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Il Vangelo secondo un povero agnostico

Salvator mundi, di Antonello da Messina

Salvator mundi, di Antonello da Messina

di Vincenzo Meale 

E venne un uomo di nome Gesú 

Sono cresciuto in un ambiente cristiano tradizionalista, con una lettura dei vangeli in cui a ogni passo si vedevano prodigi sovrumani. E mi si diceva che senza i miracoli il messaggio contenuto non sarebbe stato da prendere in considerazione. Unica voce dissonante quella di uno scienziato e teologo del Seicento, Blaise Pascal, di cui un insegnante di religione dopo aver elencato le “prove” dell’esistenza di Dio ci propose la “scommessa che non si può perdere”: dato che l’esistenza di Dio è indimostrabile è bene scommettere sulla sua esistenza, perché se esiste abbiamo vinto il paradiso, se non esiste abbiamo ugualmente vinto una vita degna. All’epoca, a me credente, la scommessa parve opportunistica e ripugnante.

È passata tanta acqua sotto i ponti del Tevere, e nel frattempo, un po’ alla volta, mi sono ritrovato agnostico, cioè né “credente” né ateo, perché, non avendo conoscenza di cosa (o chi) c’è o non c’è nella miriade degli altri sistemi solari, e non potendo neppure immaginare i confini dell’Universo, né se ci sia altro fuori di tali confini, non riesco a immaginare se vi sia altro al di sopra; ma nemmeno posso asserire il contrario. Sono agnostico non per scelta, ma per condizione: non so, ignoro. Al tempo stesso mi professo cristiano, ancora più convinto.

Qualcuno obietterà che non possa professarmi cristiano se dubito che Gesù sia parte della Santissima Trinità, figlio unigenito di Dio. Ma Cristo non significa necessariamente questo: la traduzione greca dell’ebraico Messia significa semplicemente unto. Infatti la tradizione messianica asseriva che il Messia avrebbe riportato Israele all’antico splendore del regno di Davide, e Davide, come il suo predecessore Saul, non era diventato re per diritto dinastico, ma perché scelto da un profeta che quando li aveva individuati li aveva indicati ungendone il capo con dell’olio. Gesù capovolge il significato di Messia asserendo più volte nei vangeli che non è venuto a comandare ma a servire.  Quindi Cristo significa non più un potere dominante ma una posizione di servizio verso i deboli e gli oppressi. Il che nulla toglie alla possibilità che egli possa essere pure tanto altro.

Ho scoperto che meno sono interessato a vite future e a poteri sovrumani più il messaggio di Gesù di Nazareth appare avvincente. Ma come conciliare questa mia posizione con i testi evangelici? I loro autori sarebbero degli spudorati mentitori? Se dubito dei miracoli dubito anche della veridicità dei testi che sembrano narrarli? Non necessariamente. Provo pertanto a darne una mia possibile lettura col senno di oggi. Il senno di un agnostico, o, se preferite, di un cristiano diversamente abile. 

Salvator mundi, di Leonardo

Salvator mundi, di Leonardo

La buona notizia (Euanghelion, latinizzato in evangelium, da cui “Vangelo”) 

La trasmissione orale 

Gesù non ha scritto nulla. Perché? Qualcuno è arrivato a ipotizzare che non sapesse scrivere, ma, anche se fosse, non ci voleva molto per avere nel seguito qualcuno capace di farlo, a cui dettare il proprio insegnamento. Del resto la tradizione vuole che l’evangelista Matteo fosse l’esattore delle tasse di Cafarnao che risponde alla chiamata di Gesù. Quindi almeno uno che sapesse scrivere c’era. Ma probabilmente Gesù sapeva leggere e scrivere, vista la conoscenza profonda che sembra mostrare dei testi sacri ebraici; conoscenza senza la quale non avrebbe potuto fare breccia nei convincimenti di un popolo fortemente legato alla tradizione. Eppure per avere testi che cerchino di mettere ordine in quel che resta del suo insegnamento bisogna aspettare almeno alcuni anni dopo la sua morte, se non decenni. Perché? La risposta forse sta in un articolo [1] apparso sul n° 136 (gennaio – marzo 2009) di Qol, rivista bimestrale di teologia e dialogo interreligioso, in cui il teologo Paolo De Benedetti, buon conoscitore della storia culturale ebraica anche perché cresciuto in quella tradizione, scriveva: «Nel periodo che va da circa un secolo prima della nascita di Gesù a due secoli dopo, l’elaborazione applicativa produce diverse scuole, le più famose delle quali sono quelle di Hillel e di Shammaj. Questi due maestri erano ancora vivi quando nacque Gesù, e le due scuole continuarono per oltre un secolo, insieme alla scuola di rabbi Meir. In ognuna di queste scuole venne creandosi un corpus orale ben consolidato e affidato alla memorizzazione. Infatti era proibito mettere per iscritto la tradizione orale, quasi a sottolineare una certa flessibilità».

Forse Gesù voleva che il suo insegnamento non fosse ingabbiato in forma scritta, facile preda dei teologi di professione. Se così fosse, ci troveremmo davanti al paradosso di una predicazione orale e operosa, fatta assistendo i deboli e gli emarginati e risvegliando coscienze; ma tradotta in testi scritti dopo la morte del protagonista. In tal modo abbiamo testi, scritti riportando quanto si è capito della predicazione di un morto che quindi non può confermare o correggere. 

Cristo, di Leonardo da Vinci

Cristo, di Leonardo da Vinci

Gli Evangelisti 

Dunque Gesù non ha scritto nulla. Dai vangeli (scritti, verrebbe da dire, contro la sua volontà) si evince una predicazione di Gesù volta non a stabilire una ortodossia (almeno nei primi, quelli sinottici; il discorso in parte cambia col successivo vangelo di Giovanni), bensì un cambiamento di mentalità. Non predica delle regole, ma una conversione, un’apertura agli altri, soprattutto ai più deboli. Gli evangelisti pensano di diffondere quest’apertura dell’animo in modo più veloce attraverso la scrittura; e da un lato hanno permesso a noi di conoscere quest’esperienza con il relativo messaggio, ma dall’altro, con il passare del tempo, la scrittura, sopravvissuta agli scrittori, è finita preda dei potenti e dei costruttori di dogmi, di certezze, di regole che permettano di controllare gli aderenti.  E da un uomo condannato come eretico dal sinedrio altri uomini hanno tratto giustificazione per condannare a morte donne e uomini per eresia. 

