Per spiegare il mistero della materia, [l’alchimista] proiettava un altro mistero, e precisamente il proprio retroscena psichico sconosciuto, su ciò che doveva essere spiegato: “Obscurum per obscurious, ignotum per ignotius”. C. G. Jung
Nell’opera di Puccini si riconosce una fra le più vitali esperienze del nostro teatro d’opera. Anche per questo l’opera del Maestro è stata letta nei modi più diversi e ha dato voce alle discussioni più appassionate, tra entusiasmi senza riserve e netti rifiuti. Uno dei motivi del fascino pucciniano risiede nel legame tra vita interiore dell’artista e le “creature” originate dalla sua fantasia. Il bisogno di guardare più a fondo l’animo umano, di svelarne i misteri traducendoli in termini artistici, che caratterizza gli artisti della fin de siècle, si conciliava con la tendenza, indubbiamente inconsapevole, di Puccini a proiettare nelle sue protagoniste quelle parti di sé che non fosse ancora riuscito ad accettare come proprie e ad integrare in una personalità più equilibrata.
Anna, Fidelia e Tigrana, Manon, Suor Angelica, Giorgetta, Mimì, Musetta, Tosca, Liù, Turandot vivono passioni distruttive e pagano la colpa con la morte o con indicibili sofferenze. Anche loro, come il Maestro, non conoscono misure, vivono sentimenti intensi e sinceri, combattono le convenzioni di una vita “normale”, cioè entro le norme, ma non raggiungono mai la felicità, fatta eccezione per Turandot. I profili psicologici che emergono dalle opere pucciniane sono rappresentativi di un’evidente incoerenza. La vita per loro è un «peso insopportabile», come per Puccini:
«Sono qui solo e triste! Tu sapessi le sofferenze mie! […] Sono un temperamento molto diverso da tanti! Solo io mi comprendo e mi addoloro; ma è continuo dolore il mio, non mi dà pace. […] La mia vita è un mare di tristezza, e mi ci fisso! Mi sembra di non essere amato da nessuno: capisci, da nessuno, e dire che tanti mi dicono un uomo invidiabile! […] Faccio quattro note perché devo, e trascorro il mio tempo in un’atmosfera delle più nere» [1] .
La personalità di Puccini era complessa, molto più di quanto non si deduca dalla descrizione dei suoi numerosi biografi. Il Maestro stesso ne era consapevole come si può facilmente desumere dalle lettere [2], ricche di spunti per la comprensione di una psiche fortemente ambivalente. Irresistibile, gentile, modesto, dai modi semplici e affettuosi; in compagnia dei più intimi, abbandonato il contegno abituale, «ridiventava quel ragazzo che sempre sopravvisse in un angolo nascosto della sua personalità». In gioventù era conosciuto per il gusto degli scherzi e per l’allegria che spesso sfociava nel linguaggio scurrile e nella volgarità. Divenuto con il successo elegante, impeccabile, conservò intatto l’amore per la coprolalia e la bestemmia. Eppure a questi tratti di estroversione si accompagnavano una sorprendente timidezza, una sensibilità femminea, un’estrema vulnerabilità (Carner, 1961: 237-238) [3]. Al di là dei modi, a volte eccessivi, Puccini era tormentato da un profondo sentimento di insicurezza che lo induceva a sospettare di chiunque. Incapace di accettare critiche, dipendeva dal giudizio di quanti lo circondavano. A causa della sua fragilità, cercava continue conferme alle proprie capacità, esigendo attenzione e sottomissione.
Sensibile ai cambiamenti stagionali, al parere dei giornali, al dolore fisico, la sua sensibilità si trasformò presto in patologia. Rischiò infatti di divenire ipocondriaco; con il passare del tempo la preoccupazione di ammalarsi o di morire divenne un’ossessione [4]. Alla continua ricerca di un porto sicuro, Puccini trascorse l’intera vita fuggendo da e ritornando a Lucca. Difatti, il tentativo di raggiungere un’autonomia psichica, più che economica, dalla famiglia non giunse mai a compimento. Ne sono prova le crisi nostalgiche, il rimpianto dei cibi di Lucca (di cui troviamo numerose testimonianze nelle lettere scritte a propri cari), i continui ritorni nonché il forte attaccamento al nucleo originario anche in età adulta (Casini, 1978: 16-39).
