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Sulle tracce di Walter Benjamin. Per una rilettura critica di “Esperienza e povertà”

81toomingeldi Antonio Albanese 

Introduzione 

Nei primi decenni del secolo scorso, tutta la cultura europea sembra mettere improvvisamente in crisi l’idea di esperienza che aveva avuto fino a quel momento, come se fosse divenuto particolarmente arduo fare esperienza dell’esperienza. La storia, in primo luogo, aveva posto enormi interrogativi: con la nascita della grande industria e le conseguenti trasformazioni del lavoro e delle forme di vita; con la Prima Guerra mondiale e i suoi traumi, di cui i superstiti riuscirono a rendere conto solo con difficoltà; con la prima massiccia diffusione dei mezzi tecnici di riproduzione in campo artistico.

In questo contesto si colloca la figura luminosa di Walter Benjamin, che, a partire dagli anni della formazione giovanile, rivolge la sua attenzione al problema della esperienza [1]. Proprio il suo primo lavoro giovanile porta il titolo Erfahrung; pubblicato nel 1913 per la rivista Der Anfang [2], l’articolo ha una idea ispiratrice di fondo che costituisce una sorta di carta programmatica del suo pensiero: l’ideale della rottura, necessario per una riproposizione del pensiero filosofico, così come della realtà, attraverso un rinnovamento del concetto di esperienza. Ma cosa intende Benjamin per esperienza? Sono molto belle le parole di apertura del suo capolavoro Esperienza e povertà:  

«Nelle nostre antologie c’era la favola del vecchio che sul letto di morte dava a intendere ai figli che nella sua vigna era nascosto un tesoro. Dovevano solo scavare. Scavarono, ma del tesoro nessuna traccia. Ma poi, quando arrivò l’autunno, ecco che la vigna produce come nessun’altra in tutto il paese. A quel punto si accorgono che il padre aveva lasciato loro un’esperienza: la messe non sta nell’oro ma nella sollecitudine» [3]. 

Con queste prime frasi esordisce quel piccolo grande capolavoro che affronterà la questione nevralgica della dissoluzione del racconto generazionale, a partire dall’evento della Prima Guerra mondiale che come esperienza ha provocato una nettissima cesura. Con quel conflitto è infatti crollato un mondo. Le trincee avevano neutralizzato l’esperienza e aperto la stagione contrassegnata dalla esplosione della tecnica. Questa esperienza aveva provocato un vuoto delle coscienze e una crisi della esperienza. Si è allora cercato di colmare questo vuoto, attraverso la manifestazione dell’esperienza artistica. Queste le domande di fondo, che hanno guidato questa svolta: in che rapporto l’esperienza si colloca con la nostra tradizione? Che valore ha per noi, se l’esperienza e la tradizione non ci concedono quel nesso vitale, attraverso quel modo di trasmettersi che sono i racconti e i proverbi?  Il dettagliato “resoconto” benjaminiano sembra proprio rispondere alle domande di sopra. Proviamo a spulciare qualche elemento. 

978880620306graIl significato profondo della “esperienza”                     

Eventi dalla portata epocale – la Prima Guerra mondiale, la crisi economica, i nuovi modi di produzione della grande industria, il progresso tecnologico, la vita metropolitana – hanno fatto precipitare la potenza connettiva dell’esperienza tradizionalmente intesa. Inizio della fine delle grandi narrazioni, secondo il ben più tardo adagio postmoderno, o in altri e assai più convincenti termini, atrofizzazione, catastrofe, distruzione dell’esperienza. Fisiognomica di una generazione che dopo il quadriennio del 1914-18 era tornata «muta» dai campi di battaglia, «non più ricca, ma più povera di esperienza comunicabile», che sulle soglie di un nuovo conflitto mondiale si trovava d’improvviso «sotto il cielo aperto, in un paesaggio in cui niente era rimasto immutato tranne le nuvole, e nel centro – in un campo di forza di esplosioni e correnti distruttrici – il minuto e fragile corpo umano» [4].

In tale contesto tramonta l’irrepetibilità dell’esperienza che caratterizzava l’esperienza dell’arte contemplativa tradizionale. Si perde la capacità di narrare il lento accumulo di un sapere tradizionale, condiviso dalle generazioni e tramandato dall’una all’altra [5]. Le vicende dell’esperienza e della narrazione, inoltre, pongono problemi non irrilevanti al tema della memoria. La solidarietà della memoria con la narrazione, in particolare, fa sì che si debba supporre che con la fine di questa anche quella entri in crisi, o quanto meno di essa si debba ricercare altro fondamento da quello dell’ininterrotta Erfahrung su cui la narrazione poggiava.

È intorno a questi problemi che si affatica la riflessione benjaminiana, cercando di ricuperare i fili del passato, al servizio di una nuova trama. La crisi della tradizione e dell’esperienza, che le società capitalistiche hanno portato inevitabilmente con sé, viene affrontata da Benjamin, a più riprese, nel contesto dell’immane progetto del Passagenwerk [6], ispirato proprio dai passages di Parigi che inaugurano la nuova transizione e ispirano i momenti e i cambiamenti della civiltà di massa.

