di Leo Di Simone
La fenomenologia connota con il termine “sacro” le espressioni proprie delle culture arcaiche. Quanto più ci si inoltra in esse, tanto più il sacro appare pervasivo. Per la mentalità arcaica non esiste un luogo del sacro separato da ciò che è profano; ci sono tuttavia momenti, aspetti, situazioni capaci di manifestare la presenza di una potenza oscura e attiva che segna ogni azione della vita quotidiana richiedente un rito come rinnovazione di un mito perché la si possa compiere. In questa fase, la connotazione di quella che Husserl chiama «logica dei primitivi», è la mancanza di dualismi. Questi appaiono in una fase più tarda, stando alla base del pensiero filosofico, divenendo in maniera più o meno riflessa un comune modello di orientamento, in particolare per la cultura occidentale, e non solo [1].
Questo dato husserliano sembra contraddire i risultati delle analisi di Mircea Eliade nel suo famoso libro Il sacro e il profano [2] nel quale tuttavia si delinea una loro «con-fusione» in quanto Eliade rileva, come connotazione del sacro per la mentalità arcaica, qualcosa di diverso rispetto ad una dimensione naturale che egli definisce «soprannaturale»: per coloro che hanno un’esperienza religiosa, tutta la natura può rivelarsi come sacralità cosmica. Il cosmo nella sua totalità può manifestarsi come «ierofania» [3]. Un fenomeno, dunque, ambiguo, che ossessiona l’essere umano arcaico con l’idea di potenza; la distinzione tra sacro e profano nasce infatti dall’attribuzione di potenza al sacro, per cui il profano è percepito come rischio di depotenziamento.
L’adesione al sacro è fomentata dal desiderio di vivere nella potenza e di mantenerla viva. Si ricorre così al mito e al rito come a strutture di sostegno e accrescimento della pervasività del sacro [4]. Questo ci permette di giungere all’apparente paradosso di Nietzsche di una «volontà di potenza» che deve ricorrere ad una sacralità senza Dio per affermarsi, mentre in realtà permane il tormento causato dalla difficoltà di compiere tale atto. Bernhard Welte, commentando l’ateismo di Nietzsche, osserva che, se è possibile soggettivamente separarsi dalla potenza divina, è proprio dell’essenza della volontà umana volere l’infinito divino come sua pienezza. Non ci si può sottrarre a questa lacerante dialettica. Qui risiede la tragicità della morte di Dio e della stessa volontà di potenza del superuomo nietzschiano che tende a sostituirsi alla potenza divina [5]. L’uomo vuole essere infinito e divino, sacro a se stesso, senza sbocchi di profanità. Da qui la predilezione di Nietzsche per la sacralità dionisiaca, mitica e panrituale, e la sua avversione per il cristianesimo e l’affermazione della debolezza di Dio a causa dell’incarnazione; per la caduta di Dio nella profanità. Un dio che non considera la potenza della sua divinità un tesoro da custodire gelosamente [secondo la teologia della kénosi elaborata da Paolo in Fil 2], perde con ciò stesso la prerogativa divina. È morto.
La fenomenologia dell’ateismo però è tale da constatare quanto risulti difficile sbarazzarsi definitivamente dell’anelito divino. Van der Leeuw ha provato come in definitiva l’ateismo si riduca ad un atteggiamento religioso, non avendo mai rivestito forma storica autonoma [6]; inoltre, l’ineliminabilità dell’atteggiamento religioso è provato dal fatto che l’ateo, non appena sfugge ad una potenza torna a gettarsi nelle fauci di un’altra. Un tale atteggiamento è provato dalle manifestazioni di travestimento del sacro e che oggi sono oggetto di studio da parte dei sociologi della religione. Vengono rintracciati così gli elementi costitutivi dell’esperienza religiosa, i nuovi idoli e le nuove forme di sacralità [7]. La nostra cultura, nonostante l’apparente emancipazione dalla religione, nonostante le pretese di profanità dissacrante, resta pur sempre una cultura sacrale che guarda al cristianesimo con gli stessi atteggiamenti di diffidenza scaturiti dalla critica nietzschiana al cristianesimo. Sicuramente perché il cristianesimo è avvertito nella sua essenza, anche non tematicamente, come nemico della sacralità.
