di Giulia Panfili
Larga è la foglia, stretta è la via
gambe in spalla vi racconto la mia.
Questo è il racconto del cammino a piedi lungo la via Appia antica, da Venosa fino a Taranto, e di ciò che ne ho raccolto. 135 km circa, passando per Palazzo San Gervasio, Masseria Tripputi, Gravina in Puglia, Masseria Jesce, Laterza e Palagiano, percorsi nell’ottava edizione del progetto Visioni in Movimento, scuola di cinema senza sedie.
Un percorso estremamente stimolante e formativo, di libertà e profondità, a suo modo fuori dal tracciato. Un’occasione soprattutto per andare in strada, mettersi in cammino a piedi, insieme a persone professioniste attive nel cinema, generose e disponibili al confronto, con pazienza e generosità, e per creare uno spazio di libertà e di rammendo collettivo.
Mentre i piedi scandiscono quel tempo e spazio necessario per osservare, sentire, conoscersi e raccontarsi, insieme è come se avessimo smosso forme mentali, visioni ed emozioni, innescando un processo virtuoso con effetto di propagazione, come succede con il sasso lanciato nell’acqua.
Credo che non ci sia modo migliore per imparare e crescere insieme, per vedere un’idea abbozzata poco a poco prendere forma in un prodotto audiovisivo, con il supporto e le competenze di tutti: il bello del cinema, il lavoro di squadra.
Questo percorso inoltre è stata l’occasione per guardare al cammino contemporaneo e alle relazioni che si contrattano o non con i territori percorsi dall’antica via e con la sua portata storica e semantica. La via Appia, in particolare, un tempo era al primo posto fra tutte le strade di Roma: la più lunga, la più bella, la più imponente via che fosse mai stata tracciata in alcuna parte del mondo, al punto che i romani la chiamarono “Regina di tutte le vie”.
L’egemonia di Roma su gran parte della penisola italiana e tra le grandi del Mediterraneo, era minacciata da sud dalla sola nazione Sannita, intenta a prendere Capua, non lontana dai confini del Lazio. In questo contesto di conflitto con i Sanniti, il console Appio Claudio Cieco fece tracciare la via Appia, una via militare che consentiva di accelerare le comunicazioni con i confini meridionali del territorio conquistato.
Il primo tratto fu costruito nel 312 a.C. ricalcando l’antica strada fra Roma e Bovillae, oggi Albano, che esisteva già da antichissima data e prolungando la via fino a Capua, attraverso le Paludi Pontine e Formia. La strada fu poi estesa man mano che altri territori cadevano sotto il dominio di Roma, finché nel 268 a.C. la strada arrivò a Benevento con la fondazione della colonia romana.
Quando infine la strada fu continuata fino a Brindisi essa divenne l’arteria più battuta del Mediterraneo. L’imperatore Traiano si distinse fra tutti i suoi predecessori che profittarono della frequentata via Appia per ostentare il proprio potere, con la costruzione della variante dell’Appia, la via Traiana, che correva da Benevento a Brindisi, lungo direttrici antiche e accorciava di un’intera giornata il viaggio fra le due città.
La grande via Appia rappresentò la realizzazione di un progetto audace e grandioso: si forarono montagne, si spianarono colline, si colmarono valli acquitrinose e si gettarono ponti. Per realizzare tali opere di bonifica e di ingegneria stradale occorsero anni e migliaia di schiavi agli ordini di architetti, agrimensori e ingegneri di grande esperienza. La via ad ogni modo servì nelle comunicazioni con la Grecia e l’Asia, con la Sicilia e l’Africa, per secoli e secoli, anche dopo la caduta dell’Impero romano.
Con le invasioni barbariche però l’Appia cominciò a subire devastazioni: tombe, ville, monumenti deturpati e spogliati, chiese profanate, suppellettili derubate o disperse. Nel medioevo poi, durante i conflitti feudali, l’Appia subì ulteriori attacchi devastanti.I proprietari di fondi e tenute lungo la via Appia, oggi non meno di ieri, si accaparrano tutto ciò che poterono, dai marmi ai mattoni dei monumenti, alle pietre del selciato e dei muri. Nel Rinascimento la strada era ormai talmente impraticabile che fu ritenuto più pratico il suo abbandono e il restauro di una via ad essa parallela, la via Asinaria che assunse ufficialmente il nome di via Appia Nuova.
