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Esperienze educative e musei. Ricordi, letture, divagazioni

Frascati, Museo etiopico

Frascati, Museo etiope

di Franca Bellucci 

Nella vita attiva – ripenso da ex insegnante – ai musei e luoghi di raccolte ho fatto riferimento. Nella professione, anche tenendo conto delle coordinate che fanno disuguaglianza delle opportunità educative – la lontananza dalle strutture cittadine che ospitano le raccolte, o dai siti di specifica tutela, l’approccio individualmente diverso negli studenti – ho considerato la loro frequentazione, più ancora che una verifica, un vero risarcimento. È che ero e sono consapevole di come siano ristrette le strutture scolastiche, e di come perlopiù inducano a ristretti percorsi, tali, cioè, da imbastire semplici raccordi sugli stereotipi assorbiti nel crescere. Quegli stereotipi sono il nocciolo pigro che sta sotto il linguaggio d’uso individuale. Quanto meno, visitando siti, un effetto estraniante si produce, nella differenza dallo spazio spersonalizzato assegnato alle scuole – tanto più se gli edifici sono nati per altro, e transitati ai giovani “per forza maggiore”.

Nell’esperienza, questo è il punto fecondo. È tuttavia importante che la sorpresa attivi il “gioco del punto di vista”: cioè, avvertendo, di fronte alla ricchezza degli oggetti d’epoca riordinati in temi e cronologie, che la disposizione dei fatti in successione è un artificio situato, quindi provvisorio e transeunte. Diventa esperienza scoprire come la disposizione è studiata, firmata, come il catalogo ha impegnato quesiti, contatti, ricerche, arricchimenti documentari, sintesi concordate come provvisorie. Anche si intuisce che singoli e comunità sono concetti variabili e che c’è un “oltre” su cui per primi i competenti si interrogano. È buon esito dell’esperienza se, nella mente dei giovani, alla fine vibrino i “confini”, il “collimare” di aree antropizzate: nel piano, nello spazio.

Ma disporsi a essere avvertiti e quindi prendere distanza dal prodotto valorizzato – narrazioni, manufatti e strumenti, documenti di civiltà – non sono che esercizi preparatori a dare una definizione dinamica alla parola “storia”. Del resto le stesse rappresentazioni dei processi avvengono tra condizionamenti, che tuttavia il tempo modifica, liberando spazio per nuovi punti di vista. Può essere aspetto che decisamente turba, pure riprendere periodi anteriori è una esplorazione che si ripropone, con motivazioni che, intrinseche alla decisione, diventano di per sé episodi di storia: non si tocca mai il definitivo, procedendo su piste contingenti, interne ai processi decisionali. È un progresso formativo acquisire il metodo che, aggiungendo testimonianze e incrociando letture, favorisca lo sviluppo nelle relazioni attuali. Il passo preliminare è comprendere le ferite negate o mal rimarginate, includendo la prospettiva di rinegoziazioni, a carico di soggetti e momenti opportuni in futuro.

Storia e studenti, paese e mondo: il pensiero va a processi che, in scala diversa, riguardano il mondo nell’oggi. E il fermo-immagine odierno constata processi che, senza volere assolvere dalle responsabilità – essendo primario e separato il piano morale – sono stati catalizzatori generali: è infatti appropriato ricorrere a parole come “mondiale”, “globale”. Grande motore della contemporaneità, arco che, comprendendo i secoli XIX e XX, giunge all’oggi, si può certo dire sia stato un “governo-spregiudicato della nazione-tesa-a-espandersi”, contagioso modello di riferimento. Non sfugge quanto i numeri delle “nazioni tese a espandersi” siano stati ampi, quanto di contesa sia inglobato nelle configurazioni tra i potenti di turno, quanto, infine, residuino le tensioni, tra momenti diversi delle convenienze. In Italia quel suo modo di essere “governo della nazione” ha coinvolto le forme dell’esecutivo, l’esercizio del diritto, la pratica della cultura intellettuale e materiale, mirando a una realizzazione del “progresso” – tendenza prevalente e pluridisciplinare – spregiudicato, brutale.

“Globale”, “mondiale”: virtù dei termini astratti, so di indicare una nozione vera, benché me ne sfugga la consistenza. Di slancio prospetto con simpatia ogni soggetto, collettivo e individuale – “homo sum, nihil humani a me alienum” –. Di fatto, però, non memorizzo nemmeno il nome delle città capitali del mondo, e verifico in apposite guide gruppi e luoghi dei conflitti in atto. Sono queste le considerazioni che mi sono chiare mentre, a Livorno, nel piccolo circolo letterario «Voci dal mondo», recepisco espressioni e tematiche significative e sconosciute, per mio conto poi proseguendo a computare le lingue e le filosofie esistenti: soggetti, progetti attivi, sempre più autodefiniti, anziché descritti da “avventurieri, missionari, geografi”, come narrano le storie di esplorazione.

Le mie individuali riflessioni non sono così appartate. Nello stesso sfondo, con pregnanza e con informazione specifica, si inquadrano anche le considerazioni di molti storici, e, nel settore museale, le proposte dei professionisti specifici. Le loro specifiche considerazioni, su riviste e schede diffuse nei vari supporti, coinvolgono e impegnano i fruitori.