Cristianesimo e “sacro” culturale
Il cristianesimo è percepito dall’inconscio collettivo a partire dalle sue forme artistiche, disseminate un po’ ovunque, e poi nelle manifestazioni della Chiesa che si ottimizzano nelle espressioni cultuali dei riti che nella loro variegata confezione rimandano ad un che di arcaico, di arcano, di incomprensibile; fenomeni messi in relazione con il concetto molto vago di “sacralità”. C’è chi fa riferimento al sacro dell’antropologia e al suo fascino fascinans di atto religioso. Si tratta di forme, riti, gesti, istituzioni che non hanno nulla di contemporaneo. Eppure tale congerie di elementi non è nata col cristianesimo ma si è agglutinata lentamente nel corso dei secoli, nel contatto tra e con le culture, per complessi processi culturali. La maggior parte di gesti, riti, istituzioni, apparato gerarchico, sistema di governo della Chiesa, hanno origine tardoantica, costantiniana e affondano le loro radici nella religiosità pagana. Appartengono ormai alla Chiesa ma non esprimono completamente il cristianesimo ed anzi lo celano in quanto forme culturalmente in disuso che contraddicono la sua ontologica propensione all’incarnazione come inculturazione e il conseguente mandato kerigmatico che ha pretesa di “novità” culturale anche in direzione cultuale. E pur essendo stato possibile individuare in sede antropologica tutti gli elementi estranei alla cultura cristiana delle origini che si sono ad essa abbarbicati nella sua costituzione in “religione”[8], focalizzando nel “sacro” il nucleo catalizzante di tale processo, è risultato tuttavia difficile l’innesco del processo deculturativo a causa dell’ormai consolidato aspetto religioso e sacrale del cristianesimo; aspetto ritenuto erroneamente originario.
Sta di fatto che la Chiesa cattolica postmoderna è ancora plasmata su un modello culturale marcatamente occidentale e come l’Occidente è sfiancata da una stanchezza mortale. Non è una novità, una sorpresa, è un risultato. La novità è sempre il Vangelo, asimmetrico rispetto alle presunte sicurezze culturali, ostinato rispetto alla volontà di redimere l’uomo, sorprendentemente diverso nella qualità di occasioni salvifiche da proporre all’umanità tra le tante che ne propone il mercato culturale globalizzato. Il Vangelo nella sua essenza, chiaramente, privo di verniciature culturali! Il Vangelo come strumento di leggibilità della condizione antropologica nell’ottica di Dio. Ma la Chiesa si è troppo identificata con la forma culturale dell’Occidente, col dualismo platonico la cui applicazione più compiuta consiste nel mantenimento delle categorie del sacro e del profano.
C’è qualcuno che, non nutrendo nessuna simpatia per la Chiesa ed ignaro della difformità della logica evangelica da quella filosofica, la accusa persino di aver liquidato la sua identità con la stessa liquidazione del sacro che «come contraltare della morale e della ragione non è sopprimibile e, per quanto negletto, lavora comunque nella profondità della nostra natura» [9]. Il sacro con la sua terribile ambivalenza, che ciascuno sente nel fondo della sua anima! Nell’impossibilità di liquidarlo tanto vale farselo amico! Questa è la tesi. E non è solo proposta di illuminati antropologi della religione ma convinzione di fior di teologi che reputano necessaria una concezione di sacralità nella Chiesa che favorisca recinzioni, distinzioni, esclusioni, talora discriminazioni. L’integrismo cattolico attribuisce proprio all’ablazione del sacro la crisi del cristianesimo moderno; ma ciò che rimpiange ha evidentemente poco a che fare con la fede, e riguarda invece il perduto prestigio sociale sorretto da uno stato politico imperialista e liberista anzichenò. Bisogna rileggere pagine di storia europea per farsi una convinzione più chiara di cosa abbiano generato i regimi sacrali interni ed esterni alla cristianità? Il sacro manifestato anche col volto della purezza razziale, coi risultati che tutti conosciamo, non finisce di confondere perché è abile nel mutare le sue maschere! Ed ha indossato quelle pagane delle religioni laiche del nazismo e dello stalinismo così come quella vergognosamente “cattolica” del franchismo, giusto per fermarci al secolo scorso. Il sacro ha potere su tutto ciò che è indeterminato, indistinto, fluttuante, per cui esercita un grande fascino sulla «liquidità contemporanea», per usare un termine caro a Zygmunt Bauman.
Il sacro, pagano nella sua essenza, attiene al divino non ancora rivelato, al fondo oscuro e passionale dell’essere, alla visceralità occulta in cui affondano le nostre radici, prima che l’umanità abbia un progetto d’uomo. La tragedia greca, nata nell’ambito del culto di Dioniso, per spiegare la catastrofe che incombe sul protagonista evoca il massacro di animali e di uomini del rituale arcaico. La “pietà” e il “timore” aristotelici furono solo un auspicio per una visione priva di orrore che addolcisse la tragicità barbarica della rappresentazione sacrale della sorte dell’uomo. Sacro, dunque, come non luogo che precede la nascita umana, l’umanità vera secondo il disegno di Dio. Questa nascita per il cristianesimo avviene solo con Gesù Cristo; con lui la sacralità buia degli inferi viene illuminata dalla luce divina e tutto si fa chiaro, tutto è visibile sotto altra luce, nonostante la forza ctonia della natura, la sua innegabile sacralità. Non si tratta dunque di negare il sacro in sé quanto di negarne l’essenzialità nella dinamica salvifica del cristianesimo come “religione” non più attanagliata dalla paura che il sacro incute, ma in quanto scoperta ed esperienza di un nuovo legame della vita con la Vita, via d’uscita da offrire all’uomo per una vita nella luce, fuori dal buio del determinismo dell’eterno ritorno dell’uguale. Una vita che è Dio stesso, creatore della stessa natura.
