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Ripensare la “gens italica”. Strategie di ripopolamento e nuove cittadinanze

fw4u2chwcaaxazzdi Aldo Aledda 

La notizia è che martedì 6 giugno nella Sala Matteotti della Camera dei Deputati si è tenuto un Convegno su Diaspora, Italicità, Cittadinanza, Sviluppo, aperto dalla Vice presidente della Camera dei deputati, Anna Ascani, e organizzato dal parlamentare eletto all’estero, Fabio Porta, come Intergruppo parlamentare, in collaborazione con l’associazione Globus et Locus e il Comitato “11 ottobre di iniziativa per gli italiani nel mondo”. Sempre per la cronaca vi è solo da aggiungere che l’iniziativa è stata seguita da un folto pubblico di parlamentari, imprenditori e dirigenti del mondo dell’emigrazione italiana all’estero sia in presenza sia in collegamento da remoto, oltre che ripreso dalla stessa Rai.

L’obiettivo dell’incontro era presentare l’iniziativa dell’On. Porta volta alla creazione di un visto permanente di ingresso e di soggiorno in Italia, in linea di massima per i discendenti degli emigrati italiani all’estero e per tutti gli stranieri che, per scelta o appartenenza culturale, si possono definire, appunto, “italici”. Il tema, tra l’altro, è apparso di grande attualità per la coincidenza del messaggio del 2 giugno da parte del Capo dello Stato, Sergio Mattarella, agli italiani all’estero e, indirettamente a tutte le istituzioni, in cui il Presidente si augurava che la decisione di trovare realizzazione all’estero, soprattutto da parte dei giovani italiani, non debba essere frutto di una necessità bensì di una scelta di vita cui corrisponda una circolazione di talenti nel nostro territorio.

Ad auspicare una vocazione più aperta del nostro Paese al nuovo che avanza è stata la giovane Vice presidente della Camera, On. Ascani, per la quale nuove tecnologie, globalizzazione, delocalizzazioni e tante altre novità dei nostri tempi giustificano la scelta di sempre più nuove generazioni di italiani di trasferirsi all’estero per realizzare al meglio le proprie aspirazioni. Che poi ha aggiunto come il trasferimento degli scienziati italiani all’estero avesse già costituito il crucio dei nostri costituenti, che tuttavia neanche allora vedevano questo fenomeno in termini negativi, ma appena un aspetto della circolazione dei talenti indispensabile per lo sviluppo del Paese purché avvenisse in senso bidirezionale. E perché nel tempo ciò dispieghi i suoi effetti benefici occorre che, a prescindere dagli inevitabili investimenti che sarà necessario fare in materia di istruzione, formazione, lavoro, ecc., l’italiano che si reca e vive all’estero sia riconosciuto a tutti gli effetti dallo Stato italiano parte integrante di esso. E ciò potrà accadere solo migliorando le modalità di rappresentazioni istituzionali e innovando le forme di accoglienza dei nostri connazionali.

Se le affermazioni della Vice presidente della Camera mettono sul tavolo il problema dell’integrazione di queste energie nel nostro Paese, prima di tutto bisogna chiedersi a quale parte del mondo esterno è rivolto il messaggio, insomma chi sono i diretti e presunti beneficiari dell’iniziativa. Come ho detto e specificherò meglio avanti si tratta degli “italici” e dei discendenti delle diverse generazioni degli emigrati italiani all’estero. A fronte dell’apparente chiarezza, un’eventuale classificazione non è priva di incertezze soprattutto dal punto di vista della quantificazione. Secondo la scuola di pensiero che propugna e manda avanti il discorso degli italici, per esempio, tali sarebbero tutti coloro che si riconoscono nei valori universali e nella cultura che storicamente ha forgiato l’Italia, costituendo una platea che andrebbe dagli stranieri in senso stretto, ai discendenti degli emigrati italiani all’estero, fino agli stessi cittadini italiani residenti nella Penisola. Una massa costituita da circa 250 milioni di persone.

Ma, poi, che vantaggio avrebbe questa apertura o riconoscimento, come chiamare si voglia, e soprattutto quale giovamento ne trarrebbe nell’assetto geopolitico e strategico del mondo attuale il Paese Italia? Ce lo spiega meglio Piero Bassetti, già parlamentare e presidente della Regione Lombardia, e attualmente presidente dell’associazione “Globus et Locus” che da qualche decennio porta avanti il discorso dell’italicità nel mondo. L’ex presidente dell’Unioncamere estero, forte anche di una grande esperienza internazionale nel mondo dell’imprenditoria italiana all’estero, oltre che di contatti internazionali ai massimi livelli, fa discendere l’importanza e la centralità di questa categoria di italiani dalle caratteristiche del mondo moderno investito in pieno dal fenomeno della globalizzazione che impone prima di tutto una revisione delle forme degli Stati moderni. Per questa ragione anche una realtà istituzionale come quella nostrana dovrebbe riconsiderare le stesse definizioni e condizioni dell’italianità, più congeniale a un Paese dalla cultura lunga e profonda come quello italiano.

La risposta è un’“italicità” che parta anche da una visione di Stato e di collettività nazionale nuova e diversa, anche rispetto al contesto europeo e per il quale sembrano sempre meno adeguate le tradizionali regole, come pure i comportamenti e i poteri dello Stato nazionale. E nella misura in cui ci troviamo paradossalmente davanti a una realtà come quella italica che mette in dubbio lo stesso modo di essere “nazione” dell’Italia, anche come realtà geografica e istituzionale nel mondo moderno, sostiene Bassetti, proprio per via del “risveglio dell’italicità” occorre accedere a nozioni ancora più ampie del limitarsi a essere solo cittadini italiani [1].

Il tavolo dei relatori del convegno

Il tavolo dei relatori del convegno Diaspora, italicità, cittadinanza, sviluppo, 6 giugno 2023

Da qui l’esigenza di ripensare a una gens italica variegata e diversificata, portatrice nel mondo di sensibilità e di esperienze politiche diverse che non possono essere sempre ricondotte nell’alveo di un’italianità intesa esclusivamente come tratto distintivo nazionale e forgiata solo nella Penisola. Una modalità di essere italiani, quindi, che possa avanzare nel mondo senza complessi, come fu per esempio quella “romana” all’epoca della grandezza imperiale che dava una specifica impronta alla contemporaneità. In questo senso vanno ripensate le leggi, e forse la stessa Costituzione, adeguandole a un mondo, precisa Bassetti, che diviene sempre più “caldo” e gravido di incertezze che non possono essere tutte risolte sulla base del vecchio principio medievale del cuius regio eius religio che sembra ancora oggi contraddistinguere le politiche degli Stati, soprattutto quando si trovano a gestire movimenti di popoli.

