di Diletta D’Ascia
Ho conosciuto la scultrice tunisina Najet Gherissi per caso, alcuni amici mi hanno portato nel suo atelier a Gammarth, banlieue nord di Tunisi, sin da lontano ho iniziato a scorgere alcune sculture presenti nel suo giardino e il bleu outremer che caratterizza le sue opere. Najet ci aspettava sorridendo davanti la porta della sua casa atelier e, in effetti, prima ancora del suo lavoro, mi ha colpito questa donna così forte e generosa, come Tunisi stessa, una città che si mostra immediatamente con quelle note di accoglienza che le permettono di essere amata sin dal primo istante.
Nell’atelier di Najet si respira l’arte, non solo per la presenza di opere sue e di altri pittori e scultori che ho potuto ammirare, ma per un’atmosfera che forse si è un po’ persa o dimenticata, uno spirito di condivisione in uno spazio che è anche un crocevia di artisti, un luogo che appare sospeso, in cui l’arte è protagonista e in cui ogni atto, opera, espressione diviene gesto di una rivoluzione culturale. Najet mi ha accompagnato in quello che è divenuto un piccolo viaggio nella storia dell’arte visiva tunisina contemporanea attraverso le sue opere, da cui è emerso quanto gli accadimenti storici più recenti abbiano inevitabilmente influenzato la produzione artistica degli ultimi anni in Tunisia.
Nata nel 1962, Najet Gherissi vive e lavora a Tunisi, ha studiato in Belgio a l’Ecole d’Art et de Décoration de Liège e, successivamente, ceramica al Bureau International des Métiers: fabbricazione di oggetti in ferro. Tornata in Tunisia, ha seguito corsi di pittura presso il Centre Vivant d’Arts de Rades e, dal 2004, realizza esposizioni personali e collettive in Tunisia e in altri Paesi; attualmente sta esponendo in Francia a Aix-en-Provence e il prossimo autunno le sue sculture saranno ospitate in Corea del Sud.
L’osservazione di ciò che la circonda influenza indubbiamente il lavoro di questa scultrice, curiosa, piena di fantasia, una persona che possiede l’abilità di rendere ciò che il suo sguardo attento cattura e di trasformarlo grazie alla sua visione, una donna che ha scelto il ferro come metallo prediletto per le sue sculture monumentali, la cui espressività è accentuata dal colore blu mediterraneo, il “bleu outremer” che la caratterizza e la distingue e che ricorda il blu di Henri Matisse e di Yves Klein, ma che richiama anche le origini profondamente mediterranee di quest’artista.
Ciò che personalmente ho colto e che mi ha affascinato è la delicatezza e allo stesso tempo la forza di queste sculture, i messaggi anche duri, sofferti che possono celare e che a volte colpiscono in modo inaspettato, basta osservarle da un’angolazione differente o nella loro completezza o soffermarsi a riflettere su ciò che realmente l’artista desiderava comunicare per rendersi conto di come quella dolcezza, quella delicatezza arrivi in realtà come un colpo durissimo che ci obbliga a riflettere, a divenire parte della sua arte, spingendoci a prendere una posizione.
Le sculture, i dipinti e le “tôles” di Najet Gherissi sono monumentali, per le dimensioni certamente, ma anche per l’impatto sull’osservatore; Najet, come lei stessa afferma, ha scelto di «lavorare sul monumentale», così come ha scelto il ferro come metallo da scolpire, una scelta coraggiosa e controcorrente. D’altra parte bisogna sottolineare che le opere scolpite da questa scultrice, sin dai suoi inizi, sono sempre state impressionanti per le loro forme originali, sia umane che animali, spesso realizzando animali antropomorfi e figure zoomorfe, ma anche per le loro dimensioni straordinarie che, inevitabilmente, necessitano di luoghi spaziosi.