È stato o non è stato Gesù Cristo a eliminare la separazione tra sacro e profano? E le disparità razziali? E quelle di casta? E quelle tra i sessi? Ha o non ha eliminato la paura di un Dio terribile, di altre «creature soprannaturali, mostri di ogni tipo, i morti, ma anche la natura per quel tanto che è estranea alla morale e alla cultura, quindi istinti, pulsioni, passioni da cui hanno preso avvio le prime riflessioni di Freud»? [10]. Se Cristo non ha sconfitto il sacro e tutta la sua corte è evidente il bisogno del ricorso allo psicanalista o al mago! E intanto il sacro fattosi anche lui postmoderno, infiltratosi nelle forme sincretiche di una religiosità globalizzata, miete ancora le sue vittime e il cerchio resta chiuso. La sacralità contemporanea è chiusa nei templi dell’economia: una forza ctonia e misterica che governa il mondo dettando le sue insindacabili leggi che obbligano i fedeli alla latria del consumo. Si nasce, si consuma – la vita con i beni di consumo utili alla vita –, si muore in una parabola breve completamente mondana. Cosa non è mondano in questa vita? Chi mostra, con la vita, che c’è un altro modo di vivere la vita? La Chiesa, la teologia, la storia “sacra”? Sì, perché si può rischiare di restare ancora incagliati nella trappola del dualismo e contrapporre ancora il sacro al mondano, al “profano” come si suol dire. Il sacro non è l’opposto del mondano ma l’anima oscura di esso; né il mondano è di per sé demonizzabile se non quando esclude la luce vera che illumina le cose, quando vuole restare al buio tentando ad ogni costo di spegnere la luce. Non è il sacro come la caverna platonica dove le ombre del mondo sembrano costituire il mondo? Dove le ombre si compongono in idoli muti e ciechi che nulla dicono e nulla mostrano del reale?
C’è però chi, come Roberto Mancini, attribuisce la causa della crisi del cristianesimo non alla secolarizzazione o al relativismo nichilista ma proprio alla sua fisionomia religiosa, ad «una forma di vita ecclesiale che ripete tutte le posture dell’uomo religioso come se tutti i risvegli di vita evangelica accaduti dalla metà del Novecento a oggi fossero stati invano» [11]. Cristianesimo come ideologia, sistema di usi e costumi etnicamente determinato; determinato da quella «maledetta sicurezza» del possesso della verità denunciata da Karl Barth [12]. Un cristianesimo inconsapevole della inadeguatezza storica della sua forma religiosa che tende a stabilire una dimora intangibile del “sacro” garante della immutabilità divina e contraddizione dell’incarnazione. L’ipotesi per cui il cristianesimo non è propriamente una religione segnala, secondo Mancini, una interruzione epocale che libera dai lacci della religio e libera dall’idolatria della potenza e dei trionfi [13].
Il dibattito sul “sacro”
La questione, in corso nel dibattito contemporaneo, è tra chi rivendica una consistenza antropologica sacrale del cristianesimo e chi ne esige, in prospettiva, il superamento proprio in virtù della asimmetricità dell’atto redentivo rispetto alle costanti soteriologiche delle religioni. Personalmente propendo per questa seconda prospettiva; pur non negando il pondus del sacro nell’atto religioso, sono teologicamente convinto della incompatibilità tra sacralità e liberazione pasquale, tra religiosità naturale e liberazione scaturente dalla rivelazione cristiana. Ci si dimentica forse che il cristianesimo non è una religione naturale e che sia anche sui generis tra quelle rivelate proprio per via dell’incarnazione?
Bisogna ricordare che l’aggettivo sacro, contrapposto a profano, come l’aggettivo puro contrapposto a impuro, è usato in tutte le lingue romanze. Denota il fatto che certi luoghi, oggetti e atti ben precisi, che rientrano nel culto divino, ammettono solo personale rigorosamente consacrato a tale culto, purificato allo scopo e sottratto all’impurità del vasto mondo umano e profano. Sono sacri l’habitat e i servitori diretti del dio e dei sacrifici a lui dovuti. Sono sacrileghi i profani impuri che violano quell’habitat e turbano il servizio meticoloso che il dio esige. Nulla di più oggettivo, nulla di più netto e minuziosamente definito e circoscritto della sacralità e dei suoi gradi nei templi dove i profani hanno accesso solo a rispettosa distanza. Per secoli abbiamo praticato una tale forma di liturgia e di recente l’abbiamo stoltamente riesumata. La liturgia vissuta come atto religioso sotto l’incombenza del tremendum! Da qui prostrazioni, inchini, genuflessioni… Dopo secoli di “oggettualizzazione” sacrale di presenza reale eucaristica siamo ancora incapaci di scoprire la presenza reale di Cristo nella sua Parola e nell’assemblea liturgica. Si tratta della stessa, identica presenza reale, come Paolo VI ci ha ricordato nella sua enciclica Mysterium fidei [14].