A questo livello si pone l’attuale riflessione, con tutti i suoi limiti. Si assiste infatti in Italia a interventi innovativi, radicalmente ripensati, nell’ambito museale-espositivo, che coinvolgono relazioni di più soggetti internazionali, individuando spazi nuovi di negoziazione e interpretazione. Le ricadute, in tale ambito, stimolano costruttive esperienze di re-inquadramento dei materiali etnografici a partire dalla rilettura partecipe della documentazione, quali attualmente non trovano esito in altri Paesi. In quei diversi contesti, già partecipi, al pari dell’Italia, ma più a lungo, di quelle coordinate espositive marcate dal colonialismo, la questione è tuttora ingombrante, non risolvendosi in azioni condivise. In Italia le azioni di riordino sono invece molteplici.

Assunse un’efficacia riconosciuta, che indirizzò a soluzioni, un intervento di Luisa Passerini – storica nota e autorevole, dalla fine del Novecento anche cattedratica all’Istituto Europeo di Fiesole –, tenuto il 16 dicembre 2010 a Torino sull’«Identità europea in prospettiva postcoloniale» [1]. Trattando dello specifico europeo, la studiosa invitava ad affrontare il colonialismo, non soltanto nelle specificità attinenti al passato recente dei singoli Paesi, ma piuttosto, definendosi ogni Paese nell’arco dell’esperienza europea, tornando alla cultura del cosmopolitismo di età moderna. Lo spunto è diventato tanto più costruttivo in Italia per la felice contingenza di incontrare studiosi, e particolarmente studiose, di altissimo livello, poliedriche, riconosciute presso molti istituti culturali del mondo, come Gabriella Ghermandi, Igiaba Scego, Cristina Ali Farah.

Roma, Museo delle civiltà

Roma, Museo delle civiltà

È un fatto che in Italia va avanti il riesame profondo, quasi un attraversamento, delle logiche con cui si sono accumulati i materiali, che furono esposti come prova, certificazione e persuasione del potere coloniale raggiunto con l’“impero”. Lo si vede in modo macroscopico soprattutto nelle ristrutturazioni museali all’EUR di Roma. Si può intendere come un periodo di gestazione quello verificatosi intorno alla ridenominazione di quello che, allestito inizialmente, nel periodo dell’impero, come “Museo coloniale”, è ora il “Museo delle civiltà”. Nel tempo repubblicano la denominazione originaria era inaccettabile. Vari, successivamente, i tentativi di nuove ridenominazioni. Dal 1972 era chiuso, i beni essendo aggregati all’istituto pubblico che raccoglieva anche, e soprattutto, i materiali di studio sull’Oriente. L’input al rinnovamento decisivo si determinò quando si ipotizzò di associare a “Africa” la memoria di Ilaria Alpi – la giornalista uccisa in Somalia, per i reportages di coraggiosa denuncia del malaffare –. Occorreva una rimodulazione complessiva, consona allo sguardo informato e critico della giornalista.

Dal 2016 la struttura, dotata di propria autonomia, si basa sulle “civiltà”, al plurale, valorizzando il dialogo con il mondo complessivo dei vari continenti, ponendo l’accento, nel riesame dei cataloghi, sulla demoetnologia. A dirigere il Museo delle civiltà, che è stato aperto al pubblico a fine ottobre 2022, è stato scelto Andrea Viliani, già direttore del museo Madre di Napoli: egli nel luglio precedente, aveva reso pubblici, in interviste a giornali d’arte, gli intenti, le linee politiche da perseguire. Rileggo in internet le linee evidenziate. Nell’articolo di «Artribune» del 21 luglio curato da Giorgia Basili, Viliani sottolinea la distanza dal passato: in precedenza il museo è indicato come “tossico”, operante per logiche marcatamente inaccettabili, di «cultura positivista, classificatoria, eurocentrica e coloniale». Vale che, piuttosto che «custode di risposte», si prenda a «immaginarlo come un catalizzatore di domande», percorrendolo non nell’orgoglio del possesso: il direttore contrappone al concetto di “padre”, base della parola “patrimonio”, quello di “madre”, auspicando piuttosto il “matrimonio culturale”, come prassi che coltiva “pratiche di cura, assunzione di responsabilità, condivisione e restituzione”.

9788857572529_0_536_0_75Una “cura”, è dunque la linea, che richiami il “materno”: non l’accumulo, né la sfida, quali caratterizzano il “paterno” ordinamento in gerarchie di dominio. Le parole richiamano considerazioni davvero attuate? E condurranno davvero a selezionare aspetti profondi della cultura? Nell’articolo del 1° novembre 2022 su «Dialoghi Mediterranei» Roberta Tucci, nota etnoantropologa, considerando in particolare proprio la prossima riattivazione del Museo delle Civiltà, riconosceva valida la riflessione di partenza, intorno ai beni etnologici, condivisa presso molte reti, in particolare europee, su strutture, linguaggi, politiche. Ma ammoniva tuttavia a vigilare sui processi in corso: vedeva il rischio che ancora si trascinino logiche imperialistiche, se le collezioni saranno svincolate dalla documentazione, essendo proprio questo l’aspetto-chiave che apre alla interpretazione.