Una concezione siffatta di italicità che, nel momento stesso in cui si apre al mondo, fosse solo lo straniero di cultura italiana, ne ricomprende una più allargata di italianità che ha bisogno di farsi strada nel mondo ibridandosi con le altre culture, tra cui alcune certamente egemoni come quella anglosassone, la quale trova il culmine nel Commonwealth per l’Inghilterra e concreta attuazione nell’egemonia culturale americana. Ne è un esempio la contraddittoria nozione di Made in Italy [2], sostiene Bassetti, termine inglese che coerenza politica vorrebbe, soprattutto per un governo come quello attuale che intende difendere la lingua nazionale dagli inquinamenti stranieri, non ne intestasse addirittura un ministero, ma parlasse piuttosto di “fatto in Italia”. In realtà l’italicità giustifica anche tutto ciò che con riferimento a esso avviene a livello internazionale, ed è condannato in Italia come attentato all’economia nazionale, per esempio la coltivazione di tutta una filiera agroalimentare e vitivinicola estera che viene presentata come affermazione di valori specifici italiani in questo campo, dalla pasta al parmesan, salumi, dolci, prosecco, ecc., e per ciò stesso realizzata da “italici”.

Stando, poi, al campo specifico della moda italiana, grande orgoglio del made in Italy, lo stesso Bassetti osserva che i capitali che governano il mercato italiano al settanta per cento sono stranieri. Se tutti questi sono esempi di italicità, per l’autore di Svegliamoci italici non significa che italici, ossia realmente appartenenti a questa categoria, debbano essere considerati solo i “cittadini” italiani in senso tecnico, ma la definizione va estesa a chi si considera appartenente alla grande cultura e ai valori italiani, segnatamente agli stranieri che tante volte e più degli italiani in senso stretto vi si riconoscono anche con iniziative economiche, di gusto e di civiltà.

Individuata così la categoria degli italici e chiariti i confini istituzionali in cui ci si può muovere, occorre individuare e capire quanto possa rientrare in essa chi fa parte della cosiddetta Diaspora italiana che, secondo il deputato PD, Toni Ricciardi, importante storico dell’emigrazione italiana dell’Università di Ginevra, rappresenta una realtà geografica istituzionale e un mondo che, limitandosi a chi possiede la cittadinanza italiana, dà vita numericamente e per importanza a una 21a regione dalle insospettate potenzialità economiche. Per questo motivo, sviluppando il discorso della circolarità e della circolazione dei talenti e delle professioni, tra cui i “nomadi digitali”, di cui sembra che oggi non se ne afferri bene l’importanza, almeno in Italia, occorre concepire la cittadinanza in funzione della mobilità e smettere di considerare l’emigrazione – anche quella degli italiani – come marginalità.

9788831739191_0_536_0_75In realtà quanto si giustifica e perché sussiste codesta marginalità? Prova a spiegare Raffaele Marchetti, prorettore dell’Università Luiss di Roma, dove cura in particolare l’aspetto dell’internalizzazione. Oggi la popolazione italiana con la sua diaspora estera è quantificabile in 100/150 milioni di persone, all’interno delle quali si contano almeno altri dieci milioni di italiani che avrebbero diritto alla cittadinanza e altrettanti che, pur trovandosi nella medesima condizione, per tecnicismi giuridici non ritengono opportuno richiederla. Una realtà, afferma Marchetti, che di recente ha portato il problema all’attenzione nazionale attraverso le colonne del più importante quotidiano del Paese, una comunità percepita come diasporica, patologicamente chiusa in sé stessa e perciò ampiamente dimenticata e sottovalutata [3]. In questo modo, per esempio, si trascura che all’interno si trova una grande realtà costituita da italiani formatisi fuori dell’Italia, che superano di gran lunga quelli cresciuti nel nostro Paese.

Nei confronti di questa massa in realtà si riscontra una sorta di avversione che può essere spiegata solo col senso di tradimento coltivato dai nativi e perpetrato nei confronti di chi è fuggito dalla patria, che alimenta la conseguente convinzione che “veri” italiani si possano considerare solo quei circa 60 milioni che vivono nel Paese e ne affrontano la quotidianità, mentre tutti gli altri sarebbero solo dei diasporici, in altri termini estranei. Questo modo di vedere determina all’inverso la disaffezione da parte degli oriundi nei confronti del Paese delle loro origini. Volgendo lo sguardo dall’altra parte, afferma il prof Marchetti, non ci rendiamo conto che in ultima analisi non solo rinunciamo all’apporto di innumerevoli punti di riferimento economici, ma anche di decisori politici che potrebbero giovare alla nostra politica estera. Numerosi sono infatti gli oriundi italiani che occupano posizioni apicali in Stati e governi e tantissimi che stanno al vertice dell’imprenditoria internazionale. Per questo motivo è necessario che la politica riesca a “ingaggiare” questa presunta diaspora a imitazione di quanto hanno fatto altri Stati con quelle rispettive, per tutti la Turchia.

Sulla stessa scia si è posto l’economista Nicola Mattoscio, professore straordinario dell’Università Marconi e presidente degli Abruzzesi nel mondo, che, riprendendo la distinzione di Bassetti, riguardo al made in Italy sostiene che questa definizione è emblematica non solo come un fenomeno di ibridazione linguistica glocal per un Paese che vorrebbe limitarsi a prendere in considerazione solo una supposta italianità locale, ma racchiude anche degli interessanti casi di scuola in cui l’attività economica nostrana può essere adeguatamente supportata dalla grande finanza internazionale. In questo senso riguardo alla grande collettività italiana nel mondo è riduttivo parlare di Diaspora, piuttosto è importante riconoscere che l’emigrazione italiana nel mondo è stata ed è veicolo e incubazione di cambiamenti, innovazioni e fermenti positivi sia per i Paesi di destinazione sia per l’Italia. I movimenti dei popoli quindi non vanno sottovalutati, anche per le inevitabili mutazioni genetiche conseguenti al fatto che Paesi dell’Europa e la stessa Italia, abbondantemente sotto la crescita zero, saranno sempre più legati e condizionati dalle migrazioni.

