di Mara Agliata e Luca Pollicino
Già in tanti, certamente più autorevoli di noi, hanno detto e scritto sul tema di EXPO Milano 2015. Nonostante il timore di essere banali, la tentazione di cadere in facili e sterili critiche, la difficoltà di coniugare sguardi e prospettive differenti, abbiamo deciso di affrontare l’argomento dell’Esposizione universale, ospitata dalla città di Milano, in una chiave di lettura che incrocia e somma due percorsi didattici e professionali molto diversi tra loro. Diversi appunto, ma non opposti: la psicologia e l’antropologia. Del resto, come fa notare Nathan (1996: 82), «Possedere una cultura ed essere dotati di psichismo sono due fatti strettamente equivalenti, e […] la differenza culturale non è una deviazione, ma un dato di fatto altrettanto “umano”, altrettanto imprescindibile quanto l’esistenza del cervello, del fegato o dei reni». Con questa affermazione, l’autore vuole porre l’accento sull’importanza di considerare la cultura come determinante fondamentale della struttura psichica di un popolo, che non può quindi essere considerata a prescindere dal luogo in cui essa si sviluppa e struttura.
Nella storia delle due discipline molti sono stati i tentativi e gli esperimenti di dialogo tra psicologi e antropologi. In questa sede intendiamo appunto presentare la nostra esperienza ad EXPO fondendo i nostri percorsi di studi e cercando di offrire i risultati di un’indagine, in chiave multidisciplinare, sul «più grande evento di sempre sull’alimentazione».
Quando abbiamo deciso di impostare il progetto di ricerca volevamo concentrarci sul complesso di emozioni ed aspettative che gente proveniente da diverse parti del mondo aveva maturato nei confronti di EXPO. L’immensa folla non ci ha, però, permesso la conduzione serena di un dialogo. Chi spingeva da un lato, chi dall’altro, le code interminabili, le pause impossibili in zone di perenne transito, ci hanno sì fornito un primo dato importante (di cui parleremo più diffusamente nel proseguo della trattazione) ma non ci hanno permesso di istituire rapporti umani “veri” e trattare argomenti di conversazione che andavano oltre le lamentele di rito per la cattiva organizzazione e le lunghe attese. In effetti, non abbiamo proprio scelto il giorno più adatto per visitare l’EXPO. Per motivi lavorativi e difficoltà logistiche avevamo a disposizione solo i fine settimana per pianificare la visita. Dunque, sabato 10 ottobre (una delle giornate più affollate), abbiamo trovato a far la fila insieme a noi ben 272.785 visitatori paganti. A questi vanno sommati i volontari, il personale dei singoli padiglioni, le forze dell’ordine e tutti i vari giornalisti e troupe televisive che allungavano a dismisura i tempi di accesso alle principali attrazioni.
Abbiamo perciò deciso di circoscrivere le nostre riflessioni ad aspettative, emozioni e perché no anche alle paure che hanno accompagnato la nostra personale esperienza. Cercando dunque di guardare in prospettiva antropo-psicologica o psico-antropologica ciò che ci circondava e quanto ci era rimasto impresso dopo la visita all’Esposizione universale.
Già dal tragitto in metro è subito chiaro che non sarà una passeggiata. La nostra stazione di partenza è al capolinea opposto; dunque, fermata dopo fermata, vediamo salire sempre più gente con stati d’animo diversi. Tra la gioia di tanti c’era anche chi aveva la sensazione di andare al patibolo, insieme ai cittadini milanesi che usano la metro per i loro spostamenti quotidiani ormai quasi rassegnati al perenne sovraffollamento dei mezzi di trasporto. Una volta arrivati a destinazione, alle 9:00 del mattino, si dischiude di fronte a noi una folla di persone che attende il lasciapassare del metal detector e i palpeggiamenti di rito. Controlli molto simili a quelli che occorre superare per prendere un aereo o per entrare in un Paese estraneo alla zona di sicurezza che gli Stati hanno stabilito per noi
Finalmente entrati, dopo quasi un’ora di processione, la prima manifestazione del concept di EXPO che ci è subito balzata agli occhi è l’immagine straripante degli schermi ben superiore a quella dei cibi. Schermi che indicano la strada, che mostrano il cibo, che illustrano come si produce, che predicono il futuro gastronomico del pianeta. Lo schermo si fa medium relazionale che si sostituisce al rapporto tra il visitatore e la “guida”, una fredda rappresentazione in loop di come gli Stati vedono se stessi. Sembrerebbe che gli organizzatori vogliano comunicare che l’umanità ha ormai raggiunto livelli tecnologici altissimi, che tutti gli Stati sono in grado di produrre grandissime quantità di alimenti grazie all’ausilio della tecnica e dell’inventiva. Quello su cui vogliamo concentrarci, però, riguarda il livello metacomunicativo: la comunicazione al di là della comunicazione.