Prima di approdare al ferro, Najet ha utilizzato ogni tipo di materiale, marmo, ceramica, legno, pietra, mosaico, dunque il suo è stato un lungo percorso che l’ha portata a scegliere in modo consapevole, ma anche istintivo, il ferro come metallo prediletto, materia povera e nobile allo stesso tempo, per cui ha provato e prova un amore particolare, è la sua fonte d’ispirazione. Quello che cerca di fare questa donna passionale e generosa è di dare a questa materia fredda la forma dell’amore, poiché la passione non conosce limiti né freddezza. In piena creazione il ferro si esprime in modo diverso, non è più il metallo di uso comune, ma diviene un mezzo d’espressione, una materia in divenire, un’opera che ci tocca e che obbliga a interrogarci su noi stessi. Ed è lì che lei interviene per creare una storia, per dare nuova vita al metallo, cercando di arricchire e di conferire nobiltà alla materia, rendendo il ferro simile e all’altezza di materiali quali il bronzo o il marmo.
Mi ha colpita profondamente la delicatezza di alcune sue sculture, una sorta di gentilezza che forse non ci si aspetta da un metallo come il ferro, ma è proprio qui che nasce l’arte di Najet, nel far dimenticare completamente l’utilizzo che si fa comunemente di questa materia per donargli una nuova vita, poiché «il duro è nel ferro, ma sono le emozioni a essere duttili»; il ferro, in fondo, è un ottimo conduttore che può essere scaldato, forgiato, attraversato dal fuoco, a differenza del legno che brucia e si consuma. «La violenza è nel ferro», afferma Najet, tra loro si instaura una lotta, «come quando si fa l’amore», e da questa lotta tra l’artista e la materia nasce qualcosa di diverso, di altro, è lì che lei interviene, anche in modo istintivo, dando un’altra vita all’opera. Ciò che accade quando quest’artista lavora la materia è dunque una specie di osmosi, una fusione straordinaria che si proietta poi fuori dal tempo e dallo spazio. Osservando le sue opere confessa di provare la stessa sensazione che si avverte quando si guarda un figlio, un figlio che sente illegittimo poiché senza padre, ma che vive con tutta la sua forza e la sua unicità, ed è in tale prospettiva che considera le sue opere in ferro non come oggetti di consumo, ma destinate a procurare un’emozione artistica.
Le opere di Gherissi nascono dalla sua immaginazione, visualizza l’opera, in un certo senso la sogna, «on est dedans» afferma con semplicità quando cerco di comprendere come prendono vita le sue opere; le idee arrivano così, a volte sente la necessità di realizzare uno schizzo, un lavoro preparatorio per la scultura – non bisogna infatti dimenticare che Najet non è solo una scultrice, ma disegna e dipinge – per poi lasciarsi guidare dal suo istinto e dalla materia nelle settimane o nei mesi successivi in cui lavorerà alla sua opera.
Najet ha realizzato diverse sculture con strumenti musicali, trasformando ad esempio un semplice primus, uno strumento tradizionale della cultura tunisina, un utensile che i giovani non conoscono e che veniva utilizzato nel passato quando si poneva la marmitta su un piccolo fornello a petrolio. Najet ha trasformato questo oggetto in uno strumento musicale, immettendovi, soffiandovi un’anima e facendolo diventare un’opera d’arte affinché possa resistere nel tempo.
Alcune sculture nascono a partire e recuperando materiali riciclati, ad esempio la scultura del toro è stata creata dal recupero di una moto; Najet nelle sue installazioni conferisce un’altra vita a semplici oggetti, è il caso di La violiniste, Le temps, La femme au bouquet, in cui forgia, piega sotto la sua forza e la sua creatività il ferro, rendendo omaggio, nelle loro dimensioni reali, a figure o a strumenti ormai scomparsi.
Diverse sono le sculture di Gherissi che vedono gli strumenti musicali protagonisti, a volte realizzati a partire dalla sovrapposizione di lamiere disposte in parallelo così da creare quella trasparenza e leggerezza che rappresentano la fluidità musicale. Abbiamo la percezione, osservandole, di sentire la musica provenire da queste opere, quasi l’occhio vedesse e rinviasse all’orecchio una musica invisibile scolpita da Najet. Emerge dunque anche il desiderio, sempre presente nell’artista, di far incontrare le arti e, con un’intenzione forse simile, ha dato vita a forme ibride tra pittura e scultura, iniziando a dipingere sul metallo e realizzando “tôles”, lamiere in ferro, scolpite e dipinte.