Le parabole, ovvero la comunicazione selettiva: Gesù all’osteria o in un simposio di intellettuali? 

… i discepoli …: “Perché parli loro in parabole?”. Egli rispose: “Perché a voi è dato conoscere i misteri del regno dei cieli, ad essi invece non è stato dato …” (Mt 13, 10-11). 

Nell’edizione del 1935 dell’Enciclopedia Italiana Treccani Nicola Turchi scriveva: 

«Parabola (dal greco παραβολή “collocazione di una cosa accanto a un’altra”, quindi “comparazione”, “similitudine”). – Per essa un argomento per sé difficile e astruso viene chiarificato ravvicinandolo a uno più chiaro, desunto sempre dalla vita reale… Da questo significato generico, che si ritrova nella retorica greca e latina, la parabola ha assunto nel Nuovo Testamento un valore più ampio. Essa è sempre una similitudine, ma assai più sviluppata e sceneggiata al punto da raggiungere le proporzioni di un racconto, a illustrazione d’una verità religiosa o morale … Soltanto i vangeli sinottici contengono parabole, talune appena accennate, in numero di 28, altre completamente sviluppate, in numero di 21. Di queste ultime, quattro assurgono al valore di racconti illustrativi d’una verità religiosa o morale e sono quelle del buon samaritano (Luca, X, 29-37), del ricco avaro (Luca, XII, 16-21), del ricco epulone (Luca, XVI, 19-31) e del fariseo e del pubblicano (Luca, XVIII, 9-14). La parabola è la forma propriamente originale dell’insegnamento di Gesù e da essa appunto il popolo coglieva la differenza che separava detto insegnamento da quello degli scribi e dei farisei». 

Quindi la parabola permetteva di ragionare con i poveri che normalmente, non sapendo leggere, avevano difficoltà ad accedere alle elaborazioni filosofiche (“… a loro non è stato dato…”).

A conclusione di questi pochi cenni sull’uso della metafora al tempo degli evangelisti, va ricordato che in quel periodo aveva notevole successo l’opera di un filosofo della diaspora ebraica in Egitto, Filone d’Alessandria, nato tra i venti e i trent’anni prima di Gesù e morto una decina d’anni dopo di lui; e Filone per interpretare i testi biblici in chiave etico-filosofica aveva adottato la tecnica greca dell’interpretazione metaforica [2].

Quanto al vangelo di Giovanni, Turchi ci faceva notare che non mette parabole in bocca a Gesù. Ma a me pare che anche Giovanni faccia uso di parabole, solo che ci mette dentro Gesù e usa uno stile che le rende, sì comprensibili, ma non ai semplici, bensì ai sapienti che sappiano di numerologia, di platonismo e di esegesi biblica: più avanti vedremo le nozze di Cana, con tutto ciò che vi ha trovato il biblista Alberto Maggi; e vedremo anche il racconto della resurrezione di Lazzaro.

9788842052302_0_536_0_75E così abbiamo parabole per due uditori diversi. In ogni caso la parabola è selettiva. Ad esempio prendete la frase in Mt 5, 14-16 “… Voi siete la luce del mondo; … né si accende una lucerna per metterla sotto il moggio … Così splenda la vostra luce davanti agli uomini …”. Quando, da bambino, la sentii la prima volta, mi si disse che il moggio era un secchio. Solo anni dopo ho scoperto, grazie a un vocabolario, che era qualcosa di più: I moggi erano secchi tutti della stessa dimensione per poter misurare le granaglie. I contadini e i commercianti quindi capivano immediatamente il significato nella sua interezza. Tra i ceti abbienti della città forse non tutti potevano afferrare il riferimento all’ambiguità che si può vivere nel momento in cui ti dici fratello di chi è anche la tua controparte in una compravendita.

Proprio per questa caratteristica la parabola resta valida finché resta l’ambiente socioculturale in cui è nata. Se l’ambiente cambia, la parabola va spiegata e quindi perde il suo valore. Prendiamo il capitolo 13 del vangelo di Matteo dedicato al significato di “regno di Dio”. Inizia con la parabola del seminatore poco attento che getta i semi anche su terreni poco adatti e quindi il risultato è positivo solo quando il terreno è adatto. Qui stranamente, una volta andata via la folla, Gesù sente il bisogno di spiegare la parabola ai discepoli, dando così per scontato che non l’abbiano capita. Poi prosegue con altre parabole sul “regno”, paragonandolo alla zizzania, alla senape, al lievito … A questo punto sono i discepoli a chiedere il significato, ma non di tutte le parabole ma solo per quella della zizzania. Qui si apre uno spiraglio per una spiegazione: scrive il biblista Paolo Farinella, a proposito della prima parabola, quella del seminatore, di una «triplice dimensione: la parabola originaria di Gesù, la valutazione che ne fa Matteo e l’interpretazione che ne ha dato la Chiesa primitiva» [3].

Concordo, ma non  sul tempo dell’inserimento dell’interpretazione della “Chiesa primitiva”: il fatto che abbiano bisogno di spiegazione solo le parabole di stretto ambiente agricolo (la senape è un prodotto agricolo ampiamente usato anche in città, mentre la zizzania è una delle tante piante infestanti conosciute solo dai contadini) fa pensare a una realtà sociale diversa da quella all’interno della quale è nata la parabola: Quindi penserei non alla Chiesa primitiva, quella del primo secolo, ma a quella del 3° secolo, quando la cristianità si è ormai diffusa in tutto l’impero romano diventando una realtà prevalentemente urbana, tanto da chiamare pagani (da pagus – villaggio) i credenti nelle preesistenti religioni. E a tante comunità cristiane delle grandi città cominciano a non essere comprensibili parabole destinate a gente legata alla campagna. Ed ecco che l’idea di un amanuense di inserire nel testo di Matteo le spiegazioni opportune deve essere piaciuta a tal punto da prevalere sul testo primitivo ed essere finita anche nelle copie del 4° secolo giunte fino a noi.