In effetti le mode culturali non basterebbero a fondare una civiltà di percorsi consapevoli. È corretto che si ragioni intorno ai rapporti coloniali tenuti dall’Italia, in relazione soprattutto all’Africa, mediante documentazione circostanziata. L’argomento trova ostacoli e diffidenza – tanto più nel contagio di quelle agitazioni sociali presenti nel mondo – indirizzate alla “cancel culture” –, che si discostano dalle eredità culturali ricorrendo a atti ostativi preliminari al giudizio di merito. Per questo si constata una diffusa tensione, un certo scetticismo, in chi pure desidera il riesame del colonialismo. Tuttavia il gruppo di studiosi e studiose in area storica che approfondisce l’argomento, va costituendo un’area ampia di interessi convergenti, andando oltre le sedi universitarie e creando circuiti, aree comunicanti di convergenza. Sembra generarsi dunque un circuito virtuoso, così da coinvolgere anche poli editoriali, che rendono visibile la loro partecipazione al dibattito sia in quanto editano, sia mostrando in bacheca altre recensioni tematiche. Una, per esempio, presso l’editore Mimesis, nel 2021 accompagna la pubblicazione, di Giulia Grechi, Decolonizzare i musei. Sguardi incarnati. Si aggiungono poi rimandi a ben diciotto recensioni. Si capisce, allora, il ruolo collaborativo che, nell’articolo citato, il direttore Andrea Viliani assegna all’editore “Nero” di Roma, uno degli editori di cui è riconosciuta l’attenzione a un’interlocuzione critica e internazionale.   

nigrizia-decolonizzarsiTra i contributi rigorosi e utili a reindirizzare le esposizioni sono da citare i saggi prodotti da Beatrice Falcucci, storica che, profonda conoscitrice del colonialismo, più volte ha esaminato vari depositi coloniali di istituzioni attraverso la documentazione degli archivi. È una storia dettagliata del colonialismo italiano in Africa il suo saggio «Nigrizia o morte!», ovvero Raccolta ed esposizione missionaria dalle colonie italiane (1858-1939), pubblicato in «Quaderni storici», 169 (a. LVII- 2022/1: 161-196). Qui è documentato un intreccio vario, anzi vischioso – di cui vale indicare solo i capisaldi – in situazioni diverse d’Italia, intorno al tema dei contatti con l’Africa: diversi gli Stati, prima dell’Unità, ma soprattutto diverse le ispirazioni, le competenze, i contatti. Il baricentro, però, è l’Italia del Novecento che si progetta potenza coloniale, in particolare divenendo continuo l’intreccio dopo gli anni ’30, in preparazione della campagna d’armi in Etiopia, dopo la “pacificazione” della Libia. Allora si evidenziarono due poli, da una parte i comboniani di Verona, editori della rivista «Nigrizia», fondata nel 1867, e presenti in vari continenti, dall’altra le missioni della Consolata di Torino, attive in Somalia e Kenya.

Frascati, Museo etiope

Frascati, Museo etiope

Un intreccio particolare si verificò tra il Convento dei Cappuccini di Frascati e le sedi etnografiche di Roma. Infatti il museo aperto a Frascati dal missionario, operante in Etiopia, Guglielmo Massaia (1809 – 1889), fu poi in buona relazione con le iniziative statali della capitale, anche con transiti di oggetti. Del resto il gruppo francescano dimostrò relazioni consistenti con l’Etiopia, ricevendo dai sovrani di quello Stato visite e oggetti. Dalle memorie del padre Massaia in Etiopia i francescani di Frascati trassero inoltre un’opera in 12 volumi: per altro includente documenti conventuali del XVII secolo. L’autrice, per sua parte, fa presente come il contatto di alcuni centri in Italia con l’Africa sia antichissimo, proponendo antefatti su cui l’indagine sarebbe storicamente valida. Il succedersi di «riletture» caratterizza dunque la dimensione storica, movimentando la convenzionale “linea continua del tempo”. Concludendo il saggio, che mira a pesare sull’ottica di riallestimenti museali, l’autrice indica come criterio appropriato quello di evidenziare le relazioni e la loro discontinuità e non esita a esprimere la sua critica rispetto all’esposizione scelta recentemente per le collezioni vaticane del Museo Etnologico «Anima Mundi»: «un allestimento – dice – che proietta gli oggetti fuori da qualsiasi dimensione storica … la dimensione storica … è del tutto dimenticata a fronte della “bellezza” e del valore degli oggetti, presentati come “capolavori” meritevoli di conservazione e restauro».

Apprezzo che il nuovo progetto di esposizione etnologica riparta prendendo atto dell’esame critico dell’epoca e della documentazione originaria che accompagnò i trasferimenti di oggetti. Altrettanto necessario ritengo che si informino le autorità ora vigenti nei luoghi di provenienza, aprendo una fase di confronto, di ascolto attento, così che la decisione, certo di responsabilità italiana, porti il segno dei riconoscimenti attuali dei popoli, favorendoli. Non condivido, invece, la critica alla sezione «Anima Mundi» del Museo Etnologico del Vaticano. Le riviste d’arte italiane osservano pure con sguardo indagatore il modo in cui il Vaticano cura l’amplissimo patrimonio etnologico. Il sito apposito [2] lo descrive come reso fruibile nel 1925 da Pio XI con l’Esposizione Vaticana. Raccolti circa 100 mila oggetti inviati dal mondo, tra questi successivamente fu selezionato un nucleo di 40 mila rimasto come dono «fatto dai popoli del mondo ai Pontefici». Di qui il Museo, che, riqualificato il preesistente Museo Borgiano di Propaganda Fide del 1692, divenne pubblico. Esso è stato poi ampliato fino agli attuali 80 mila oggetti circa.  In una intervista, rilasciata nel 2021 alla rivista «formiche.net» [3], la Direttrice del Museo Etnologico del Vaticano Barbara Jatta, illustrati i modi della fruizione, parla anche delle ultime mostre, relative a Oceania e Amazzonia, considerandole sintonizzate «al Sinodo di Papa Francesco e ai problemi del polmone del mondo».