In questo percorso si è lasciata guidare, ancora una volta, dal suo istinto, scegliendo di non abbandonare del tutto la scultura ma di tornare alla pittura, dipingendo l’acciaio come fosse una tela. Nel suo atelier ho avuto la fortuna di poter apprezzare da vicino una di queste opere che a una certa distanza danno l’illusione di trovarci davanti a un dipinto su tela, per poi renderci conto che l’opera realizzata è frutto di un lavoro molto più lungo e laborioso; un’opera straordinaria, maestosa, dai colori vivaci, la lamiera diviene un supporto, una tela su cui lavorare, scolpire, incidere, un lavoro che richiede forza, pazienza, attesa. Mi spiega infatti che dipingere un’opera di questo tipo necessita di molto tempo e cura per scolpirla, si tratta di una pittura a olio su lamiera, dunque l’artista deve passare il colore in strati successivi, lasciando il tempo necessario affinché ogni strato possa asciugarsi, così da rendere le vibrazioni cromatiche che daranno vita alle figure dipinte.
La tôle è forata, affinché possa essere apposta dietro una fonte di luce che la illumini e che faccia riacquistare, a un’opera piatta, la tridimensionalità; sono opere lavorate con la fiamma ossidrica, tagliate, saldate, dipinte, quadri metallici che posseggono una forza visiva straordinaria, in cui a volte omaggia Cézanne o Picasso e che dipinge come scolpisce e lavora il metallo, o dipinti ispirati a Klimt, da cui ha tratto ispirazione per realizzare il suo “bacio”. La scultura “La dame aux jumelles”, esposta al MACAM, Musée National d’Art Moderne et Contemporain di Tunisi nasce, ancora una volta, dall’osservazione e dalla curiosità di quest’artista, la quale trovandosi in un ristorante ha visto una donna con dei grandi occhiali… la scintilla creatrice si è innescata e Najet ha realizzato questa magnifica scultura in cui il cannocchiale prende il posto degli occhiali e in cui, ancora una volta, il bleu outremer è protagonista.
Al MACAM possiamo ammirare anche altre opere di Najet, il monumentale “Body – Drawers” e figure estremamente stilizzate con arti esagerati in cui l’uso del blu richiama la nostra attenzione come “The man of the newspaper”, un uomo seduto intento a leggere un giornale, una figura longilinea come molte di quest’artista. Diverse sono le figure zoomorfe: la capra con uno strumento musicale, la monumentale giraffa, il gallo, un animale che ama e scolpisce frequentemente, basti pensare a tutta la serie “Chair de poule”, da cui emerge anche la sottile ironia del gioco di parole che trasferisce nella materia. Ironia che ritroviamo nella splendida scultura di una donna africana, incinta; Najet aveva infatti compreso che alla mostra in cui avrebbe esposto l’opera avrebbero preferito non fosse una donna nera a essere rappresentata e così ha deciso che la donna sarebbe stata incinta, con una grande pancia, pronta a generare altre donne e uomini neri.
In queste sculture si riconosce l’umorismo di questa donna, l’aspetto più dolce e quasi innocente presente ad esempio in “Le talon rouge”, chi di noi da bambino non ha indossato le scarpe di un genitore? In quest’opera vediamo le scarpe rosse, enormi, che una figura blu, un bambino, cerca di indossare, emerge l’ironia del soggetto scelto, ma anche un lavoro maestoso, il corpo blu con un grande cappello e la presenza di alcuni fiori sulla figura donano all’osservatore un senso di quiete e un istintivo ritorno all’infanzia.
