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Tempi trimestrali, spazi regionali: la “Rivista Abruzzese” dal 1886 alle sfide dell’open access

266180030_4659597870786484_1356430455276356022_ndi Lia Giancristofaro 

Un numero periodico da centocinquant’anni 

Nel 2003, realizzando una escursione culturalista nella storia dell’editoria abruzzese [1], mi imbattei in questa considerazione di Henri-Jean Martin, specialista della storia del libro: «Il libro non esercita più il potere che aveva una volta, non è più padrone dei nostri ragionamenti o dei nostri sentimenti, di fronte ai nuovi mezzi di informazione e comunicazione che ora abbiamo» (Martin 1994). Queste idee di Martin, presenti anche nel suo volume del 2004, trent’anni fa, quando la diffusione capillare e globale del web era ancora agli albori, mi sembrarono fantascienza. Eppure, in una accelerazione di pochi anni, è cambiato molto, e ciò che prima davamo per scontato, come la sostenibilità dei periodici sul supporto cartaceo, oggi deve essere radicalmente ridiscusso. Ma c’è di più, perché ad essere ridiscusso, oltre al supporto, è lo stesso prodotto intellettuale.

Da bambina e da ragazza non facevo che leggere; scrivo saggi e articoli dal 1994, nel 1999 sono diventata giornalista e dal 2000 dirigo un trimestrale, la Rivista Abruzzese. Dal 1994 a oggi, ho prodotto quattrocento, cinquecento articoli, ognuno dei quali è stato supportato da un pesante lavoro di ricerca intellettuale. Considerando l’estensione degli strumenti informatici, in particolare del Web 2.0, per una volta sola ho voluto sperimentare il nuovo modo “intelligente” di consultare e produrre testi, cioè ChatGPT: stavo stendendo un saggio critico sulla Costa dei Trabocchi (CH) e, volendo vedere se la tecnologia poteva fare di meglio, ho dato il tema a ChatGPT, che ha confezionato un articolo grammaticalmente perfetto, ma scadente nei contenuti. Piatto, banale, prono alle esigenze del mercato turistico e completamente acritico. Di fronte alla deludente performance dell’intelligenza artificiale, ho ripreso coraggio, scrivendo di getto l’articolo critico che volevo [2]. Comunque, il cambiamento è irreversibile: digitalizzati o composti direttamente “su” e “per il” computer, veicolati da invii telematici la cui fruizione è potenzialmente limitabile solo da un blackout elettrico, i saggi e gli articoli si prestano a molteplici appropriazioni e manipolazioni individuali, in gran parte incontrollabili, e quando metterò quell’articolo sul web, ChatGPT lo ingloberà senz’altro nelle sue larghe fauci.

La scrittura scientifica, anche quella delle discipline umanistiche, è da tempo stata modificata dall’intelligenza artificiale: i processi discorsivi lineari che dominano la saggistica sono stati spiazzati dai nuovi dispositivi, entrati a gamba tesa e fondati su una organizzazione della conoscenza nuova e interattiva, dominata dai collegamenti ipertestuali. Si è sviluppata una cognizione nuova, prefigurata dagli intellettuali più critici quando osservarono i primi impatti della televisione come mezzo di comunicazione di massa (cfr. McLuhan 1962).

Negli ultimi vent’anni, sono entrate in crisi molte testate storiche, come quella che ho l’onere e l’onore di dirigere. Il declino, ormai storico, dei media stampati, a cominciare dai quotidiani venduti in edicola, ha subìto una accelerazione inarrestabile, pari solo alla crescente propensione per una informazione sempre più affidata ai social e agli algoritmi: una disintermediazione che diventa sovente disinformazione [3]. Come cambiano, in questo contesto scivoloso, la fruizione e la sostenibilità di un periodico culturale che si fonda sul regionalismo e sulla carta stampata? Anche se è caratterizzato dalla periodicità, dalla tempestività temporale e dalla diffusione geografica, il fascicolo della rivista ha le caratteristiche del libro: sia nella sua materialità (il fascicolo è un oggetto costituito da fogli di carta piegati, rilegati e dotati di copertina), sia nelle sue funzioni di gerarchizzazione, trasmissione e conservazione del sapere. E, come ogni libro, anche il fascicolo di una rivista è in competizione con il Web 2.0, anzi è messo in crisi da esso. Ma andiamo per gradi. 

71zd1dgsdgl-_ac_uf10001000_ql80_Nata nel 1886 dal volontariato competente 

«La miniera va ai minatori, disse Verlengia a me, e io ora lo dico a te. Comincio ad essere stanco di tutto questo lavoro. Dal primo gennaio del 2000, il direttore della Rivista Abruzzese sarai tu. Domani faremo la variazione al Tribunale». Le parole di mio padre, nel 1999, mi inorgoglirono ma, nello stesso tempo, mi preoccuparono. Avrei deluso gli abbonati? E, soprattutto, sarei riuscita a conciliare questa attività culturale, squisitamente volontaristica, con il lavoro di insegnante che mi dava il pane, e con gli altri progetti culturali che portavo avanti?

Fin da ragazza avevo dato una mano ai miei nella redazione della Rivista. La sede era casa nostra, a Lanciano; il telefono era quello della famiglia, il magazzino era il nostro garage, nel quale non abbiamo mai potuto parcheggiare l’automobile e nemmeno il motorino, tanto era ingombro di volumi, scatole e vecchi fascicoli. Assieme a mio fratello, rispondevo al telefono, prendevo nota delle richieste degli abbonati, aprivo la posta, confezionavo pacchi di libri, riordinavo il magazzino, aiutavo a correggere le bozze, insomma, giocavo a fare la segretaria di redazione. Per anni, peraltro, casa nostra, oltre ad essere la sede della Rivista Abruzzese, era stata anche la sede editoriale della Casa Editrice Rocco Carabba, che mio padre aveva contribuito a rifondare nel 1966 assieme a Domenico Barbati e altri volenterosi locali, tutti animati da mecenatismo. Il grosso del lavoro, ovviamente, gravava sulle spalle dei miei genitori e su altri collaboratori assidui, disponibili a gestire e a valutare (oggi si chiama peer review) i contributi che arrivavano alla redazione: Eide Spedicato, Alfonso M. di Nola, Ireneo Bellotta, Aristide Vecchioni, Michele Scioli, Alfredo Sabella, Nicola Fiorentino, Adriano Ghisetti, Maria Rosaria La Morgia, Umberto Russo, etc.