Benjamin si occupa di macerie, di torsi sottratti al tempo, di rovine custodite con la passione del collezionista e riordinate dalla sua libertà. Pertanto egli si concentra sul particolare, sul frammento, alla ricerca di quella “povertà di esperienza” che nella sua caratura gli permette di porsi questa domanda: «che valore ha allora l’intero patrimonio culturale, se proprio l’esperienza non ci congiunge a esso?»[7].

L’opera d’arte, secondo Benjamin, è il luogo privilegiato per considerare la questione della esperienza. L’esperienza dell’opera d’arte si caratterizza per la sua intensità. Evidentemente vi è una intensità maggiore rispetto al quotidiano; bisogna solo capire se l’opera d’arte è autentica ovvero quale esperienza noi facciamo con essa, e quale luce getta sul problema della esperienza. La risposta, se così si può dire, sembra focalizzarsi sulla necessità dell’uomo: «no, essi desiderano essere esonerati dalle esperienze, desiderano un ambiente in cui possano far risaltare la propria povertà, quella esteriore e in definitiva anche quella interiore, in modo così netto e chiaro che ne venga fuori qualcosa di decente» [8].

Secondo l’autore, il cinema e le nuove forme di arte, si pongono come una terapia indispensabile, di fronte a un’esperienza altrimenti destinata all’inespressività e al silenzio. Il cinema sostituisce la capacità di narrare con l’arte del montaggio; in luogo dell’identificazione con i personaggi e con gli oggetti, esso esige una distanza riflessiva, tale per cui, alla ricezione contemplativa esse contrappongono la ricezione distratta e la presenza di spirito: «la massa distratta […] fa sprofondare l’opera d’arte dentro di sé; la lambisce con il suo moto ondoso, la avvolge nei suoi flutti […]. Da sempre l’architettura ha fornito il prototipo di un’opera d’arte la cui ricezione avviene nella distrazione e da parte della collettività» [9].

In queste forme, l’esperienza altrimenti muta e distruttiva della modernità, diviene dicibile e oggetto di comprensione e di riflessione. A prescindere dal giudizio che si può dare, i nuovi modi di percezione permettono di esprimere in un linguaggio il suo carattere dirompente. Il trauma del moderno può diventare oggetto di una coscienza desta che favorisce la nascita di «una specie di nuova barbarie» [10].

71fmyvbpuglCome è noto, Benjamin utilizzerà questo nesso tra cultura e barbarie in una delle più celebri Tesi sul concetto di storia. In questo testo del 1933 egli cerca di compiere una operazione molto ambiziosa perché traccia le linee fondamentali per ripensare il rapporto, decisivo, tra rivoluzione e fondazione di una nuova antropologia. È il problema dell’uomo nuovo che può sorgere soltanto dalle macerie del presente; che può prendere corpo solo dalla carne emaciata e fragile del povero d’esperienza. Ma chi sono i barbari così positivamente intesi? La risposta di Benjamin è netta: sono coloro che assumendo la propria miseria lasciano agire in termini trasformativi una simile povertà che non può che indurli «a ricominciare da capo; a iniziare dal Nuovo; a farcela con il Poco: a costruire a partire dal Poco e inoltre a non guardare né a destra né a sinistra. Tra i grandi creatori ci sono sempre stati gli implacabili, che per prima cosa facevano piazza pulita. Essi infatti volevano avere un tavolo per disegnare; sono stati dei costruttori»[11] implacabili che per prima cosa hanno fanno piazza pulita; si sono poi mossi sulla superficie delle cose, hanno esteriorizzato il piano di lavoro, hanno creato subito il metodo, di contro all’organico e al capriccio metafisico e borghese dell’interiorità [12].

Le Corbusier, Adolf Loos o Paul Scheerbart, sono alcuni dei profili esemplari che Benjamin sceglie per pensare la disposizione barbarica: la “civiltà del vetro” professata da Scheerbart, o l’acciaio del Bauhaus, hanno fatto esplodere le stanze felpate dell’interno borghese, zeppe di tracce delle consuetudini di chi le abitava; materiali freddi e sobri, privi di aura [13], nemici del «segreto» come del «possesso» [14].

Diversamente dai promotori delle rinascite naziste del sacro, questi autori rievocano l’esperienza mistica autentica nel momento stesso in cui ne esibiscono l’inevitabile e imminente scomparsa. Le loro opere prendono congedo da una forma di percezione che ha segnato la tradizione della cultura occidentale. Allo stesso tempo ne preservano la memoria per generazioni che non ne avranno più cognizione diretta: così come non si può più scrivere, e tanto meno vivere, il tragico al modo dei Greci – e tuttavia possiamo avere memoria di ciò che esso significa per la storia dell’umanità – così accade ormai per la narrazione, la pittura o la poesia lirica.

Vi è stato in Benjamin il tentativo di “utilizzare” in modo critico le nuove forme di riproduzione. La strategia pensata ha cercato di preservare la capacità dell’uomo di reggere all’urto dissolutore della tecnica e dell’economia capitalista. D’altra parte, tra la memoria involutoria e le nuove arti del riproducibile, esiste almeno un punto di contatto: l’elogio della transitorietà delle forme. Vale a dire: l’esaltazione del passare, del divenir traccia di ogni elemento stabile e immoto, si oppone alla cultura monumentale e retorica che non riesce ad esprimere la “metamorfosi dionisiaca” di liberazione e felicità [15]. In un certo senso, anche le nuove tecniche sono incompatibili con ogni raffigurazione fissa e precostituita: ogni apparenza è sottoposta a un rapido trascorrere, a una discontinuità inevitabile, simile a quella dei fotogrammi cinematografici. 