Ma a questo punto è difficile capire con precisione quanto sia rimasto del 13° capitolo scritto da Matteo, e se la durezza del destino che attende la zizzania fosse già nella penna dell’evangelista o sia scaturita dalle mani di cristiani successivi incattiviti dalla durezza di persecuzioni ormai più che secolari. A ogni modo una cosa è sicura: la struttura portante (le parabole) è di Matteo, e queste parabole, pur molto diverse tra loro, hanno una caratteristica comune: sono istantanee, a indicare che il regno di cui si parla non è una realtà sociale di lunga durata ma episodi della vita di una persona. E se ciò è vero, poco collima con la fine del mondo e il giudizio universale con cui si conclude il brano delle parabole del regno e che quindi sembra anch’esso una aggiunta successiva. 

Le traduzioni [4]

Migliaia di anni, con ripetuti cambi di lingua e molteplici mutamenti sociali possono rendere ambiguo un testo. Mi paiono particolarmente significativi tre esempi: 

 Servi o bambini? 

Sedutosi, chiamò i dodici e disse loro: “Se uno vuol essere il primo, sia l’ultimo di tutti e il servo di tutti”. E preso un bambino, lo pose in mezzo e abbracciandolo disse loro: “Chi accoglie uno di questi bambini nel mio nome, accoglie me: chi accoglie me, non accoglie me, ma colui che mi ha mandato” (Mc 9, 35-37). 

s-l500Mi pare che tanti secoli di cristianesimo abusato da ricchi e potenti abbiano lasciato delle incrostazioni anche nelle traduzioni. Si prenda questo brano di Marco: nel testo greco si usa la parola “paidios” tradotta in latino “puer”, e in italiano “bambino”. Però le parole greca e latina sono ambigue, perché significano anche “servo addetto ai lavori umili”, come accadeva ancora pochi decenni fa con l’italiano “ragazzo di bottega”, che stava a indicare non un’età ma una condizione servile; o col francese garçon: ragazzo, ma anche lavoratore dipendente (da cui il nostro “garzone”) o, in inglese, con boy (cowboy non fa riferimento all’età ma al mestiere). Eppure ancora oggi nel tradurre Marco 9.36-37 si parla di bambini quando un attimo prima si parlava di servizio come identificativo di chi voglia primeggiare in una comunità cristiana. E poi perché un bambino avrebbe bisogno di essere tolto alla propria famiglia e “accolto”?

Poco prima, al versetto 35, Marco ha usato in greco, per esprimere il concetto di servitore, non paidios ma diàconos (in latino minister), che è una parola accettabile dai potenti perché indica una condizione di servitù di prestigio: ancora oggi un burocrate di alto livello si vanta di essere un servitore dello Stato, ma solo il contestatore lo chiamerà “servo del potere”; e in ambiente ecclesiale il diacono non è l’ultimo dei fedeli. Ben diverso è assumere il ruolo di servo addetto alle mansioni più umili: molti potenti farebbero fatica ad accettarlo. Eppure proprio questo potrebbe essere lo scopo di una bellissima provocazione che usa una parola ambigua per indicare una condizione ancor più marginale: il bambino a servizio, il lavoro minorile nei panni di uno sguattero; o, ancora peggio, il bambino schiavo, preda di una guerra recente o figlio di schiavi; e allora il verbo “accogliere” sarebbe dirompente: trattarlo non come mano d’opera “a perdere”, ma come un figlio: farsi carico della sua crescita.

In ogni caso, anche se si parlasse di servo adulto, resterebbe valido il verbo “accogliere” perché suffragato dalla lettera con cui Paolo rimanda a Filemone lo schiavo fuggito e poi fattosi cristiano, raccomandandolo “perché tu potessi riaverlo per sempre, non più come schiavo, ma molto più che schiavo, come fratello diletto … accoglilo come fossi io” (lettera a Filemone,15-17)

Il problema della traduzione si pone anche nel corrispondente passo di Matteo 18,1-5 perché il successivo versetto 18,10 ha senso solo se si parla non genericamente di bambini, ma di servi e di lavoro minorile: “Guardatevi dal disprezzare uno solo di questi piccoli”. Perché disprezzare i bambini? Invece sicuramente si disprezzavano i servi, soprattutto se addetti alle mansioni più umili, e ancor più se schiavi.

Ma, oltre un millennio e mezzo dopo, come le aristocrazie/oligarchie “cristiane” potevano accettare tale messaggio, avendo riscoperto l’utilità economica della schiavitù nelle colonie americane? 

Gesù, di Giotto

Gesù, di Giotto

Euanghelion = Vangelo? Ekklesia = Chiesa? 

Una parola nel corso dei secoli può acquisire significati nuovi che finiscono per mettere in ombra il significato originario.  Dopo millenni la fonetica rimane pressappoco la stessa ma il significato no: abbiamo così una traduzione ambigua perché carica di ricordi e di realtà che all’epoca della scrittura dei vangeli non potevano esserci. Avete mai udito la frase “questo è vangelo” col significato di “questo è fuori discussione”? “di questo testo non si può cambiare neppure una virgola”? Secoli di contrasti all’interno della cristianità, anche su singole parole, all’epoca della scrittura dei vangeli erano inimmaginabili, e anche un secolo dopo, quando furono considerati inaccettabili diversi vangeli, se ne dichiararono canonici ben quattro, sicuramente non identici. Il titolo Euanghelion (Buona notizia) sta a significare che quel che conta è la notizia nel suo insieme (il capovolgimento del rapporto con Dio) e non la singola parola. D’altronde quando non esisteva la stampa e si voleva mandare un testo da una comunità a un’altra bisognava copiarlo a mano con possibili errori o piccoli cenni d’interpretazione; e questo per quasi tre secoli, perché i testi interi più antichi a noi pervenuti (il Codice Vaticano e quello Sinaitico) sono del quarto secolo. Che qualche amanuense pensasse di chiarire meglio il pensiero di un autore finendo per cambiarlo, lo prova la maledizione che l’autore dell’Apocalisse detta di Giovanni lancia nei confronti di chi oserà modificare il testo della sua opera: “Dichiaro a chiunque ascolta le parole profetiche di questo libro: a chi vi aggiungerà qualche cosa, Dio gli farà cadere addosso i flagelli descritti in questo libro, e chi toglierà qualche parola di questo libro profetico, Dio lo priverà dell’albero della vita e della città santa, descritti in questo libro”  (Apocalisse 22,18-19). E pensate quante migliaia di volte saranno stati trascritti i vangeli nel corso di quei secoli!