Stagista ob torto collo (“se non lo fai tu questo lavoro gratuito, mi sai dire chi lo farà?”, così tuonava mio padre), nel 1994 avevo portato in redazione la novità del personal computer, confezionando io stessa l’impaginato dei fascicoli. Ma mio padre aveva continuato a scrivere di getto i suoi editoriali con la sua vecchia, amatissima Olivetti degli anni ‘40, che aveva comprato usata quando era adolescente in una Lanciano ancora in macerie; sicché, con molta pazienza, dovevo trascrivere gli articoli in un file Word, per realizzare ogni fascicolo della Rivista. Dal 1989 in poi, avevo anche proposto, e pubblicato racconti brevi, recensioni, e poi nel 1996 il primo vero articolo, su corporeità e diritti umani. Nel 1999, avevo innovato ulteriormente il periodico confezionando un sito web semplice, rivista-abruzzese.it, coi contatti e coi materiali archivistici più utili perché gli interessati conoscessero i contenuti della Rivista dal 1948 alla contemporaneità.

ldfout_001391-rivista-abruzzese-fascicolo-iv-1949-1-jpg-768x768_q85L’entrata della Rivista sul web e la disponibilità on line degli indici ebbero effetti imprevedibili e cominciarono a telefonare, o mandare mail, studiosi da Oxford e Berlino per chiedere la scansione di qualche fascicolo: un lavoro che facevo gratuitamente, ripagata solo dal fatto che gli articoli della Rivista erano utili e di qualità. Insomma, questo ménage dall’impronta frugale e volontaristica non consentiva di retribuire un aiuto, dunque erano i membri della famiglia ad essere reclutati nel lavoro editoriale. Lavorare gratis per la cultura è il prezzo della libertà, dell’autonomia, sottolineava mio padre per motivare il gruppo.

Insomma, con questi presupposti il primo gennaio del 2000 ho iniziato a dirigere una rivista culturale indipendente: antica (la più antica d’Abruzzo e tra le più antiche d’Europa), ma priva di sovvenzioni pubbliche, priva di pubblicità commerciale e fondata sul solo riscontro economico degli abbonati, concentrati in Abruzzo ma sparsi anche a Roma e in altre città. La procedura editoriale sobria e autogestita era la scelta di mio padre, che a sua volta l’aveva mutuata da Francesco Verlengia, di cui parleremo in seguito. La Rivista era proprietà di mio padre, ma il passaggio non era frutto di una scelta “familista”: ero stata lungamente messa alla prova e, appunto, non c’erano altre soluzioni. In più, rappresentavo quella professionalità mista che, frutto di un apparente ossimoro, rispecchiava gli interessi e le passioni “miscellanee” della mia famiglia, assieme allo scarso interesse per il guadagno e alla convinzione che in provincia si riesca a fare molte più cose che nei cosiddetti “centri del potere culturale” [4]. Del resto, questa stessa formazione giuridica e umanistica ce l’aveva anche mio padre nel 1961, quando, a 23 anni, giornalista e insegnante di storia e filosofia, aveva ricevuto l’onere della direzione della Rivista Abruzzese dal suo rifondatore, Francesco Verlengia.

Eccolo qui, finalmente, il rifondatore: dobbiamo assolutamente parlare di quest’altro intellettuale impegnato. Verlengia, nativo di Lama dei Peligni (CH), nel 1948 era direttore della Biblioteca Provinciale “Angelo Camillo De Meis” di Chieti quando decise di dar vita alla Rivista Abruzzese (RA) certamente per riattivare, in regione, una coscienza civile nella neonata Repubblica Italiana, ma soprattutto per continuare il progetto editoriale che era iniziato a Teramo nel 1886 per volontà di Orazio Albi, Eugenio Cerulli, Federico Occella, Giuseppe Savini e Vittorio Savorini, cioè la Rivista abruzzese di scienze e lettere (RASL); questo trimestrale portava l’impronta dello storico e bibliografo Giacinto Pannella, che l’aveva diretto dal 1892, ne aveva variato il titolo in Rivista abruzzese di scienze, lettere e arti (RASLA); e nel 1919, ormai cieco, aveva dovuto chiudere la difficile impresa editoriale. 

1La RASLA teramana segnò (e costruì) la vita intellettuale regionale per oltre trent’anni: pubblicò ricerche di storia, storia dell’arte, archeologia, filosofia, filologia, linguistica, dialettologia e scienza del folklore. Il periodico che recepiva il fervore positivistico e naturalistico di fine Ottocento e, pur nel sostanziale eclettismo dei suoi articoli (entrava in ogni campo di studio), era luogo di riflessioni coerenti sulla realtà regionale, sulla sua vita culturale, sui suoi maestri d’arte e di pensiero, sui suoi circoli, sulle sue comunità. Questo regionalismo espresse prospettive tutt’altro che municipali, in uno sforzo di rinnovamento scientifico che si intrecciava all’evoluzionismo e ai grandi movimenti culturali italiani ed europei. La RASLA fu, nei suoi 34 anni di complessiva presenza, il primo, organico tentativo di esplorare e dar voce alla storia e ai talenti del territorio regionale, superando la grettezza e la chiusura del parrocchialismo, del campanilismo e del provincialismo [5]. Un regionalismo illuminato e aperto insomma, come mostra la presenza, sulla testata, di voci extraregionali, in una illuminata attività di confronto, in una visione pratica e “civile” dell’idea antropologica di cultura, col limite (che è da contestualizzare) di una scarsissima partecipazione femminile.   

regestoDal buio del 1919 alla rinascita del 1948: altre caratteristiche della “miscellanea” 

Ricca di articoli di storia, ma anche di etnologia, sociologia, letteratura e politica, la miscellanea teramana, priva di pubblicità commerciale, stampata dalla Tipografia del Corriere abruzzese (Teramo) e distribuita sia nelle librerie, sia tramite abbonamento postale, si reggeva sui ricavi delle vendite. In queste condizioni, era impensabile ricavarne una retribuzione professionale, e tutto gravò sulle generose spalle del direttore Giacinto Pannella, prozio del politico radicale Marco Pannella, che negli ultimi anni del periodico doveva essere esausto, oltre che malato agli occhi, tant’è che morì dopo qualche anno. Nel 1919, la coerenza di Pannella e degli altri attivisti non consentì alla testata di uniformarsi al nuovo sentimento dominante, nazionalista, colonialista e poi fascista, sicché la RASLA smise di uscire. Sorte migliore ebbe, in questa nuova temperie, il Bullettino della Deputazione abruzzese di Storia Patria, organo della Società di Storia Patria “Anton Ludovico Antinori” degli Abruzzi, che nel frattempo era stata costituita all’Aquila per iniziativa dello storico Vittorio Savorini, che aveva fondato sia la RASLA, a Teramo, sia la Deputazione abruzzese di storia patria, all’Aquila. Con la dismissione della RASLA, insomma, il Bullettino restò la principale testata di studi regionali durante il ventennio.