Incapaci di ricercarla anche nella necessità di atti di umana giustizia in favore dei poveri e dei diseredati, ciò che è l’ontologia politica del vangelo sine glossa e la normatività etica della fede. Purtroppo di sacralità è ancora ammantata la sociologia ecclesiastica con l’enfatizzazione della sacralità delle persone. È vero, non si usano più formule arcaiche e ridicole come «prostrato al bacio della sacra porpora, del sacro anello, della sacra pantofola…». Le formule mutano ma la sostanza permane identica negli atteggiamenti di ossequio gerarchico-sacrale di “eccellentissimi”, “eminentissimi” che sono “ministri”, almeno in teoria, di uno che si fece “servo di tutti”. Fuori dall’aura di sacralità il “ministero” cristiano corrisponde all’etimo del minus-ter, cioè tre volte meno. Senza questo requisito, ontologico nel cristianesimo, non ha valore, se non retorico, lo stesso “magistero”: l’essere magis-ter scaturisce dall’essere minus-ter! Nella logica evangelica!
Come categoria antropologica il sostantivo «sacro» è entrato in uso per l’opera del teologo luterano Rudolf Otto, Das Heilige, apparsa in lingua originale tedesca alla fine degli anni Venti del secolo scorso[15]. Una risposta alla prima guerra mondiale, ai suoi “sacrifici”, da entrambe le parti, le cui proporzioni senza precedenti erano state benedette dalle autorità religiose nazionali di ambo i fronti. Otto, che lesse Kierkegaard, volle ricordare a quel clericalismo politico che benedice alla leggera i sacrifici agli idoli della tribù, la trascendenza e l’angoscia che, nel cristianesimo come in altri culti, caratterizzano l’autentica esperienza religiosa del divino.
Il «sacro» non è alterabile da una secolarizzazione che si è creduta illimitata e illuminata. Rudolf Otto ha scritto il suo saggio nel contesto di una sempre più evidente secolarizzazione di un’Europa le cui élite colte avevano adottato l’idea nietzschiana della «morte di Dio» e quella weberiana del «disincanto del mondo». Nell’intenzione ha cercato di salvare la dimensione propriamente religiosa della coscienza europea, restituendola alla sua radicalità originaria, comune a tutte le religioni, siano esse monoteiste o politeiste. Otto poteva fondare l’invenzione di quel concetto sull’immensa indagine erudita degli umanisti europei riguardo alla religione pagana degli antichi greci e romani, sulle relazioni dei missionari europei che studiavano le religioni d’America e d’Asia con le quali entravano in contatto e sull’antropologia scientifica che nasceva nel XIX secolo. Uno sguardo ampio sul panorama di miti e riti, di una diversità stupefacente, inventati dall’homo religiosus su tutta la superficie della terra per rappresentarsi i suoi dèi e i mezzi per conciliarseli.
L’elemento comune di questi fenomeni, tanto diversi in tutte le loro distanti localizzazioni e che s’ignorano tra loro, per Otto era il faccia a faccia con l’alterità assoluta del divino; il sentimento di terrore, del misterioso abisso che separa l’antropo da ciò che si chiama il «numinoso», la cui presenza e onnipotenza minaccerebbe il diritto dell’uomo all’esistenza, se l’ingegnosità devota, la pietas, non prevenisse il pericolo moltiplicando i sacrifici propiziatori: la parte offerta al dio per salvare il tutto, cioè la propria sopravvivenza provvisoria e profana e quella del proprio popolo. In sostanza il sacro sarebbe l’equilibrio del terrore, ottenuto con alto indice di rischio, pagato a caro prezzo, ma che rende possibile la coesistenza tra l’homo religiosus e i suoi dèi. Con molta evidenza un tale quadro non rappresenta affatto il rapporto cristiano con Dio così come Gesù Cristo ce lo ha rivelato.