Nella conduzione del nostro ragionamento siamo partiti dal presupposto che «non si può non comunicare». Con tale assioma, ripreso dall’opera di Watzlawick (1967), intendiamo esprimere in modo semplice un’importante caratteristica umana, ossia quella di comunicare in modo istintivo anche quando non esiste una diretta volontà di farlo. Quando si parla di comunicazione, spesso si fa riferimento al linguaggio verbale, ma esistono altre forme comunicative, come quella non verbale, che si sviluppa precocemente nell’uomo fin dai primi giorni di vita e che probabilmente, in virtù proprio di questo, racchiude in sè il potere dell’inconscio. Nonostante infatti la comparsa di forme di linguaggio più avanzate, raffinate e complesse, la componente non verbale non scompare mai del tutto; basti pensare agli atteggiamenti, alla gestualità, a certi comportamenti automatici, al modo di vestire, al modo di intonare la voce, alla postura ecc.. tutti elementi che affondano le radici e si sviluppano in età precoce e poi si evolvono e strutturano nel corso dell’intera vita di un individuo. In psicologia, essi permettono di completare l’esperienza conoscitiva acquisendo maggiori informazioni al fine di elaborare una strategia d’azione il più possibile efficace. Quest’ultima deve tener conto della complessità dell’individuo o, nel nostro caso ancor di più, della complessa rappresentazione che la “comunità mondiale” vuole dar di sé.
Coerentemente, dunque, con il primo assioma della comunicazione, si potrebbero considerare allo stesso modo dei comportamenti, degli atteggiamenti, degli stili ecc. anche alcuni prodotti materiali ideati e realizzati dall’individuo (come un quadro, una scultura, l’architettura di un palazzo ecc..) che involontariamente rivelano parti del Sé e ci guidano nella scoperta dei meandri nascosti della psiche umana. Partendo da questa riflessione (generalmente applicata al singolo individuo) si potrebbe provare a considerare in tale ottica anche la società più in generale, in quanto frutto dell’uomo, che intorno all’uomo si modifica e di nuovo agisce sull’uomo modificandolo.
In questi termini, Expo passa dall’essere un evento mediatico all’essere specchio della società moderna, proiezione che riflette inevitabilmente le peculiarità di quest’ultima, rivelandone i sintomi e le tendenze. La perdita di valori, la trasformazione dello spazio di vita da sicuro e accogliente ad ostile e minaccioso, una situazione economica e politica insostenibile che trascura le fasce più povere, l’elevata disoccupazione che impedisce ai giovani di guardare con serenità al futuro, hanno inevitabilmente interferito con la percezione del benessere e di sicurezza, causando la perdita del sentimento collettivo di appartenenza a favore di un profondo individualismo, che esita nella degradazione dei rapporti umani e nella eccessiva attenzione su di sé e sull’apparire. Insomma, conta più il contenitore del contenuto. Conta più il pacchetto all’interno del quale è custodito il cibo che la storia (e le storie) raccontata da ciò che stiamo consumando. Expo ci invita ad immaginare un mondo di schermi, plastica e cibi confezionati. Le ingestioni di piatti spersonalizzati (ora più che mai metafora del futuro che ci aspetta) è un piacere solo se i gusti del singolo consumatore riescono ad adeguarsi al sistema produttivo e di consumo promosso e imposto alla grande fiera dell’umanità. Questa massiccia proposizione di rappresentazioni e immaginari sul futuro è stata recepita e rielaborata da tutti i visitatori di Expo e, condivisa socialmente, ha alimentato e incrementato questa visione ultra tecnologica e “futuristica” dell’avvenire.