Non è improprio ritenere che la sfiducia esistenziale del compositore abbia avuto origine all’interno di un contesto di crescita che risentì fortemente della morte del padre. La perdita della figura paterna comportò, probabilmente, per Puccini l’assunzione di un ruolo rispetto al quale la giovane età lo coglieva impreparato. E non è da trascurare il fatto che egli crebbe circondato da donne (la madre e le cinque sorelle) molto tenaci, cui i biografi hanno attribuito una determinazione e un’intraprendenza caratteristiche del tradizionale stereotipo maschile. L’impossibilità di fare affidamento su un capofamiglia uomo potrebbe avere facilitato, in Puccini bambino, manifesti scompensi affettivi. È ipotizzabile che ciò lo inducesse a stabilire con le donne un legame di dipendenza, al cui interno un normale processo di individuazione e d’autonomia incontrasse molte difficoltà.
Nei confronti della madre egli provò «tenerezza e paura, devozione e (ripeto) paura»[5]. Puccini percepì, probabilmente, tanto l’affetto quanto il vincolo che quel legame comportava a causa della sua dipendenza e fragilità. Significativo il fatto che, dopo la morte della madre, sentì il bisogno di ripristinare un rapporto con una donna altrettanto forte, capace di trasmettergli quel senso di sicurezza e stabilità di cui era privo. Fuggì, perciò, con Elvira Gemignani, moglie di un suo amico, al cui fianco rimase nonostante l’infelicità dell’unione [6] .
È possibile rilevare in tutti i rapporti significativi vissuti dall’artista una tendenza costante ad assumere una posizione di subalternità e di bisogno dell’Altro. Sulla base dei più elementari insegnamenti della psicologia, si può assumere che Giacomo provasse per le persone con le quali avviò legami profondi sentimenti di amore e di odio, a causa dei quali la gratitudine si alternava all’aggressività. Un’ambivalenza che gli pesava gravemente perché fonte di una lacerazione che generava in lui una scissione insanabile tra le parti di sé considerate “buone” e quelle giudicate “cattive”. Del resto, il processo di maturazione subì da un lato un’accelerazione dovuta alle deprivazioni, dall’altro un ritardo, a causa delle particolari condizioni familiari. Puccini rimase, in fondo, infantile in molte sue manifestazioni. Insoddisfatto in amore, nel lavoro: freneticamente alla ricerca di personaggi attraverso cui dare nuova vita al proprio dolore, egli appare in balìa di un tormento insostenibile.
«Puccini non riuscì a liberarsi delle proprie ansie in nessun modo» [7]. Egli rimase perennemente combattuto tra l’aspirazione a una vita di lusso, fama e apparenza e un’esistenza semplice, fatta di piccole cose, vissuta nell’isolamento di Torre del Lago [8]. Amante delle compagnie chiassose e volgari, del gioco e dello scherzo, e insieme solitario, timido, «la sua reazione istintiva di fronte al più piccolo ostacolo nella vita privata – ma molto meno in quella passionale – era quella della lumaca che si ritira nel guscio al più piccolo contatto con l’esterno» (Carner, 1961: 238). Instancabile donnaiolo, disponibile alle avventure e ai sotterfugi, ma intimamente desideroso di un rapporto stabile, appagante e sereno, come si può desumere dal tono con cui si duole delle ripetute incomprensioni coniugali nelle lettere alla moglie Elvira.