A questo punto, stabilito che questa consistente massa di italici e discendenti dell’emigrazione italiana nel mondo, cui vanno aggiunti anche i più recenti expat che intendessero rivedere la propria decisione di stabilirsi all’estero, possono costituire un importante volano economico, che cosa si può fare per attuare quella circolarità che auspica Mattarella e contribuire nel contempo a contenere lo spopolamento e l’invecchiamento del Paese, di cui tutti ormai mettono in evidenza i pericoli? [4]

Ed è su questo versante che sono cadute in particolare le proposte del Comitato 11 ottobre – anche in una metodologia politica di passaggio dalla protesta e dall’analisi, tipica dei fermenti culturali migratori tradizionali, alla proposta – su cui si imperniava il Convegno e che l’organizzatore, il deputato Fabio Porta, Garante del medesimo Comitato, si è impegnato a tradurre in progetto di legge grazie a un’alleanza trasversale di partiti e con i parlamentari più interessati a questo tipo di problemi.

Il primo ostacolo da rimuovere è il fatto che l’ingresso e soggiorno in Italia per gli italici e i discendenti degli emigrati italiani nel mondo, rendendo possibile la circolazione dei giovani da tutti auspicata, il più delle volte si scontra con le pastoie burocratiche contenute nelle leggi che disciplinano l’ingresso degli stranieri in Italia e che sembrano corrispondere maggiormente ai disegni tipici delle organizzazioni statali tradizionali  largamente orientati a chiudere in sé stesse le comunità locali. Pesa in questo caso il retaggio culturale degli Stati moderni, sorti in Europa dopo la pace di Westfalia nel XVII secolo e che via via hanno preso ancora meglio forma dopo l’epopea napoleonica tra un giro di walzer e un passo di mazurka dei suoi rappresentanti al Congresso di Vienna del 1815. Stati che hanno scelto decisamente di costituirsi in identità linguistiche, religiose e culturali, tanto da costringere chi in esse non si voleva riconoscere a scegliere la via dell’emigrazione, come fu appunto quella che caratterizzò dal XVIII e XIX la via europea per le Americhe, e oggi forse, come capita nelle democrazie più avanzate, a non volere più esercitare neanche il diritto di voto [5].

downloadNon a caso tuttora la legislazione corrente affida alle più tipiche espressioni dello Stato profondo la gestione dei confini del Paese, ossia i ministeri degli interni e degli esteri, laddove il primo ha sviluppato una cultura dell’ordine pubblico prevalentemente difensiva e securitaria e il secondo una concezione di politica estera di stretta derivazione dal “partito di corte” monarchico che gestiva gli affari dello Stato. Certamente questi organismi si avvalgono di brillanti e aperti funzionari, ma non può sfuggire, esaminando atti e normative, che gli apparati dei primi, come forze di polizia regolano l’ingresso degli stranieri considerati ancora implicitamente come una minaccia per la “nazione” (e sociologicamente disertori quelli che vorrebbero uscire di tanto in tanto, visti i tempi lunghi che si oppongono oggi a chi richiede il passaporto), mentre i secondi gestiscono alla bell’e meglio la massa di diseredati che abbandona il Paese di origine per le mete straniere, il più delle volte intimamente convinti che poco torna all’Italia da questo movimento in termini di prestigio (considerato anche che curano all’estero preferibilmente le espressioni dell’alta cultura italiana). Tutti i disegni normativi che fondano e blindano queste attività amministrative, inconsciamente finiscono per erigere un sistema in cui viene affidata alle classiche volpi la custodia delle galline. Alla luce di queste considerazioni ne discende che per recuperare al Paese la cosiddetta “diaspora”, pur nell’alveo del disegno istituzionale complessivo, occorre muoversi in maniera innovativa e ciò può accadere solo coinvolgendo gli altri momenti istituzionali come regioni ed enti locali, oltre che i ministeri con una maggiore attinenza con i temi del lavoro, l’industria e i problemi sociali.

A questo punto è necessario porsi il problema di cosa si può fare e a favore di chi. In primo luogo, proponendo una legge in materia di ingressi in Italia occorre stabilire qual è l’“interesse pubblico” che si ritiene di dover privilegiare, ossia il bene da porre sotto tutela: nel nostro caso si tratta di stabilire se viene prima l’esigenza di contrastare lo spopolamento e supplire alla mancanza di risorse giovanili nel Paese, resi più acuti tra il calo delle nascite e l’esodo dei giovani all’estero, oppure la necessità di avere un territorio popolato da chi ha le carte a posto, magari ad esclusivo soddisfacimento di quello che i sociologi della pubblica amministrazione definiscono il narcisismo delle istituzioni, quando queste sembrano limitarsi a circondare la vita sociale di formalità e di spettacoli istituzionali superflui. Ebbene, se l’interesse prevalente è quello rappresentato dalla prima esigenza, tutti gli altri eventuali “interessi pubblici”, se così si possono definire, devono passare sicuramente in secondo piano. Ed è ciò che si deve poter scrivere e trovare in una legislazione avanzata.

Per muoversi occorre intanto capire quali sono le potenzialità e la vastità di soggetti interessati nel mondo che abbiamo citato e che possiamo utilizzare nel perseguimento di una logica del “reciproco interesse” tra italiani residenti nella Penisola e gli altri sparsi fuori per ovviare al grave problema dello spopolamento e della mancanza di forze giovanili. Non mancano in proposito proposte nel panorama nazionale. Tutte peraltro interessanti e realizzabili. Tra le più ascoltate vi sono quelle dirette al sostegno della famiglia e della maternità che, tuttavia, si scontrano con i tempi verosimilmente troppo lunghi che impone l’individuazione e l’attuazione delle relative condizioni di realizzazione. Infatti, se tutto andasse bene un eventuale innalzamento delle nascite anche in tempi ravvicinati non sarebbe utilizzabile dal sistema economico prima di vent’anni. Poi vi sono i servizi alla maternità e all’infanzia, che molti ritengono esserne in qualche modo la condizione, soprattutto con la donna che lavora.

partenze_ultimo_anno_verso_dove_rim_2020In una realtà tra le più avanzate economicamente e socialmente al mondo, come Singapore, che ha fondato un sistema di sostegno alla maternità e all’infanzia tra i più evoluti del mondo, la crescita demografica è stata appena dell’1% [6]. Vi è poi chi, soprattutto dietro la spinta dei settori economici più penalizzati dalla mancanza di manodopera, propende per una riconsiderazione del migrante definito economico in tutta una seria di attività che nel nostro Paese, come in altri nel mondo occidentale più avanzato, i residenti non intendono più svolgere, proponendo pertanto un approccio più realistico e flessibile al fenomeno immigratorio. Anche questa soluzione costituisce oggetto di rinnovato interesse, alla luce anche di quanto fanno gli altri Paesi europei, segnatamente la Germania e la Francia, che stanno riuscendo a superare le pregiudiziali razziste della parte più conservatrice del loro elettorato. Tuttavia, anche da questo punto di vista non mancano i limiti, dovuti soprattutto al fatto che le disponibilità di giovani nel mondo non è eterna, soprattutto se si parla delle competenze e professionalità necessarie, perché già alla metà di questo secolo se ne dovrebbe avvertire la carenza [7].