L’infanzia, ma in tutt’altra declinazione, è protagonista anche di “Le jugement”, un’opera dura, che si impone e ci chiama a riflettere, tragica e dolce allo stesso tempo. Si tratta della scultura di un bambino con una cartella che con il dito indica qualcosa: nel vederla d’istinto si immagina un ragazzino che va a scuola, un’atmosfera di serenità, un bambino con tutta la vita davanti a sé. La scultura è dipinta con i colori che Gherissi predilige, il blu oltremare, il rosso della maglietta, ciò che il bambino indica potrebbe essere qualunque cosa, ma è solo voltandoci e vedendo l’opera nella sua interezza che, improvvisamente, comprendiamo chi sia quel ragazzino.
Di fronte alla scultura, Najet ha realizzato una tôle in cui ha ritratto i capi di Stato responsabili della morte del bambino, che non è altri che il profugo siriano morto annegato in mare e ritrovato sulla spiaggia alcuni anni fa, che divenne un simbolo di tante vittime. Il suo gesto acquista un significato del tutto diverso, è un j’accuse, forte, netto nei confronti dei responsabili, di chi ha rubato l’infanzia e ogni sogno d’avvenire. È un’opera dura, Najet sceglie di mostrarci il bambino ancora vivo e questo ci destabilizza, ci colpisce ancora più profondamente, afferma infatti che per lei quel ragazzino non è mai morto, lo immagina vivo, ma questo ci spinge anche a pensare a tutti gli altri bambini che sono morti e, molto probabilmente, moriranno. La tridimensionalità delle figure che fuoriescono dalla tela di acciaio rende l’opera viva, grazie anche alla mescolanza di generi. L’artista riesce ancora una volta a esprimere l’emozione, l’energia, il movimento, i gesti del corpo tramite il vigore del tratto e la forza del colore.
Questa tecnica in cui arriva a una fusione tra il dipinto di una tôle e una scultura era già stata utilizzata dalla scultrice in altre opere, ad esempio in Un passo avanti, realizzata nel 2014 in cui due piedi umani sfondano un muro, suggerendo un momento di liberazione. Questo gesto incarna il momento della svolta, mostra il movimento deliberato di un individuo che desidera e agisce per liberarsi dall’oppressione. Un gesto che può essere anche visto come rappresentativo di un movimento collettivo che ha rotto il silenzio durante il periodo della rivoluzione, un passo tra molti fatti e molti ancora da compiere, un primo passo che innesca un processo di liberazione e che ci ricorda che qualunque rivoluzione, affinché possa compiersi, è un processo in continuo movimento.
Vi è una scultura monumentale di Najet Gherissi che in qualche modo ha segnato artisticamente il momento della rivoluzione, realizzata durante il periodo in cui Ben Ali era ancora al potere, con un significato dunque differente da quello che poi assunse, rimasta nel suo atelier a causa di uno slittamento della mostra in cui avrebbe dovuta esporla e poi presentata al pubblico in piena rivoluzione. Il 18 ottobre 2011, dunque alcuni giorni prima di quel 23 ottobre che ha segnato la Tunisia, una data indimenticabile per i tunisini che hanno potuto votare per la prima volta in piena libertà, ha avuto luogo un’esposizione collettiva, “Je vote”; finalmente liberi dalla censura politica che avevano subito nel periodo precedente la rivoluzione, gli artisti si trovavano ora di fronte a un’altra censura alla quale, con coraggio e resistenza, si opposero. Najet Gherissi ha installato, il 18 ottobre 2011, la sua scultura monumentale in avenue Bourguiba, nel centro di Tunisi. Un gigante da cui escono figure che vengono stritolate, calpestate, alcune le vediamo nel tentativo di rovesciarlo, letteralmente, facendo forza sotto il suo tallone per sollevarlo e spingerlo a cadere in avanti. L’opera era destinata a ricevere i graffiti e i segni degli artisti e del pubblico presente, tuttavia i salafiti si presentarono attaccando gli organizzatori e gli artisti presenti a avenue Bourguiba, tentando di bloccare l’esposizione e di distruggere l’opera di Gherissi.
