si spazientisce e toglie persino una scarpa (1952). Seduta a gambe larghe su uno sgabello con uno spartito davanti agli occhi, non ha nulla della donna inaccessibile a cui aveva abituato il suo pubblico. «Quando esaminò le foto, su ognuna annotò (usando la matita delle sopracciglia) le istruzioni per il trucco: assottigliare il mento, ridurre la vita, togliere la fossetta dal ginocchio, la caviglia dovrebbe essere più sottile ecc. (…) Le portai alla rivista Esquire, che le pubblicò a pagina doppia. Non le ritoccai».

Come ricordava Capa, una parte del lavoro di Eve Arnold stava metaforicamente tra le gambe della Dietrich, il cuore di tenebra da cui il suo sguardo è attratto. E come il quartier generale di Kurtz, nel cuore della giungla, misterioso groviglio di oscurità e mistero, Hollywood non è la fabbrica dei sogni, ma la patria degli incubi. Simbolo di questa perturbante dicotomia è il volto irriconoscibile di Joan Crawford (1959), che la Arnold fotografa per la promozione del film Foglie d’autunno.

Joan Crawford, Los Angeles, California, USA, 1959 © Eve Arnold / Magnum Photos

Joan Crawford, Los Angeles, California, USA, 1959
(ph. Eve Arnold / Magnum Photos)

Mentre si sta sottoponendo ad un trattamento di bellezza, la diva viene avvolta da bende come fosse in procinto di essere mummificata. Le lasciano libere solo le narici e la bocca, i cui denti ricordano quelli inquietanti di un morto. Più che un lettino da estetista, ricorda infatti il tavolo di un’autopsia.

Eppure sembra quello il vero volto di Hollywood, il rimosso che popola gli incubi degli americani. Dietro lo scintillio delle luci e il tintinnio del denaro, si cela lo spettro del disfacimento fisico e morale. Se la macchina da presa genera le star e le proietta nell’Eden del sogno americano, la fotocamera di Eve Arnold le fissa in un istante, le rende oscenamente umane e le riporta con spietatezza “nel deserto del reale”.

Malcolm X during his visit to enterprises owned by Black Muslims, Chicago, Illinois, USA,1962 © Eve Arnold / Magnum Photos

Malcolm X during his visit to enterprises owned by Black Muslims, Chicago, Illinois, USA,1962 (ph. Eve Arnold / Magnum Photos)

Nel 1976 dà alle stampe Unretouched Woman, dove ogni messa in scena viene bandita per lasciare spazio a una sequenza di donne sconosciute e celebri, colte in momenti di vita quotidiana. Alle dive wasp degli anni Cinquanta, Eve Arnold contrappone il volto di Malcom X mentre parla al raduno dei Black Muslims a Washington D.C. nel 1961. L’ebrea e immigrata russa non ha pochi punti di contatto e di solidarietà con i neri e le loro lotte di emancipazione, Così, pochi anni dopo, celebra il black is beautiful, con i ritratti di James Brown intervistato dietro le quinte del suo concerto all’Apollo Theater di Harlem, dove viene lanciato il celebre slogan, e dell’attrice Cicely Tyson, apparsa in televisione con i capelli al naturale, che ha invece lanciato l’acconciatura afro.

Ma nelle foto di Eve Arnold non c’è solo il desiderio di oltrepassare con lo sguardo le colonne d’Ercole di ciò che ai suoi tempi era consentito guardare. Black is beautiful è lo slogan con cui sembra attuarsi la vendetta dei neri, e della Arnold, nei confronti di un’America bigotta e perbenista. Dopo gli incubi di Hollywood, visti metaforicamente tra le gambe della Dietrich, è ora di mostrare il vero volto degli States. Lontana dai bagliori dei set hollywoodiani e dalle luci di New York, fotografa per più di dieci anni i migranti e i loro figli che lavorano nei campi di patate di proprietà della famiglia Davis.

Migrant potato picker, Long Island, New York, USA, 1951 © Eve Arnold / Magnum Photos

Migrant potato picker, Long Island,
New York, USA, 1951 (ph. Eve Arnold / Magnum Photos)

«Iniziai uno studio sulla famiglia Davis della township di Brookhaven, a Long Island, dove vivevo. Erano discendenti dei primi coloni e rappresentavano i prototipi americani (…). Non sono mai stata più scioccata di quando sono entrata in queste baracche formate da una singola stanza con vecchie reti di ferro e materassi sottili, con una lampadina ombreggiata, all’interno delle quali dormono fino a otto o dieci persone (…) niente servizi igienici, niente acqua». Una ragazzina nera inginocchiata davanti a un cesto di patate, che fa un palloncino con una gomma da masticare, come se stesse cercando di alleviare la fatica del suo lavoro, si contrappone alla scena in cui la famiglia Davis consuma la cena vicina alle tombe dei suoi antenati, in una finta ed inquietante atmosfera di compostezza che ricorda il quadro American Gothic di Grant Wood.