61bsjtjpvul-1La questione della tecnica 

La tecnica per Benjamin non è vista come il nemico numero uno contro cui combattere. Certamente egli non manca di rimarcare che «con questo immenso sviluppo della tecnica una miseria del tutto nuova ha colpito gli uomini»[16]. Nelle Tesi di filosofia della storia, all’idea di uno sfruttamento illimitato della natura, che si ritorce contro la sopravvivenza dell’umano, si oppone l’immagine di una tecnica, che, invece di distruggere il cosmo, o considerarlo come un inerte materiale di dominio, lo considera come un grembo in cui sono in germe inedite creazioni. Nominando la natura, l’uomo le permetteva di uscire dal suo doloroso mutismo, ne liberava l’anima interna e cooperava alla sua redenzione: questa non poteva che coinvolgere allo stesso tempo l’uomo e il cosmo [17]. In modo analogo, nella Tesi XI, Benjamin parla di un lavoro capace di sgravare la natura delle creazioni in essa latenti, senza esaurirne le risorse in modo estremo e distruttivo. Questa concezione, disattesa dal marxismo tecnocratico, era invece presente nel socialismo utopistico, e soprattutto nel suo massimo rappresentante: Fourier.

Alla tecnica come sfruttamento si oppone dunque la tecnica come liberazione di forze latenti che attendono l’intervento dell’uomo per nascere e dispiegarsi. È questa una versione materialistica della cooperazione tra uomo e natura, presente negli scritti giovanili, che veniva attribuita al rapporto linguistico tra di essi. Sarà poi ne LOpera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica che Benjamin confermerà la doppia distinzione di due forme di tecnica: una che è dominata da un’intenzione arcaica, simile a quella della magia, diretta al dominio della natura e alla volontà di potenza su di essa [18]; l’altra, invece, che tende a sviluppare un rapporto armonico tra l’umanità e la natura, ovvero, come si dice nell’edizione francese dell’opera – un  jeu armonien [19] – che riguarda anche il rapporto reciproco degli uomini [20].

La storia della tecnica è segnata da snodi discontinui e decisivi in cui viene operata una decisione a favore dell’una o dell’altra delle due forme: mentre l’opzione per la seconda tecnica è compito proprio della decisione politica, ed essa dipende dai rapporti di forza, dallo stato della lotta di classe, e dal prevalere o meno del principio d’uguaglianza su quello di dissimmetria e di padronanza [21], il dominio della prima tecnica induce piuttosto alla trasformazione burocratica del corpo sociale, alla costituzione di un apparato incontrollabile che prolifera in entrambe le forme di totalitarismo. Se dunque la seconda tecnica tende a sospendere l’immediatezza del dominio e dello sfruttamento sul corpo umano, la prima tecnica, nel capitalismo moderno, rinnova il principio sacrificale dello sfruttamento del corpo, di fronte alla macchina e al processo produttivo [22].

Sia pure con molte incertezze ed esitazioni [23], già ne LOpera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica, Benjamin si allontana da una concezione semplicisticamente progressiva delle forze produttive; certo, esse contengono in sé una possibilità di liberazione della percezione e delle facoltà umane, purché si operino il salto e la discontinuità tra la prima e la seconda forma di tecnica. Nessun progresso automatico e necessario porta dallo sviluppo delle forze produttive, quali sono attualmente, alla liberazione dal lavoro e dallo sfruttamento, neppure nell’ipotesi di un regime che abolisca la proprietà privata dei mezzi di produzione. 

30894757998Tempo e storia nella concezione benjaminiana della tecnica           

La filosofia della storia di Walter Benjamin si sviluppa lungo tutto l’arco della sua produzione: da La vita degli studenti del 1914-15 [24] alle tesi Sul concetto di storia del 1940 [25]. Questa pone al centro due temi fondamentali strettamente connessi: la concezione teologica del tempo della storia, intesa come Jetzteit (tempo – ora o adesso) [26] contrapposta alla concezione meccanica, uniforme e omogenea del tempo, misurabile matematicamente; la concezione materialistica della storia come orientamento che rende lo storico capace di recuperare, in una immagine dialettica, una dimensione del passato come passato delle classi oppresse [27]. Si tratta di un indirizzo politico che si anima della prassi e della azione rivoluzionaria che si può dare attraverso un salto nell’adesso messianico ed ebraico [28] e in quella immagine in cui il passato rivela il suo legame con il presente che si riconosce inteso in esso. Nel testo della tesi XVII si trovano queste tematiche e si spiega che lo storico, attraverso il riscatto del passato, la sua attualizzazione e la critica al concetto di progresso, esercita una «debole forza messianica» [29] e dà una direzione per l’azione politica. Questa azione rivoluzionaria mira a fondare la società senza classi come Regno della giustizia sociale.