Fino al 1943, la regione rimase estranea a contatti diretti con la guerra e il conflitto era vissuto come un evento lontano, se non per la presenza dei campi di internamento in ben 15 comuni e per la crisi di aziende importanti, come ad esempio l’editrice lancianese Rocco e Giuseppe Carabba. Il peso dello status di “periferia” ha declassato la regione sullo scacchiere nazionale, slegandola dal contesto politico contingente e penalizzando la rappresentazione della guerra in Abruzzo; in realtà, dopo il bombardamento di Pescara, con migliaia di vittime, e la fuga di Vittorio Emanuele III e Pietro Badoglio (si imbarcarono in direzione di Brindisi da Ortona a Pescara), la regione venne occupata dalla linea Gustav, con eccidi e rastrellamenti, mentre le reazioni dal basso si coagulavano nel movimento partigiano.

Alla fine del conflitto, il territorio si proiettò in avanti (si pensi all’exploit demografico e industriale di Pescara nel dopoguerra), in una sorta di oblio popolare delle sofferenze patite e corsa verso lo sviluppo economico. Parallelamente, la “svolta” della promulgazione della Costituzione, lo “spirito della Costituente” e l’affermarsi di una democrazia plurale stimolavano conoscitori ed estimatori della vecchia RASLA a mettere in atto la rifondazione. Nel 1948, come vuole l’uso linguistico di “ri-allevare” gli antenati defunti dando il loro nome ai nuovi nati, la Rivista Abruzzese di Lettere, Scienze e Arti viene rifondata, in una continuità grafica e metodologica, ma sfrondata nel nome, come Rivista Abruzzese (RA). Questo volle Francesco Verlengia, quando nel 1948 realizzò quell’atto ideale di rinascita a Chieti, nella Biblioteca Provinciale “Angelo Camillo De Meis”, da lui diretta.

Come la RASLA, la RA si occupa di storia regionale nei suoi vari aspetti, con gli strumenti dell’epoca e secondo una prospettiva analitica e critica che la porta all’eclettismo; e anche in questo caso è proprio il suo carattere di “miscellanea” a garantirne la leggibilità e il riscontro pubblico, visto che questa tradizione pubblicistica deve necessariamente avere il riscontro e la collaborazione degli abbonati per poter pagare le spese tipografiche. Anche in questo caso, il lavoro redazionale non trova il margine per la retribuzione, una volta pagata la stampa di ogni fascicolo.

330281783_580966997286750_7134302940111104522_nI fascicoli trimestrali, stampati a Chieti dalla Tipografia Marchionne, rinvigoriscono l’impronta peculiare (e anche grafica) della rivista di Pannella e anche di esperimenti editoriali più brevi [6]. Nella neonata Repubblica, con addosso ancora il sangue e le macerie della guerra, la RA segna una rinascita morale e civile e si fa portavoce dell’urgenza di ricomporre, rinnovandola, la tradizione culturale regionale. Si tratta, ribadisce Verlengia, di realizzare una “rivista varia e plurale”, aperta democraticamente “a tutte le correnti” del pensiero e “a tutte le manifestazioni dello spirito”, nell’obbiettivo di costituirsi come “il riflesso” e “lo stimolo” dell’intera vita culturale della regione [7]. Sui fascicoli compaiono, in effetti, i principali nomi della cultura abruzzese, realizzando un utilissimo archivio di informazioni e di approfondite referenze critiche. Accanto a Francesco Verlengia, troviamo Alberto Scarselli, Valerio Cianfarani, Giovanni De Caesaris, Guido Torrese, Mario Perilli, e poi altre personalità residenti nei centri e in periferia e dalla costa alla montagna (Luigi Rivera, Corrado Marciani, Vincenzo Balzano, Pio Costantini, Luigi Polacchi, Ermanno Circeo, Mario Zuccarini, Raffaele Borrelli, Carlo De Paulis) o anche fuori regione (si pensi a Ettore Paratore). L’entusiasmo per la rinata corrente degli studi di abruzzesistica non oscura la necessità di tenere presente il quadro nazionale e internazionale, e la valutazione degli articoli da parte del comitato redazionale stimola i collaboratori ad un continuo aggiornamento e garantisce la loro indipendenza di giudizio. In un momento in cui la Democrazia Cristiana e un certo conservatorismo intellettuale risultano particolarmente pervasivi, la RA riesce a mantenere intatta la sua autonomia e la vocazione libertaria dei collaboratori, come mostrano le polemiche di cui sono intessute le pagine del periodico fino ai nostri giorni. 

lopera-etnografica-di-donatangelo-lupinetti-in-abruzzo-1983Da Verlengia ai Giancristofaro 

Nel 1961, la RA viene stampata a Chieti fino al n. 2 (aprile-giugno). Quell’estate, Francesco Verlengia ha problemi di salute e affida la redazione del trimestrale a Emiliano Giancristofaro, giovane studioso e giornalista dalle umili origini ma eclettico e promettente, tanto da essere stato segretario di Luigi Russo per un breve periodo presso la Normale di Pisa. Giancristofaro, incaricato da Verlengia come caporedattore volontario, confeziona i fascicoli e li fa stampare a Lanciano dalla Cooperativa Editoriale Tipografica “C.E.T.” (le maestranze provenivano dalla ex Carabba, fallita e liquidata pochi anni prima). Con l’aggravarsi delle sue condizioni di salute, nel 1964 Verlengia si disimpegna ulteriormente dal lavoro editoriale e cede a Giancristofaro anche la titolarità della RA, che viene dunque registrata alla Cancelleria del Tribunale di Lanciano, città dove il risiede il caporedattore; dal 1964, il periodico risulta edito a Lanciano, pur continuando a figurare la direzione di Verlengia fino al 1966, anno che ne precede la morte [8].