La via più importante della storia antica quindi non solo è stata deturpata, derubata e abbandonata, ma cancellata quasi per intero dall’invasione edilizia o dall’asfalto per favorire il traffico di automobili. Nel 2015 Paolo Rumiz, Irene Zambon, Alessandro Scillitani e Riccardo Carnovalini hanno intrapreso una moderna e complicata esplorazione percorrendo a piedi l’intero sviluppo dell’Appia antica. Per ritrovare il tracciato dell’antica via Riccardo Carnovalini, esperto camminatore e cercatore di vie, ha studiato minuziosamente l’itinerario sulla base delle più attendibili fonti bibliografiche e cartografiche e ne ha elaborato la traccia GPS.
L’escursionismo a piedi lungo l’Appia antica è pressoché sconosciuto, a lungo si cammina accanto a automobili e cumuli di immondizie, mettendosi tra l’altro in concreto pericolo. Da questa esperienza il Ministero della Cultura ha iniziato il progetto di realizzazione del cammino dell’Appia antica, curando sia gli aspetti storico-archeologici che quelli legati alla sicurezza del camminatore.
Anche il gruppo di Visioni in Movimento a cui ho preso parte è stato guidato da Riccardo Carnovalini lungo l’itinerario dell’Appia antica da Venosa a Taranto. Venosa, cittadina lucana situata alle pendici del Monte Vulture, in epoca romana fu un insediamento importante e città natale di Quinto Orazio Flacco, il poeta che nella Satira V del libro primo ci restituisce la più antica e completa descrizione di un viaggio lungo l’Appia, da Roma a Brindisi.
Con il pane su cui è stato impresso il timbro del cammino dell’Appia, adottato recentemente dai panificatori di Venosa, l’Appia lascia le pietre bianche che pavimentano le strade dritte di Venosa, per proseguire in una stradella campestre che attraversa il Piano di Camera, facendo da spartiacque fra lunghi rettifili dei vigneti e campi coltivati a cereali. Questo tratto di strada, attraversa una campagna priva di alberi, aperta, dal terreno marnoso calcareo. Poi la strada continua attraverso i terreni bonificati e si arriva a Palazzo San Gervasio, seconda tappa del cammino.
I tanti chilometri percorsi non mi hanno trattenuta dal vagare per il paese che mi ospitava e concedeva riposo. L’ora del tramonto, si sa, segna un passaggio importante nel ritmo di una comunità. Volevo incontrare le persone che lo abitano, guardare i loro volti e sguardi, segnati non dalla pandemia da covid. Corso Manfredi, la via principe delle attività commerciali e amministrative del paese, poco a poco si fa piazza: le panchine già occupate dagli anziani vengono avvicinate da altri signori. Sguardi curiosi si incrociano, affamati alla sera di storie. Le distanze si accorciano pur continuando ad essere rispettate e la magia degli incontri è ancora una volta compiuta. Mi viene donata dal signor Antonio una storia, insieme al suo sguardo da giovane militare.
Da Palazzo San Gervasio il tracciato dell’Appia corrisponde con il cosiddetto ‘tratturo tarantino’, la via di transumanza che dritta, ai piedi delle alture, attraversa la fertile pianura cerealicola. Si continua verso Gravina in Puglia, passando per vecchie masserie abbandonate e antichi abbeveratoi, segni di un tempo in cui la strada era davvero il punto di riferimento culturale ed economico di una vasta area.
Passando al fianco del Monte Serico con il suo castello, la zona è quasi desertica, con dune e colline di sabbia fino al Basentello, dove la diga ha creato un largo bacino artificiale che segna il passaggio alla regione Puglia. Continuando verso sud est cominciano a vedersi nei campi le costruzioni simili ai ben noti ‘trulli’ e i muretti laterali che servivano a proteggere le coltivazioni dalle greggi transitanti e a delimitare l’area pubblica della strada dai campi privati.