Fin dalla giovinezza, del resto, egli fu vittima di una ciclicità di umori che gli rendeva impossibile raggiungere un equilibrio. Alcuni critici, come F. Fornari [9], gli hanno attribuito un profilo nettamente nevrotico; altri si esprimono diversamente. «Sembra appartenere a quella schiera di persone che, disinvolte e allegre, sono segnate da un loro segreto ma non se ne accorgono o, addirittura, felicemente lo accantonano se se ne accorgono» (Siciliano, 1976: 17). Si può solo parzialmente condividere il giudizio riportato; Puccini infatti era consapevole del suo malessere, spesso comunicato agli altri con toni molto accesi. «Come fu estroverso e gioviale, fu introverso, malinconicissimo, soggetto a furiose crisi depressive» (ivi: 17). È probabile che fosse per sua natura un introverso costretto dalla necessità a difendersi, come meglio sapeva, dal mondo esterno. A questo stato “altalenante” tra umori opposti si collega la “noia”, forse originata dal «sentimento di solitudine e di isolamento spirituale» che lo conduceva a una stanchezza difficile da placare (Carner, 1961: 242). «Io faccio il tranquillo nervoso, non lavoro, mi annoio; ho tristezze grandi e menempipi ragguardevoli. Insomma un’altalena… poco divertente. Via, via le malinconie! Oh, sapesse quante ne devo mandar via! A momenti ci riesco – è l’altalena – ma il predominio è fra il grigio scendere della tavola in bilico»[10]. È plausibile rintracciare nella condizione di “noia” che lo angustiava il segno di un profondo vuoto interiore che, probabilmente, lo costringeva, in maniera coatta, a ricercare esperienze e sensazioni forti che gli ricordassero di essere un uomo e di essere in vita [11].
Qual è dunque il legame fra Puccini, uomo e artista, e le donne, ripetutamente portate sulla scena e sottoposte a un tragico destino? Le molteplici esperienze sentimentali avevano offerto a Puccini l’occasione di conoscere a fondo l’animo femminile; eppure, dalla pressoché identica caratterizzazione dei personaggi si deduce che un solo aspetto lo interessasse: l’ambivalenza. L’ingenuità, la fragilità, la fedeltà di Anna e Fidelia; la sensualità, il peccato, la lascivia di Tigrana, di Manon a Parigi accecata dalle ricchezze. Bontà, spirito di sacrificio e generosità, convivono nello stesso personaggio, o in personaggi distinti, con crudeltà, egoismo e leggerezza d’animo [12].
L’intensità emotiva che attraversa i drammi di queste donne e l’indifferenza rispetto a ogni coerenza logica degli eventi mostrano ragioni ben più profonde, le cui radici andrebbero ricercate nella compartecipazione affettiva dell’autore alle sofferenze delle protagoniste e nella storia personale di quest’ultimo. Nell’opera, nella creazione e nella scelta consapevole dei suoi personaggi Puccini avrebbe ricreato, simbolizzandole, le condizioni che più incisero nel suo sviluppo: il rapporto di dipendenza dalla figura materna che aleggiò come l’ombra di un “fantasma” durante la vita e l’ambivalenza affettiva vissuta drammaticamente e riprodotta nella contraddittorietà dei personaggi, nella scissione dei loro sentimenti e nell’incoerenza delle azioni. Dagli psicoanalisti è considerata simbolica ogni formazione che sostituisce e, insieme, dà struttura a un contenuto inconscio secondo legami associativi. Il simbolo consente una relativa autonomia dal fluire delle emozioni e diviene mezzo di contenimento e di elaborazione dell’ansia [13].
Non accettando come propria l’ambivalenza, si può ipotizzare che la proiettasse sugli altri “simbolici” e, in seguito, la eliminasse, percorrendo un iter verso una sempre maggiore consapevolezza e capacità di elaborazione. In quest’ottica le sue opere assumono un valore “transitivo”, dando voce a un conflitto che viveva nell’inconscio del musicista senza che questi riuscisse ad attribuirgli un significato definito. Occorre, certo, distinguere quanto delle caratteristiche pucciniane possa essere spiegato in funzione del periodo storico di cui il musicista è, in parte, esponente, e quanto invece non debba trovare la sua ragion d’essere nella storia personale dell’artista. L’accento sulla passione e sull’istinto, il gusto dell’eccesso e l’abbondanza di effetti emotivi e drammatici derivano, indubbiamente, dall’influenza che su di lui esercitò l’espressionismo.