Chi all’epoca poteva immaginare che successivamente la parola Vangelo da racconto della Buona Notizia si sarebbe trasformata in sinonimo di verità indiscutibile, parola per parola, da sostenere anche con le armi? Quando nel Vangelo trovate questa parola provate a sostituirla con “la buona notizia”, e vedrete che qualche volta l’intera frase acquista un significato diverso. E che dire di Chiesa? Oggi vengono in mente l’edificio in cui ci si riunisce, oppure una realtà sociale ben strutturata con una stratificazione gerarchica che all’epoca della scrittura era inimmaginabile, mentre il significato della parola greca era estremamente semplice: assemblea, luogo in cui si vive tra uguali, o quasi, e si decide insieme, che stando agli Atti degli apostoli 6,1-6 era la realtà della prima comunità cristiana, pur con particolare reverenza verso coloro che avevano conosciuto Gesù o che più dedicavano la propria vita a diffondere la buona notizia.  E quando le comunità si moltiplicano al di fuori di Gerusalemme il termine viene usato al plurale (Atti 16, 5) mostrando che l’autonomia di ciascuna comunità era preservata. 

Cristo redentore, di Andrea Mantegna

Cristo redentore, di Andrea Mantegna

I miracoli 

Fatta questa necessaria premessa, prendiamo in esame i testi laddove parlano di miracoli, iniziando dai miracoli su Maria e su Gesù: 

Gesù nato da una vergine? 

Saulo di Tarso, ebreo ma nato cittadino romano col nome latinizzato in Paolo, appena una ventina di anni dopo la morte di Gesù e prima che venissero scritti i vangeli nella forma che conosciamo, scrivendo alla comunità cristiana già esistente in Roma, afferma “Gesù … nato dalla stirpe di Davide secondo la carne, costituito figlio di Dio con potenza secondo lo Spirito …” Llettera ai romani 1,1). Quindi Gesù nato da Giuseppe, non adottato. E divenuto figlio di Dio per lo spirito che lo ha animato e che lo ha portato a predicare, non il timore per un imperatore celeste, ma l’amore di un padre celeste, per cui, ovviamente, diventa figlio di Dio, e lo diventano anche tutti coloro che percepiscono la verità contenuta nella sua predicazione.

Qualcosa di simile si trova nella lettera agli Ebrei Eb 2,9-11: “Fratelli e sorelle, quel Gesù, che fu fatto di poco inferiore agli angeli, lo vediamo coronato di gloria e di onore a causa della morte che ha sofferto, perché per la grazia di Dio egli provasse la morte a vantaggio di tutti. Conveniva infatti che Dio – per il quale e mediante il quale esistono tutte le cose, lui che conduce molti figli alla gloria – rendesse perfetto per mezzo delle sofferenze il capo che guida alla salvezza.”

Gesù meno di un angelo? È vero che, all’inizio della lettera e poi ai versetti 14-16 del 4° capitolo, l’autore chiama Gesù “il Figlio di Dio, superiore agli angeli”, ma ciò può significare  che le parole non stanno a indicare verità teologiche, ma sono semplicemente delle iperboli che, in quanto iperboli, possono anche essere contraddittorie; oppure potrebbero semplicemente dire, in perfetta sintonia con la lettera ai Romani, che l’insegnamento e l’esempio fattivo di Gesù di Nazareth è talmente grande da fargli meritare per primo il titolo con cui  indicava coloro che  vivono nel soffio dello Spirito. In questo caso il mistero della Trinità si chiarirebbe: non sarebbe più il mistero di un dio unico ma in tre persone, ma sarebbe lo schema molto semplice del legame tra Dio e l’umanità attraverso lo Spirito, il “soffio” vitale.

Sia Matteo che Luca sembrano impedire tale interpretazione perché narrano l’annuncio, alla fanciulla ancora vergine o al promesso sposo, del prossimo concepimento senza contributo maschile, per azione divina; e una tradizione successiva, da noi non ancora scomparsa, ha addirittura stabilito la verginità di Maria a vita, anche se gli evangelisti parlano di fratelli e sorelle di Gesù (vedasi Matteo 13,55 e Marco 6,3). Eppure un segnale della necessità di una diversa lettura l’avrebbe dovuto dare il fatto che l’altro vangelo sinottico, quello di Marco, si disinteressa totalmente della nascita, iniziando da Gesù, già adulto, che si fa battezzare da Giovanni il battezzatore. In realtà, secondo me, siamo in presenza di una metafora come dimostro più avanti esaminando il racconto, scritto da Luca, del ritrovamento, da parte dei genitori in disperata ricerca, di Gesù dodicenne tra i dottori della legge. Probabilmente solo nel secondo secolo si comincia a interpretare come storicamente avvenuto il concepimento miracoloso, con conseguente reazione di alcuni scrittori cristiani [5].

Nelle comunità cristiane, in cui la componente proveniente da altre tradizioni religiose diverse da quella ebraica diventava progressivamente maggioritaria, questa metafora non era una novità per chi veniva dalla religiosità greco-romana perché faceva venire in mente le allegorie delle divinità che inseminano fanciulle per far nascere semidei. D’altra parte quei pagani  che fino allora avevano creduto fisicamente vere quelle storie di mescolanza tra dèi, semidei e umanità, e tutti coloro che, da qualunque religione provenissero, pensavano a un dio prestigiatore pronto a modificare continuamente le leggi di natura insite nel creato, quando aderiscono alle comunità cristiane portano nel proprio bagaglio culturale questa possibilità fisica di mescolanza tra divino e umano, e, come in precedenza non avevano  inteso come metafore i racconti ebraici o greci e romani, così ora prendono per fisicamente avvenuto il concepimento senza rapporto sessuale.