Un’altra soluzione è quella proposta da chi vorrebbe fermare e convogliare nel Paese le risorse giovanili che cercano sbocco all’estero, ossia le intelligenze cosiddette fluide opposte a quelle cristallizzate delle persone più avanti negli anni, ma anche qui se non si recupera terreno in termini di competitività e di attrattività del sistema Italia, a tacere del radicamento che potrebbe avere realizzato nel frattempo qualcuno nel nuovo Paese di accoglienza (coniuge e figli), è difficile attendersi le risposte sperate. In questo ventaglio di proposte e di soluzioni, tutte egualmente importanti e complementari, va inserita la possibilità di attrarre i discendenti dei previ migranti italiani nel mondo, la cui proposta in termini di percorribilità si segnala sia per l’immediata utilizzazione di soggetti, giovani e giovani adulti, che si trovano già in età lavorativa sia per il dato culturale che, a prescindere dalla competenza linguistica, dovrebbe essere largamente presente nel Dna degli eventuali candidati.

Aspetto quest’ultimo autorevolmente confermato dagli studi di Maddalena Tirabassi sulla penetrazione della cultura e della lingua italiana nelle seconde generazioni di emigranti con un fil rouge che spesso parte dai nonni che stanno in Italia e si rafforza all’estero nelle frequentazioni sociali, scolastiche e familiari [8]. Dalle informazioni e dalle osservazioni anche da noi effettuate non ci sembra mancare la disponibilità di tanti giovani discendenti degli emigrati italiani a ripercorrere all’inverso la strada dei propri antenati, che sotto il profilo quantitativo si stimano raggiungere, accanto ai sei milioni di cittadini del nostro Paese residenti all’estero (inclusi gli ultimi expat), circa ottanta milioni di persone. Appare strategica proprio la componente giovanile dell’America latina centrale e caraibica, che presenta oltretutto un livello di scolarizzazione abbastanza elevato e una forte influenza culturale italiana. In questo modo sarebbe a disposizione una soluzione in grado di tranquillizzare anche chi teme che l’ingresso di stranieri nel nostro Paese ne possa in qualche modo stravolgere i fondamenti etici e culturali.

Tuttavia, visto in termini generali, cioè a prescindere dalle aree geografiche, il problema dell’immissione in Italia dei discendenti degli italiani emigrati (o dei più recenti giovani expat che intendessero rientrare), cela non poche difficoltà sul piano pratico e, che in qualche misura spiegano storicamente proprio la scarsa affluenza dell’elemento latino americano nel nostro Paese ­­– su un 9,5% dell’influenza complessiva dell’immigrazione dell’America centro meridionale in Italia il 15% sarebbe peruviana, seguita da ecuadoriani e brasiliani [9] –, ossia un rientro che non rispecchia quantitativamente la consistenza della nostra emigrazione in quell’area, situata prevalentemente in Argentina e in Brasile. Tutti problemi che ora passiamo in rassegna e che si possono tenere presenti e risolvere solo in parte in un’apposita legge di settore (nel senso che da qualche parte si dovrebbero allentare i cordoni della borsa per rendere meno dispendiosi i trasferimenti).

Dunque, per rendere concrete queste politiche, limiti economici si sommano ad altri di tipo giuridico. Rispetto ai primi, poiché parliamo essenzialmente di giovani, vanno messi nel conto i limiti di attrattività economico-retributiva, oltre che di organizzazione del lavoro, del nostro Paese, ostacolo che incontra anche chi è uscito di recente, nell’ambito non solo della cosiddetta “fuga dei cervelli” ma anche di professioni e mestieri più comuni ma carenti in molte economie avanzate anche dell’Europa e che attirano non pochi dei nostri artigiani che, a partire da lavori che magari non accetterebbero in Italia, si rendono disponibili nella convinzione di riuscire a procedere meglio nella scala sociale.

La conclusione realistica è che, fintanto che il problema non verrà risolto in modo sistemico almeno in quei campi in cui maggiormente si fa sentire la concorrenza internazionale, segnatamente quelli scientifici e della ricerca, occorrerà concentrarsi sulle generazioni di migranti successive alla prima su cui l’attrattività generale del nostro Paese risulta essere più elevata. Ci riferiamo ancora all’America Latina in cui a fronte di una grande realtà giovanile caratterizzata, come si è detto, da un discreto livello di istruzione non corrisponde un sistema di retribuzioni e di posizioni sociali adeguate rendendo così l’Italia, pur con tutti i suoi limiti, infinitamente più appetibile. Ma non è escluso che anche da altre parti del pianeta esista ancora chi sia disposto a ridare per la seconda volta fiducia al Paese di origini, giacché è assodato non solo storicamente ma anche sociologicamente che a una fase di residenza in un Paese straniero, per nostalgia e per altre ragioni e molte volte prima dell’età pensionistica, sorge il desiderio di rientrare nella terra di origine.

copertina-la-diasporaIl secondo problema è di natura essenzialmente giuridica e amministrativa, come ha dimostrato il fallimento delle opportunità offerte dalle recenti legislazioni del 2010 frustrate dalle ambiguità delle agevolazioni fiscali in esse contenute e poi riproposte in chiave più aggiornata nel 2020 quando ormai i buoi erano scappati dalla stalla [10]. Più in generale, quindi, occorre fare in modo che si possa entrare e circolare in Italia senza sentire sulla testa la spada di Damocle dell’espulsione per la marca da bollo messa male o lo sportello chiuso per la festività del patrono locale. Perché ciò sia possibile è indispensabile procedere con le dovute semplificazioni, operazione in cui oggi non si è più soli giacché sono già in atto tendenze politiche e culturali che avvertono come l’inadeguatezza del sistema amministrativo frustri ogni volontà di cambiamento. Come tutti sanno tra le condizioni per procedere col Pnrr vi è proprio la riforma burocratica, ma poiché questa non potrà avere i tempi brevi del Piano trascinandosi ritardi quasi secolari è ragionevole auspicare che, se si vogliono raggiungere un minimo di obiettivi in tempi accettabili, occorre muoversi in questa direzione immediatamente, a incominciare da tutte le iniziative legislative che si intende varare [11].

