di Elio Rindone
Il pensiero di Confucio (551-479) è incentrato, come è noto, sulla riflessione politica. Ciò che gli sta soprattutto a cuore è la buona organizzazione dello Stato: una società gerarchica, fondata sul rispetto dell’autorità e sul valore della giustizia, che crea perciò la necessaria armonia nelle relazioni sociali, codificate secondo precise norme etiche e rituali, mutuate dall’antica tradizione culturale cinese.
Meno noto è che chiave di volta di tutta la concezione politica di Confucio è la “rettificazione dei nomi” (zhengming). La tesi, allora come ora, appare davvero strana, e infatti a Confucio la tradizione attribuisce il seguente dialogo con un discepolo, che gli pose questa domanda: «Maestro, se vi fosse affidato un regno da governare secondo i vostri princìpi, che fareste per prima cosa?» Confucio rispose: «Per prima cosa rettificherei i nomi». A questa risposta il discepolo rimase molto perplesso: «Rettificare i nomi? Con tanti impegni gravi e urgenti che toccano a un governante voi vorreste sprecare il vostro tempo con una sciocchezza del genere?» Confucio dovette spiegare: «Se i nomi non sono corretti, cioè se non corrispondono alla realtà, il linguaggio è privo di oggetto. Se il linguaggio è privo di oggetto, agire diventa complicato, tutte le faccende umane vanno a rotoli e gestirle diventa impossibile e senza senso. Per questo il primo compito di un vero uomo di Stato è rettificare i nomi».
I nomi, cioè i termini con cui denominiamo le cose e gli eventi, devono essere corretti: devono, dunque, «corrispondere alla realtà». Se ciò non accade, «le faccende umane vanno a rotoli», perché naturalmente le parole inesatte producono una visione deformata della realtà. È innegabile: le parole hanno un impatto straordinario sulle nostre idee, e quindi sulle nostre vite, sia individuali che collettive. I nostri giudizi si fondano spesso su parole che, come sa bene chi ha il potere, possono far apparire il bianco nero e il nero bianco. Occorre, perciò, prestare la massima attenzione alle parole in uso, specialmente a quelle diffuse dai governanti: se non sono loro a ‘rettificare’ i nomi, è necessario che lo facciano i governati, se non vogliono cadere in trappola. Dell’importanza che ha, in effetti, l’uso corretto dei termini, vorrei portare ora qualche esempio.
Prendiamo in considerazione, anzitutto, l’espressione ‘pace fiscale’. La parola ‘pace’ suggerisce, ovviamente, che c’è stato un conflitto, che ora è terminato. L’aggettivo ‘fiscale’ precisa in quale campo è avvenuto il conflitto: quello tra lo Stato e il contribuente. Se il funzionario statale non ha commesso errori e ha chiesto la cifra corretta, il cittadino è tenuto a versare il tributo stabilito dalla legge. Nel caso in cui venga meno al suo dovere, diventa un ‘evasore’, cioè un cittadino che sottrae all’erario le somme dovute e, se scoperto, è tenuto a pagare il tributo evaso e una multa come sanzione per l’azione illecita commessa.
Se le cose stanno così, non c’è stato nessun conflitto che richieda una pacificazione: c’è stata un’azione illecita, un furto, che richiede un’adeguata punizione. L’espressione ‘pace fiscale’, invece, dà l’idea che ci siano responsabilità da entrambe le parti e che, per porre fine al contenzioso, si arrivi a un compromesso: il cittadino versa le imposte dovute, ma lo Stato non applica sanzioni e non chiede gli interessi.
L’espressione, quindi, nasconde in realtà un condono fiscale, che sana comportamenti illeciti o irregolari messi in atto dal contribuente con dichiarazioni dei redditi errate, infedeli o assenti. E poiché il condono agli evasori va a danno di chi paga le tasse, i governanti preferiscono evitare questo termine e parlare di pace fiscale per evitare l’indignazione dei contribuenti più corretti.