Dal fascicolo di gennaio-giugno del 1966, la RA si propone, quindi, con la direzione unica di Emiliano Giancristofaro e con quei tratti definitivi arrivati fino ai giorni nostri. Scorrendo infatti i frontespizi degli anni Sessanta, notiamo un prevalente indirizzo storico-letterario-etnologico-ambientalista, che fa convergere la letteratura (per lo più moderna e contemporanea), la documentaristica storica, lo studio delle arti (plastiche, pittoriche e architettoniche), i fatti riguardanti la vita culturale della regione, gli studi linguistici e folklorici, con aperture a interventi diretti di poeti e scrittori, in una missione di accorata militanza e di intellettualismo “organico”. La documentazione etnografica e i saggi ispirati ai processi di salvaguardia ambientale rispecchiano, in particolare, gli interessi specifici di Emiliano Giancristofaro, che inserisce nella seconda di copertina del periodico gli asterischi, che sono brevi note sui costumi che cambiano, sulle nuove realtà economiche e di pensiero, sui fenomeni riconducibili alla dimensione delle minoranze.

quaderni-di-storia-del-movimento-ambientalistaDagli anni Sessanta, sotto la direzione di Emiliano, troviamo pure i fascicoli monografici, sia di taglio miscellaneo che con lavori di singoli studiosi. Il primo è proprio il n. 1-2 di gennaio-giugno 1966, a direzione unica di Giancristofaro: Omaggio a Benedetto Croce per il centenario della sua nascita, a cui seguono quello sulle Ragioni della opposizione alla installazione di una raffineria di petrolio nella costa abruzzese (la inutile e devastante Sangro Chimica, che il gruppo RA contribuì a allontanare), quello di Omaggio a Corrado Marciani, quello con l’inedito di Benedetto Croce, Esuli, quello di Omaggio a Beniamino Rosati, medico e intellettuale impegnato anche lui nelle battaglie ambientaliste.

Dal 1974, accanto al periodico, compaiono i Quaderni della Rivista Abruzzese: si tratta di volumi autonomi, di monografie vere e proprie, scaturite dai materiali della Rivista. La collana dei Quaderni ne conta ormai 130 e i nomi degli autori sono validi (cfr. www.rivista-abruzzese.it/quaderni). A partire dal 1967, tra i contributi di studiosi non abruzzesi, troviamo la presenza gigantesca di Alfonso M. di Nola, storico delle religioni e intellettuale a tutto tondo, che aveva scelto la RA come spazio privilegiato per la sua scrittura, pubblicata anche postuma a cura di Ireneo Bellotta e Emiliano Giancristofaro.

345030783_5917271985048004_7107230930681089234_nTra il 2000 e il 2020, sotto la mia direzione, RA diventa una casa editrice vera e propria, e accanto ai Quaderni presenta altre due collane: Abruzzo religioso e Strumenti della conoscenza sociale, finalizzate a raccogliere volumi di interesse prevalentemente etnologico, sociologico e storico-religioso. Quella che l’archivista Buccella definisce “fase frentana” è ancora in atto, con una fioritura che nel 2028 compie ottant’anni: la RA ha continuato il programma “storico” delle sue ricerche, ma ha accresciuto il numero dei collaboratori e quello delle rubriche, ha esteso i suoi interventi nei settori dell’attualità sociale e politica e ha sviluppato le sue attenzioni verso tematiche di salvaguardia dei monumenti e del territorio, esprimendo così un rigore civile e morale che fa da corrispettivo alla dichiarata rinuncia alla pubblicità commerciale e ai sostegni diversi da quelli dell’abbonamento [9].

Nel 1997, a cinquant’anni dalla rifondazione, il grande archivio della RA viene considerato come il segno della capacità di riflettere e produrre critica culturale in periferia [10]; viene considerato come la testimonianza della capacità intellettuale di guardare al ceto subalterno, evitando le sterili e autoreferenziali piaggerie politiche e accademiche [11]; viene considerato come lo specchio della ricerca intellettuale in un territorio stravolto da una profonda metamorfosi, quella del boom economico e dell’industrializzazione: una ricerca che ha unito un gruppo di studiosi, coagulando una famiglia allargata attorno all’eclettica leadership di Emiliano Giancristofaro [12].

etnografia-di-emiliano-giancristofaro-edita-dai-quaderni-della-rivista-nel-2012Oggi, il nome-guida della Rivista Abruzzese, definitivamente ridotto e mutilato delle ridondanze del 1886, offre continuità ad una linea di discendenza che da 137 anni poggia sul volontariato competente, sulla libertà intellettuale e sul desiderio di operare per il bene comune, in un territorio specifico, e attraverso la lente universalistica della cultura. Idealmente, è quel monumento che i lettori e i collaboratori ogni giorno scelgono di abitare, frequentare e migliorare, come suggerisce l’assioma sulla memoria collettiva: «Non esiste una memoria universale: ogni memoria collettiva ha per supporto un gruppo limitato nello spazio e nel tempo» (Halbwachs 1949: 155-162). Una sigla che ha unito, e continua a unire, gruppi limitati nello spazio e nel tempo, ma è proprio grazie a questa limitatezza che è stato possibile costituirla come “comunità della memoria”.

Tra i periodici più antichi d’Italia: il problema dell’accessibilità

Tra i bilanci degli enti pubblici e privati, a volte discutibilmente diretti da personaggi non particolarmente dotati di “virtù pubbliche” e adusi a distribuire fondi “a pioggia” per attività di paccottiglia letteraria, non troviamo, e mai troveremo, il nome della Rivista Abruzzese come destinataria di emolumenti e sovvenzioni: nessuna questua da parte di una rivista che preferisce essere libera. Sono gli stessi protagonisti della RA, nella regione di Flaiano e di Silone, a scegliere di autofinanziare la propria scrittura, pur di non ricevere, appunto, le richieste “intellettualmente disoneste” di recensire la paccottiglia in modo compiacente e lodare iniziative esecrabili. Ma in questa famiglia virtuale l’età media è sempre più elevata, e il carico gravante sulle spalle della Redazione rischia di sbilanciarsi, mettendo a rischio la prosecuzione dell’impresa.

Attualmente, il periodico è portato avanti da me, nelle vesti di direttrice; da mia madre, che quasi ottantenne gestisce la redazione del fascicolo e il rapporto con gli abbonati; e da una tipografa, anch’essa donna, che gestisce la stampa e la spedizione. Siamo, insomma, al simmetrico opposto di quanto succedeva nelle pagine della RASLA ottocentesca e della prima RA, dove le donne non lasciarono traccia. Nel 2020, mi sono cancellata dall’Albo dei Giornalisti Pubblicisti; da allora il direttore responsabile del periodico è mio fratello Enrico, giornalista professionista che gratuitamente offre copertura legale alla testata. Ma in queste condizioni, inevitabilmente, c’è da porsi il problema del futuro. Sul desktop del computer della Redazione, c’è una formula fissa, che mestamente risponde a quanti chiedono un contratto di collaborazione: Gent. mo/a, grazie per aver proposto il Suo competente lavoro. La Rivista Abruzzese non usufruisce di fondi pubblici, né di ricavi per pubblicità commerciale (che non effettua), dunque a malapena copre le spese tipografiche. Lavorando solo per passione, non è possibile retribuire il lavoro redazionale.   

opere-di-di-nola-sullabruzzo-pubblicate-postume-tra-i-quaderni-nel-1999-e-2000Questa non è un’azienda: economicità e problemi di open access