Black Aristocracy, USA, 1964 © Eve Arnold / Magnum Photos

Black Aristocracy, USA, 1964
(ph. Eve Arnold / Magnum Photos)

Un’altra occasione per spingersi oltre la superficie delle cose si presenta nel 1956 ad Haiti, quando vi si reca per raccontare la storia di Yvonne Sylvain, la prima dottoressa del Paese. Grazie a lei riesce ad avere accesso ai riti vudu haitiani. Le foto vengono scattate di notte, in un’atmosfera mistica. Una donna, con gli occhi chiusi, incrocia le braccia intorno a sé quasi a chiudersi in un abbraccio mistico. Il suo abito candido è in forte contrasto con il buio che la circonda e con il colore della pelle. Eve Arnold la fotografa frontalmente, da vicino, come se volesse sfiorare fisicamente il mistero e udire le sue parole. «È una combinazione di cattolicesimo e rituali tribali africani, per cui la litania alla dea Erzele viene cantata con una cadenza (“Erzele, Erzele) che suona come Ave Maria, Ave Maria». I segni tracciati in bianco sulla terra, ritratti con insistenza, paiono suggerire il desiderio di decifrare il codice segreto di una preghiera effimera destinata a durare solo il tempo del rito. Evocano forme ancestrali, cerchi, stelle stilizzate, strani fiori, legati fra loro come i punti luminosi di una costellazione.

School in Kabul, Afghanistan, 1969 © Eve Arnold / Magnum Photos

School in Kabul, Afghanistan, 1969
©(ph. Eve Arnold / Magnum Photos)

Guardare nell’abisso, scrutare dentro il cuore di tenebra degli eventi, avvicinarsi senza timori alla dimensione del mistero, la aiutano anche a penetrare il suo personale “cuore di tenebra”, cioè il dolore causato dalla perdita di un figlio.

«Avevo perso un bambino ed ero caduta in una profonda depressione. Nella mia angoscia, fotografare nascite fu una specie di catarsi. Sembrava una follia mettersi di fronte alla fonte del dolore, invece mi aiutò ad elaborare il lutto. Per un intero inverno andai avanti e indietro dal Mother Hospital di Port Jefferson, alla ricerca dei cinque minuti esatti in cui il neonato lascia il calore e la sicurezza del grembo materno e viene catapultato nel mondo alieno in cui il cordone viene tagliato».

Anthony Quinn and Anna Karina on the set of Guy Green’s ‘The Magus’, Mallorca, Spain, 1976 © Eve Arnold / Magnum Photos

Anthony Quinn and Anna Karina on the set of
Guy Green’s ‘The Magus’, Mallorca, Spain, 1976 (ph. Eve Arnold / Magnum Photos)

Una foto mostra uno sfondo nero attraversato dalla mano candida della madre che si protende verso il figlio. Qui avviene la catarsi: la mano minuscola del neonato che sbuca dall’angolo destro afferra la punta dell’indice della madre. Un momento che non può che evocare il tocco divino della creazione di Adamo, di memoria michelangiolesca, qui mutato nel soffio della vita che passa dalla madre al figlio e restituisce alla fotografa la forza di elaborare il proprio lutto e tornare a fare la fotografa.

Song and dance troupe, China, 1979 © Eve Arnold / Magnum Photos

Song and dance troupe, China, 1979 (ph. Eve Arnold / Magnum Photos)

Eve Arnold, L’opera 1950-1980 a cura di Monica Poggi, Camera Torino]

Dialoghi Mediterranei, n. 61, maggio 2023

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Silvia Mazzucchelli, laureata in Scienze umanistiche, ha conseguito un master in Culture moderne comparate e un dottorato in Teoria e analisi del testo presso l’Università di Bergamo. Ha pubblicato due saggi dedicati alla fotografa e scrittrice Claude Cahun. Della stessa autrice ha curato Les paris sont ouverts (Wunderkammer, 2018) e scritto il saggio introduttivo per la traduzione in italiano del pamphlet. Ha collaborato con numerose riviste, fa parte della redazione della rivista on line Doppiozero. Da circa due anni sta conducendo uno studio analitico sul lavoro fotografico e poetico di Giulia Niccolai.
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