In questo senso agirebbe da calmiere l’istituzione di un visto permanente per queste categorie di entranti, che possa essere attrattivo e acquisibile senza altre preoccupazioni che non siano di efficienza e di giustizia vera. Sarebbe ingiusto non riconoscere all’attuale legislazione dello Stato, quella che è regolamentata dal T.U. 286/1998 e successive modificazioni, un orientamento favorevole alla permanenza senza limiti nel territorio di chi cittadino non è. Questo corpo di disposizioni, e nel cui solco per maggiore speditezza non sarebbe inopportuno incanalare le relative proposte, in realtà individua una decina di possibilità di entrare e vivere in Italia con un visto a tempo indeterminato – tra questi diplomatici, ecclesiastici, imprenditori, professionisti, lavoratori, studenti, ricercatori, persone in condizione di autosufficienza economica. Tra di essi vi sono i “soggiornanti di lungo periodo” che sono esentati dall’obbligo di rinnovo e dalla dimostrazione ulteriore dei requisiti necessari per mantenerlo.

Ma il problema è che tutto ciò spesso può essere ottenuto solo in cambio di sevizie burocratiche, messe in atto nel nostro Paese con tutta una serie di condizionamenti e procedimenti amministrativi nascosti dietro articoli di legge e relativi commi e che, anche nei casi presentati sopra come passi in avanti verso la semplicità dei rapporti con l’amministrazione statale, funzionano all’atto pratico ancora come inaccettabili appesantimenti delle procedure. Infatti, se si tratta di un sistema difficilmente comprensibile per chi vive in Italia, lo diviene ancora di più per chi risiede all’estero che in certi comportamenti ravvisa solo tratti di violenza istituzionale o pretesti per favorire abusi e favoritismi. 

Questo limite era percepito chiaramente, per esempio, da chi era costretto a fare code interminabili nei consolati italiani per la pratica della cittadinanza – celebri quelle a Buenos Aires che iniziavano la notte precedente, per poi magari dover rifarla un altro giorno perché il documento presentato non era “regolare” – dove tutt’oggi si segnalano anche richieste indebite di somme di denaro le cui denunce, per timore di ritorsioni, difficilmente varcano la soglia delle associazioni degli italiani nel mondo o dei rappresentanti eletti in Parlamento. Le cose non migliorano quando si arriva in Italia e si è costretti a mettersi nelle mani degli uffici di frontiera, laddove, a conferma di come certi apparati funzionino in ultima analisi solo da collo di bottiglia, oggi le questure italiane paiono essere indietro quasi al quaranta per cento nella concessione dei visti di ingresso agli stranieri [12] e, come sanno tutti gli italiani, gli stessi uffici non appaiono neanche all’altezza di sbrigare i passaporti in tempi ragionevoli. Troppe volte chi sta in ascolto del mondo degli italiani all’estero deve raccogliere queste lamentele senza potere fare nulla perché si trova davanti ai muri di gomma delle istituzioni preposte.

giovani-adulti-e-anziani-della-diaspora-italiana-in-europa-2020-1024x512Per questo motivo, anche lungo la scia delle tendenze semplificatrici e delle pionieristiche sperimentazioni del sistema amministrativo nel suo complesso,  si potrebbe fare in modo che il visto di ingresso nel Paese per le categorie che indichiamo beneficiarie di una eventuale legge in materia, dopo il quinquennio previsto, pur mantenendo le procedure attuali (art. 5 del DPR 394/1999), vale a dire attraverso le strutture periferiche dello Stato all’estero, possa essere tramutato alla scadenza in visto permanente direttamente presso il comune di residenza, che provvederà ad aggiornarlo ogni cinque anni come per gli altri documenti di identità, collegandosi eventualmente esso con le strutture del ministero degli interni competenti, senza porre in alcun modo tale adempimento a carico dell’utente.

A questa concessione si collegherà tutto il complesso di diritti e di eventuali interessi legittimi degni di tutela così come già previsto per chi non è cittadino italiano dall’art 2, commi 4 e 5 del Decreto legislativo 25 luglio 1998 n. 286. Egualmente sarà opportuno far cadere l’obbligo di presentarsi in questura per il suo rinnovo in quanto assolutamente pleonastico giacché la ratio di questa procedura si basa sulla giustificazione di impedire la presenza nel nostro Paese di persone che vivono nell’illegalità, ignorando che sono eventualmente sufficienti le disposizioni di legge vigenti per tutti i cittadini italiani che se delinquono vengono processati e reclusi e, se stranieri, eventualmente rimpatriati o estradati. Per giunta si segnala che, a controllare il corretto comportamento della popolazione straniera nel nostro Paese, in tutti i casi sono sufficienti le vigenti disposizioni (art. 5, commi 5 e 6 del DPR 286/1998) che pongono a carico delle questure la vigilanza e la potestà di intervenire, con la possibilità di revocare eventuali permessi di soggiorno. Infine, poiché un progetto di legge avanzato possa idealmente abbracciare non solo il maggior numero possibile di soggetti interessati e favorirne la circolazione nel nostro Paese, ma anche funzionare concretamente come solidarietà nei confronti degli italiani e dei loro discendenti che si trovino in Paesi colpiti da crisi endemiche, sarebbe opportuno che  tutti i beneficiari di una eventuale disposizione di legge a loro favore fossero ammessi anche al di fuori delle “quote” previste dagli artt. 21 e 22 dello stesso T.U. e dagli artt. 29, 34 commi 7,8 e 10, e 40, comma 1, del DPR 394/1999.

Come si è detto, conforta che la legislazione italiana e la politica nazionale da qualche tempo stiano cercando di superare i vecchi steccati burocratici mettendosi al passo con gli altri Paesi europei, e per ciò che ci riguarda per comunanza di platea migratoria in America latina, segnatamente la Spagna e il Portogallo che con leggi recenti hanno allargato le maglie della cittadinanza, la prima estendendola a tutti gli spagnoli usciti a causa della guerra civile e del regime franchista e il secondo con la concessione di un visto che parte da un anno di validità alle comunità dei Paesi di lingua portoghese, in primo luogo brasiliani [13].