712k4gxpxvl-_ac_uf10001000_ql80_Se esaminiamo attentamente l’inizio del vangelo di Matteo notiamo che inizia con la genealogia di Gesù, una genealogia fatta di decine di nomi maschili che generano figli, e solo quattro volte compare anche il nome della donna con cui l’uomo ha generato il proprio figlio:  un nome che, almeno per due donne, riconduce a un comportamento poco onorevole dell’uomo in questione, soprattutto infamante quello di Davide perché ricorda l’assassinio di Uria, generale eteo dell’esercito ebraico fatto uccidere a tradimento da Davide per poterne sposare la vedova; proprio quel Davide venerato da coloro che aspettavano un Messia nei panni di un prode che guidasse la rinascita di quel regno. Ebbene quella genealogia termina con “… generò Giuseppe, lo sposo di Maria, dalla quale è nato Gesù …” (Mt. 1,16), con una contrapposizione palese tra una successione di uomini nati da altri uomini mediante uno strumento generazionale non degno, il più delle volte, di essere menzionato e Maria, il cui marito diviene marginale fino al punto di renderlo evanescente. A me sembra il formidabile inizio di un testo avente per scopo di parlare di un capovolgimento culturale e sociale; capovolgimento difficile da accettare, tanto da spiegare il successo millenario dell’interpretazione miracolistica che permette di evitare un tema dirompente in una società maschilista. E quanto lo fosse anche nelle comunità cristiane lo attesta il brano della cosiddetta adultera che, come vedremo, per alcuni secoli fu tolto dal vangelo di Luca, salvo poi rimetterlo ma, probabilmente per errore involontario, nel vangelo di Giovanni.

Però proprio il Vangelo di Luca, collocando la genealogia non all’inizio ma solo al capitolo  3, cioè dopo i racconti dell’infanzia, avendola privata  dei riferimenti polemici, non nominando Maria e sostituendo al martellante “generò” il neutrale  “figlio di”, annulla la potenza della metafora (e a me fa pensare a un successivo inserimento da parte di un amanuense che non aveva capito il significato metaforico del brano di Matteo e non voleva lasciare il testo senza un riferimento alla discendenza da Davide). Luca, che ovviamente conosceva il testo di Matteo, già prima del capitolo 3 mette due indizi che ci rivelano che nei due testi siamo in presenza di intenzioni diverse dei due scrittori nell’uso delle parabole: 1) racconta dei pastori senza accennare all’arrivo dei magi, il che in una ricostruzione biografica dovrebbe portare il lettore a chiedersi chi dei due sbagli; 2) aggiunge, cosa ancor più dirompente, l’episodio di Gesù dodicenne che vedremo tra poco. 

I pastori o i magi? 

Gesù nacque a Betlemme di Giudea, al tempo del re Erode. Alcuni Magi giunsero da oriente a Gerusalemme e domandavano: “Dov’è il re dei Giudei che è nato? Abbiamo visto sorgere la sua stella, e siamo venuti per adorarlo” (Mt.2,1-2).  
Cristo tra gli Apostoli, di Carpaccio

Cristo tra gli Apostoli, di Carpaccio

La nascita di Gesù è raccontata come degna introduzione a un evento portentoso: la Buona Notizia del superamento di lacci e laccioli, per permettere la crescita della fede, dell’empatia [6] per gli altri, della convinzione che sia possibile un’umanità più coesa. Il siriano Luca la vede in un quadro tipicamente ebraico (l’annuncio ai pastori, gli ultimi nella scala sociale del tempo ma anche coloro che meglio potevano far ricordare l’età aurea d’Israele: quella dei patriarchi con le loro greggi e del giovane Davide intento a pascolare le pecore, ignaro della scelta divina di farne il sovrano di un grande popolo), mentre Matteo, che imposta tutto il suo scritto per parlare agli ebrei e dir loro che Gesù è il novello Mosè che sta estendendo il messaggio di salvezza a tutta l’umanità, rende partecipi all’evento non ebrei ma stranieri, e stranieri non convertiti all’ebraismo ma addirittura rappresentanti autorevoli di altra religione: qualcuno ipotizza che siano sacerdoti della divinità iranica all’epoca adorata anche in zone non lontane dalla Palestina [7], altri parlano di astrologi caldei [8].

In ogni caso, oltre a essere di altra religione, erano degli astrologi (hanno saputo dell’evento non dalla lettura della Bibbia ma dall’osservazione del cielo), e questo andava contro i precetti religiosi ebraici: “non praticate la divinazione né l’incantesimo” (Levitico 19,26). Quale miglior metafora per dire che si può arrivare alla Buona Novella da qualunque cultura, da qualsiasi religione? E lo fa proprio Matteo, evidentemente nel tentativo di convincere quegli ebrei che, pur attratti dal messaggio evangelico, avevano difficoltà ad accettare la condivisione con dei pagani perché abituati, fin dall’infanzia, a considerarli impuri. Il biblista Paolo Farinella scrive: 

«il bimbo nato giudeo da giudei … accoglie i Magi … che non appartengono alla tradizione ebraica. … A Natale prendiamo atto che Gesù è nato ebreo per sempre e all’Epifania che questa nascita è un progetto di alleanza per tutti i popoli, per tutte le culture e nazioni. L’Epifania è il superamento definitivo dell’identità cristiana con una civiltà particolare e seppellisce per sempre i tentativi maldestri dei laici devoti o dei religiosi atei che rinchiudono il cristianesimo nella prigione di una cultura o segmento di civiltà, appunto quella occidentale, negandone l’essenza universale …» [9].

Ho cercato di immaginare le furiose discussioni che deve aver suscitato la lettura del brano di Matteo nelle sinagoghe. Sì, nelle sinagoghe, perché si è sempre asserito che Matteo scrivesse per gli ebrei, e gli ebrei si riunivano il sabato in sinagoga; e ci andavano anche gli ebrei attratti dalla “buona novella” di Gesù di Nazareth. Solo verso la fine del primo secolo la componente farisaica prenderà il sopravvento stabilendo l’attuale canone ebraico della Bibbia ed espellendo coloro che a testi nuovi (tra cui i Vangeli) facevano riferimento. Ebbene con questo brano si ribadiva ciò che già Saulo e Simone detto Pietro avevano affermato decenni prima: si può accogliere la buona novella anche senza passare attraverso un’unica religione, e l’esempio sono questi astrologi della Mesopotamia o della Persia. 