Infatti, è facile constatare che il ripetersi dei condoni ha effetti negativi, perché incoraggia i contribuenti a non versare il dovuto: se saranno scoperti, il peggio che può loro capitare è di pagare, senza alcuna sanzione, quanto già dovevano versare. E chi ci rimette, evidentemente, sono i cittadini che pagano regolarmente le tasse, spesso eccessive perché devono compensare quelle non versate dagli evasori.
Un’altra espressione che ricorre nel linguaggio politico è la cosiddetta ‘difesa dei confini’. Il termine ‘confine’ indica il limite del territorio di uno Stato, mentre il termine ‘difesa’ indica l’insieme delle misure prese da uno Stato per difendere il proprio territorio da attacchi di eventuali nemici. Quindi l’espressione ‘difesa dei confini’ suggerisce l’idea che il territorio, per esempio quello italiano, sia attaccato da eserciti ostili di Stati confinanti. Ma non pare che in questi anni ci siano state aggressioni da parte, per esempio, della Francia, che esigono l’impegno di difendere il confine italo-francese. Anche Stati non confinanti potrebbero attaccarci per via aerea, o inviando navi da guerra pronte a bombardare le nostre città: ma anche questa ipotesi sembra lontana dalla realtà.
Ciò che accade invece, ormai da decenni, è l’afflusso continuo di immigrati, che lasciano Paesi afflitti da guerre sanguinose o da estrema povertà economica. Si tratta, quindi, non di eserciti in armi – e in effetti non risulta che il Ministero della Difesa stia mobilitando le sue forze migliori – ma di poveri che chiedono di essere accolti da nazioni in cui sperano di poter condurre una vita più dignitosa. E non c’è da stupirsi che arrivino soprattutto da noi perché, per la sua posizione geografica, l’Italia è il Paese verso cui naturalmente si dirige, attraversando il Mediterraneo, la maggior parte dei migranti, che proviene proprio dal continente africano.
L’alternativa, quindi, è accoglierli o respingerli, non certo quella di difendersi da pericolosi aggressori, sicché l’espressione ‘difesa dei confini’ è decisamente fuorviante. Semmai, l’impegno dei governi italiani dovrebbe essere quello di chiedere una revisione del Regolamento di Dublino, che prevede che i migranti debbano restare nel Paese europeo in cui arrivano, e ottenere così un’equa redistribuzione dei migranti tra i vari membri della UE.
Un’altra parola che è entrata nel dibattito politico italiano è il termine ‘giustizialismo’, usato per definire la tendenza ad applicare le regole della giustizia in modo troppo rigido, quasi una forma di giustizia sommaria a carico soprattutto di chi si è reso colpevole di reati di rilevanza politica. Infatti è quando l’imputato appartiene alle classi dirigenti che regolarmente si solleva, nei confronti di certi magistrati, l’accusa di ‘giustizialismo’, suggerendo l’idea che da anni ci sia in Italia un conflitto tra una magistratura forcaiola e una politica impegnata a difendere le sue prerogative. L’accusa di giustizialismo viene infatti rivolta in nome di un atteggiamento garantista, intendendo il termine ‘garantismo’ come necessario rispetto delle garanzie che la legge prevede per l’imputato, da considerare innocente sino a sentenza definitiva di condanna.
Ma davvero in Italia ci sono magistrati che perseguitano i politici, al punto da non garantire adeguatamente i diritti degli imputati? O ci sono, invece, alcuni politici che non vogliono essere processati pur commettendo reati anche gravi, come sembra provato dai frequenti casi di corruzione e addirittura di condanne per concorso in associazione mafiosa? Un dato interessante è quello offerto da Transparency International, un’organizzazione internazionale non governativa che si occupa della corruzione nel mondo, e che nella classifica del 2022 colloca l’Italia tra i Paesi europei più corrotti e, a livello mondiale, in una condizione peggiore di quella del Qatar e delle Bahamas.