Attualmente, la Rivista Abruzzese conta circa 200 abbonati: la metà, rispetto a quelli dell’anno in cui ho cominciato a dirigerla. Oltre a dedicare alla storica testata almeno 4-5 ore di lavoro settimanale, ospito in casa l’archivio e la redazione, riproducendo l’impostazione di una testata che per nessun motivo può accettare pubblicità commerciale e altri finanziamenti che non siano l’abbonamento dei lettori, che è di 40 euro (10 euro per fascicolo). Un’impostazione che, peraltro, consente di avere il riscontro diretto del valore della pubblicazione che, qualora scemasse, scatenerebbe una fuga collettiva. Al contrario, la stampa “assistita” rischia di offrire stampelle a pubblicazioni che, a fronte di una informazione di scarsa qualità, corrispondono ai desiderata delle istituzioni (cioè delle persone) che appoggiano il finanziamento. Va da sé che questo tipo di rivista, scientifica e senza illustrazioni a colori, intercetta un pubblico di nicchia, così come era nelle intenzioni del 1886 e del 1948.

Non c’è dubbio alcuno che una simile rivista, come tutte le altre attività produttive, possa beneficiare dall’introduzione di competenze gestionali, anzi ne ha sicuramente bisogno. Ma queste competenze devono intrecciarsi con la missione e con le specificità del periodico come istituzione scientifica regionale. In particolare, non ha senso pensare a queste competenze gestionali in termini di una meccanica trasposizione aziendalistica, in quanto questo antico periodico non è un’azienda con scopo di profitto.

Considerando i bassi numeri della popolazione che possa interessarsi a questo tipo di pubblicistica, distribuire i fascicoli nelle edicole non avrebbe alcun senso, dati i costi altissimi che comporterebbe una capillarizzazione commerciale. L’abbonamento è l’unica soluzione. Insomma, fin dal 1886, il periodico ricava risorse dalla vendita dei fascicoli, ma queste risorse sono una goccia nel mare, per quanto riguarda la sua sostenibilità finanziaria, che dipende essenzialmente dal volontariato della Redazione e dalle donazioni dei pochi abbonati sostenitori, tra cui non spiccano certamente gli Enti pubblici. Fino a pochi anni fa, infatti, erano abbonate quasi tutte le biblioteche regionali e comunali, oggi venute meno a causa delle loro restrizioni di bilancio [13]. Ad alcune piccole biblioteche, che accoratamente chiedono l’invio nonostante la loro mancanza di fondi, continuiamo a mandare i fascicoli gratuitamente; in altri casi, chiediamo un’offerta libera. Al contrario, le biblioteche di importanti università inglesi, tedesche, francesi e americane continuano ogni anno ad abbonarsi. Per soddisfare gli abbonati stranieri, abbiamo arricchito gli articoli con abstract e keywords, pur mantenendo la lingua italiana.  

L’abbonamento, qualora applicato con eccessiva rigidità, rischierebbe di trasmettere un’idea elitaria e discriminante della cultura. E chi conosce il ragionamento sugli impatti socioeconomici della cultura sa che è meglio assicurarsi la partecipazione culturale attraverso la fruizione gratuita (così fa la rivista Dialoghi Mediterranei); sicché, dal 2020, ai giovani lettori che ne facciano richiesta viene offerta la possibilità di leggere la Rivista con un contributo inferiore rispetto alla cifra standard dell’abbonamento annuale. Insomma, facendo un bilancio, il sostegno di pochi riesce ad assicurare l’equità sociale e il periodico non emargina i contributori dalle capacità di spesa assenti o limitate; dunque, nonostante l’onda d’urto di una generale débâcle del comparto pubblico, questo periodico si sforza di essere inclusivo.

Ormai da un secolo e mezzo, gli abbonamenti e il nucleo familiare della Redazione aiutano a stampare il periodico, ma non sono sufficienti ad assicurarne il futuro. Il problema si porrà quando io o mia madre, per sopraggiunti limiti di età e di resistenza fisica, non saremo più in grado di portare avanti l’iniziativa né di custodire nelle nostre abitazioni il patrimonio cartaceo e informatico della RA: quel giorno, si verificherà ciò che è successo nel 1919 alla RASLA di Pannella, cioè la chiusura della testata, oppure ciò che, con maggiore fortuna, è successo nel 1961 alla RA di Verlengia, cioè il passaggio della testata ad un giovane idealista.

quaderno-di-etnomedicina-pubblicato-nel-2021Vent’anni fa, il movimento per la “scienza aperta”, cioè la distribuzione gratuita dei risultati della ricerca su Internet, ha avuto un successo crescente nel mondo. Chiamato “open access” dai suoi iniziatori, si trattava inizialmente di rispondere all’onnipotenza di certi gruppi editoriali americani o inglesi (Springer, Elsevier, Wiley, Taylor & Francis, ma a livello nazionale succede la stessa cosa coi “soliti noti”). Questi chiedevano importi sempre più elevati, sia dai ricercatori per diffondere il loro lavoro, sia dalle biblioteche che volevano abbonarsi alle riviste. I settori interessati in primo luogo sono stati la medicina, la biologia, la fisica e la matematica (scienza, tecnologia e medicina, le famose STEM), tutte discipline in cui la ricerca viene svolta e pubblicata in lingua inglese. Nelle scienze umane e sociali (SHS), discipline notoriamente “povere”, la storia si è svolta in modo diverso. Per esempio, in Italia, le iniziative di open access sono state accolte con grande favore da riviste e testate universitarie, che appunto dispongono di finanziamenti interni. Queste hanno trovato un’opportunità per rendere disponibili i propri archivi su Internet a un costo molto inferiore a quello richiesto dalle piattaforme americane, come l’archivio delle pubblicazioni scientifiche JSTOR.