La strage degli innocenti e la fuga in Egitto 

Un angelo del Signore apparve in sogno a Giuseppe e gli disse: “Alzati, prendi con te il bambino e sua madre e fuggi in Egitto, resta là finché non ti avvertirò, perché Erode sta cercando il bambino per ucciderlo”. Erode … mandò ad uccidere tutti i bambini di Betlemme e del suo territorio dai due anni in giù … Morto Erode, un angelo del Signore apparve in sogno a Giuseppe in Egitto e disse: “Alzati, prendi con te il bambino e sua madre e va’ nel paese d’Israele …” (Mt 2,13-23) . 
Cristo Pantocratore, cattedrale di Pisa

Cristo Pantocratore, cattedrale di Pisa

A me pare che Matteo continui nella costruzione di metafore intorno alla figura di Gesù per anticipare ciò che andrà sostenendo nel libro: Gesù è venuto a chiudere l’era mosaica della legge e ad inaugurare l’era della fede. Ecco allora che Matteo ripete in poche frasi i miti di fondazione del popolo ebraico: salvato da una strage di innocenti come Mosè (vedi Esodo 1,15-2,10), trasportato in Egitto come Giuseppe, infine torna dall’Egitto come gli antenati del popolo ebraico guidati da Mosè. E che non sia biografico il racconto mi pare che lo dimostri anche il seguito: “Avendo però saputo che era re della Giudea Archelào al posto del padre Erode, ebbe paura di andarvi. Avvertito poi in sogno, si ritirò nelle regioni della Galilea, e, appena giunto, andò ad abitare in una città chiamata Nazareth …”. Non aveva nessun senso sentirsi più sicuri per il fatto che alla morte di Erode i romani avevano diviso il suo regno: la Galilea era stata assegnata ad un altro figlio di Erode, Erode Antipa, che però non aveva nulla da invidiare al fratello Archelào quanto a ferocia essendo colui che poi farà tagliare la testa a Giovanni il battezzatore. La distinzione tra i due sovrani serviva solo a ricollocare Gesù nella terra d’origine: la Galilea e non la Giudea. 

Dall’infanzia all’adolescenza 

I vangeli non sono biografie ma percorsi verso la percezione del senso della vita. A maggior ragione non sono biografici i vangeli dell’infanzia di Gesù, perché, mentre nel presentare l’insegnamento a distanza di soli alcuni decenni ci sono sicuramente anche episodi della vita del maestro raccontati da chi lo ascoltava e lo seguiva, al contrario, nel raccontare l’infanzia, ai genitori, unici testimoni, vengono attribuiti comportamenti così contraddittori da mostrare che non si sta scrivendo una biografia: prendiamo l’episodio di Gesù dodicenne che resta nel tempio a discutere con i dottori della legge, e alla domanda dei genitori che, disperati, lo cercavano da tre giorni “Figlio, perché ci hai fatto così? Ecco, tuo padre e io, angosciati, ti cercavamo” rispose: “Perché mi cercavate? Non sapevate che io devo occuparmi delle cose del Padre mio?”. L’evangelista commenta: “Ma essi non compresero le sue parole” (Lc 2,48-50). Quale madre, sapendo di un concepimento anomalo e di uno spettacolare affollamento di pastori e di Magi intorno al neonato, non avrebbe capito? Anche perché in precedenza lo stesso Luca aveva sottolineato “Maria, da parte sua, serbava tutte queste cose meditandole nel suo cuore” (Lc 2,19). Secondo me, la contraddizione è così palese che non può che essere voluta: l’autore sa che i suoi lettori capiscono che si tratta di allegorie, pertanto nel prosieguo del racconto non se ne sente vincolato. Quanto alla annotazione “serbava” riferita solo a Maria escludendo Giuseppe, conferma la rivoluzione “copernicana” già scritta da Matteo: Gesù è stato generato da donna, con il contributo marginale d’un uomo. 

Il battesimo e le tentazioni nel deserto 

In quei giorni Gesù venne da Nazareth di Galilea e fu battezzato nel Giordano da Giovanni. E, uscendo dall’acqua, vide aprirsi i cieli e lo Spirito discendere su di lui come una colomba. E una voce dal cielo: “Tu sei il figlio mio prediletto, in te mi sento compiaciuto”. Subito dopo lo Spirito lo sospinse nel deserto e vi rimase quaranta giorni, tentato da satana; stava con le fiere e gli angeli lo servivano (Mc 1,9-13). 

s-l1600Sembra una cristologia non omogenea e non ancora codificata; questo brano di Marco è emblematico con le sue contraddizioni: il deserto era considerato scuola di resistenza fisica e mentale, di ricerca dell’essenza della vita; in questo caso, luogo di purificazione religiosa. Marco quindi appare coerente nel descrivere un processo di iniziazione, avviato con il battesimo alla scuola di Giovanni il battezzatore, il grande riformatore che, con la purificazione nelle acque del Giordano, svincolava i credenti dal potere dei sacerdoti basato sulla remissione delle colpe mediante sacrifici di animali nel Tempio. Gesù, vista l’illuminazione, al momento del battesimo, di essere il figlio prescelto da Dio, doveva seguire l’esempio del battezzatore e fare la quarantena nel deserto. Ma qui si ha una variante: mentre Giovanni aveva vestito pelli e mangiato locuste, cioè aveva condotto una vita di privazioni, Gesù viene servito dagli angeli: sembra quasi la descrizione di un turista europeo di oggi che va nel Sahara con un tour operator di buon livello a provare l’esperienza del deserto, ma senza i rischi e le ristrettezze della vita dei beduini. Quindi un Gesù un po’ solo uomo in formazione e un po’ divino: conferma di una comunità incerta sulla natura di Gesù ma che di questa incertezza non fa un dramma?