I personaggi pucciniani, infatti, non sono ritratti a grandezza naturale; possiedono, al contrario, una vitalità superiore al normale e vengono trascinati di fronte a un tribunale di passioni. Il desiderio erotico ostacolato conduce «in molti casi ad atti di gelosia insensata e di vendetta selvaggia: atti […] – quasi invariabilmente, commessi in scena in modo da assestare un colpo netto alla sensibilità dello spettatore» (Carner, 1961: 359). In tale volontà Puccini aderiva al principio sostenuto, tra gli altri, da Racine secondo cui l’imperativo è “piacere e commuovere”. Per il compositore italiano di teatro un unico strumento era in grado di comunicare al pubblico l’alta tensione di affetti contrastanti, la forza e l’immediatezza del cuore: il timbro vocale è il solo che possa creare, in modo naturale e potente, effetti emotivi e sensuali. Puccini incarnava dunque gli ideali che si affacciavano nel periodo la decadenza romantica o fin de sìecle, età spiritualmente inquieta, lacerata al suo interno da una permanente angoscia esistenziale (Carner, 1961: 347, 372-375). Ma i sentimenti di insicurezza, frustrazione e disillusione appartengono all’uomo e, conseguentemente, al musicista Puccini al di là di ogni condizionamento culturale.
L’opera italiana, tradizionalmente, si propone come dramma di sentimenti e non intende essere dramma di idee, rinunciando a ogni pretesa intellettualistica, ad ogni profondità di pensiero. Analogamente, Puccini esigeva dai suoi librettisti trame strazianti, in cui passione erotica, sensualità, tenerezza, pathos e disperazione potessero fondersi in toccanti drammi umani, i drammi delle sue eroine. Sono le donne, infatti, a rappresentare vere e proprie emanazioni del suo stato d’animo, incarnazioni della sua verità psicologica più sofferta. Quanto è stato definito “verità” sarebbe più opportuno denominare “probabili verità psicologiche”, così come si rivelano ai lettori e agli spettatori attraverso la musica e lo svolgersi di una trama, frequentemente libera dalla logica sequenziale degli eventi e rispondente, invece, alla logica del sentimento.
Da tempo si dibatte sulle potenzialità terapeutiche dell’arte: come affermò Freud, l’artista creatore è il solo uomo che possa fare della propria nevrosi un uso positivo sublimandola in opera d’arte. Se è vero che chi è dotato di capacità creative può dar voce al proprio disagio oggettivandolo e prendendone le distanze necessarie a una successiva elaborazione, le variabili che intervengono nella definizione delle modalità con cui un artista, più o meno consapevolmente, rappresenta se stesso e la propria storia personale nelle creazioni del suo genio, sono numerose. Per approfondire il tema è necessario adottare un approccio globale che vada oltre le spiegazioni meccaniciste, come suggerisce Edgar Morin a chiunque si occupi di fenomeni umani. Bisogna tenere presente l’infinità di fattori che concorrono allo sviluppo degli eventi umani e alla maturazione psicologica di un individuo [14]. Abbracciare la prospettiva della complessità significa rinunciare, fin dall’inizio, al desiderio di fornire risposte esaustive e accingersi, al contrario, a suscitare dubbi su ciò che altri hanno sostenuto avanzando nuove proposte e spostando l’attenzione su aspetti ritenuti significativi e precedentemente trascurati. Si dimostra più costruttivo assumere un atteggiamento pronto ad accogliere obiezioni e a chiarire nuove “possibilità” che andare alla ricerca di “certezze-vincoli”, in cui si esaurisca ogni futura potenzialità euristica [15].