Si propone dunque l’idea (Vorstellung) della società senza classi dentro la quale Marx ha secolarizzato l’idea del tempo messianico. Ma mentre nei materiali preparatori alle tesi Sul concetto di storia [30] si parla della rivoluzione come di un freno d’emergenza, attivato per arrestare la corsa catastrofica e senza fine dello sviluppo capitalistico, Marx, in vista della rivoluzione, prepara l’immagine della locomotiva lanciata a piena velocità. La diversità delle due metafore segnala un mutamento di prospettiva teorica: alla base del pensiero politico di Benjamin c’è la critica dell’idea di progresso ancora presente nel Manifesto del partito comunista. Da un lato, nella sua forma capitalista, esso produce la distruzione e la dissoluzione di ogni precedente legame di servitù e dipendenza personale; dall’altro versante, in contraddizione col permanere di rapporti di produzione arretrati, determina un conflitto che è la condizione oggettiva della rivoluzione e la prova della sua necessità.

Benjamin, in alcuni scritti degli anni Trenta, dopo la sua adesione al marxismo, è stato egli stesso vicino a una simile posizione sulla tecnica e sullo sviluppo. Le tesi costituiscono invece una presa di distanza decisiva rispetto alle concezioni del marxismo ortodosso. Scritte nel momento di maggior trionfo del nazismo, e dopo la firma del patto Ribbentrop-Molotov, esse riconoscono come lo sviluppo delle forze produttive può coesistere con un regresso indefinito e distruttivo dei rapporti sociali. Le forme politiche che Benjamin considera scrivendo le Tesi (il nazismo, la socialdemocrazia, ma anche il regime staliniano), hanno in comune l’esaltazione dello sviluppo illimitato e della manipolabilità universale del vivente. La natura, la corporeità dell’uomo, la sua finitudine fisica e psichica, sono solo il materiale per l’infinito procedere di un’idea destinata a realizzarsi immancabilmente [31]. Nelle tesi egli intuisce elementi comuni nelle forme politiche totalitarie. Il passo decisivo in questo senso si trova nella tesi XI dedicata all’esaltazione del lavoro e alla concezione distruttiva del rapporto uomo-natura che la socialdemocrazia ha ereditato dal pensiero e dalla pratica del capitalismo. Se tutto questo è vero e fondato fino alla fine, bisogna ricordare che viene anticipato, negli anni 1914-1915, nell’incipit del saggio/conferenza La vita degli studenti: 

«C’è una concezione della storia che, fidando nell’infinità del tempo, distingue solo il ritmo degli uomini e delle epoche, che rapidi o lenti scorrono sulla via del progresso. A ciò corrisponde l’incoerenza, l’imprecisione e la mancanza di rigore delle pretese che essa avanza nei confronti del presente. Invece questa nostra riflessione da riferimento a uno stato determinato, in cui la storia riposa quasi fosse raccolta in un punto focale, come da sempre nelle immagini utopiche dei pensatori. Gli elementi dello stato finale non sono evidenti come una tendenza informe di progresso, bensì come creazioni e pensieri sommamente minacciati, malfamati e derisi, essi stanno profondamente sepolti e dissimulati in ogni presente. Il compito storico (geschichtliche Aufgabe) è quello di dare in modo puro la forma dell’assoluto allo stato immanente della perfezione, di renderlo visibile e sovrano nel presente. Ma questo stato non è da circoscrivere mediante una determinazione pragmatica di singoli aspetti (istituzioni, costumi, ecc.), alla quale anzi si sottrae; bensì è da cogliere soltanto nella sua struttura metafisica, come il regno messianico o l’idea della rivoluzione francese»  [32].        

benjamin-metafisica-della-gioventu-scritti-1910-1918-einaudiLa fine della narrazione  

La fine della narrazione è causata dal venir meno di quel punto di riferimento che era costituito da un’esperienza condivisa e comunicabile su cui era possibile innestare i propri racconti per trasformarli in esperienza da condividere con i destinatari della storia [33]. Secondo Benjamin, «le azioni dell’esperienza sono cadute. E si direbbe che continuino a cadere senza fondo […]. Con la guerra mondiale cominciò a manifestarsi un processo che da allora non si è più arrestato. Non si era visto, alla fine della guerra, che la gente tornava dal fronte ammutolita, non più ricca, ma più povera di esperienza comunicabile?» [34].

Ciò che qui viene alla luce, e si fa coscienza generalizzata, è la fine della possibilità di accumulare esperienze, di considerare il nuovo che accade come un arricchimento dell’antico. La fine dell’Erfahrung è la fine della «rappresentazione di una continuità» [35]. Secondo Benjamin, su questo sfondo, vi è una nuova barbarie. Il barbaro che nasce nella epoca della povertà di esperienze è una figura che deve farcela con poco! È il creatore che escogita un nuovo linguaggio e fa piazza pulita della tradizione precedente. Si collega alla tradizione e al suo linguaggio, ma allo stesso tempo non si fa guidare dalla logica interna ad esso. È il caso emblematico degli artisti: Klee per esempio seguiva gli ingegneri. Le sue figure obbediscono al loro interno tecnico e non alla loro interiorità.