L’arte diviene, dunque, concretamente il simbolo della resistenza, un segno di speranza grazie agli artisti che si assumono dei rischi con le loro opere. In quel periodo, a seguito della primavera araba, viene messa in atto una vera e propria rivoluzione culturale da parte degli artisti che scendono in strada, coinvolgendo il pubblico, organizzando mostre ed esposizioni al di fuori dei contesti museali. Per gli artisti la città non è più un luogo da rappresentare, ma uno spazio dove agire e lavorare alla trasformazione della realtà.
Najet parla a lungo della mancanza di opere d’arte negli spazi pubblici nelle strade in Tunisia, manca in questo senso una tradizione, basti pensare che alcune opere monumentali di Najet commissionate da alcune città in Tunisia sono state rubate, tra cui “Le cheval de Jukurta” esposto in una rotonda a Gafsa, nessuno sa dove sia finita quest’opera voluminosa e pesante, stesso destino per “Le cheval fleuri” a Kasserine, manca dunque una certa abitudine a vedere e a esporre opere d’arte al di fuori di contesti e spazi più tradizionali, una consuetudine che gli artisti dopo la rivoluzione hanno iniziato a rompere.
Spiega bene il concetto un’espressione che utilizza Najet per parlare di questo periodo, afferma «on a attaqué la rue», gli artisti hanno portato l’arte nelle strade, poiché l’arte viene creata per se stessi e per gli altri e crea una connessione tra le persone, spinge a riflettere, a porsi domande, ecco dunque comprensibile – ma non certo giustificabile – la reazione degli integralisti che si sono sentiti minacciati dall’opera di Najet, percependo la potenza e la forza dell’arte in un momento in cui si riversava nelle strade, così che tutti potessero esserne pervasi. Probabilmente non tutto il pubblico aveva e ha gli strumenti necessari per comprendere un’opera d’arte, ma essere circondati dall’arte cambia la percezione delle persone, modifica la visione che hanno di loro stessi e del mondo, li spinge ad aprirsi agli altri, fin quando l’arte non arriva infine a rispecchiare la città come “ville ouverte”. Najet mi parla ad esempio di alcune sue esperienze con i bambini con cui ha dipinto o altri di un quartiere popolare che ha accolto nel suo atelier, racconta che questi ragazzini si sono interessati con grande curiosità alle sue opere, rimanendone affascinati, le hanno posto domande, così che questi incontri divengono anche un atto concreto per salvarli dall’oscurantismo o anche da un appiattimento al quale spesso assistiamo.
“On a attaqué la rue” non è tuttavia solo il simbolo della connessione creatasi con il pubblico, ma anche il simbolo del diritto dell’artista di poter creare liberamente. Dopo la rivoluzione gli artisti hanno occupato le strade, i luoghi pubblici e i muri con le loro performances, installazioni, graffiti, non è insolito oggi, infatti, vedere magnifici graffiti e murales realizzati da artisti; dopo la rivoluzione l’arte è divenuta, concretamente, per tutti, irrompendo nelle strade e nella vita delle persone, così che in questo periodo si può dire che l’arte non sia mai stata così vicino alla gente e alla vita.
Le gallerie d’arte dopo qualche mese hanno iniziato a organizzare esposizioni collettive, Najet stessa ha preso parte a diverse mostre con le sue opere, la Printemps des Art ad esempio è stata la più grande manifestazione in Tunisia mai realizzata, con 150 artisti provenienti da tutto il Paese; nel 2015 è stata fondata un’associazione e sono state promosse una serie di esposizioni con artisti di tutto il mondo. Hanno lavorato e vissuto insieme, dando vita a una convivialità divenuta carburante per la loro arte, in uno scambio continuo, in cui non solo hanno sperimentato artisticamente, ma ne sono usciti arricchiti da un punto di vista umano, poiché la relazione umana era stata posta al centro dell’esperienza.