L’Appia infine entra a Taranto fra montagne di detriti e il raccordo stradale: un arrivo a Taranto purtroppo catastrofico, rimarcato dalle sottili polveri rosse provenienti dall’area industriale dell’Ilva. Dai terrazzi della città si vede Taranto formata dalla città vecchia con i suoi vicoli angusti, sull’isola fra il Mar Grande e il Mar Piccolo, la città nuova e poi l’area industriale, a nord ovest della città, con le ciminiere dalle quali si innalzano nubi che, trasportate dal vento, si depositano ora sulla campagna ora sull’abitato.
L’intero percorso qui brevemente delineato è per me stato anche in compagnia di Reginotta, protagonista così ribattezzata di una favola che è stata raccontata al gruppo proprio a Venosa. A questo personaggio poi se ne sono aggiunti altri incontrati lungo il cammino, come zi’ Minucchio a cui bisogna stare attenti per la via e u monaciedd che fa i dispetti mettendosi sullo stomaco tanto da non far respirare, o intrecciando la criniera ai cavalli che poi non si scioglie più.
La via Appia in qualche modo si fa via di incontro tra il mondo reale e fantastico, il camminare e il gioco-racconto per immagini. Personaggi bizzarri entrano in scena lungo il cammino, ispirati in parte al luogo e all’esperienza in divenire, in parte alle favole di Luigi Capuana e al gioco visivo di Bruno Munari.
Prendono forma dagli elementi della natura come foglie, rami, sassi, così come giochi di ombre e macchie, ma anche oggetti vari trovati a terra lungo il cammino. I materiali così recuperati sono poi assemblati con fil di ferro, scotch carta, corda e filo in nylon per costruirne dei personaggi che animeranno la favola di Reginotta. Al link https://vimeo.com/user163758959/reginotta2021 è possibile vederne il risultato, una sorta di racconto nel racconto che è allo stesso tempo cura del territorio, sostanziandosi anche con interventi materiali.
La favola inizia con una coppia che non riesce ad avere figli, per anni cerca il modo di averne. La coppia prega e spera finché riesce ad ottenere questa agognata gravidanza, mediata da una vecchina, a delle condizioni però, per cui se non vengono rispettate la bambina dovrà seguire il suo destino.
Raggiunta una determinata età, però viene offesa la promessa fatta alla vecchina per cui il destino della ragazza è di lasciare i genitori. Come in ogni fiaba che si raccomandi la ragazza deve superare tutta una serie di ostacoli, per cui si mette in cammino e lungo la sua strada incontra varie persone.
«La Reginotta si mise a cavalcioni della foglia e le si afferrò alle nervature; e la foglia, nuota, nuota, la portò in fondo al sentiero. Ma ecco una foglia grossissima, con tanto di bocca spalancata, che voleva ingoiarle: “Pagate il pedaggio, o di qui non si passa”. La Reginotta si strappò un’orecchia e gliela buttò».
A cavalcioni dell’Appia, la regina delle vie, vivi l’anima controversa di una favola.
Dialoghi Mediterranei, n. 62, luglio 2023
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Giulia Panfili vive attualmente a Roma. Ha studiato antropologia visiva a Lisbona e ha concluso il dottorato in antropologia, politiche e immagini della cultura, museologia con una tesi di ricerca etnografica in Indonesia sul wayang come patrimonio immateriale dell’umanità. Ha partecipato a convegni di antropologia e arte in Portogallo, Brasile, Inghilterra, Indonesia, e a mostre collettive di fotografia, illustrazione e stampa grafica presso gallerie e festival in Italia, Spagna, Portogallo, Indonesia. Tornando in Italia ha frequentato la Scuola Romana del Fumetto, dedicandosi quindi a disegno e illustrazione, con cui ha elaborato parte della tesi di dottorato. Ha approfondito in seguito tecniche e linguaggi della fotografia e del documentario audiovisivo con corsi formativi e progetti vincitori di bandi di concorso.
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