Attorno al concetto di Erfahrung si era mossa gran parte della riflessione benjaminiana del primo periodo [36] mirante a superare la povertà del concetto di esperienza di Kant, nella direzione di una filosofia legittimata a farsi carico della «concreta totalità dell’esperienza» [37], quale trova già espressione nella religione. Queste connotazioni, pur nel variare delle prospettive benjaminiane, restano il riferimento a un ordine fondante dell’esperienza, che si precisa come la condizione di possibilità del tramandare e della eredità storica. Quest’ordine è quello della tradizione in cui la storia del racconto si dipana in un orizzonte regolare del tempo, entro una cornice che è sottratta alla storia perché ne scandisce le ore. Ma questo flusso regolare, che si tramanda da una generazione all’altra, è una esperienza che costituisce la tradizione.

Purtroppo, secondo Benjamin, questa continuità è andata perduta: venuta meno la narrazione, anche la tradizione è stata relegata in soffitta. In questo senso siamo più poveri di ieri; come Benjamin osserva, siamo esposti ad una barbarie che peraltro va letta sotto il segno di una cesura radicale che comporta un nuovo inizio a partire da condizioni che non possono reggersi sulle ricchezze accumulate dal passato [38]. Questo perché la linea continua, che rendeva possibile il passaggio dall’esperienza alle esperienze, si è dunque interrotta. Questa cesura tra esperienza e vita è stata la caratteristica del tempo moderno; nel senso che l’esperienza si fissa in una tradizione che non appartenendoci più si rinnega, mentre la vita vissuta si fissa in Erlebnis irripetibili e dominati dall’ansia di parare gli chocs che provengono dalla vita quotidiana. Tra Erlebnis e Erfahrung si interpone uno choc il quale può essere considerato l’elemento che divide l’una dall’altro: «ciò che distingue l’Erlebnis dall’Erfahrung è il momento dello choc»[39]. L’affermazione porta ad una ulteriore conclusione: l’Erlebnis nasce laddove l’Erfahrung è divenuta impossibile: essa la sostituisce.

La connessione tra choc e caratteristiche forme della vita moderna ne evidenzia lo specifico carattere di modernità. Lo choc è infatti provocato dalla folla amorfa dei passanti cioè dall’aspetto assunto dalla folla nella città; esso è anche da riconnettersi con tutta una serie di innovazioni tecniche «che hanno in comune il fatto di sostituire una serie complessa di operazioni con un gesto brusco» [40]. Tra questi gesti bruschi, il più gravido di conseguenze è lo scatto del fotografo. Come osserva Benjamin: «la semplice pressione di un dito bastava per fissare un evento per un periodo illimitato di tempo. L’apparecchio era in grado di dare all’istante, per così dire, uno choc postumo» [41].

L’operaio sperimenta quotidianamente, nel corso del lavoro, chocs, gesti a cui è sottratta una continuità, azioni ermeticamente separate tra loro. Si potrà meglio misurare la cesura che lo choc introduce se, seguendo ulteriormente gli sviluppi di Benjamin, si osserva che esiste una corrispondenza tra lo scatto delle macchine nel loro movimento e il coup nel gioco d’azzardo [42]. Ma è praticamente specifico del gioco, il mettere «fuori corso gli ordini dell’Erfahrung» [43]. Anche quest’ultima analogia tra il gioco d’azzardo e il movimento delle macchine conferma quanto osservato fin dall’inizio: lo choc è la risoluzione dell’Erfahrung. 

i__id9656_mw600__1xRestaurare l’Erfahrung attraverso lo storicismo? 

Dalla fine del secolo scorso, la filosofia ha compiuto una serie di tentativi per impossessarsi della vera esperienza, in contrasto con quella che si deposita nella vita standardizzata e denaturata delle masse civilizzate. La critica di Benjamin, in questo senso, costituisce il motivo conduttore di uno dei primi tentativi della serie. In particolare, nelle Tesi di filosofia della storia, l’autore tratta la tematica a partire dalla questione dello storicismo [44], che, inteso come sicurezza di afferrare l’oggettività della storia, si è prodotto a partire dalla consapevolezza di una estraneità dell’oggetto storico, come Gadamer fa osservare in Verità e Metodo [45]. Tale estraneità si è generata con lo smarrimento dell’Erfahrung inteso come tradizione comune a cui partecipare. Dunque, è stato necessario giungere al recupero di una vera esperienza, muovendo dalla vita vissuta e dall’Erlebnis. Dice Benjamin: visto che l’immagine storica autentica è qualcosa di «balenante per un attimo» [46], articolare storicamente il passato «significa impadronirsi di un ricordo come esso balena nell’istante di un pericolo» [47]. L’immedesimazione, continua l’autore, ci restituisce una storia basata su una continuità di sviluppo, di cui progresso e decadenza non sono che due equivalenti direzioni possibili [48]. Per mezzo di questo procedimento, la “povertà dell’esperienza” viene occultata attraverso il ricorso alla vita; a sua volta, l’Erlebnis vitale che viene ipostatizzato ad Erfahrung, appare in grado di mascherare l’effettiva povertà della vita quotidiana. 

md31458022352Conclusione aperta 

Nel proporsi di ripercorrere le tappe essenziali della riflessione di Walter Benjamin sul concetto di esperienza, abbiamo preso le mosse dai primi testi giovanili fino al confronto con la filosofia kantiana, il neokantismo e la fenomenologia di Husserl. In particolare abbiamo analizzato i lavori che affrontano il tema dell’indice storico dell’esperienza, evidenziando la necessità di ridefinire la nozione data, a partire dalle trasformazioni storiche imposte dalla modernità.