Vaticano,. Museo etnologico

Vaticano, Museo etnologico

Forse troppo schierata, ma comunque d’interesse storico riconosciuto dalla storica Falcucci, è la Museo Etnologico del Vaticano. In un articolo del 2016 [4], padre Nicola Mapelli, responsabile del loro Museo, intervistato sul senso attribuito a “etnologia”, fa registrare «riconnessione» come parola d’ordine che orienta gli interventi. Osserva poi che, certo, il contenuto è la memoria delle specifiche culture e, aggiungendo che dà valore «non solo alla memoria del passato ma anche a quella del presente», sottolinea come sia importante interrogarsi e rendere esplicita la misura della responsabilità attuale. Il suo tempo, dunque, non è solo il “chronos”, oggetto dell’ambito disciplinare per lo storico, ma “kairòs”, anello in cui ogni soggetto, scegliendo, dispone e classifica: anche l’altro.

I due studiosi citati operano in panorami diversi e lingue diverse. Viene da pensare che Anima mundi, il museo etnologico vaticano, presenti la storia resa visibile, oggetti come manifestazione importante eppure contingente, intrinsecamente facendosi rivelazione.  Si differenzia certo la posizione della storica, che, nella specificità del suo studio sui reperti etnologici, preso atto di come l’Italia dell’ultimo secolo abbia avuto incidenza discontinua, nonché ridimensionata, opta per ripercorrere il dato di fatto, in un riesame qualitativamente alto, tornando alle fonti e alla loro interpretazione. Proponendo uno studio che ripercorra con sapienza il tempo, il chronos, appunto, la storica può enfatizzare aspetti già trascurati, ma bene accolti nella odierna interlocuzione tra Stati.

E, a parte, la contingenza positiva può incrementare la credibilità degli studiosi nel loro campo disciplinare, comunque definito. Il che potrà permettere di intervenire sul canone che vige negli studi storici, modificandolo. È opportuno che le acquisizioni di cultura consapevole, verificata nei partenariati di ampio respiro, incidano sugli inquadramenti forniti all’istruzione-formazione. È importante che tutte le azioni formative diano senso, così che tutti coloro che, nelle diverse posizioni, sono coinvolti, sappiano che stanno dialogando di fronte a un quadro di cultura responsabile e aggiornata, per essere protagonisti significativi. Ho citato sopra i rischi della “cancel culture” come rifiuto preliminare e radicale di eredità culturali. Ma non si evita questo rischio recintando il passato di sacralità – l’antico, e riproposto, «Odi profanum vulgus et arceo», che Orazio trascriveva dallo spazio antistante al tempio –; un’operazione, si badi, che ha per esito di distillare gli addetti privilegiati, e/o ridurre l’eredità culturale in stereotipi, in motti e proverbi: in “assiomi”, come dice il poeta William Carlos Williams. Intrattenimenti vuoti di senso, dove trova spazio il consenso acritico. La stagnazione, che insieme evidenzia gli scollamenti, è avvertita dai giovani in formazione, li demotiva e contemporaneamente deteriora la vita culturale, giustificando tra gli operatori le spinte al corporativismo, alle bolle dei piccoli interessi chiusi, fasulli e effimeri.

L’operazione specifica osservata, il riordino, che ripercorre con rigore la storia delle relazioni tra Italia e Africa tra XIX e XX secolo, è da sostenere nel suo campo specifico come via maestra efficace a produrre la ricaduta adeguata nella memoria collettiva: ma ha larghe zone di trasferibilità nei vari gangli, a partire da quello attinente alla competenza storica. Recuperare la documentazione, rivedere i luoghi e i modi delle antiche trattative determina importanti “distinguo”. E apre lo spazio per nuove relazioni con coloro che ora vivono nei luoghi originari della produzione. L’urgenza di aggiornare il canone spicca nel campo storico, evidenziando subito il collegamento con il livello di consapevolezza della comunità civica. Ma, insisto, lo stesso bisogno di attenzione, così da procedere a buone revisioni e integrazioni, riguarda tutti i campi della formazione, concorrenti nell’educazione dell’uomo e del cittadino: e è da considerare buon segno di civismo se le acquisizioni di chi fa ricerca superano i luoghi specifici per dare contributi su una scena più generale.

Vaticano,. Museo etnologico

Vaticano, Museo etnologico

Tra le discipline, per l’abitudine professionale, mi risalta quella letteraria: che, certo, risulta la più “invigilata” nei contenuti. Si esige, infatti, che curi la tradizione classica, in cui si è configurato l’intero campo della stilistica, la tradizione inoltre della lingua nazionale. Certo, non c’è dubbio che debba anche curare la comunicazione con i popoli del mondo – che non è, precipuamente, la lingua specifica, se riflettiamo sui due modelli di esposizione etnologica, quello ora avviato in Italia con il Museo delle civiltà, e nel Vaticano con Anima Mundi.  Mettere insieme tutte queste esigenze è arduo. Pure l’analogia con il campo storico è evidente. La relazione con un campo culturale deve essere feconda, non stereotipata: e è lecito, incontrando opere letterarie dal mondo, riflettere sull’apporto culturale complessivo che promuovono, o promoverebbero se adeguatamente diffuse, non meno di quanto si rifletta e si trasferisca all’ambito formativo quanto riguarda le narrazioni storiche, anche tenendo presente l’esito deprecato della “cancel culture”.