Ma non minori sono le aperture ai migranti di altri Paesi come la Germania e la Polonia che con facilitazioni, siti internet e promozione anche all’estero si misurano anch’essi con molto realismo in soluzioni ai problemi dell’invecchiamento della popolazione e della denatalità in funzione di un maggiore dinamismo economico. Ponendosi in questa direzione anche l’Italia ha previsto un procedimento semplificato a favore delle Start up di iniziativa extraeuropea con la legge del 17.12.2012 n. 221 che consente, dal 2014, di avviare le procedure per l’ottenimento del visto e del permesso di soggiorno direttamente presso il ministero dello sviluppo economico. La tendenza a procedere in modo più agile è stata confermata nella legge di bilancio 2017 art. 27 bis che concede visto e permesso di soggiorno agli investitori extraeuropei. Ma anche il recente Decreto legge 27.1.2022 all’art. 27 comma 1 sexties prevede una concessione del visto egualmente più rapida ai cosiddetti “nomadi digitali” extraeuropei. Da ultimo vi è il cosiddetto decreto Cutro, del 10.3.2023 n. 20, che sostiene attività formative professionali e di lingua e cultura italiana all’estero da parte di imprese aderenti ad associazioni professionali con percorsi che si dovrebbero concludere con la concessione di visti di ingresso in Italia in qualunque momento e al di fuori dei decreti flussi. Come si vede la tendenza nel nostro Paese è già in atto e a questa occorre raccordarsi. 

rim-2022Un altro problema sempre attinente alla semplificazione e per andare incontro a chi chiede di rientrare con titoli riconosciuti dallo Stato italiano, è la proposta di potere dimostrare esclusivamente sul piano documentale e in tempi certi il possesso dei requisiti di accesso funzionali all’obiettivo non solo che chi entra in Italia non debba incontrare eccessivi problemi di inserimento e di socializzazione (leggasi le necessarie conoscenze linguistiche), ma anche al possesso delle necessarie competenze lavorative. In questo senso, posto che sarà opportuno promuovere corsi di formazione professionale e di conoscenza linguistica e culturale per fronteggiare le domande di ingresso, chi è in grado di dimostrare il possesso dei relativi requisiti dovrebbe munirsi semplicemente di un’attestazione da parte di istituti di cultura italiana all’estero, università italiane con sedi all’estero, istituzioni artistiche sportive e culturali che svolgano attività internazionale come pure le camere di commercio italiane che operano all’estero o uffici commerciali delle ambasciate per gli imprenditori e i professionisti. 

Un’ulteriore possibilità è quella di rilasciare i visti per persone il cui possesso dei requisiti sia “di chiara fama”. Queste attestazioni sono del resto abbastanza coerenti con l’attuale normativa, che prevede il possesso di un’idonea formazione già all’art. 34, comma 1 del DPR 394/1999 in attuazione delle più generali disposizioni dell’“accordo di integrazione” degli artt. 4 bis,22, comma 15, e 23 del T.U. 286/19981, su cui tuttavia è necessario innestare altre semplificazioni. Infatti, coerenza e ragionevolezza vorrebbero che la dimostrazione dei requisiti avvenga attraverso una certificazione che queste istituzioni possano rilasciare esclusivamente sulla base di attestazioni e di documentazioni (per fare esempio, un giornalista che notoriamente scrive in italiano per un giornale italiano all’estero, allegata la documentazione necessaria, non dovrà esibire oralmente a nessuno la conoscenza della lingua italiana come pure potrà essere esentato un cantante lirico che, egualmente si sa, per il fatto di svolgere questa attività non può lavorare se non conosce la lingua italiana, o il “dantista” di un’università americana e via di seguito).

Per sveltire i procedimenti nelle istituzioni che devono concedere le attestazioni la proposta del Comitato 11 ottobre è che a questo adempimento non dovrebbe essere concesso un tempo superiore ai sessanta giorni, e a un analogo termine sarebbe opportuno che si debbano attenere i consolati per il rilascio del visto di propria competenza. In caso contrario, in ogni fase procedimentale, dovrebbe scattare l’istituto del silenzio-assenso. Insomma, alcun dipendente pubblico o recessi dello Stato profondo dovranno essere più incoraggiati a opporre inerzie o cavilli in atti e in procedimenti a chi viene nel nostro Paese posto che la ripresa e il futuro di questo costituiscono obiettivi di prevalente interesse pubblico. Ma il lavoro sarebbe a metà se non si prevedesse di presentare attestazioni, dichiarazioni e documenti, inclusi quelli di riconoscimento dei titoli professionali e accademici, in un certo modo. Da un lato, per chi fa parte dell’Unione Europea, ci si dovrebbe attenere alle lingue ufficiali e di lavoro dell’Unione così come stabilito dal Regolamento Comunitario del 1958, art. 1, rispetto alle quali sarà onere degli uffici pubblici uniformarsi, operazioni oggi più accessibili grazie anche agli strumenti informatici; viceversa per i Paesi extraeuropei i documenti potranno essere presentati, oltre che in lingua italiana, in inglese, spagnolo, portoghese e francese, ossia le lingue prevalenti dei Paesi in cui è diffusa la nostra emigrazione (America latina e settentrionale, Canada, Australia e Africa).

È superfluo sottolineare che il meccanismo dei visti garantisce solo la circolazione sul territorio nazionale, mentre per recarsi in altri Paesi o dell’Unione Europea o altrove l’interessato dovrà partire dalle condizioni garantite dalle rispettive cittadinanze. La proposta di legge non dovrebbe prevedere ulteriori passaggi procedurali in caso di diniego di certificazioni e concessioni di visti, che potrebbero appesantire soltanto i procedimenti, ritenendo che la materia trovi una sufficiente regolazione sistemica, anche nel T.U. del 1998, attraverso i ricorsi gerarchici e le impugnazioni presso i giudici amministrativi e quelli ordinari.

Riassumendo si può individuare schematicamente la platea e gli obiettivi dei beneficiari di un’eventuale legge per circoscrivere meglio l’interesse pubblico collegato. In primo luogo, si tratta di cittadini di uno Stato extraeuropeo (sappiamo che la cittadinanza europea contiene in nuce già queste possibilità) che abbiano interesse a frequentare il nostro Paese non solo come artisti, studiosi o turisti, ma anche stabilirsi permanentemente o occasionalmente come imprenditori e professionisti senza che ogni volta per entrare debbano assoggettarsi a pratiche burocratiche. Il principio, in qualche modo innovativo, è che si può essere italiani non solo per nascita o per sangue ma, di fatto, anche per appartenenza culturale. Questa opportunità è chiaramente rivolta ai più giovani che pianifichino di fermarsi in modo permanente nel Paese, ponendoci anche con questo istituto all’altezza dei Paesi più avanzati che, dal Pacifico all’Atlantico, mettono da tempo in campo politiche fortemente competitive di circolazione e di attrazione di cervelli e di manodopera.