Per tentare allora di comprendere le ragioni di questo intenso legame esistente tra Puccini, uomo e artista, e le donne, ripetutamente portate sulla scena e sottoposte a un tragico destino, bisogna tenere conto di due aspetti, strettamente connessi: il tema amore-morte, enunciato dal cantastorie del Tabarro nei versi: «Chi ha vissuto per amore, per amore si morì»; la scelta, quasi coatta e automatica, di personaggi femminili dalla caratterizzazione pressoché identica: un’ambivalenza che rimanda alle contraddizioni dell’animo pucciniano e al suo problematico rapporto con la donna. La scelta di un soggetto da parte dell’artista ha un carattere di costrizione che si rivela, come sosteneva Flaubert, nella concordanza tra la natura dell’autore e quella del soggetto stesso. Puccini veniva attratto da un soggetto solo se vi scorgeva un’affinità con il proprio mondo interiore [16] e procedeva, in un secondo tempo, a un lavoro di adattamento che lo rendesse simbolo drammatico delle immagini, degli impulsi e dei conflitti presenti nel suo mondo inconscio. Conseguenze naturali di tale lavoro di trasformazione sono la sostanziale identità di tutti i personaggi tragici, del loro schema drammatico e ancora «la stretta parentela di alcune immagini musicali, in particolare quelle associate con situazioni fondamentali come amore e morte, scene di lamento e di tortura fisica e spirituale (Carner, 1961: 378).
In molte delle protagoniste pucciniane coesistono tratti caratteriali e tendenze affettive opposte; quasi a dover soddisfare una necessità psicologica, Puccini ripropone un soggetto femminile contraddittorio e incoerente. Le sue donne possiedono una statura eroica che le eleva al di sopra di ogni presenza maschile e le mostra capaci dei più grandi sacrifici in nome dell’amore. Un amore che procura sofferenze fisiche e spirituali, amore come colpa da punire. Benché parlare di amore presuma l’esistenza di un Altro, oggetto da amare [17], le donne sono le sole che espiano questa colpa: gli uomini svolgono il ruolo di catalizzatori (i tenori) o di persecutori (i baritoni), tanto che Antonino Titone parla della solitudine delle protagoniste e della svirilizzazione dei protagonisti [18].
Espiare una colpa: questo il monito che guida la loro esistenza verso una fine tragica. Occorre, allora, domandarsi di quale colpa si tratti: la colpa di una vita dissoluta (ma non sempre le eroine pucciniane si sono macchiate di una simile infamia, eppure muoiono tutte allo stesso modo)? La colpa di essersi donate anima e corpo, o semplicemente, la colpa di essere donne con ciò che tale specificità significava agli occhi di un uomo condizionato, per tutta la vita, da presenze femminili?
Il noto critico Mosco Carner postulava che la tragica fine delle donne pucciniane derivasse da una necessità psicologica dell’autore di far loro espiare la colpa del tradimento, agito ai danni della “divina figura materna”. Luigi Baldacci ha parlato di un mondo affrancato dalla figura paterna in un vero e proprio ritorno alla Madre-Natura: «l’immagine materna ha avuto un peso decisivo nella psicologia di Puccini, ma per liberarlo, non per inibirlo: per liberarlo nella natura, nella quale si vive fuori della legge d’autorità». Secondo Baldacci, inoltre, non è plausibile interpretare la morte delle eroine pucciniane in rapporto con un desiderio inconscio dell’autore di uccidere parti di sé non ben accette. Ciò verrebbe ad attribuire a Puccini una capacità introiettiva che il critico nega sia ipotizzabile a causa di una «biologia istintuale infantile, intimamente regressiva» [19].
È plausibile invece ritenere che il musicista abbia tentato una elaborazione del suo malessere, non riuscendo ad andare oltre l’immatura negazione dell’Altro attraverso la sua eliminazione fisica. Se è vero che le donne pucciniane sono oggettivazione dei conflitti psichici meno sanabili del loro autore, si potrebbe attribuire alla morte, coattivamente reiterata, una valenza dai profondi risvolti psicologici. Il suicidio e, in genere, la drammatica fine di queste figure rientrerebbero forse in quel tentativo di superamento del problematico rapporto intessuto durante lo sviluppo con l’altro sesso e con se stesso. La morte delle eroine come atto è liberatoria. Puccini insegue, riorganizza e soffre attraverso le sue creature. Ma alla fine è dall’impossibilità di comprendere quel mondo e con esso stesso, quel mondo che si permea e si plasma di dori materni e di merletti che gli risultano insieme dolci e pesanti che nasce il bisogno di liberazione.