Ritorno, appunto, al problema di quanto sia utile ripensare periodicamente i canoni disciplinari, mentre ho tra le mani un’opera di recente pubblicazione da considerare importante, ricapitolativa dell’insieme di scritture dell’autore: di William Carlos Williams (1883 – 1963), ginecologo e medico dell’infanzia, nonché impegnato per la cultura consapevolmente innovativa, A un discepolo solitario, pubblicata da poco presso Bompiani-Giunti (2023). Nei miei occasionali incontri con la poesia statunitense non avevo colto questa voce. L’informazione, a gennaio, è venuta da un articolo di Mauro Garofalo sulla Domenica del «Sole 24 ore» [4]. L’antologia sarebbe uscita presto, presso Bompiani-Giunti. Il titolo è editoriale, viene da un singolo componimento, dalla raccolta Al que quiere!, datata al periodo 1909-1917, un brano significativo – l’omiletica al lettore-discepolo, il mondo in cui tutto è animato, e misteriosamente collegato, la sintesi cosmica, di pesantezza, il “tozzo edificio”, e leggerezza, anzi “leggerezza-gelsomino”, della luna – che lega l’animato, entro cui si pone l’umano. Nell’avviso si elogiava sia la cura di Luigi Sampietro, sia l’«ottima traduzione di Damiano Abeni». Al momento, tengo l’opera sempre a portata.

1687207128598Raccogliendo una ventina di opere, in pratica resta fuori solo il grande poema epico Paterson: e forse proprio questo titolo ha attivato la ripresa dell’autore, tradotto in film nel 2016 da Jim Jarmusch e presentato con buon successo a Cannes nel 2016, nonché premiato con il David di Donatello come “Miglior film straniero” nel 2017. Avevo però trascurato sia l’evento, sia l’edizione a ruota, nel 2020, di un’opera del 1923, fedelmente tradotta come La primavera e tutto il resto da Tommaso Di Dio per l’editore Finis terrae di Como: Spring and all nell’originale, nel libro attuale è presente con il titolo La primavera eccetera eccetera. Dunque, nei recuperi in corso per questo autore, i curatori danno rilievo al giro d’anni fra 1917 e 1923 che comprende la poesia A un discepolo solitario, e la raccolta La primavera e tutto il resto.  

Sono date particolarmente importanti: vale ricordarlo. Nel 1917 gli USA esordivano in armi nella Grande Guerra a fianco degli Alleati, con l’obiettivo condiviso di diventare determinanti. Avevano appena “risolto” il conflitto con i popoli nativi, e trasformavano la propria dotazione culturale e materiale, affrontando la sfida con i laboratori d’Europa: ferveva uno sperimentalismo accentuato, nell’idea condivisa del progresso e della tecnologia: quei processi che, abbiamo detto, erano collegati all’idea di “nazione” e alle motivazioni che furono date dai vari soggetti che si affrontarono nella Grande Guerra.  A quella data, sui fronti dello scontro, accadevano grandi cambiamenti, rispetto al 1914. Si aprivano opportunità diverse per gli USA, che vari emissari, autorevoli – Henri Bergson, in primo luogo – mettevano in evidenza. L’uscita dalla guerra di Russia e Turchia proponeva una plastica estensione degli Alleati verso l’Asia. Quale nome attribuire, per indicare l’area continentale incisa dai fronti? Inadeguato, ormai, il nome di “Europa”: “Occidente”, piuttosto, come coalizione in opposizione a “Oriente”. Ma i fatti non furono allora pari agli obiettivi: né verso la Russia, che, dissoltosi l’Impero, si riconfigurò con la “rivoluzione dei soviet” a opera di Lenin, né verso la Turchia, che arginò e rovesciò l’assalto della Grecia nel 1922 nella cosiddetta “catastrofe”. Tutta una serie di esiti prendevano configurazioni impreviste: lanciando per il periodo futuro temi, recriminazioni, vendette, scollamenti che da allora accompagnano le relazioni nel mondo. In particolare, la questione tra “Occidente” e “Oriente” non si conformò ai desideri: restando tema aperto di guerra in guerra, fino a oggi. Si riplasmò anche, su tutti i piani, la relazione USA-Europa.

Di questa modifica, l’autore Williams è specifico testimone. Gli episodi del ricupero attuale avvengono, si è detto, nella letteratura e, come consegue all’ambito del cinema, nel gusto figurativo. Williams, se approfondito, inviterà a entrare più ampiamente nella elaborazione culturale avvenuta tra Europa e America – non solo gli USA – nel XX secolo. Me ne convinco durante la lettura, che via via mi intriga, spingendomi a misurare le lacune della mia formazione letteraria. Lacune, però, anche del “canone”, la bussola che delimita il perimetro del tempo formativo.