Gestualità meccanica. Tutto in confezioni standardizzate. È così che immaginiamo il futuro alimentare del pianeta? Ci sarebbe piaciuto vedere anche una differente visione del processo evolutivo del settore agroalimentare. Un futuro alternativo, non fatto di grandi macchinari e produzione industriale ma di auto-produzione e ritorno alla sinergia con l’ecosistema che ci circonda. Expo sembra manifestare o enunciare, da un lato, la necessità di riacquisire quel senso di comunità e coesione ma, dall’altro, presenta degli elementi fortemente patologici. Il cibo rievoca simbolicamente le prime esperienze infantili quando il bambino, attraverso l’allattamento, soddisfa contemporaneamente sia il bisogno di essere nutrito che quello di essere accudito, di sentirsi protetto, al sicuro tra le braccia della madre (in grado di comprendere e interpretare le esigenze del figlio e rispondere in modo sufficientemente adeguato).
Nella scelta del cibo come tema portante dell’Expo sembrerebbe riflettersi la necessità di recuperare quella dimensione relazionale che dà sicurezza e serenità. Non per altro, in Italia come in quasi tutto il mondo, il cibo è simbolo di condivisione e famiglia. Expo in quest’ottica esprime il tentativo di ricreare un clima di benessere, coesione e recupero della qualità della vita. L’intenzione degli organizzatori (almeno a parole) era quella di incoraggiare la cura dell’altro, attraverso la creazione di un evento concepito intorno alla figura umana, allo scopo di rendere il visitatore, «in questa edizione più che in ogni altra prima» attivo. Nella nostra esperienza, invece, il cibo diventa una meta da raggiungere, per cui ci si deve sottoporre ad ore di fila per poi accontentarsi di qualsiasi alimento anche non all’altezza delle aspettative, sia per quanto riguarda la qualità che i costi. Del resto, non siamo consumatori attivi, nel senso adottato da De Certeau in L’invenzione del quotidiano (2001). Il solo fatto che un determinato punto ristoro abbia sede proprio lì, certifica già la qualità dell’intero ciclo di produzione dell’alimento; che sarà così il più buono e sano del mondo (questo rischia di diventare vero anche per i vari McDonald, Coca-Cola, Algida, ecc…). Promesse tacite dunque a cui il consumatore di Expo non può far altro che credere. Cediamo così la sovranità delle nostre scelte alimentari e perdiamo il contatto con ciò che ci tiene così indissolubilmente legati al nostro pianeta: la natura.
Quest’edizione dell’Esposizione universale con tema Nutrire il Pianeta, Energia per la Vita, si è prefissata gli obiettivi di promuovere un’alimentazione più sana ed equilibrata e di incoraggiare le innovazioni per un futuro sostenibile. Sul sito di Expo si legge infatti, tra gli i vari spot: «lo scopo è quello di far vivere al visitatore un’esperienza unica, da protagonista, creando consapevolezza e partecipazione in merito al diritto a un’alimentazione sana, sicura e sufficiente, alla sostenibilità ambientale, sociale ed economica della filiera agroalimentare, alla salvaguardia del gusto e della cultura del cibo». Nonostante i nobili propositi, nel concreto è possibile ancora una volta rintracciare profonde incongruenze tra il piano del discorso esplicito e il piano non verbale. Ad esempio, osservando la piantina, appare subito chiaro che le aree verdi sono collocate, tranne qualche eccezione, per lo più ai margini, restando di fatto, nell’area centrale, predominante il cemento. Grandi “bancarelle” recintate che espongono cibi finti (forse un tentativo di performance artistica che doveva richiamare l’idea del mercato), pubblicità dei main sponsor, tantissima gente e gli enormi padiglioni come sfondo costante. Accedere a questi ultimi è davvero complicato a causa delle ore di attesa (fino a sette-otto per padiglione neanche a metà mattinata). Nonostante l’estesa superficie (110 ettari), a causa dell’enorme affluenza di quel giorno, siamo stati costretti a spingere e a farci largo tra la folla. Fruire delle attività, come anche vedere cosa si trovava davanti a noi, diventava quasi impossibile. La conoscenza delle altre culture, che doveva essere mediata dalla degustazione di pietanze, è diventata, invece, un momento di frustrazione e stanchezza, quasi alienante che ha privato (almeno nel nostro caso) del piacere della condivisione.