Conversione di rotta
René Girard è partito da qui per mostrare la singolarità del cristianesimo e la sua vocazione a capovolgere il dispositivo arcaico del sacro dispensandosi da sacrifici sanguinari [16]. Ha mostrato, poi, lo smascheramento, ad opera della “mitologia” cristiana, del «gioco di una violenza mimetica che prima decompone e poi, grazie ai capri espiatori unanimemente scelti, ricompone la comunità»: la parola evangelica che problematizza la violenza umana, la violenza che «o passa per divina, come accade nei miti […] o la si attribuisce solo ad alcuni uomini (che divengono allora eccellenti capri espiatori)» [17]. Tale vocazione alla denuncia desacralizzante ha impiegato secoli, non senza periodiche regressioni, per mostrare la validità delle sue vaste ricadute morali. La modernità (morale, politica, artistica) avrebbe come premessa teologica questa conversione di rotta introdotta dal cristianesimo nei rapporti tra l’umanità e la divinità, poiché il congedo dato al sacro autorizza gli uomini a rendersene degni attraverso la reciprocità del dono e non tramite l’arcaico strumento della paura e del riscatto da versare.
È sorprendente ritrovare in una sfera non confessionale qual è la filosofia di Emmanuel Lévinas il richiamo alla purificazione profonda dell’organo della conoscenza per l’approdo ad una prassi del dono che scaturisca da una fenomenologia della “Carità”, termine che il filosofo utilizza non senza un certo imbarazzo data la sua inflazione nel vocabolario cristiano. Si tratta di provocazioni intellettuali che devono indurci a riflettere sulla necessità di recuperare nel cristianesimo la dialettica etico-estetica in cui risiede la verità della sua vera natura religiosa che va oltre il sacro tagliando i legami dei suoi lacci. La verità cioè che Dio è infinita bontà e infinita bellezza e ama l’umanità uscita dalle sue mani di un amore indicibile. Un cristianesimo che non esce dalle secche del sacro arcaico è destinato al museo.
Si tratta di recuperare teologicamente il fatto, manifesto come evento teologico inaudito, che il cristianesimo contempla la debolezza di Dio nei confronti dell’umanità, con l’inaudita libertà di scelta che questa debolezza divina concede all’umanità per dispiegare ciò che essa in parte conserva della sua intelligenza divina: la ragione, l’ingegno, la sensibilità spirituale, la capacità di celebrare con le arti la bellezza del mondo, ma anche l’audacia di creare, attraverso tecniche un mondo in armonia con la natura creata, dove essa si proietta, si rivela a se stessa. L’evento, manifestatosi con l’incarnazione, per cui il Dio dei cristiani ha fatto all’umanità tali proposte, si è a tal punto svuotato di sé e privato di vendetta, che non ispira più il minimo terrore, nella rinuncia ad ottenere sacrifici che ne plachino la collera. Un Dio che si è messo allo scoperto, a nudo, fuori dal riparo dei recinti sacrali. C’è ancora spazio, oggi, per un cristianesimo kénotico?
La vera forza della santità cristiana consiste nella dedizione all’Altro nelle due direzioni, perché il culto cristiano è vero quando è per Dio e per il Prossimo. «La Chiesa non può giustificare con le solennità e le feste l’assenza di un’etica calata nella vita reale e autenticata da scelte concrete di giustizia» [18]. È chiamata a dare risposte vere all’umanità perduta in un labirinto senza parametri etici. È chiamata a rivitalizzare con la forza della parola evangelica la cultura contemporanea, perché si applica anche alla letteratura e alle arti la tesi di René Girard secondo la quale il cristianesimo ha la vocazione a smussare gli spigoli vivi del sacro e a moltiplicare le mediazioni attraverso le quali i suoi dogmi, i sacramenti, la liturgia, laicizzati, irriconoscibili perché svestiti degli orpelli sacrali, continuino ad agire indirettamente e a diffondersi con invisibili innesti su una modernità che se ne crede o se ne vorrebbe distaccata. Questo al prezzo della perdita, ormai urgente, della sua gloria terrena, ma a vantaggio del bene dell’umanità: liturgia, cioè, etimologicamente, opera in favore dell’umanità, icona della liturgia della kénosi divina. Di quale gloria è mai emblema la croce?
In realtà solo l’osmosi tra verità, bontà e bellezza è mediazione tra umano e divino, e non il sacro. L’essenza del cristianesimo implica una diluizione del sacro tale da liberare l’intelligenza e l’ingegno umani sia per accrescerne la sensibilità estetica, sia per autorizzarne l’impiego scientifico e tecnico e l’influenza positiva sulla natura, sia per operare attivamente per il bene comune.