Negli altri due vangeli sinottici, mentre “la buona novella” scritta da Luca conserva un po’ di ambiguità tra investitura vissuta intimamente da Gesù al momento del battesimo o rivelata anche ad altri, quella secondo Matteo pare fare una scelta ben chiara mettendo in bocca a Giovanni la frase “Io ho bisogno di essere battezzato da te, e tu vieni da me?” (Mt 3,14). Ma poi, raccontando di Giovanni in carcere lo dice dubbioso: «avendo sentito parlare delle opere del Cristo, mandò a dirgli per mezzo dei suoi discepoli: “Sei tu colui che deve venire o dobbiamo attenderne un altro?”» (Mt 11, 2-3), togliendo molto valore alla prima affermazione: o il primo brano è un inserimento successivo o Giovanni il battezzatore pensa al Messia tradizionale che avrebbe governato da Gerusalemme, e si meraviglia che non si decida a prendere il potere.

Decenni dopo, l’evangelista Giovanni, convinto che Gesù fin dalla nascita fosse consapevole d’essere il “verbo di Dio” non accetterà neppure l’ipotesi che Gesù potesse essere considerato, almeno all’inizio, discepolo di qualcuno, e non scrive di battesimo di Gesù, ma di riconoscimento da parte del battezzatore: “Ecco l’agnello di Dio …”  (Gv. 1,29-34). E poi, quando il battezzatore viene a sapere che anche Gesù sta battezzando poco più in là, l’evangelista gli fa dire “Questa mia gioia è compiuta. Egli deve crescere e io invece diminuire” (Gv 3,26-30). Infine non scrive della successiva purificazione nel deserto perché se Gesù è fin dalla nascita il verbo di Dio ovviamente non ha bisogno di una “quarantena” per imparare a resistere alle tentazioni. 

I miracoli attribuiti a Gesù, che invece li attribuisce alla fede dei miracolati (malattia fisica e malattia morale) 

erano venuti per ascoltarlo ed essere guariti dalle loro malattie … (Lc 6,18); … e gli disse “Ecco che sei guarito; non peccare più perché non ti abbia ad accadere qualcosa di peggio” (Gv 5,14). 
El Salvador, di El Greco

El Salvador, di El Greco

Nella tradizione ebraica la sanità fisica e quella morale erano strettamente legate; si riteneva che le malattie fossero la punizione per qualcosa non gradito al Signore. L’idea di una vita ultraterrena, con punizione o gratificazione a chiusura della vita, cominciava solo allora a diffondersi anche grazie proprio ai vituperati farisei. Per questo diversi miracoli contenuti nei vangeli possono essere considerati non un cambiamento fisico ma una conversione moral 

A Nazareth: … non vi poté operare alcun prodigio, ma solo impose le mani a pochi malati e li guarì (Mc. 6,1-6). Sembra quindi che i “miracoli” vadano divisi in due categorie: guarire i malati e “fare prodigi”. In questo caso non c’è una piena identificazione tra malattie del corpo e malattie dell’animo, e sembra dire che Gesù avesse una certa capacità di curare malattie, che s’intendesse di medicina. Del resto, sempre secondo Marco, Gesù ridà la vista al cieco di Betsaida procedendo per gradi come fa normalmente un medico (Mc. 8,22-25). Racconto che poi, diversi decenni dopo, può essere servito di base all’autore del quarto vangelo per la bella metafora del cieco dalla nascita. 

L’emorroissa e la figlia di Giàiro 

Si recò da lui uno dei capi della sinagoga, di nome Giàiro, il quale, vedutolo, gli si gettò ai piedi e lo pregava con insistenza: La mia figlioletta è agli estremi; vieni a imporle le mani perché sia guarita e viva. Gesù andò con lui. Molta folla lo seguiva e gli si stringeva intorno.
Or una donna, che da 12 anni era affetta da emorragia e aveva molto sofferto per opera di molti medici, spendendo tutti i suoi averi senza nessun vantaggio, anzi peggiorando, udito parlare di Gesù venne tra la folla, alle sue spalle, e gli toccò il mantello. Diceva infatti: “Se riuscirò anche solo a toccare il suo mantello sarò guarita”. E subito le si fermò il flusso di sangue, e sentì nel suo corpo che era stata guarita da quel male. Ma subito Gesù, avvertita la potenza che era uscita da lui, si voltò alla folla dicendo: “Chi mi ha toccato il mantello?” … E la donna, impaurita e tremante …gli si gettò davanti e gli disse tutta la verità. Gesù rispose: “Figlia, la tua fede ti ha salvata. Va in pace e sii guarita dal tuo male”.
Mentre ancora parlava, al capo della sinagoga, dalla casa, vennero a dire: “Tua figlia è morta. Perché disturbi ancora il maestro?”. Ma Gesù, udito quanto dicevano, disse al capo della sinagoga: “Non temere, continua solo ad avere fede!”. E non permise a nessuno di seguirlo fuorché a Pietro, Giacomo e Giovanni, fratello di Giacomo. Giunsero alla casa del capo della sinagoga ed egli vide trambusto e gente che piangeva e urlava. Entrato, disse loro: “Perché fate tanto strepito e piangete? La bambina non è morta, ma dorme”. Ed essi lo deridevano. Ma egli, … presa la mano della bambina, le disse…: “Fanciulla, io ti dico, alzati!” Subito la fanciulla si alzò e si mise a camminare: aveva 12 anni … (Mc 5,22-43). 

Apparentemente qui abbiamo due miracoli, uno incastonato nella narrazione dell’altro; ma ci sono alcuni segni che ci fanno ipotizzare che ci si trovi davanti a un’allegoria costruita su Gesù. Innanzitutto il ripresentarsi del numero dodici fa pensare che i due personaggi raffigurino Israele e le sue contraddizioni: l’emorroissa con i suoi dodici anni di malattia e di impurità, dato che perdite di sangue facevano considerare impura dal punto di vista religioso e sociale chi le aveva, sembra raffigurare i “brutti, sporchi e cattivi” della società, mentre la figlia del capo della sinagoga (e le sinagoghe sparse sul territorio erano il luogo di aggregazione intorno all’identità ebraica) rappresenta bene la parte “buona e devota” d’Israele, sempre pronta a sbocciare a nuova vita, come le ragazze di 12 anni ormai prossime al matrimonio e alla riproduzione di quella società che i “rivoluzionari senza se e senza ma” consideravano morta e irrecuperabile. A questo si aggiunga la scelta dei tre discepoli ammessi alla scena della resurrezione. Sono i soliti tre dalla testa dura, tentati dal potere perché convinti che quella realtà umana fosse irrecuperabile alla conversione spontanea. Ma, sembra dire l’apologo, nessun vivente è morto al bene, è solo intorpidito dal ripetersi continuo della sopraffazione del forte nei confronti del debole e va risvegliato con l’esempio.