9788869040085_0_536_0_75L’espressione densa e personale muove da riflessioni culturali complessive di cui Williams ha discusso ampiamente, da critico, da testimone, producendo un’ampia saggistica – così dalle note biografiche – arricchita da scambi epistolari di ampio raggio. L’autore, constato, enfatizza l’effetto espressivo, e insieme lo scruta, in un incrocio di nessi, esercitando l’abitudine professionale alla cura – in quanto scienziato medico di solida formazione, specialmente europea, e, come tale, dedito nella vita alla cura dell’infanzia. Vita e poesia sono sovrapposti, nell’esperienza di Williams. L’ascrizione civile, di fatto, è stata per lui il menabò della poesia: cogliere con asciutta emozione, ascoltare dentro, privilegiare l’esito di lingua ritmata. Incontri, diversivi e ancora incontri, in un’attività instancabile, talora con ripiegamenti, conscio che i cambiamenti sono possibili, ma attento a legarsi con pronta responsabilità, a presentarsi a chi resta sfornito. Leggendo, mi sono sentita testimone di un andare e esperire senza prefigurarsi, in percorsi ordinari. Ma, se il poeta li coglie, è per la qualità della sua attenzione: sollecita e disincantata, fra interventi contraddittori, trasformazioni più o meno accompagnate da programmi. Infinite dinamiche egli percepisce, in azione nel mondo: «Ogni quattro minuti qualcuno muore/ nello stato di New York –// All’’inferno tu e la tua poesia –/ Marcirai e verrai scagliato / in un altro sistema solare/ con gli altri gas –// Ma che diamine ne sai?// ASSIOMI// Non farti ammazzare// Azione Attraversamento/ Attento// Attraversa/ Attraversamenti/ Attentamente// I CAVALLI neri&/ SI IMPENNAVANO bianchi…» (La primavera eccetera eccetera, XXV: 159).

Una contemporaneità inquieta, si osserva, a cui presenziano, per altro nella consapevolezza del pregiudizio prevalente, indiani e neri. E c’è la natura, guardata e esperita come viva lotta di dilemmi: ecco i rabbuffi incoerenti della primavera tardiva per l’uomo, ma avvertita dall’ “accozzaglia” dei vegetali, che «entrano nel nuovo mondo nudi,/ freddi, insicuri di tutto/ tranne del loro entrare. Tutt’attorno/ il vento gelido, familiare» (ivi, I: 129). Vengono a mente, è ovvio – o non troppo ovvio, perché Williams contamina il genere oggettivo con quello lirico –, i poeti “oggettivi”, Esiodo, Lucrezio: gli antichi, però, pur amati e studiati, per Williams, non sono ammessi come sonno-sogno che esoneri da partecipare alle politiche in corso: ne sono parte quelle culturali, ma hanno al centro come influire sulle relazioni del mondo, sul dominio. Williams è convinto che “cultura” e “poesia” sono ambiti contesi: ma c’è un indirizzo insano che ne fa santuario innocuo, così che, separando “addetti – non addetti”, esclude, in diversa misura, gli uni e gli altri dai luoghi delle decisioni.

In analogo abbaglio, per Williams, incorrono quanti, appellandosi a genealogie definite “radici”, intese come esclusive e escludenti, giustificano di tracciare griglie di convergenza e divergenza. Lo desumiamo nell’incontro frequente, nella lettura, con la parola “radice” e derivati, constatando che il poeta include nel significato inventiva, e disponibilità anche ad associarsi. La parola – in cui sembra di riconoscere il prototipo del concetto filosofico di “dialettica” – indica una realtà che, in qualunque ambito la si esperisca, ha sue risorse per attraversare rivestimenti inaspettati. Ecco come dice, per esempio, nella poesia sopra indicata, ma in altro punto, mentre propone il definirsi nuovo delle creature: «Eppure, il profondo cambiamento/ li ha sopraffatti: radicati/ s’afferrano al profondo e intraprendono il risveglio». Ma l’uso del termine è frequente e coerente.

Propongo un altro esempio, nel periodo 1929-1935, tratto dalla silloge intitolata Adamo & Eva & La Città, cioè la poesia Il ciclamino cremisi, in memoria del pittore amico Charles Demuth: nel componimento, ecfrasi (come si definisce il componimento poetico ispirato a quadri) di un suo quadro, la visione, coincidente con il lungo compianto, è tuttavia vissuta, quasi sacra rappresentazione, così che colori, forme, associazioni diventano meditazione sul germogliare della vita. Inaspettata, sempre ambigua, in bilico sull’inquietudine, la vita partecipata dal ciclamino è rivoluzionaria: «Così sono le foglie/ bizzarre, dell’aria/ come lo è il pensiero di radici/ oscure, conformate da/ rivoluzioni sotterranee/ e fetori/ in attesa della luna».

Filosofia, ma anche pratica e laboratorio, la plurivalenza della cultura è stata a lungo un esercizio quotidiano, per Williams, nelle esplorazioni-conferme cercate nei lunghi tour culturali in Europa. L’ecfrasi, allora, lo ha accompagnato, quasi taccuino dei contatti culturali: la raccolta ne attesta molte, anche in quegli ultimi dodici anni, in cui l’attività convisse con gli impedimenti fisici. Nella mia lettura, complessivamente cursoria, desisto dal citare dai poemi di questa parte della vita, avvertendo un nuovo esito formale, che il poeta possa allora essersi riconciliato in parte con l’espediente del “correlativo oggettivo”, già rifiutato.

È, questo, un aspetto importante, tale da interferire sull’impalcatura letteraria complessiva. Ma non trovo annotazioni che mi soccorrano al riguardo: mi limito alla segnalazione della questione, incapace ora di svilupparla. In breve, nella manualistica in uso per la storia letteraria contemporanea si propone come indizio di valore la presenza del “correlativo oggettivo”, aspetto di tecnica letteraria che coinvolge opzioni politiche. È infatti figura retorica che, salvaguardando la riservatezza, innesta accostamenti alle espressioni dell’io non mediati da nessi, esaltandone il primato. Questo è anche un espediente che armonizza con il principio anglosassone del “politically correct”. La presenza di questo ingrediente in poesia spicca – e lo si fa presente insegnando – dal tempo del riassetto culturale complessivo successivo alla fine della Seconda Grande Guerra.