Se la nostra Costituzione ricorda che «i cittadini cui sono affidate funzioni pubbliche hanno il dovere di adempierle con disciplina ed onore» (art. 54), che ci sarebbe di strano se fossero considerati incandidabili i condannati, anche in via non definitiva, per alcuni gravi delitti connessi al fenomeno mafioso, oppure per reati commessi con abuso di potere o in violazione dei doveri inerenti a una pubblica funzione? Credo che sarebbe un atto di buon senso come, per esempio, quello di non lasciare in totale libertà, sino a sentenza definitiva, uomini già condannati in primo grado per violenza nei confronti delle mogli o delle compagne: non c’è il rischio che la decisione della Cassazione arrivi troppo tardi?
Se c’è stata una rigorosa osservanza delle norme procedurali, è bene che al termine del processo lo Stato renda giustizia alle vittime, condannando i colpevoli, qualunque sia il loro posto nella scala sociale: forse l’accusa di ‘giustizialismo’ nasconde in realtà il rifiuto del principio che la legge deve essere uguale per tutti, compresi i potenti, evitando sanatorie, «colpi di spugna» e leggi ad personam.
Un termine che è entrato da poco nel dibattito politico è quello di ‘occupabili’. Vengono così designati tutti i soggetti maggiorenni, che abbiano un’età inferiore a 60 anni, che non siano già occupati, che non frequentino un regolare corso di studi, che non siano affetti da disabilità e non abbiano componenti familiari di cui devono occuparsi. Soggetti, quindi, capaci di svolgere un lavoro, e che è giusto che lavorino: se non vogliono lavorare, non meritano alcun aiuto da parte dello Stato. Il discorso non fa una piega, se non fosse per un piccolo particolare: manca un’offerta di lavoro. O meglio: manca un’offerta di lavoro con un’adeguata retribuzione.
Infatti, secondo i dati ISTAT, a febbraio 2023 la percentuale di disoccupati era all’8% e quella degli inattivi (persone che non hanno un lavoro e non lo cercano) era al 33,8%. Milioni di uomini e donne, dunque, non hanno un lavoro: si può davvero credere che siano tutti degli sfaccendati, che preferiscono rimanere sul divano di casa piuttosto che affrontare la fatica del lavoro?
Non si può escludere che tra gli ‘occupabili’ ci sia un certo numero di fannulloni ma, conoscendo le condizioni del mercato del lavoro in Italia, è ragionevole ammettere che la maggioranza sia costituita da disoccupati, cioè da persone che vorrebbero lavorare ma non trovano lavoro con retribuzioni accettabili. Nell’approssimarsi della Festa del Lavoro il Presidente della Repubblica, il 29 aprile 2023, ha esortato i lavoratori a non «arrendersi all’idea che possa esistere il lavoro povero, la cui remunerazione non permette di condurre una esistenza decente» e ha ribadito la «necessità di rimuovere le diseguaglianze», che negli ultimi anni stanno aumentando nella nostra società.
Queste parole non fanno che riecheggiare l’art 36 della nostra Costituzione: «Il lavoratore ha diritto ad una retribuzione proporzionata alla quantità e qualità del suo lavoro e in ogni caso sufficiente ad assicurare a sé e alla famiglia un’esistenza libera e dignitosa». E allora forse, più che di ‘occupabili’ che restano tali perché colpevoli di rifiutare un’occupazione, sarebbe opportuno parlare di disoccupati, che cercano lavoro ma non lo trovano, e di occupati che, per sopravvivere, sono costretti ad accettare salari da fame.
L’ultimo caso su cui ritengo utile riflettere è il frequente richiamo ai ‘valori dell’Occidente’. Indubbiamente i Paesi comunemente indicati come ‘Occidente’, e che comprendono sostanzialmente l’Europa e l’America settentrionale, hanno caratteristiche culturali che li accomunano e che si sono consolidate nel corso dei secoli: dalla cultura greco-romana a quella ebraico-cristiana, da quella rinascimentale a quella illuministica. Ed è opportuno ricordare anche la nascita della scienza moderna, la rivoluzione industriale, la diffusione dei princìpi liberal-democratici e i progressi nel campo della tecnologia, che hanno trasformato le condizioni di vita, i costumi e la mentalità delle società in cui si è affermata un’economia capitalistica.