Lo spazio che doveva essere stato creato intorno all’uomo fa rivivere i disagi della vita quotidiana, riproduce l’esperienza di doversi barcamenare tra le file, come quando agli uffici postali e agli sportelli delle pratiche burocratiche sul rispetto e sulla considerazione per l’altro prevalgono le ragioni del profitto di pochi. Tra l’altro, ci si vanta di un certo numero di ingressi (22,2 milioni nel corso di Expo), anche se in realtà sono state probabilmente più le spese che le entrate.
Accade così che girotondi di persone abbracciano l’intero perimetro dei padiglioni, formando code che stringono a sé edifici di pregio architettonico ma che riflettono una visione del tutto occidentale dello spazio. Si creano, in questo modo, confini che premono sui visitatori: indistinguibili per classi sociali e tutti partecipi della medesima ansia di consumo. All’interno dell’Esposizione universale eravamo tutti uguali, tutti benestanti vogliosi di capire cosa ha in serbo il futuro dell’alimentazione per noi. I confini non vengono rimarcati per creare un ordine interno, quanto per creare il caos fuori. La congestione, le lunghe file e il sovraffollamento sono diventati per gli organizzatori motivo di vanto. Visti dall’alto, i migliaia di partecipanti saranno stati certo un bel colpo d’occhio ma dal basso, dalla nostra prospettiva, erano scene raccapriccianti di uomini e donne disposti a stare per ore incolonnati al solo fine di poter attestare la propria presenza.
E dunque grazie ad EXPO gli italiani hanno «imparato a fare la fila» è stato detto da più parti. O forse gli italiani si sono solo accorti che in tutto il mondo la gente è disposta ad attendere ore in fila per prendere parte ai grandi eventi. Ci è rimasto impresso il caso di un padre che, per paura di perdere la figlia, le ha scritto sulle braccia i numeri di telefono da contattare in caso di smarrimento della bambina. Il padre, preoccupato perché in fila da un po’ aveva perso le tracce della moglie e della figlia, ci chiedeva: «se voi trovaste mia figlia chiamereste il numero che le ho scritto sulle braccia?». Questa domanda, a prescindere dalla nostra risposta certamente affermativa, ci ha fatto capire l’angoscia di un padre che non ha vissuto EXPO come un posto sereno dove passare tranquillamente una domenica in famiglia. La paura costante di perdere i familiari, inghiottiti dalla immensa folla, ha messo i visitatori in una situazione di ansia. Ma forse è anche a questo che EXPO ci ha preparato. Un futuro in cui puoi solo sperare che, se mai dovessi perdere di vista tua figlia, chi la troverà sarà così gentile da telefonarti. Un futuro in cui è più importante tenere la fila che trovare i genitori di una bambina che si è persa. Un futuro in cui se siamo in fila chi mi sta davanti è solo qualcuno che entrerà prima di me e forse mi ruberà l’ultima tartina in omaggio.
Altro aspetto che ha attirato la nostra attenzione durante la breve visita ad Expo è stata la “messa in scena” delle culture dei vari Paesi ospitati nei cluster. Ancora una volta è palese la contraddizione tra ciò che è stato promesso ai visitatori (o forse venduto ai consumatori) e ciò che in realtà è stato proposto. Le identità culturali dei singoli Paesi, infatti, sono state svilite perpetrando ancora una volta modelli stereotipati già noti (come quello del “vucumprà”). Questa sensazione si fa certezza ai nostri occhi guardando le donne con il velo, sedute a terra, disegnare con l’hennè decori sulle mani dei turisti che, ignari del significato storico e culturale di quei disegni, si guardavano soddisfatti. Abbiamo pertanto assistito al solito depauperamento della storia e della cultura e alla restituzione di una versione annacquata dei significati e travisata da una visione palesemente etnocentrica.