Al momento, non è possibile aprire l’archivio della RA all’open access: la testata, infatti, non è rientrata nei finanziamenti del PNNR finalizzati alla digitalizzazione degli archivi privati. Nella latitanza delle istituzioni, non è neppure possibile investire su una ristrutturazione generale dell’impresa editoriale e del sito web, dove da vent’anni inserisco io stessa i contenuti con perizia casalinga (cfr. www.rivista-abruzzese.it). Insomma, per le riviste accademiche sono le istituzioni che pagano, ma per le riviste come RA, che pure dal 2012 è accreditata ANVUR per le aree 08, 10 e 11, chi paga? Nessuno, dunque dobbiamo continuare a pubblicare sulla carta, in attesa di estinguerci. Del resto, chi investirebbe nella digitalizzazione dei fascicoli di RASLA e RA che vanno dal 1886 al 1996? Chi investirebbe nella digitalizzazione di una rivista cartacea e in lingua italiana, dunque non immediatamente internazionalizzabile? Come direttrice e membro del comitato editoriale, sono ovviamente impegnata a preservarne l’esistenza, ma percepisco il rischio di vedere scomparire la RA, insieme a decine di altre storiche testate: una dismissione che segnerebbe un irreparabile impoverimento dello spazio del dibattito intellettuale e scientifico regionale e nazionale. Inoltre, a ben guardare, qualora rimanessero solo le riviste finanziate, ci si avvierebbe verso una produzione scientifica e intellettuale pericolosamente soggetta a valutazioni di merito che determinerebbero, dall’alto, cosa è opportuno studiare, da quale angolo e con quale linea editoriale [14].

giancristofaro-2002E non è neppure giusto uniformarsi: gli effetti della digitalizzazione della conoscenza sono talvolta deplorevoli, sia per i lettori anziani, che desiderano il supporto cartaceo, sia per gli studenti. Gli insegnanti stanno già sperimentando, a fronte di una facilità di accesso al sapere digitalizzato, la difficoltà di far capire ai giovani che un risultato scientifico non galleggia da solo su Internet, ma che è il frutto di una riflessione individuale e collettiva, e che tale articolo è stato scritto, valutato, editato e infine pubblicato in lavoro collettivo di mesi o anni fondato su una coerenza, una tradizione di studi e di impegno intellettuale.  Se tutto è aperto e immediatamente accessibile, e apparentemente libero, questo paziente lavoro di ricerca, spiegazione e contestualizzazione diventerà del tutto invisibile e, assieme ad esso, diventeranno invisibili il tempo e il sacrificio che ogni lavoro richiede.

La logica dell’open access, del resto, è ricchezza e flagello: da un lato, emerge l’appello alla generosità delle “élite” intellettuali affinché si crei una grande comunità del sapere. Dall’altro lato, nella nuova economia della conoscenza, il lavoro del ricercatore è privatizzato da terzi che non lo pagano o, come nel caso di RA, pagano solo la stampa del suo lavoro. Così, il capitalismo è riuscito a investire totalmente un settore che si è sempre creduto impermeabile ad esso, cioè quello delle scienze umane, ed è riuscito ad alienare i ricercatori, riducendoli proprio come gli altri lavoratori. A questo punto, meglio arroccarsi e rimetterci di tasca propria, come fa il gruppo di RA, mantenendo la proprietà: dalla direzione fino all’ultimo dei lettori, si ritiene giusto continuare così, evitando di ossequiare finanziatori potenti quanto oscuri. 

volume-di-studi-etnografici-regionali-2009Per concludere 

La crisi che stiamo vivendo è forse più radicale di quelle che hanno accompagnato la comparsa e poi lo sviluppo della stampa nel XV e XVI secolo, poiché l’avvento delle risorse digitali modifica le regole della scrittura e lo statuto del diritto d’autore. Sembra che la tecnologia digitale ci stia incoraggiando a sviluppare nuovi tipi di interrogativi sul nostro rapporto con i libri e sulla cultura “discorsiva” che ci è stata lasciata in eredità dal XIX secolo, quando la scolarizzazione di massa aveva innalzato lo status dei libri per farne il veicolo per eccellenza della cultura, a scapito degli altri mezzi di comunicazione.

Non è certo compito di questo articolo ribadire la supremazia storica del libro e del fascicolo cartaceo; semmai, sarebbe utile, in futuro, analizzare i fascicoli di RASLA e RA a cavallo di tre secoli (Ottocento, Novecento e Terzo Millennio) per evidenziare lo status e le funzioni di questa testata nella costituzione, definizione, trasmissione e distribuzione della conoscenza. Mi viene, in tal senso, spontaneo ricordare il lavoro che facevo, nei primi anni del Duemila, sulle imprese editoriali e sulle pubblicazioni abruzzesi erudite tra XVIII e XIX secolo. Iniziative, tendenze intellettuali, ancoraggi geografici e peculiarità che possono emergere incrociando prospettive globali, quantitative o microstoriche, assieme alle prospettive filologiche, di storia culturale, di storia intellettuale o di storia delle idee.

In tal senso, potranno essere sicuramente utili gli indici ragionati della Rivista Abruzzese che, pubblicati nel 1997 e nel 2017, abbracciano settant’anni e suppliscono in parte alla incompletezza della digitalizzazione del periodico. La completa digitalizzazione di questo corpus e la sua elaborazione tramite un apposito database fornirebbero l’accesso a materiali che sono sconosciuti o trascurati nelle analisi incentrate sul semplice materiale cartaceo. Portando alla luce le reti dei professionisti e dei dilettanti che partecipano alla costruzione di una cultura scientifica, potremmo fare una cernita e una indicizzazione di tutto ciò che ha interessato, o non ha interessato, gli studiosi e gli aspiranti tali. Ma, appunto, si tratta ancora di un progetto.

Chiudo con quella che era l’ossessione di Emiliano Giancristofaro, e che è diventata anche la mia: la puntualità delle uscite trimestrali. La periodicità, infatti, è una dimostrazione di rispetto per i lettori e ritma la conoscenza. Sicché la periodicità della RASLA e della RA testimonia – e al tempo stesso realizza – una accelerazione dell’informazione, che viene diffusa in modo costante ed aumentato nelle case dei lettori. E chi dice cadenza dice anche sequenza: la RA è fatta di articoli, ma anche di recensioni ad opere scientifiche e letterarie, e di notizie polemiche denominate “Lettere alla Rivista”. Interessante è, in tal senso, la costruzione inevitabile di una rete di “corrispondenti” che è territoriale e, allo stesso tempo, specialistica. Dunque, l’esperto di ceramica abruzzese verrà menzionato e consultato su questo tema assieme ai suoi omologhi, in un dialogo virtuoso che non è immune da confronti anche serrati. Gli articoli, per scelta redazionale, non sono mai anonimi: al massimo, essi recano le iniziali dell’estensore del saggio.

In questo modo, il periodico intesse un dialogo tra attori geograficamente, politicamente e religiosamente dispersi (alcuni di questi attori abruzzesi vivono in altre regioni italiane, o all’estero), in un colloquio pubblico che, in quanto tale, è molto più fermo sia della corrispondenza privata, modalità privilegiata nella comunicazione scientifica, sia della comunicazione sui social network come i blog, come Facebook o come Twitter. Questo scambio pubblico è basato sull’imperativo della notizia, che col passare del tempo diventa conoscenza storica, e come tale è fruibile, leggendo le annate della rivista. Sicché questo periodico, distribuito in fascicoli (chiamati numeri), lungi dallo sviluppare una conoscenza discorsiva lineare, implementa una conoscenza frammentata, mista, trasversale, critica: un flusso scientifico che, prodotto da redattori, recensori e studiosi, invita i lettori a seguire questo ritmo intervallato.