La seconda categoria è quella dei discendenti degli italiani a suo tempo emigrati all’estero che non abbiano ottenuto la cittadinanza italiana (e che verosimilmente se ne hanno i requisiti potranno richiederla più comodamente in Italia). Con estremo realismo si potrebbe fare leva su una fascia di popolazione che, considerati i limiti del visto, sia costretta in qualche modo a risiedere nel territorio nazionale e non, come capita a chi ha la cittadinanza italiana, a fermarsi nei Paesi di area spagnola e portoghese, per ragioni di maggiore competenza linguistica o procedere poi più avanti, magari nel Nord Europa. Ma anche questo è un risultato che si può ottenere direttamente e all’inverso incrociando le agevolazioni di una eventuale legge italiana a quelle già approvare da quei Paesi. Infatti, le recenti normative spagnole e portoghesi, per esempio, enfatizzano che attraverso esse si ottiene anche quella europea che consente di trasferirsi sul resto del territorio dell’Unione. E così una politica mirata e di collaborazione in Europa, posto che in ultima analisi anche in questo caso si tratta di flussi migratori, potrebbe servire ad attrarre e selezionare meglio altre fasce di giovani, non necessariamente di origine italiana e senza bisogno di eccessivi adempimenti, facendo così cadere indirettamente la distinzione tra migrazioni primarie e secondarie che oggi sembrano ossessionare i governi europei.

giovaniemi_57432000Una legge con maglie siffatte non dovrebbe porre limiti di età per l’ingresso e le opportunità si estenderebbero anche al caso in cui l’interessato avesse nelle proprie origini qualche ascendente italiano, cosa non infrequente, per effetto della quale si potrebbero prevedere apposite agevolazioni fiscali. Un implicito allargamento si avrebbe anche a favore di eventuali minoranze di emigrati anziani che godono di pensioni italiane che potrebbero stabilirsi nel nostro Paese garantendo la tranquillità economica ai familiari più giovani che accettassero di seguirli. Analoga agevolazione e per lo stesso periodo si potrebbe estendere al nucleo familiare dei cittadini italiani residenti e non all’estero, ma colà per ragioni di studio, di lavoro o familiari, che rientrino in Italia per svolgere un’attività lavorativa o professionale continuativa. Il presente beneficio, che si potrebbe cumulare con altri di natura fiscale eventualmente dovuti, si potrebbe riservare alla sola famiglia del rientrante, propria o di origine, in modo da porsi in linea con altri Paesi europei come la Germania, per esempio, che non solo cerca di rendere più attrattive le proprie retribuzioni ma anche di agevolare lo spostamento dell’eventuale nucleo familiare al seguito.

Facendo perno sulla leva fiscale, indirettamente la proposta può estendersi anche a chi, essendo cittadino italiano, intendesse rientrare in Italia da qualsiasi parte del mondo, ma che non ne avesse le condizioni materiali. In questa fattispecie potranno rientrare non pochi discendenti di emigranti che, pur essendo in possesso della cittadinanza italiana, non hanno le possibilità materiali di trasferirsi nel nostro Paese perché, per ipotesi, non hanno più parenti che li possano ospitare in attesa del completamento degli studi o della ricerca di un lavoro per cui hanno bisogno di un periodo di ambientamento. Possono rientrare in questa platea anche eventuali emigranti, non necessariamente giovani, che fossero nelle condizioni materiali di farlo, sia pure in pensione, e che riuscissero a ospitare un giovane rientrante nelle categorie qui previste. In astratto la norma, sia pure senza specificarlo direttamente, potrebbe favorire il rientro anche di giovani cosiddetti expat, ossia le ultime generazioni di fuoriusciti che avessero qualche genere di difficoltà (e sappiamo che non tutti hanno avuto sempre la stessa fortuna) a riambientarsi nel Paese di origine.

Coerentemente con il dettato costituzionale che delinea uno Stato regionalista, se compito dell’apparato centrale è quello di regolare i flussi dall’esterno all’interno, spetta più opportunamente alle regioni e agli enti locali di seguirne le ricadute sui rispettivi territori. In questa direzione incominciano a muoversi le regioni, alcune come l’Emilia Romagna con la legge che stimola e regola l’insediamento di giovani che rientrano o, che stranieri, intendono operare sul territorio regionale, altre come il Molise che prevedono la corresponsione di un piccolo reddito a chi intende inserirsi nel territorio mentre altre ancora come la Sicilia e la Sardegna facilitano l’acquisto di case da parte di stranieri finalizzate ad attività produttive. Le aspettative e i fermenti ci sono, dunque, ma perché alle buone volontà seguano le realizzazioni è necessario garantire gli ingressi ed è per questo che è fondamentale coinvolgere le regioni nella programmazione degli interventi in modo da assicurare omogeneità di indirizzo sia pure nel rispetto delle specificità locali e soprattutto a mettere in comune esperienze e conoscenze. Va da sé, infatti, che se le amministrazioni locali possono contare su chi potenzialmente può insediarsi nel proprio territorio, possiedono strumenti legislativi e finanziari per organizzare corsi di formazione professionale, supportare attività economiche, condurre campagne promozionali del proprio territorio, ecc. Si tratta in ultima analisi di interventi che, quasi a cascata, potranno andare a vantaggio degli enti locali che, indicati dalla presente proposta come titolari delle operazioni amministrative di insediamento dei nuovi arrivati, avranno non solo il polso del fenomeno ma potranno aiutare le rispettive regioni a incanalare le risorse nelle direzioni giuste.

2000_1451Più in generale andrebbe chiarito che la gestione di un aspetto così delicato dei flussi migratori andrebbe meglio affidato a strutture e soggetti adeguatamente preparati e motivati che più facilmente si possono trovare in altri ambiti delle strutture pubbliche piuttosto che in quelli che attualmente ne hanno la competenza. Chiunque troverebbe paradossale, credo, che la sanità dei cittadini fosse affidata a del personale la cui massima aspirazione fosse di vedere i pazienti dentro una bara o la cura del patrimonio forestale a dei piromani. Eppure, nella materia che trattiamo pare che troppo spesso avvenga proprio così.