Liberazione che si ricrea nell’atto stesso della fine dell’eroina di turno. Grandi donne e piccole donne, animi semplici e menti contorte, tutte alla fine devono morire in un crescendo emotivo che cede grandezza creativa. Vale la pena, dunque, approfondire questo intenso legame psicologico tra il probabile desiderio di raggiungere un’autonomia affettiva dal mondo femminile e il destino cui vanno incontro le sue stesse “identificazioni proiettive” [20]. Nelle prime opere, su libretti di Ferdinando Fontana, l’ambivalenza pucciniana trova oggettivazione in una vera e propria scissione, interpretata da personaggi femminili antagonisti.
Le contraddizioni dell’animo pucciniano vengono esplicitate attraverso figure dal profilo psicologico opposto. Questo meccanismo è ampiamente adottato nelle Villi e nell’Edgar, in cui si evidenzia una schematica contrapposizione fra purezza verginale e contaminazione lussuriosa: Anna e Fidelia, la purezza; la sirena di Magonza e Tigrana, la lussuria. Prestando attenzione alla dimensione evolutiva dell’opera pucciniana, la rappresentazione scenica dei conflitti interiori in conflitti tra figure distinte implica la presenza di una scissione radicata nell’autore. È supponibile che egli non fosse ancora in grado di accettare queste parti come elementi coesistenti in una medesima persona. In seguito, però, il contrasto tra angelica virtù e diabolico vizio non si cristallizza più in personaggi distinti, ma prende forma in una stessa eroina. Quest’ultima potrà essere protagonista di un cambiamento psicologico che avviene durante il dramma come accade nella Manon Lescaut oppure porterà dentro di sé quest’ambivalenza dall’inizio, come Tosca.
Si tratta insomma di incamminarsi nella foresta di simboli della struttura inconscia dell’opera di Puccini, di plasmare in forme più “articolate” quella che si potrebbe definire la sua ispirazione “inarticolata”, volendo usare termini particolarmente cari a Ehrenzweig [21]. Certo, è profondamente vero che ogni costruzione simbolica nasce da pieghe profondissime del sentire e che, per quanto alla fine ci possa sembrare di avere svelato la più intima voce di Puccini, ogni nuovo ascolto della sua musica suggerisce un ulteriore “scavo” nell’anima, non solo dell’autore. Si sa, l’esperienza psicoanalitica, quella estetica e quella musicale vivono proprio grazie alle infinite possibilità di lettura, mutevoli da individuo a individuo, nel tempo e nello spazio. L’interpretazione in questo senso risulta “felice” «quando l’universo di simboli musicali pensato da un autore trova sintonie (spesso inedite) nell’universo mentale affettivo e tecnico dell’interprete, quando questa sintonia diventa un lavoro che parla a qualcuno, (…) quando fa pensare pensieri non pensati […]» [22].
Dialoghi Mediterranei, n. 62, luglio 2023
Note
[1] Da una lettera di Puccini a Illica in M. Carner, Una biografia critica, Il Saggiatore, Milano, 1961: 241.
[2] Cfr. E. Gara (a cura di), Carteggi pucciniani, Ricordi, Milano, 1958.
[3] M. Carner, Una biografia critica, Il Saggiatore, Milano, 1961: 237-238.
[4] C. Casini, Puccini, Utet, Roma, 1978:17.
[5] E. Siciliano, Puccini, Rizzoli, Milano, 1976:75.
[6] Cfr. C. Casini, cit.: 76, 86-88.
[7] E. Siciliano, cit.: 19.
[8] I. Pizzetti, G. Puccini, in “Musicisti contemporanei”, Treves, Milano, 1914: 51.
[9] F. Fornari, Psicoanalisi della musica, Longanesi & co., Milano, 1984: 114-173.
[10] Lettera del 4 agosto 1924 a Gilda Dalla Rizza in Carteggi puccininani (cit.): 552.
[11] C. Sartori, Puccini, Nuova Accademia, Milano, 1958: 147.
[12] D. A. Martino, Metamorfosi del femminino nei libretti per Puccini, Books & Video, Torino, 1985: 7-40.
[13] Cfr. H. Segal, Note sulla formazione del simbolo, in Scritti psicoanalitici, Astrolabio, Roma, 1984.