Tutto bene, dunque? Sì, ma a patto che non si intenda affermare la superiorità della nostra civiltà sulle altre, che non si intendano imporre agli altri popoli i nostri valori col ricorso alle armi e che non si dimentichi che il nostro benessere è frutto anche delle politiche di rapina che abbiamo messo in atto nei confronti di altri continenti.
Franco Cardini mi pare che sintetizzi bene i lati oscuri dell’Occidente: in effetti, non possiamo «cancellare le infamie della Tratta degli Schiavi […]. Chi mai ci ha autorizzato a considerare ‘in fondo, dolorosamente comprensibili’ e magari ‘inevitabili’ i crimini perpetrati dagli europei in mezzo millennio di colonialismo o la quasi totale scomparsa dei native Americans? Chi a ritenere fatali e inevitabili i massacri atomici di intere città giapponesi a guerra praticamente finita?». Crimini che non riguardano solo il passato ma anche il presente, tanto che, piuttosto che vantarci dei ‘valori dell’Occidente, dovremmo «chiudere oggi, subito, i Lager della sperequazione socioeconomica che semina vittime a livello mondiale» e dovremmo «denunziare a partire da ora, e con rigore, i genocidi perpetrati attualmente da chi gestisce l’ingiusto squilibrio che vede le ricchezze planetarie gestite per circa il 90% (e con un inaccettabile ventaglio di diseguaglianze interne) sì e no da un 10% degli abitanti della terra (con una crescente concentrazione della ricchezza che finisce per consegnarla quasi per intero a poche decine di famiglie e di lobbies), mentre gli altri sopravvivono al di sotto dei livelli di sopravvivenza ufficialmente riconosciuti dagli organismi internazionali» (Il dovere della memoria, 2020).
Urgente rettificare i nomi!
Se si volesse restare fedeli a quanto di meglio ha prodotto la nostra tradizione culturale, non sarebbe il caso di ribaltare certe scelte, fatte appellandosi ai ‘valori dell’Occidente’, che ne costituiscono in realtà un tradimento? Bisognerebbe, allora, smettere di fare guerre per esportare la democrazia, di aumentare le spese militari, di estendere i confini dell’area della NATO minacciando la sicurezza delle altre Potenze, di disattendere gli accordi che vorrebbero porre un freno al riscaldamento globale! E cominciare a combattere le abissali diseguaglianze economiche, per evitare nuovi genocidi!
È necessario, insomma, liberarsi dall’ipocrita esaltazione dell’Occidente – che si presenta, nota Carlo Rovelli, come «il detentore dei valori, il baluardo della libertà, il protettore dei popoli deboli, il garante della legalità, il guardiano della sacralità della vita umana, l’unica speranza per un mondo di pace e giustizia» (L’ipocrisia dei valori occidentali. Li difenderò quando li metteremo in pratica veramente) – e cominciare a rapportarci alle altre culture e agli altri continenti non con un atteggiamento di competizione, per imporre la nostra superiorità, ma di collaborazione e di solidarietà, consapevoli del comune destino che unisce tutti gli abitanti della Terra: se non si cambia rotta, la folle corsa del Titanic su cui ci troviamo avrà come esito una tragedia che coinvolgerà tutti.
A questo punto, come dare torto a Confucio: la cosa più urgente, per una buona politica, è la rettificazione dei nomi, altrimenti la società va a rotoli!
Dialoghi Mediterranei, n. 62, luglio 2023
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Elio Rindone, docente di storia e filosofia in un liceo classico di Roma, oggi in pensione, ha coltivato anche gli studi teologici, conseguendo il baccellierato in teologia presso la Pontificia Università Lateranense. Per tre anni ha condotto un lavoro di ricerca sul pensiero antico e medievale in Olanda presso l’Università Cattolica di Nijmegen. Da venticinque anni organizza una “Settimana di filosofia per… non filosofi”. Ha diverse pubblicazioni, l’ultima delle quali è il volume collettaneo Democrazia. Analisi storico-filosofica di un modello politico controverso (2016). È autore di diversi articoli e contributi su “Aquinas”, “Rivista internazionale di filosofia”, “Critica liberale”, “Il Tetto”, “Libero pensiero”.
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