A guardar bene, gli artisti impongono oggi una riflessione sull’opera d’arte in relazione ai nuovi media e ai nuovi luoghi di esposizioni; hanno fatto ricorso a nuove pratiche e nuove forme d’arte (street art, installazioni, performance, video art, digital art, video mapping…) rompendo con le forme convenzionali delle generazioni precedenti. Oggi molte manifestazioni condividono l’idea di recuperare luoghi solitamente non destinati all’arte e mai pensati per accogliere attività artistiche, spazi che offrono agli artisti la possibilità di installare le proprie opere al di fuori del contesto abituale; il museo e le gallerie d’arte non sono più i luoghi privilegiati per accogliere le forme dell’arte contemporanea. Il patrocinio di Vermeg, in questo periodo, è stato per Najet come per molti altri artisti, un sostegno fondamentale, che ha permesso di creare e dare vita a molte mostre ed esposizioni.
Le sculture di “bancs”, di panchine, sono un’altra serie interessante di questa scultrice, una delle prime opere che ho scorto nel suo giardino e che ha realizzato in decine di declinazioni differenti e che hanno assunto dopo il periodo della pandemia un significato ancora più profondo. Le sculture delle panchine hanno sempre una figura zoomorfa o umana e accanto un posto lasciato vuoto, il vuoto dedicato a “qui est parti”, coloro che sono partiti per un altro mondo, Najet evita sempre di evocare in modo diretto la morte, ancora una volta si percepisce la sua delicatezza e sensibilità.
In una di queste sculture vediamo la figura di un signore con alcuni fiori, Najet raffigura qui un uomo che ha perso la donna amata e che continua ogni giorno a sedersi su una panchina e a portarle dei fiori. La panchina diviene luogo di comunicazione tra il cielo e la terra, l’atto di sedersi su uno dei suoi bancs, assume una connotazione più profonda, ci si siede, si ricorda chi è partito, si instaura un legame, un modo per fermarsi, riflettere, forse sentirsi meno soli e poter colmare il vuoto lasciato.
Najet Gherissi non ha scelto di essere un’artista, ma di essere se stessa, si pone “devant la matière” ed è così che nasce un’avventura, la creazione di una storia, ogni volta diversa, ma fedele alla sua visione dell’arte e della vita. Najet è stata la prima donna e la prima scultrice ad aver scelto il monumentale, il blu e il ferro; la dame de fer, come l’hanno soprannominata poiché da questo corpo piccolo ed esile emerge un’incredibile forza, energia e ironia, con questa materia ha scritto e continua a scrivere una storia di convivialità, esperienze di dialoghi e conversazioni ricche e piene di follia.
Najet si dice ottimista, poiché crede fortemente che la vera rivoluzione culturale stia iniziando, sebbene non in molti se ne rendano conto, tuttavia quando vede i giovani uscire per la strada e afferrare i loro strumenti musicali o dipingere i muri dando vita a nuove forme d’arte interessanti e commoventi, questo le dà speranza per il futuro. L’arte, d’altra parte, è la vera rivoluzione innescata, è una forma di resistenza, l’ossigeno della vita, il motore che continuerà a mantenere viva la rivoluzione e a spingerci a credere che un mondo come quello creato dall’immaginazione di Najet Gherissi sia possibile e vicino dall’essere concretizzato. Da parte mia voglio credere che le sue sculture rubate abbiano scritto una nuova storia, che si siano inserite nel percorso di una rivoluzione culturale, nel sogno di comunicare e risvegliare dall’oscurantismo, che abbiano incontrato persone che siano rimaste affascinate, destabilizzate e che siano state spinte a riflettere da quel bleu outremer, quel colore che resiste a tutte le intemperie e che sottolinea, ancora una volta, la presenza e la comunanza nel Mediterraneo.
Dialoghi Mediterranei, n. 63, settembre 2023
_____________________________________________________________
Diletta D’Ascia, laureatasi a Roma al D.A.M.S. in Teorie psicoanalitiche del Cinema, ottiene un riconoscimento di merito al Premio Tesi di Laurea Pier Paolo Pasolini, con la sua tesi. Vive e lavora tra Roma e Tunisi; dirige e scrive vari cortometraggi e mediometraggi e pubblica articoli e saggi in varie riviste. È fondatore e Presidente dell’Associazione Culturale Gli Utopisti, con cui dal 2010 si occupa di realizzare corsi di formazione di cinema e progetti legati al sociale, in particolar modo contro la violenza sulle donne.
______________________________________________________________