Dopo questo excursus sorge però una domanda che meriterebbe una risposta piuttosto articolata: quale è la centralità della dimensione religiosa e rituale per la comprensione del fenomeno artistico? [49] . Forse la risposta giusta potrebbe essere che il rapporto con l’opera d’arte è una intensificazione della esperienza che getta luce sulla trascendenza. Di sicuro sappiamo che la riproduzione tecnica ci sottrae alla esperienza immediata. La riproduzione di massa dell’opera d’arte influisce inoltre sulla riproduzione di stili di vita. È una produzione massificata di questa forma. Noi siamo portati a riprodurre linguaggi, forme, atteggiamenti comuni che creano una seconda natura basata sulla riproducibilità tecnica. Ma per questo motivo la vista sulla realtà immediata è diventata una chimera.

Sono questi i motivi fondamentali che potrebbero sfumare la dimensione verticale della esperienza. L’opera d’arte, attraverso la mediazione dell’artista, deve piuttosto mostrare l’inconsueto che si sottrae all’ovvio. E cosa vi è di più inconsueto se non l’esperienza con la dimensione spirituale?

L’arte, in ogni caso, si vuole liberare dallo stereotipo del quotidiano e dalla massificazione imposta. Purtroppo questo processo di liberazione viene meno con l’opera d’arte inautentica. Bisogna allora ricollocare l’opera d’arte dentro la dimensione culturale della società. Certamente il valore culturale, dentro cui si colloca la prospettiva spirituale, può indurre al nascondimento dell’opera d’arte. Sappiamo però che la difficoltà maggiore si ha con l’esposizione dell’opera d’arte! Con la sua disponibilità, l’opera d’arte assume funzioni nuove. Con le funzioni nuove, derivate dalla esposizione, l’elemento artistico può diventare qualcosa di marginale. Allora ci chiediamo: quale sarà la fruizione dell’opera d’arte?

Benjamin è convinto, per concludere, che l’elemento culturale tende a scomparire ma pone una resistenza (con l’aura). Un limite, come abbiamo già detto, viene posto nella fotografia del volto umano: da una parte sembra che l’aura abbia un valore; dall’altra sembra che l’aura sia al tramonto. Lui, d’altra parte, non è nemmeno in una posizione per cui si può dire: abbiamo liquidato l’aura. È infatti consapevole di tutto ciò che l’aura comprende: l’aura è una ricchezza e una bellezza necessaria che ha portato l’arte ad essere autonoma. In senso ontologico, questa autonomia, è servita per capire la specificità. Bisogna solo accettare il fatto che questa autonomia può trovare lo stop imposto dalla tecnica. Come direbbe Martin Heidegger: la tecnica si impone sull’uomo e sulla società! 