Santità e incarnazione
Per riflettere teologicamente sulla santità di Dio, come Gesù Cristo ce lo ha mostrato, non si può prescindere dalla considerazione teologica dell’incarnazione in quanto mistero cultuale. Il dualismo teologico occidentale che ha separato la riflessione dogmatica dai fondamenti cultuali non ha potuto trovare altra via che rinchiudere il culto nella sacralità, trasformando la santità divina in virtù trascendente, protetta anch’essa dal sacro della separazione. Come se l’incarnazione non ci fosse mai stata! Come se il mistero del Verbo incarnato non costituisse l’unica possibilità in assoluto per il contatto reale con Dio, per la fruizione piena e salutare della santità che Egli è. È nella forma del Verbo incarnato che il culto cristiano trova la sua fontale autenticità. La formula giovannea del culto «in Spirito e Verità» è felice apposizione della teologia del «Verbo fattosi carne». Anzi, è delucidazione limpida e coerente della valenza cultuale del corpo di Gesù fatto Cristo per l’unzione eterna dello Spirito e divenuto evidenza sacramentale della cultualità infratrinitaria – il culto che le tre persone si rendono eternamente e osmoticamente nell’unità della loro natura divina –, cultualità che è la Verità che è Dio. Un culto non rituale di “sacrifici e offerte” ma esistenziale in quanto coinvolgente l’intera esistenza, fisica e spirituale di Gesù, il Cristo di Dio «nato da donna».
Per il cristianesimo il Verbo che è Dio «ha posto la sua tenda fra noi» [cfr. Gv 1, 14], si è manifestato in modo tale che tutta l’umanità religiosa ne rimane sconcertata. Dio si è manifestato contestato e ripudiato. Bisogna ricominciare da questo paradosso ripugnante alla potenza della religione, alla concezione religiosa della doxa come gloria di forza e di dominio per entrare nella logica paradossale di Dio che irrompe imprevedibilmente nella storia umana, nella carne umana, nella vita reale dell’umanità oltre ogni schema pensabile, fuori dai quadri stabiliti, per tradizione antropologica, dalla teologia delle religioni. L’incarnazione si pone come paradosso religioso in quanto è un tratto marcato di discontinuità rispetto alle codificazioni teologiche religiose che pensano un Dio assoluto in maniera assolutistica, invadente, autoritariamente imponentesi con l’imperialismo spirituale, con la forza dell’istituzione, se necessario con la spada e la guerra. Ma questo Dio delle religioni è un Dio pensato in maniera talmente umana che il Dio fattosi uomo in Cristo Gesù è ritenuto così impensabile da essere rigettato senza ripensamenti.
Nella sua Teodrammatica Hans Urs von Balthasar sviscera fino alle estreme conseguenze l’intuizione agostiniana per cui la realizzazione progressiva della Chiesa è leggibile nella storia intera dell’umanità. Dalla “Chiesa” del paganesimo religioso, attraverso la fase pre-cristiana della Chiesa di Cristo sotto la forma del popolo di Dio nel “tipo” di Israele, fino alla manifestazione perfetta della Chiesa dei “primogeniti”. L’incarnazione è vista da Balthasar come risultato di individuazione del telos pneumatico lanciato verso il suo obiettivo nel corso della storia: l’invenimento dell’umanità perfetta nell’avvenimento Gesù. Fuori da schemi sacrali, da geometrie cartesiane; semplicemente scandagliando le forme culturali antropiche come testimonianza dell’ansia dell’umanità di dare forma esteriore ad una attesa interiore, considerando che l’uomo non può staccarsi da Dio semplicemente perché Dio non glielo consente. Un anelito di umanesimo, potremmo dire.
Un percorso affascinante quello balthasariano che mostra come tutti i miti e i progetti religiosi, tutto ciò che nel mondo è o può essere autentica rivelazione di Dio, tende verso l’obiettivo dell’incarnazione. È una dilatazione del cristianesimo barthiano fatta dall’interno, per inverare tutta la storia dell’umanità, tutto il significato misterioso e impenetrabile del cosmo nella garanzia di Cristo. Nell’incarnazione religione e scienza debbono tacere: Dio e l’uomo restano protagonisti assoluti della scena, nell’unico attore che è il Verbo incarnato, la forma unica che si imprime nelle forme molteplici in modo tale che la forma di Cristo cresca nel mondo. Fino al punto Ω per dirla con Pierre Teilhard de Chardin, allargando la visione dal determinismo religioso all’universale creatore dove «creare, compiere e purificare il Mondo, come già leggiamo negli scritti di Paolo e di Giovanni, significa per Dio unificarlo unendolo organicamente a Sé». E per far questo Dio deve «immergersi parzialmente nelle cose, facendosi “elemento” e poi, grazie al punto di appoggio trovato interiormente nel cuore della Materia, assumendo la direzione e mettendosi alla testa di ciò che noi, ora, chiamiamo l’Evoluzione» [19]. Il tutto posto non sotto la tutela della religione, della sacralità, ma sotto l’egida amorevole di Cristo «principio di universale vitalità, il Cristo, nato uomo tra gli uomini, si è posto nella condizione, e lo è da sempre, di sottomettere a Sé, di epurare, di dirigere e di superanimare l’ascesa generale delle coscienze in seno alla quale si è inserito» [20].