La produzione di Williams sembra alla fine conciliarsi con questo espediente. Ma c’era stata un’importante sua critica nel 1923, spostata, cioè, al primo Dopoguerra. A quella data il poeta aveva polemizzato e rotto con l’amico Ezra Pound, avendo constatato l’operazione di “smagrimento” appena suggerito a Th. E. Eliot, così che questi aveva fissato il nuovo, essenziale e definitivo testo del poema Waste Land. È questa l’opera che, dagli anni Cinquanta, quasi bussola nel successivo riassetto letterario, ha guidato la stagione della poesia. Williams aveva rimproverato a Pound di ostacolare, con le sue scelte, la “costruzione di cultura popolare”, di sonorità creolizzanti, aperte non solo all’innovazione, ma alla constatazione di diffusa cittadinanza.

Il poema Paterson è la prova poetica che si contrappone a Waste Land; invece trovo singole annotazioni (sul poema, la sua gestazione, la composizione successiva dal 1946 al 1958 si trova una scheda [6] con confronti stilistici tra i due grandi poemi. Mentre compulso siti on line, la sorpresa è di incontrare molti studiosi italiani che all’autore e ai suoi poemi hanno dedicato attenzione tempestiva e frequentazioni. In effetti, i buoni contatti con il panorama mondiale della poesia non mancano, anche tempestivi, specialmente per sensibilità e proposta dei traduttori, un importante comparto. Tuttavia le iniziative editoriali restano sporadiche, episodiche: un universo di vita letteraria, diciamo così, tenuto in sordina, mere increspature che lasciano ai margini sia gli autori “recati in lingua”, come si dice, sia i mediatori, con la loro ricchezza culturale. Ecco Fernanda Pivano, la nota americanista, che cita Williams come un riferimento influente, per esempio commemorando il poeta Robert Creeley [7]: modello, dice di Williams, per i poeti della “Beat Generation”, cioè il movimento più efficace «a rinnovare la poesia americana nel mondo durante il Secondo Dopoguerra».

31504961435Altri autori hanno conosciuto e introdotto Williams. Per esempio, contatti tempestivi, anche personali, aveva instaurato Cristina Campo, nome d’arte di Vittoria Guerrini: letterata di grande sensibilità e esperienza, tradusse con finezza testi del poeta, per Scheiwiller nel 1958, poi, nel 1961, affiancata da Vittorio Sereni, per Einaudi. Pure di Paterson c’è stata un’edizione tempestiva, nel 1966, di Alfredo Rizzardi per l’editore Lerici. A ben guardare, dunque, troviamo molti residui dei materiali poetici del poeta americano, messi a disposizione della riflessione letteraria. Eppure quei materiali sono stati dispersi, caduti fuori della memoria: anzi, non solo sono archiviati i testi tradotti, ma lasciati fuori circolazione anche le composizioni originali di quei traduttori e traduttrici. Materiali dispersi, eppure connotati di grande qualità: episodi che rendono perplessi, tanto, dalla periferia in cui si ritrovano, parlano di vitalità e di cura.

L’incontro con il poeta Williams mi ha destato interesse non solo estetico, ma – certo, nella convinzione di una traduzione aderente – come nodo efficace, nei significati, nelle forme, nei ritmi esplicati, per dialogare con zone sociali in ombra, verso la loro promozione. Che questo programma sia proseguito in modo originale, ma non valorizzato dalla cultura ufficiale, è dubbio che scaturisce dal constatare il dislivello di notorietà tra la ricezione interna al proprio Paese e quella fuori – ammesso che quello che ho constatato sia ben soppesato. Le menzioni sparse che si raggiungono, presso studiosi di varie lingue, e anche in italiano, attestano un lavoro ampio, non canonico, compiuto accanto a poeti connazionali sensibili alla musica ritmata, talora girovaghi e improvvisatori, come Byron Vazakas, poeta statunitense di origine greca, o come Allen Ginsberg, o quel Robert Creeley, ricordato, come detto, da Fernanda Pivano.

Vi sono aspetti specifici, efficaci, nell’opera poetica di Williams, che fuori del proprio Paese sono circolati in ambienti limitati. Potrebbe essere che non sia stato apprezzato, desumerei dall’insieme delle varie notizie, per il fatto che, in modo precipuo, egli abbia perseverato nello studio di forme creolizzanti e colloquiali, come conferma il fatto di essere riconosciuto tra gli ispiratori della Beat Generation, e per questo motivo tenuto in disparte. Nel nostro Paese la poesia ansima, insieme con molti apparati editoriali, conservativa nei luoghi della formazione e sospettosa tra piccole cerchie che si concedono qualche innovazione. E forse si estorcono ammissioni improprie, ai poeti ammessi nel canone. Molti passi di Williams fanno riecheggiare nella memoria percezioni, problematiche esistenziali comuni anche a Eugenio Montale: coetaneo. Anche riflessioni sul quel fenomeno precipuamente umano che è la “parola”: «Non distorcere le parole che dicano/ quello che avremmo dovuto dire ma che dicano/ – l’ineludibile…», leggiamo in Williams (Armonia, da Le nuvole, in Poesie 1945-1948), e ricordiamo Montale, fino da Ossi di seppia del 1925: «Non chiederci la parola … Non domandarci la formula…».