La copertura geografica della rivista è ampia e irregolare e non tralascia le zone periferiche, persino esterne: questo testimonia un certo potere di integrazione, parallelamente alla capacità di promuovere un particolare territorio e rimettere al centro le competenze e le qualità individuali, al fine di modificare le gerarchie sociali e istituzionali. La periodicità, l’attualità, il laicismo e la reperibilità di questo tipo di stampa hanno consentito lo sviluppo di un dibattito regionale pubblico, frutto di un tratto politico generale osservato dalla fine del XIX secolo. Solo un periodico, sembrano dire Verlengia, Pannella e Savorini, può documentare la/le verità e cristallizzare una sfera pubblica di interessi che distolga i politici dal guardare solo il tornaconto di pochi. Insomma, la RASLA e la RA hanno tratteggiato i contorni di una cultura regionale basata su conversazioni di individui che in luoghi semipubblici (associazioni, biblioteche, circoli) trasmettono conoscenze e mettono a nudo i propri errori, assieme agli errori altrui. 

alcune-annate-della-ra-dal-1948-al-2022Eclettismo e tensioni trasversali 

La parabola di questa rivista scientifica non è solo legata alla crescita generale della stampa e alle esigenze della comunicazione scientifica, ma anche alla predilezione per l’eclettismo e per un rapporto trasversale con l’autorità scientifica accademica. Il desiderio di attuare una cooperazione tra studiosi accentua una nuova prospettiva, favorita dalla critica della centralizzazione dell’ordinamento delle scienze. Attraverso questo periodico, gli studiosi raccolgono e verificano insieme il sapere, gettando le basi per una nuova amministrazione del sapere stesso. La rivista diventa, dunque il veicolo per la sottomissione della conoscenza al vaglio pubblico al fine di proteggerla dall’errore e dal dogmatismo, come sottolinearono Eide Spedicato Iengo e Alfonso M. Di Nola [15].

La forma dell’eclettismo e il genere scientifico della rivista rispondono oggi all’espansione del mercato e alla percezione contemporanea di un “diluvio di scritti” (come è noto, gli scrittori sono più dei lettori). In questa abbondanza nessuno, nemmeno il più grande studioso, può più rivendicare la sua totale competenza su un argomento. Nell’ascesa di una socialità accademica e intellettuale, di una “cultura della conversazione” in cui fioriscono gli studi su un territorio specifico, la lettura, cioè il vaglio critico di un lettore competente, serve quindi alla formazione di un’autonoma facoltà di giudizio, che può essere allenata e controllata sia nell’ambito della conversazione “viva”, sia nella verifica sul terreno delle informazioni riportate dal singolo articolo. Sicché, prima di essere pubblicati, alimentando l’eclettica raccolta di articoli che è il fascicolo, i contributi vengono discussi nella redazione e, da almeno dieci anni, sono oggetto di una peer review anonimizzata [16]. Ovviamente, nel corso di centocinquant’anni le tecniche di lettura sono profondamente cambiate. Fino agli anni ‘50, sulle pagine della Rivista si avverte una preoccupazione generale per la moralizzazione del pubblico dei lettori, parallelamente all’affermazione dei giudizi personali. Dagli anni ‘60 in poi, con la direzione di Emiliano Giancristofaro, si afferma piuttosto una socializzazione del giudizio, finalizzata allo stimolo di un’autonomia del pensiero, distanziata sia dal dogmatismo autoreferenziale di chi guarda il mondo dalla sua “turris eburnea”, sia dal pensiero avido, carrierista, egoista, incapace di individuare un bene comune.

Questo discorso meriterebbe di essere approfondito in seno ad uno studio sulle alfabetizzazioni e sulla capacità di comprendere e utilizzare le informazioni del periodico. Per secoli, un piccolo numero di scrittori si è contrapposto a migliaia di lettori. Nel corso del XX secolo, la crescente estensione della stampa ha messo a disposizione dei lettori nuovi strumenti anche locali, e un numero sempre maggiore di essi si trova occasionalmente impegnato sia nella lettura, sia nella scrittura. Si è cominciato con le “lettere” che la stampa concedeva di pubblicare ai suoi lettori, si è passati attraverso la pubblicistica locale, e infine si è arrivati al giorno d’oggi, quando non c’è nessuno che non sia in grado di pubblicare da qualche parte, anche sui social network, le proprie osservazioni su opere letterarie o cinematografiche. La differenza tra autore e pubblico tende così a perdere il suo carattere fondamentale, e il lettore è sempre pronto a diventare uno scrittore. Lo specialista, che è dovuto diventare tale in un processo formativo estremamente differenziato, può in qualsiasi momento trovarsi in concorrenza con un dilettante dalle qualità insospettabili, come anticipava Walter Benjamin nel 1936.

Nella Rivista Abruzzese di oggi, le competenze scientifiche non si basano solo su una formazione specialistica, ma su un patrimonio comune di saperi che oggi, anche attraverso i social network, spinge per la sua massima diffusione e continua a realizzare una formazione pubblica del discorso. In parole povere, il lavoro degli accademici si intreccia col contributo dei non accademici, in una porosità che fa bene al sapere. Un diario di mio padre riporta una frase di Vittorio Imbriani del 1877, sempre attuale: «Tutti, chi più chi meno, fanno delle lettere un mestiere, una professione, o, se non altro, un mezzo per raggiungere fini e vantaggi personali. Io, francamente, no. Per quanto mi frughi nell’animo, non ci trovo brama di vantaggio personale o cura dell’interesse proprio. Nelle lettere e in politica, personalmente non ho cercato nulla, fuorché la soddisfazione di un’attività onesta, disinteressata, utile all’universale» [17]. 