Una visione ricca e chiara che però è poco conosciuta e dunque poco utile per la consapevolezza della vita di fede e per l’annunzio del Vangelo. È a questa forma che bisogna dare incarnazione esistenziale per inverare e attuare il cristianesimo nel tempo e tra le culture: la forma della comunicazione di Dio del tutto sui generis, datasi in pienezza nel corpo del Figlio. Il Figlio di Dio è divenuto realmente uomo, cioè uno spirito umano che abita in forma visibile nel nostro mondo per mezzo di una corporeità che gli è propria. L’incarnazione della vita divina, dunque, implica aspetti corporali per cui ogni rapporto interumano, ogni contatto degli uomini tra loro, si compie per mezzo della corporeità. Ogni influenza spirituale di un uomo su un altro implica necessariamente un incontro per mezzo del corpo. La vita interiore dell’uomo si manifesta al mondo per mezzo della corporeità in quanto è nella corporeità.
Se sin qui cogliamo l’ulteriore esplicazione del mistero cultuale del Verbo incarnato in forma teologica; a questo punto possiamo chiederci: la sua traduzione nella vita della cristianità in che forma avviene? Non certamente nella forma della religione e della sacralità, forme che Gesù ha fortemente criticato, ridimensionato, approntando una forma così nuova che i “religiosi” del suo tempo ne rimanevano scandalizzati tanto da ritenerlo un blasfemo bestemmiatore. Fu per la forma nuova di culto che fu messo a morte e, paradossalmente, quella forma di morte, costituì l’essenza del culto cristiano nella forma simbolico-rituale di quella nuova espressione di culto; nuova almeno per le religioni, per la religione convinta di placare Dio con le cose, di onorarlo con lo sfarzo abbagliante dei riti che non possono ingannarlo mentre ingannano quanti vengono avviluppati nelle spire del sacro, ossia di un vago presentimento di Dio e non di una vera conoscenza di Lui.
La dichiarazione divina del ripudio delle forme cerimoniali di culto, il suo disgusto per le forme religiose vuote, piene unicamente della boria umana che si autocelebra in esse in maniera ostentata, e la volontà divina di un culto spirituale sono motivi che attraversano tutta la rivelazione. Le nostre forme di culto si sono sviluppate, lentamente, nel corso dei venti secoli di storia cristiana [21], come se Dio non avesse parlato e come se non ci avesse dato un unico e definitivo modello nel culto del Verbo incarnato. In fondo, non abbiamo saputo trarre le estreme conseguenze della cosiddetta “svolta antropologica” in teologia. Essa può più chiaramente delinearsi a partire da una teologia del culto per la quale possono contribuire positivamente le scienze antropologiche per rilevare assieme all’asimmetricità cultuale asimmetricità salvifica. Non viceversa.
Per concludere questo breve excursus credo sia urgente il richiamo alla necessità di un ritorno ecclesiale alla forma dell’incarnazione, che non si dà senza il passaggio dalla religione alla fede per la costituzione di un nuovo paradigma in teologia che ripensi la prassi dell’incarnazione; quindi di una nuova forma di vita cristiana in grado di dialogare con altre religioni e col mondo, nella verità della Chiesa come corpo reale di Cristo, come attante liturgica della santità di Dio attingibile in Cristo.
Più voci recentemente si sono levate in tal senso. Roberto Mancini in un suo interessante libro [22] rilegge la lezione di Bonhoeffer sulla differenza tra la religione e la fede. Mette in guardia dalla considerazione del cristianesimo come ideologia o sistema, valutandolo, anzitutto, come esperienza di Dio. Dopo l’analisi delle conseguenze dei mali provocati nel cristianesimo da un appello alla “Tradizione” fatto in maniera acritica ed apologetica, miope e pretestuosa, ciò che ha prodotto una “cristianità borghese” incapace di valutare quanto «il capitalismo sia un ateismo radicale, perché nega Dio negando il valore delle sue creature», auspica l’uscita della Chiesa da quella che Barth denunciava come la «maledetta sicurezza» della pretesa del possesso della verità che non consente, secondo Bonhoeffer «una ricerca e una domanda più intense, rivolte a colui che solo è importante, vale a dire Gesù». Appuntare gli occhi e il cuore su Gesù mentre «la religione tende a stabilire una dimora intangibile del sacro» [23]. Il superamento del sacro e della religione, sul modello incarnazionista, ci conduce al punto nodale della questione. Mancini rammenta come il cristianesimo non religioso in Bonhoeffer emerge nella coscienza di una svolta storica, quella dell’uomo diventato adulto che illumina una natura permanente della forma di vita e di fede incarnata da Gesù.
Occorre ripensare il cristianesimo, vivere un cristianesimo «che deve scoprire la propria narrazione», secondo una formula pensata da Maria Clara Bingemer [24]. Dopo la fine di un umanesimo antropocentrico, con derive perverse, androcentriche ed etnocentriche, è necessario aprire una via nuova all’umanità presentando un Dio «che sembra voler essere chiamato e raccontato in modo diverso». Ma è Gesù Cristo, diciamo concludendo, che ce lo narra in maniera difforme alle narrazioni delle religioni che lo adorano in maniera idolatra, quando non lo fanno garante della violenza e delle discriminazioni di casta, o lo nominano nella pompa dei riti e nella incomprensibilità delle formulazioni dogmatiche.