Fra parentesi, credo di ricordare, nell’esplosione di popolarità che comportò il conseguimento del Nobel nel 1975, che – a domanda, incasellandolo nel paradigma novecentesco – lo interpellavano, la risposta: Montale accettava l’uso del correlativo oggettivo, ma non confermava una prossimità a Eliot.

Non è inappropriato considerare quel bene culturale che è la conoscenza di lingue e letterature alla stregua dei beni strategici, atti a creare legami e consenso. La messa a fuoco sui beni linguistici segna la storia non meno del trasferimento degli oggetti, la loro esibizione agganciata ai trasferimenti accaduti, il loro inserimento circostanziato nella narrazione storica. Anche in letteratura, come si è visto in modo dettagliato in storia, ma come forse può estendersi a tutti i campi disciplinari, è da auspicare una responsabilità culturale coerente, che in interlocuzione pensata tra ambienti linguistico-culturali diversi, rivedesse il canone, incrociando la pratica così da avviare vera esperienza culturale di massa. Chissà che non risultassero, allora, interlocutori impensati. 

Dialoghi Mediterranei, n. 62, luglio 2023
Note
[1] Torino, 16 dicembre 2010 – Lectio Magistralis “L’identità europea in prospettiva post-coloniale della prof. Luisa Passerini https://www.cirsde.unito.it ›.
[2]https://m.museivaticani.va/content/museivaticani-mobile/it/collezioni/musei/museo-etnologico/museo-etnologico.html
[3] https://formiche.net›2021/02›musei-vaticani-riapertura-cappella-sistina-jatta,
[4][https://www.rivistamissioniconsolata.it/2016/05/25/vaticano-museo-etnologico-lanima-mundi-dei-musei-vaticani/]
[5] https://maurogarofalo.nova100.ilsole24ore.com/2023/01/28/william-carlos-williams-il-vate-di-paterson/
[6] https://en.wikipedia.org/wiki/Paterson_(poem)
[7] https://writing.upenn.edu/epc/authors/creeley/obit/Corriere-della-Sera.html 
Riferimenti bibliografici 
Falcucci, Beatrice, «Nigrizia o morte». Raccolta ed esposizione missionaria dalle colonie italiane (1858 – 1939), in «Quaderni di storia» 169, a. LVII, 2022, 1: 161–196
Williams, William Carlos, a un discepolo solitario, a cura di Luigi Sampietro, traduzione di Damiano Abeni, Milano, Bompiani (e Firenze, Giunti), 2023 
Sitografia
Anima Mundi, (sezione del Museo Etnologico del Vaticano), https://m.museivaticani.va/content/museivaticani-mobile/it/collezioni/musei/museo-etnologico/museo-etnologico.html
Garofalo, Mauro, William Carlos Williams il vate di Paterson, in «Domenica» del «Sole 24 ore», 28.01.2023, e https://maurogarofalo.nova100.ilsole24ore.com/2023/01/28/william-carlos-williams-il-vate-di-paterson/
https://opac.bncf.firenze.sbn.it/bncf-prod/resource?uri=SBL0068579&v=l, (su William Carlos Williams, Paterson, tr. Alfredo Rizzardi, Milano, Lerici, 1966)
Jatta Barbara, https://formiche.net›2021/02›musei-vaticani-riapertura-cappella-sistina-jatta
Mapelli, Nicola, https://www.rivistamissioniconsolata.it/2016/05/25/vaticano-museo-etnologico-lanima-mundi-dei-musei-vaticani/
Passerini, Luisa, Identità europea in prospettiva postcoloniale (Torino, 16 dicembre 2010) https://www.cirsde.unito.it ›)
Paterson, https://en.wikipedia.org/wiki/Paterson_(poem) (scheda tecnica)
Pivano, Fernanda, Robert Creeley, il respiro poetico di un’America scomparsa https://writing.upenn.edu/epc/authors/creeley/obit/Corriere-della-Sera.html
Recensioni, a Giulia Grechi, Decolonizzare i musei. Sguardi incarnati, Mimesis, 2021, https://www.mimesisedizioni.it/libro/9788857572529
Tucci, Roberta, I beni culturali DEA nel Ministero della Cultura fra oblii e riconoscimenti, in «Dialoghi Mediterranei», 1° novembre 2022, https://www.istitutoeuroarabo.it/DM/i-beni-culturali-dea-nel-ministero-della-cultura-fra-oblii-riconoscimenti-apparentamenti-marginalita/ 
Viliani, Andrea, (per Giulia Basili), Un museo decoloniale e multispecie. Parla Andrea Viliani, neodirettore del Museo delle Civiltà, 21 luglio 2021, https://www.artribune.com/professioni-e-professionisti/2022/07/andrea-viliani-museo-delle-civilta-roma/

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Franca Bellucci, laureata in Lettere e in Storia, è dottore di ricerca in Filologia. Fra le pubblicazioni di ambito storico, si segnalano Donne e ceti fra romanticismo toscano e italiano (Pisa, 2008); La Grecia plurale del Risorgimento (1821 – 1915) (Pisa, 2012), nonché i numerosi articoli editi su riviste specializzate. Ha anche pubblicato raccolte di poesia: Bildungsroman. Professione insegnante (2002); Sodalizi. Axion to astikon. Due opere (2007); Libertà conferma estrema (2011).

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