Dialoghi Mediterranei, n. 63, settembre 2023
Note
[1] In seguito, nel 2004 e nel 2009, su questo argomento pubblicai Rocco Carabba. Una vita per l’editoria, e Rocco Carabba (1854-1924). Le edizioni scolastiche e “per giovanetti”.  Sono tuttora impegnata in una lunga etnografia sui processi di patrimonializzazione della stampa culturale in atto in Abruzzo e soprattutto a Lanciano, dove hanno sede sia la Rocco Carabba, sia la Rivista Abruzzese. Il lavoro verrà pubblicato nel 2026.
[2] Cfr. Lia Giancristofaro, Quando il margine diventa centro. Trabocchi e (dis)orientamenti patrimoniali, in “Rivista Abruzzese”, LXXVI, 2 (2023): 83-92.
[3] Lo ribadisce il Censis nel 18° Rapporto sulla comunicazione, intitolato “I media della crisi”, presentato a Roma venerdì 16 dicembre 2022.
[4] A quasi trent’anni, con una formazione umanistica, giuridica e politica, ero un’insegnante e avevo già pubblicato, a mie spese, libri e articoli sulla storia del folklore regionale, sui diritti umani e sull’espatrio di tanti abruzzesi in Canada, Argentina, Australia. Stavo per discutere la tesi in Histoire et Civilisation presso l’École des Hautes Études en Sciences Sociales a Parigi. In più, ero abilitata sia come revisore dei conti, sia come patrocinante legale, sia come giornalista, insomma ero iscritta in differenti albi professionali.
[5] Cfr. il saggio di Lida Buccella, all’epoca Responsabile del Centro Servizi Culturali di Chieti e curatrice degli indici per il Cinquantenario della Rivista Abruzzese (1997), Un profilo storico della Rivista Abruzzese, ne I cinquant’anni della Rivista Abruzzese. Indice, in “Rivista Abruzzese”, L (1997), nn. 3-4: 3-10.
[6] Si pensi a L’Abruzzo di Javicoli e Capuano (1920-1922), ma anche al Giornale Abruzzese di Pasquale De Virgiliis, stampato prima a Chieti e poi a Napoli e, andando a ritroso, a Filologia Abruzzese, periodico stampato a Chieti nel 1836. Cfr. su questo argomento Mario Cimini 1997; 1999; 2001, e Buccella 1997 (cit.).
[7] Dalla prefazione di Emiliano Giancristofaro a F. Verlengia, Scritti (1910-1966), Rivista abruzzese, Lanciano 2007: 5-11.
[8] Ivi.
[9] Cfr. Lida Buccella 1997.
[10] Sandro Galantini, Il ruolo della Rivista nella cultura del Novecento, in Un profilo storico della Rivista Abruzzese, ne I cinquant’anni della Rivista Abruzzese. Indice, in “Rivista Abruzzese”, L (1997), nn. 3-4: 13-18.
[11] Alfonso M. di Nola, Questa rivista, in Un profilo storico della Rivista Abruzzese, ne I cinquant’anni della Rivista Abruzzese. Indice, in “Rivista Abruzzese”, L (1997), nn. 3-4: 23.
[12] Eide Spedicato Iengo, La Rivista e la ricerca sociologica, in Un profilo storico della Rivista Abruzzese, ne I cinquant’anni della Rivista Abruzzese. Indice, in “Rivista Abruzzese”, L (1997), nn. 3-4: 29-30.
[13] Il mancato rinnovo delle biblioteche abruzzesi ha comportato, negli ultimi dieci anni, la perdita di circa duecento abbonamenti, e soprattutto ha impedito ad alcuni lettori di fruire gratuitamente del periodico.
[14] Ghislaine Chartron (2014: 43) in seguito a un sondaggio condotto nel 2012 tra 210 biblioteche universitarie di tutto il mondo mostra che il mantenimento di riviste autonome come RA è fortemente a rischio, a fronte del sicuro successo delle riviste istituzionali, cioè finanziate da università, enti pubblici e fondazioni. Insomma, la libertà di stampa e di ricerca sta gravemente diminuendo. 
[15] Di Nola Alfonso M., Questa rivista: 23, e Spedicato Iengo Eide, La Rivista e la ricerca sociologica, 1997, cit.: 29-30
[16] Grazie alla sua indipendenza e alla qualità dei contributi, dal 2013 è rivista scientifica accreditata ANVUR per le aree disciplinari 08, 10 e 11.
[17] Così scrisse Imbriani nel 1877 (dai Carteggi pubblicati nel 1963: 200). 
Riferimenti bibliografici
Benjamin Walter, 2000, L’opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica, Torino, Einaudi, [1936].
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Galantini Sandro, 1997, Il ruolo della Rivista nella cultura del Novecento, in Un profilo storico della Rivista Abruzzese, ne I cinquant’anni della Rivista Abruzzese. Indice, in “Rivista Abruzzese”, L (1997), nn. 3-4: 13-18.
Giancristofaro Emiliano, 2007, Prefazione a F. Verlengia, Scritti (1910-1966), Rivista abruzzese, Lanciano.
Giancristofaro Lia, 2004, Rocco Carabba. Una vita per l’editoria, Lanciano, Carabba.
Giancristofaro Lia, 2009, Rocco Carabba (1854-1924). Le edizioni scolastiche e “per giovanetti”, in “La Fabbrica del Libro”, Franco Angeli, XV, 1: 16-23.
Halbwachs Maurice, 1949, La memoria collettiva, Unicopli, Milano, 2001.
Imbriani Vittorio, 1877, Carteggi, a cura di N. Coppola, Istituto per la Storia del Risorgimento Italiano, Roma 1963.
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McLuhan Marschall, 1962, The Gutenberg Galaxy: The Making of Typographic Man, London: Routledge & Kegan Paul.
Spedicato Iengo Eide, 1997, La Rivista e la ricerca sociologica, in Un profilo storico della Rivista Abruzzese, ne I cinquant’anni della Rivista Abruzzese. Indice, in “Rivista Abruzzese”, L (1997), nn. 3-4: 29-30.

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Lia Giancristofaro, Ph.D., DEA, è professore associato di Antropologia Culturale all’Università degli Studi di Chieti-Pescara. Si occupa di diritti umani e culturali, di culture folkloriche e popolari e delle nuove responsabilità politiche delle ONG. In rappresentanza di SIMBDEA, ha osservato diverse sessioni dell’Assemblea Generale degli Stati-Parte della Convenzione Unesco per la Salvaguardia del Patrimonio Culturale Immateriale. Tra le sue pubblicazioni: Il segno dei vinti, antropologia e letteratura nell’opera di Giovanni Verga, 2005, pref. di Antonino Buttitta; Riti propiziatori abruzzesi, 2007, pref. di Alberto M. Cirese; Tomato Day, il rituale della salsa di pomodoro, 2012; Il ritorno della tradizione. Feste, propaganda e diritti culturali in un contesto dell’Italia centrale, 2017; Cocullo. Un percorso italiano di salvaguardia urgente, 2018; Politiche dell’immateriale e professionalità demoetnoantropologica in Italia, 2018; L’avenir du patrimoine, Parigi 2020 (con Laurent Sébastien Fournier); Patrimonio culturale immateriale e società civile, 2020 (con Pietro Clemente e Valentina Lapiccirella Zingari); Le Nazioni Unite e l’antropologia, 2020 (con Antonino Colajanni e Viviana Sacco).

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