L’incarnazione rivela il Dio di Gesù Cristo, una realtà divina inedita per la mentalità religiosa che può essere illuminata solo da una sana consapevolezza della rivoluzione cristiana testimoniata dalla vita dei credenti in Cristo. Basta rendersene conto. È l’atteggiamento primigenio del magistero che per bocca di Pietro esclama: «In verità mi sto rendendo conto che Dio non fa preferenze di persone, ma chi lo teme e pratica la giustizia, a qualunque popolo appartenga, è a lui accetto» [Atti 10, 34-35]. Nella logica dell’incarnazione la realtà la si legge sotto una luce nuova; ed anche Dio lo si percepisce in tutta la sua difformità religiosa, lo si avverte come una presenza interpellante ed esigente che non chiede altro se non vivere accanto all’uomo reso erede della sua santità in Cristo. È nel suo amore che ogni sacralità si condensa nella “Carità”, perché carità e carne hanno la stessa radice divina. Seguendo l’antico adagio patristico: Caro salutis cardo!
Dialoghi Mediterranei, n.17, gennaio 2016
Note
[1] A. Ales Bello, Culture e religioni. Una lettura fenomenologica, Città Nuova, Roma 1997: 118.
[2] M. Eliade, Il sacro e il profano, Bollati Boringhieri, Torino 1995.
[3] Ivi: 15.
[4] Cfr. D.A. Conci, La terra che tu calpesti è santa. Lineamenti fenomenologici del sacro e del profano, in Le forme del sacro, Anicia, Roma 1992.
[5] B. Welte, L’ateismo di Nietzsche e il cristianesimo, Queriniana, Brescia 1994: 46-48.
[6] G. Van der Leeuw, Fenomenologia della religione, Bollati Boringhieri, Torino 1975: 466.
[7] Id, L’uomo primitivo e la religione, Boringhieri, Torino 1961.
[8] Rimando al mio volume Liturgia secondo Gesù. Originalità e specificità del culto cristiano. Per il ritorno ad una liturgia più evangelica, Edizioni Feeria – Comunità di San Leolino, Panzano in Chianti (FI) 2003.
[9] U. Galimberti, Orme del sacro, Feltrinelli, Milano 2000: 214.
[10] Ibid.
[11] R. Mancini , Per un cristianesimo fedele. La gestazione del mondo nuovo, Cittadella, Assisi 2011: 127-133.
[12] K. Barth, L’Epistola ai Romani, Feltrinelli, Milano 1974: 420.
[13] R. Mancini, cit., ivi.
[14] AAS 57, 1965: 764.
[15] R. Otto, Il sacro, Feltrinelli, Milano 1966.
[16] R. Girard, La violenza e il sacro, Adelphi, Milano 1980.
[17] R. Girard, Vedo Satana cadere come la folgore, Adelphi, Milano 2001: 237-239.
[18] A. Paoli, Prefazione a G. De Gennaro, Emmanuel Lévinas profeta della modernità, Edizioni Lavoro, Roma 2001: 11.
[19] P. Teilhard de Chardin, Il fenomeno umano, Queriniana, Brescia 20156 : 273.
[20] Ibid.
[21] Ne ho tracciato lo sviluppo storico culturale nel volume Liturgia medievale per la Chiesa postmoderna? La questione del “rito antico” nel racconto del Rito romano, Edizioni Feeria- Comunità di San Leolino, Panzano in Chianti (FI) 2013.
[22] R. Mancini, Il senso della fede. Una lettura del cristianesimo, Queriniana, Brescia 2010.
[23] Cfr. ivi: 130-131.
[24] M.C. Bingemer, Il Cristianesimo: una religione?, in «Concilium», 4/2010: 68-83.
________________________________________________________________________________
Leo Di Simone, presbitero e membro della Comunità di San Leolino (Panzano in Chianti-Firenze), ha insegnato presso la Facoltà Teologica di Sicilia, l’Istituto di Scienze Religiose di Mazara del Vallo e l’Istituto Teologico di Scutari (Albania). Tra le sue pubblicazioni, si segnalano i seguenti volumi, editi da Feeria, Panzano in Chianti: Liturgia secondo Gesù. Originalità e specificità del culto cristiano per il ritorno a una liturgia più evangelica (2003); Le rotte dei Misteri. La cultura mediterranea da Dioniso al Crocifisso (2008); Liturgia medievale per la chiesa postmoderna? (2013). Ha curato, per i tipi de Il Colombre, il volume Trasfigurazione. La Basilica Cattedrale di Mazara del Vallo. Culto Arte e Storia (2006).
________________________________________________________________