Infine, un ruolo dovrà essere assegnato all’associazionismo, peraltro non trascurato neanche dal T.U. sull’Immigrazione nella misura in cui è ipotizzabile che possano assistere chi entra nel nostro Paese. Inoltre, possono rivelarsi utili sia sotto l’aspetto della promozione delle iniziative collegate al rientro in Italia sia dal punto di vista dell’assistenza e della consulenza in fase di richiesta di visti e della relativa informazione. Ma ancora di più potranno rivelarsi utili, soprattutto quelle di secondo livello (ossia che organizzano più associazioni locali), se saranno disponibili a curare la preparazione culturale e linguistica di chi aspira a entrare in Italia.

In conclusione, per prima cosa è indispensabile innalzare a interesse pubblico l’operazione di ripopolamento e ringiovanimento del Paese e, per conseguenza, facilitare l’ingresso a chi intenda entrare in questa logica, abbandonando tutte le cautele burocratiche e tutti quegli istituti che oggi appesantiscono la gestione dei flussi migratori non rendendoci troppo dissimili da tanti Paesi che critichiamo per il trattamento che riservano a chi aspira a uscire. E, last but not least, ciò non dimenticando che gli studi più autorevoli attribuiscono al movimento migratorio internazionale, se favorito, la capacità di raddoppiare la ricchezza mondiale. 

Dialoghi Mediterranei, n.62, luglio 2023
Note
[1] Bassetti, P. (2015), Svegliamoci italici. Manifesto per un futuro glocal, Marsilio, Venezia, dove sono esposte le tesi del movimento che fa capo appunto al corifeo del movimento.
[2] Cfr. sul tema Giumelli, R. (2019), Post-Made in Italy. Nuovi significati, nuove sfide nella società globale, Edizioni Altravista, Broni (PV): 87 ss.
[3] Marchetti, R.,Italici, cioè iper italiani in “Corriere della sera” del 05.05.2023.
[4] Cfr.  Ageing and innovation. The old and the zestless in “The Economist” June 3rd 2023, in cui si paventano I rischi dell’invecchiamento in atto nel mondo che comporterà non solo problemi di aumento della tassazione (in funzione welfare e per diminuzione di contribuenti), ma anche di indebolimento dell’attività produttiva dovuto alla carenza di giovani descritti dall’ “intelligenza fluida”.
[5] Cfr. Aledda, A. (2018), Gli italiani nel mondo e le istituzioni pubbliche, Franco Angeli, Milano: 27 ss.
[6] Cfr. “The Economist” cit.
[7] Ibidem, Tle old and the zestless: 17, in cui tra l’altro si afferma che solo l’Africa sub sahariana funzionerà come un serbatoio senza limiti di età e di periodi.
[8] Cfr. Tirabassi, M. (2021), Second Generation Italics. Introduzione in “Altreitalie. International Journal of Studies on Italian Migration in the Worlds” 63/2021, che con un approccio “italico” esplora con storie di vite I percorsi di affermazione della lingua e cultura italiana nelle ultime generazioni di emigranti.
[9] Cfr. Di Sciullo, L. (2023), I soggiornanti non comunitari a inizio 2023 in “Dossier Statistico Immigrazione 2022”, Idos, Roma, che conferma trattarsi di una popolazione molto giovane, del 30,9% tra i 18-29 anni / e ben tre su cinque celibi), di cui 340.000 proviene dall’America centro-meridionale
[10] Nella pratica capitò che la legge finanziaria del 2010 avesse offerto agevolazioni fiscali a chi rientrava in Italia nel mondo universitario, della ricerca e del management. A rientri avvenuti una circolare del Direttore dell’Agenzia delle Entrate stabilì che non ne avesse diritto chi non era iscritto all’Aire, requisito peraltro non stabilito in legge, richiedendo indietro le somme percepite. Conseguenza fu il caos amministrativo e il montare di diverse cause presso i tribunali che la stampa nazionale non omise di stigmatizzare. A questa situazione si volle porre rimedio con la finanziaria di dieci anni dopo, 2020, stabilendo anche che non era necessaria iscrizione all’Aire anche per i beneficiari della disposizione legislativa precedente. Intervento tardivo, perché nel frattempo la gran parte aveva ripreso la via dell’estero e nessuno dei nuovi si fidava più del nostro Paese.
[11] Si veda il mio articolo in questa rivista al numero 61, Fenomenologia della burocrazia. Pressioni e oppressioni, in cui attribuisco al modo di confezionare le leggi la prima responsabilità degli ingorghi e ingiustizie burocratiche.
[12] Cfr. Gaffori, L. (2023), Le politiche di ingresso e i visti rilasciati nel 2021 in “Dossier Statistico Immigrazione 2022” Idos: 109, in cui precisa che sul totale delle domande esaminate per la concessione del visto solo il 62% sarebbe evaso.
[13] La Spagna ha allargato le maglie della cittadinanza a tutti i discendenti di emigrati spagnoli che siano espatriati a seguito della Guerra Civile, mentre il Portogallo ha stabilito un’autorizzazione automatica di residenza, inizialmente di un anno, con il nuovo regime di ingresso nel paese degli immigranti dai paesi di lingua portoghese.

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Aldo Aledda, studioso dell’emigrazione italiana con un’ampia esperienza istituzionale (coordinamento regioni italiane e cabina di regia della prima conferenza Stato-regioni e Province Autonome -CGIE), attualmente è Coordinatore del Comitato 11 ottobre d’Iniziativa per gli italiani nel mondo. Il suo ultimo libro sull’argomento è Gli italiani nel mondo e le istituzioni pubbliche (Angeli, 2016). Da attento analista del fenomeno sportivo ha pubblicato numerosi saggi e una decina di libri (tra cui Sport. Storia politica e sociale e Sport in Usa. Dal big Game al big Business, finalisti premio Bancarella e vincitori Premio letterario CONI); ha insegnato Storia all’Isef di Cagliari e nelle facoltà di Scienze motorie a Cagliari, Roma e Mar del Plata in Argentina. L’autore è stato anche un dirigente della pubblica amministrazione con compiti prevalentemente di formazione, studio, analisi e progettazione normativa. Ha scritto, tra l’altro, Anatomia di una pubblica amministrazione (2013) in cui analizza i meccanismi decisori e la mentalità delle pubbliche amministrazioni.

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