Dialoghi Mediterranei, n. 62, luglio 2023         
Note
[1] Per la ricognizione completa della tematica, nelle opere complete dell’autore, cfr. T. Weber, Erfahrung, in M. Opitz – E. Wizisla (a cura di), Benjamins Begriffe, Frankfurt a. M, Suhrkamp – Verlag 2011: 230-259.
[2] Rivista diretta da Georg Barbizon e vicina alle posizioni della Jugendbewegung cioè del Movimento Giovanile Tedesco che culturalmente curava la formazione dei ragazzi attraverso il contatto con la natura.
[3] W. Benjamin, Esperienza e povertà, trad.it. Massimo Palma, Roma, Castelvecchi 2018: 51
[4] W. Benjamin, Esperienza e povertà, in Id., Opere complete, vol.V, Torino, Einaudi 2004: 539-540. Su crisi dell’esperienza (e della tradizione) e perdita della capacità narrativa, cfr. W. Benjamin, Der Erzähler. Betrachtungen zum Werl Nikolai Lesskows (1936), trad.it. Il narratore. Considerazioni sull’opera di Nicolaj Leskov, in Id., Opere complete, vol.VI, Torino, Einaudi 2004: 320-342; cfr. anche B. Lindner, Zu Traditionskrise, Technik, Medien, in Id., (a cura di), Benjamin Handbuch. Leben-Werk-Wirkung, Stuttgart, J.B. Metzler 2011: 451-464; in particolare 453-455.
[5] È il tema del saggio Il narratore. Considerazioni sull’opera di Nicolaj Leskov, dedicato a Nikolaj Leskov, in W. Benjamin, Opere complete, vol.VI, cit.: 320ss.
[6] W. Benjamin, I «passages» di Parigi, Torino, Einaudi 2002.
[7] W. Benjamin, Esperienza e povertà, in ID., Opere complete, vol. V, cit.:540.
[8] Ibid.: 543.
[9] W. Benjamin, Opere complete, vol.VI, cit.: 300.
[10] W. Benjamin, Esperienza e povertà, in ID., Opere complete, vol. V, cit.: 540.
[11] Ibid.: 540.
[12] Cfr. Ibid.: 542.
[13] Ibid.: 542. Le forme posticce di aura ricoprono e trasfigurano esteticamente la modernità, agendo come in stato di sogno, e lasciando che le sue forze distruttive agiscano indisturbate. Prendere coscienza della tecnica e controllarne la potenza, invece che esserne dominati, è il compito politico delle nuove forme di arte: esso è parte essenziale del passaggio rivoluzionario dalla tecnica magica alla tecnica come gioco, che è costitutiva dell’ispirazione “fourierista” di Benjamin. È soprattutto nelle Tesi sul concetto di storia che Benjamin ritorna alla spinta rivoluzionaria ispirata da Fourier, l’utopista visionario che per il suo interesse di tipo sociale critica fortemente la società del suo tempo, soprattutto quella visione del lavoro in cui la produzione è basata sullo sfruttamento del capitale umano. Benjamin ricorre a Fourier perché segna un distacco, fondato sulla creatività dell’uomo, nei confronti delle dottrine dell’inevitabile progresso.
[14] W. Benjamin, Esperienza e povertà, in ID., Opere complete, vol. V, cit.: 542.
[15] W. Benjamin, Il concetto di critica nel romanticismo tedesco. Scritti 1919-1922, Torino, Einaudi 1982: 245.
[16] W. Benjamin, Esperienza e povertà, in ID., Opere complete, vol. V, cit.: 540.
[17] Cfr. W. Benjamin, Sulla lingua in generale e sulla lingua dell’uomo, in Id., Angelus Novus, Torino, Einaudi 1995: 53ss.
[18] «Tuttavia va qui osservato che il ‘dominio della natura’ definisce l’obiettivo della seconda tecnica solo in modo estremamente discutibile; esso lo definisce dal punto di vista della prima tecnica. La prima ha realmente l’intenzione di dominare la natura; la seconda, invece, mira piuttosto a un’interazione tra natura e umanità»: W. Benjamin, Opere complete, vol. VI, cit.: 280. Si tratta della prima stesura del saggio (almeno nella numerazione seguita dall’edizione italiana), che è alla base della versione francese, l’unica pubblicata in vita da Benjamin. Per la complessa vicenda dell’opera, cfr.: 571ss.
[19] Ibid., nota 3: 532.
[20] La relazione del gioco si oppone a quella del lavoro e dello sfruttamento: essa non implica affatto un salto nell’arbitrio o nell’irrazionalità. Il gioco indica lo spazio aperto dell’intersoggettività non più dominata in modo esclusivo dal rapporto mezzo-fine; esso è però articolato da regole reciproche e condivise, da un senso comune che richiede l’accettazione di un limite alle mie possibilità di azione e di espressione. Esso è determinato dal rispetto per la presenza e la differenza dell’altro e dalla reciprocità che ogni azione possiede. Il gioco implica la possibilità di un accordo tra pari, che convengono su un limite accettato in comune e trasformano questo accordo in un sistema simbolico. Il conflitto stesso – per non divenire guerra – è trasferito entro in codice linguistico. Il gioco è perciò fondato su un principio di eguaglianza che si oppone a quello asimmetrico del lavoro sfruttato, dominato dalla relazione servo-padrone. Esso sospende dunque l’intenzione magica della volontà di potenza, caratteristica della prima tecnica e si realizza grazie a una seconda tecnica, non più finalizzata necessariamente allo sviluppo e all’incremento della quantità prodotte, ma alla qualità delle relazioni umane fra produttori. Questa è fondata su un limite accettato nel rapporto con la natura, che non viene cancellata, ma intensificata, rispettandone le energie primarie ed elementari. Di qui le conseguenze fantastiche che Fourier attribuiva a questo tipo di tecnica: «tutto ciò illustra un lavoro che, ben lontano dallo sfruttare la natura, è in grado di sgravarla delle creazioni, che, in quanto possibili, sono sopite nel suo grembo».
[21] Per queste ragioni Benjamin descrive l’accettazione dello sfruttamento della natura, da parte della socialdemocrazia e del marxismo ortodosso, come la premessa per la tecnicizzazione e la burocratizzazione della società.