Come sosteneva Freud (1976) sembrerebbe che, da un lato, vi sia la continua e cieca ricerca della perfezione, con un’attenzione maniacale della propria immagine sociale e, dall’altro, l’assenza di relazioni e cura dell’altro. L’eccessiva importanza data all’immagine anziché al contenuto, alla quantità, alla grandiosità e all’imponenza, anziché alla qualità, prevalgono sulla profondità e sulla promozione di legami reali e autentici, configurandosi come elementi distintivi della tendenza narcisistica della cultura del nostro Paese (Lasch, 1981), indicando con il termine “narcisista” una condizione sia individuale (quindi psicologica) che culturale (dunque sociale). L’individualismo, la competizione sociale, la guerra, le incertezze per il futuro, l’assenza di punti fermi e così via, tendono a far emergere i tratti narcisistici presenti in ognuno di noi (Lash, 1981), ormai devoti al consumismo. Il nostro sistema economico si basa su un complesso di ricompense conferite a chi è in grado di convincere gli altri ad acquistare un prodotto. Così, la paura degli effetti della vecchiaia sul nostro corpo alimenta la richiesta di interventi chirurgici. I messaggi continuamente promossi dai media diffondono i nuovi valori del nostro secolo, ossia l’avere successo, essere i numeri uno, belli, sexy e sensuali, obiettivi che forniscono una soddisfazione immediata al bisogno di sentirsi appagati, desiderati e amati e che si contrappongono a valori come la lealtà, l’integrità, la socialità e il calore interpersonale (Gabbard, 2007).
La perenne ricerca della forma perfetta e la preoccupazione per l’apparenza dominano l’organizzazione dell’Expo Milano 2015, che in quanto prodotto della nostra società sembrerebbe riflettere gli atteggiamenti narcisistici propri della cultura mediatica, proponendosi come luogo simbolico di un Sé collettivo, ma fallisce (a nostro avviso) nel suo obiettivo, anteponendo interessi di natura economica alla realizzazione di un ambiente in grado di produrre conoscenze attraverso l’interazione e la relazione con altre culture e altri esseri umani. Il lato umano di Expo si perde infatti nella tecnologia, nella stanchezza, nella dispersione e nella confusione, limitando notevolmente il potere di questo strumento. Come nella nostra società spesso accade, si punta su un’apparenza vistosa e imponente negando l’essere interiore, la profondità e la relazione.
Ma qual è l’eredità che l’esposizione universale ci consegna? Come possiamo leggere sul manifesto di Expo, «un’Esposizione Universale ha il compito di lasciare in eredità un’esperienza culturale, sociale, scientifica e tecnologica ed Expo Milano 2015 costruirà questa eredità prima di tutto grazie all’apporto dei suoi Partecipanti, cuore e anima dell’evento». Di certo non resteranno i grandi edifici o il complesso fieristico appositamente realizzato. I padiglioni verranno smantellati (alcuni torneranno nei rispettivi Paesi, altri donati a fondazioni benefiche ma per tutti gli altri non si sa cosa farne) ed è facile prevedere che il complesso fieristico verrà abbandonato all’incuria.
La vera eredità di Expo sarà probabilmente la “Carta di Milano” che, già firmata da oltre un milione di persone, contiene dei principi che interessano sia gli individui che l’approccio culturale della società alle risorse alimentari. La redazione di questo testo è stata affidata a quarantadue tavoli tecnici presieduti da figure istituzionali e da tantissimi intellettuali e studiosi provenienti da diverse parti del mondo. Dopo vari giorni di concertazione nel febbraio 2015 è stato messo per iscritto un documento che rappresenta un impegno reale ed importante di tutti i partecipanti. Un modo per invitare cittadini e decisori politici a lavorare perché le risorse alimentari diventino un diritto di tutti. Che sia questa la vera eredità di Expo? Speriamo che quanto meno i firmatari (e gli Stati che hanno sottoscritto la Carta) si impegnino a rispettarne i precetti contenuti nella carta di Milano che dovrebbero andare di pari passo con gli impegni presi dagli Stati nel corso della Conferenza mondiale sul clima che si è svolta in questi giorni. Dare attuazione alle belle parole contenute in questi documenti universali permetterebbe di imprimere un’importante svolta per le sorti del nostro pianeta. Non rimane che attivarsi e cominciare a comprendere che il futuro è di tutti e spetta a tutti noi disegnarlo.