[14] Crf. E. Morin, Science avec coscience, Fayard, Paris, 1982, tr. it. Scienza con coscienza, Franco Angeli, Milano, 1987.
[15] Cfr. M. Ceruti, Il vincolo e la possibilità, Feltrinelli, Milano, 1986.
[16] I. Pizzetti, G. Puccini, in Musicisti contemporanei, Treves, Milano, 1914: 77.
[17] Nella psicoanalisi post-freudiana “oggetto” non indica, semplicemente, una persona esterna all’individuo e per lui significativa. Si parla di “oggetto interno”, inteso come rappresentazione psichica, formatasi in seguito a relazioni con figure importanti nel proprio sviluppo. Cfr. J. R. Greenberg, S. A. Mitchell, Le relazioni oggettuali nella teoria psicoanalitica, Il Mulino, Bologna 1986: 23.
[18] A. Titone, Vissi d’arte: Puccini e il disfacimento del melodramma, Feltrinelli, Milano, 1972:28
[19] L. Baldacci, Naturalezza di Puccini, in “Nuova Rivista Musicale Italiana, (n.s.), n.1, 1975: 42-49, 46, 47.
[20] L’identificazione proiettiva è un meccanismo psichico descritto da Melanie Klein e consiste nel proiettare parti di sé in un oggetto allo scopo di possederlo, danneggiarlo, controllarlo. Ciò produce la fantasia di essere all’interno dell’oggetto stesso. Nel nostro caso, gli oggetti sarebbero le donne delle opere pucciniane. Cfr. M. Klein, (1946), Note su alcuni meccanismi schizoidi, tr.it. in Scritti 1921-1958, Boringhieri, Torino, 1978.
[21]Secondo Ehrenzweig, i filoni che si sono tradizionalmente occupati di percezione dell’arte (es. la Gestalt) hanno prestato più attenzione alle forme “articolate” che alle cosiddette forme “inarticolate”. Nelle prime si manifesta la tendenza consapevole dell’uomo verso forme esteticamente “buone”, che rispettano cioè, determinate proprietà formali (M. Werteimer, 1923); nelle seconde è possibile rintracciare l’espressione simbolica dell’inconscio. Secondo l’autore, una vera analisi psicologica della forma artistica deve ricercare il dettaglio, solo apparentemente accidentale e insignificante. È nel particolare che il processo creativo inconscio può articolarsi difendendosi dall’osservazione cosciente. In campo musicale un simile atteggiamento si traduce nella riscoperta dei glissando e dei vibrati, che al primo ascolto sembrano accidentali, o anche delle impercettibili «alterazioni del ritmo e dell’intensità che sfuggono alla notazione musicale e sono lasciati all’esecuzione apparentemente “arbitraria” del musicista». A. Ehrenzweig, La psicoanalisi della Percezione nella musica e nelle arti figurative, tr. it., Astrolabio, Roma, 1977: 21.
[22] D. Gaita, Il pensiero del cuore. Musica, simbolo, inconscio, Bompiani, Milano, 1991: 83.
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Claudia Calabrese, dottore di ricerca in Storia e analisi delle culture musicali all’Università La Sapienza di Roma, studiosa di musica e letteratura, docente di lettere. Attratta dagli studi interdisciplinari, si è occupata di Giacomo Puccini e di Pier Paolo Pasolini. In Alchimie pucciniane (Accademia di Scienze lettere ed arti di Palermo, 1999) e Manon Lescaut, presagio di una trasmutazione (Avidi Lumi, rivista della Fondazione del Teatro Massimo, 2000) si è accostata all’opera e alla vita del compositore toscano con gli strumenti della psicoanalisi junghiana. Il suo Pasolini e la musica, la musica e Pasolini. Correspondances (Diastema Studi e Ricerche, Treviso 2019) ha ricevuto la menzione speciale per l’originalità e il rigore analitico dalla Giuria del XXXIV Premio Pasolini bandito dal Centro Studi – Archivio Pier Paolo Pasolini della Fondazione della Cineteca di Bologna.
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