[22] «per la prima tecnica, l’impresa più grande è in un certo senso costituita dal sacrificio umano»: W. Benjamin, Opere complete, vol.VI, cit.: 279.
[23] Innanzitutto la distinzione tra le due tecniche si trova in forma esplicita solo nella versione tedesca, contemporanea o quasi alla versione francese pubblicata. Scompare nella versione ulteriore, pubblicata postuma e considerata un tempo canonica. D’altra parte, esistono nel testo passi che possono far pensare a una continuità progressiva nello sviluppo dall’una tecnica all’altra, quasi fossero due stadi successivi, piuttosto che due forme contrapposte.  
[24] W. Benjamin, Das Leben der Studenten, in Id., Gesammelte Schriften, 7 voll., a cura di R. Tiedemann – H. Schweppenhäuser, Frankfurt/M., Suhrkamp 1972/1989, vol.II, tomo 1: 75-87, trad.it. La vita degli studenti, in Id., Metafisica della gioventù. Scritti 1910 – 1918, a cura di G. Agamben, Torino, Einaudi 1982: 137-150.
[25] W. Benjamin, Sul concetto di storia, Torino, Einaudi 1997.
[26] Sulla genealogia del termine cfr. F. Desideri, Ad vocem Jetztzeit, in ID., La porta della giustizia, Bologna, Pendragon 1995: 153-165.
[27] Sull’anarchismo romantico e messianico di Walter Benjamin, cfr. M. Löwy, L’anarchisme messianique de Walter Benjamin, in Les Temps Moderns, 40(1983): 772-794 e ID., Rédemption et utopie. Le judaïsme libertaire en Europe centrale. Une étude d’affinité élective, Paris, PUF, 1988, trad.it., Redenzione e utopia. Figure della cultura ebraica mitteleuropea, Torino, Bollati Boringhieri 1992. In particolare il capitolo 6: Al di fuori di tutte le correnti e al crocevia di tutte le strade: Walter Benjamin.
[28] Cfr. W. Benjamin, Ǘber den Begriff der Geschichte, in ID., Gesammelte Schriften, vol.I, tomo 2, cit.: 701.
[29] W. Benjamin, Über den Begriff der Geschichte, cit.: 694.
[30] W. Benjamin, Sul concetto di storia, Torino, Einaudi 1997: 101.
[31] Hannah Arendt ha dedicato pagine decisive a questo idealismo illimitato dei regimi totalitari: cfr. Le origini del totalitarismo, Torino, Einaudi 2004.
[32] W. Benjamin, Das Leben der Studenten, cit.: 75.
[33] Cfr. W. Benjamin, Gesammelte Schriften, vol.II, tomo 2, cit.: 443.
[34] ibidem: 439.
[35] W. Benjamin, Gesammelte Schriften, vol. I, tomo 3, cit.:1183.
[36] In particolare: Ǘber das Programm der kommenden Philosophie.
[37] W. Benjamin, Gesammelte Schriften, vol.II, tomo 1, cit.:170.
[38] Cfr. Ibid.: 219.
[39] W. Benjamin, Gesammelte Schriften, vol. I, tomo 3, cit.:1176.
[40] Ibid., vol. I, tomo 2: 630.
[41] Ibid.: 630.
[42] Cfr. Ibid.: 633.
[43] W. Benjamin, Gesammelte Schriften, vol.I, tomo 2, cit.: 635.
[44] Cfr. Ibid.:696. (Si tratta della settima Tesi).
[45] Gadamer in particolare si riallaccia alla fenomenologia di Husserl, che ha avuto secondo Gadamer il grande merito di aver avvicinato la teoria della conoscenza alla vita, imparando a dare importanza alle esperienze concrete presenti quotidianamente. In questo quadro, l’esperienza estetica si apre al concetto di Erfahrung: la modificazione che comporta l’incontro del soggetto con qualcosa di rilevante per lui, capace di imprimergli un cambiamento interno: «questa nozione di esperienza, come si capisce, è di origine hegeliana: il suo modello è l’itinerario della fenomenologia dello spirito. E l’eredità hegeliana si fa sentire profondamente: per essere vissuta come esperienza di verità, l’incontro con l’opera d’arte deve essere inserito in una continuità dialettica del soggetto con se stesso e con la propria storia; l’opera non ci parla nell’astratta puntualità dell’Erlebnis; essa è evento storico, come anche il nostro incontro con lei, dal quale noi usciamo modificati grazie alla nuova interpretazione che ne diamo. Tutto ciò configura l’esperienza estetica come autentica esperienza storica; anzi, identifica in definitiva l’esperienza dell’arte con l’esperienza storica tout court, in modo che non si riesce più a vederne la specificità. Non per nulla uno dei concetti centrali dell’ermeneutica di Gadamer è quello di “classico”: l’opera classica è infatti quella la cui qualità estetica è riconosciuta come storicamente fondante, all’estremo opposto, dunque, di ogni puntualità dell’Erlebnis»: G. Vattimo, La fine della modernità, Milano, Garzanti 1999: 132.
[46] W. Benjamin, Gesammelte Schriften, vol.I, tomo 2, cit.: 696.
[47] Ibid.: 695.
[48] Cfr. Ibid., vol. V, tomo 1.
[49] Questo aspetto può essere interessante per comprendere il rapporto del capitalismo con la religione. Da questo si comprende anche il rapporto tra la tecnica capitalistica e la dimensione spirituale dell’opera d’arte. Per approfondire il rapporto capitalismo – religione: cfr. W. Benjamin, Capitalismo come religione, Genova, Il Nuovo Melangolo 2013.

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Antonio Albanese, (Ph.D) ha studiato filosofia e teologia in diverse università italiane. Socio dell’Associazione Italiana di Sociologia, membro dell’International Centre for the Study of Religion (ICSOR), da alcuni anni partecipa alle ricerche sociologiche quanti-qualitative sulla religiosità in Italia.  Collaboratore della Critica Sociologica, ha scritto numerose recensioni e svariati articoli. Autore di alcune monografie su tematiche religiose, il suo ultimo volume, in fase di pubblicazione, si intitola Processi latinoamericani: dal colonialismo alla teologia della liberazione (Aracne).

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