Matteo (9,18-26) e Luca (8,40-56) riportano i due episodi ma non è chiaro se in chiave allegorica (Matteo ripete i dodici anni della malattia ma non l’età della bambina e nemmeno la scelta dei tre discepoli; Luca invece riporta anche l’età della bambina ma con l’aggiunta di “circa” che stonerebbe in un’allegoria). Significati diversi del brano o modifiche di amanuensi nei contrasti interni alla cristianità del 2° e 3° secolo? 

La moltiplicazione dei pani e dei pesci 

Sul far della sera, gli si avvicinarono i discepoli e gli dissero: «Il luogo è deserto ed è ormai tardi; congeda la folla perché vada nei villaggi a comprarsi da mangiare». Ma Gesù disse loro: «Non occorre che vadano; voi stessi date loro da mangiare». Gli risposero: «Qui non abbiamo altro che cinque pani e due pesci!». Ed egli disse: «Portatemeli qui». E, dopo aver ordinato alla folla di sedersi sull’erba, prese i cinque pani e i due pesci, alzò gli occhi al cielo, recitò la benedizione, spezzò i pani e li diede ai discepoli, e i discepoli alla folla. Tutti mangiarono a sazietà, e portarono via i pezzi avanzati: dodici ceste piene (Mt 14, 15-20). 
Cristo nel tempio, di Giotto

Cristo nel tempio, di Giotto

Questo “miracolo”, su cui torneremo nel capitolo dedicato alla fede per ragionare sulle conseguenze della fede della Cananea, può essere inteso in due modi diversi, ma non contrapposti. Innanzitutto il miracolo dell’esempio: proviamo a immaginare che qualcuno di coloro che si erano fermati ad ascoltare Gesù fosse di passaggio, in un viaggio che poteva essere anche di una giornata e più; e il vangelo dice che molti erano venuti “dalle città” per Gesù. Chi intraprendeva un viaggio spesso  si portava qualcosa da mangiare; per cui si può immaginare che di fronte all’esempio di chi metteva a disposizione il proprio cibo altri abbiano fatto altrettanto; inoltre l’episodio, collocato da Marco e Matteo subito dopo la notizia della morte di Giovanni il battezzatore, prefigura la comunità cristiana ricordando che la predicazione di Gesù non è riservata ai teologi e non si limita a ridurre il potere dei sacerdoti, ma ha effetti pratici sulla convivenza umana. Quanto alle ceste degli avanzi, sicuramente hanno un significato allegorico (12 quando la predicazione è rivolta alle 12 tribù d’Israele, e, vedremo poi, 7 quando, dopo l’episodio della Cananea, il nuovo “miracolo” della moltiplicazione sarà rivolto all’intera umanità): la proposta di fede di Gesù, inizialmente solo ebraica, verrà estesa, dopo l’episodio della cananea, all’intera umanità. 

Il cieco (o i due ciechi) di Gerico 

Mentre partiva da Gerico … il figlio di Timeo (nel testo greco “Timaios”), Bartimeo, cieco, sedeva … a mendicare. … cominciò a gridare … “Figlio di Davide, Gesù, abbi pietà di me!” … Gesù gli disse: “Che vuoi che faccia?” “Rabbunì, che io riabbia la vista!” “Va’, la tua fede ti ha salvato”. E subito riacquistò la vista e prese a seguirlo (Mc 10,46-52). 

Quando ero bambino questo episodio mi veniva raccontato come miracolo fisico. Ora con gli occhi dell’adulto, e grazie all’osservazione del biblista Alberto Maggi sull’originale significato del nome Timeo, mi appare molto diverso. Innanzitutto quella città, come vedremo nel commento alla parabola di Zaccheo, nell’immaginario collettivo ebraico rappresentava il luogo del peccato. Inoltre questo brano, mentre non è preceduto da cenno alcuno su come siano arrivati alla località da cui ora si dice che partono, segue immediatamente l’episodio dei discepoli Giacomo e Giovanni che chiedono a Gesù di potersi sedere ai suoi lati nel giorno della gloria: che sia quest’episodio di momentanea emersione di istinti egoistici la Gerico da cui si stanno allontanando? Terzo elemento: il nome del cieco. Bar in aramaico significava “figlio” e Timaios in greco “onorato, onorevole” quindi figlio dell’onorabilità, ripetuto due volte! Più chiaro di così … La cosa strana è che già la successiva versione latina ripete il nome di Timeo non traducendone il significato. È vero che esisteva in Grecia questo nome proprio, derivato dal nome astratto, ma perché Marco avrebbe dovuto mettere in risalto il nome del padre, nome piuttosto insolito perché in parte di lingua aramaica e per il resto di lingua greca? Che senso ha? Mi fa riflettere l’osservazione di un altro biblista, Paolo Farinella: doveva essere persona ben nota il padre del cieco se, a distanza di alcuni decenni dalla morte di Gesù, se ne ricorda ancora il nome. C’erano, all’epoca, dei Timeo famosi? Ebbene, secondo me sì: il Timeo che Platone fa dialogare con Socrate nell’omonimo dialogo, filosofo pitagorico di Locri molto stimato (onorevole!!!); e il dialogo verte sui massimi sistemi (il Creatore, il Cosmo, …)

Ecco perché mi pare fondata la tesi di Maggi: siamo di fronte a una conclusione simbolica dell’episodio dei due discepoli desiderosi di gloria. Del resto, di fronte a un problema analogo, quello del nome Barabba, Wikipedia riporta un’interpretazione metaforica attribuita al papa emerito Benedetto XVI [10]. Non si capisce perché si possa collocare Barabba in una metafora, e non Bartimeo [11]. Forse perché qui si è in presenza di un evento che per secoli la tradizione cristiana ha letto come miracolo?

Matteo nel racconto non mette il nome del cieco, ma per legarlo all’assurda pretesa dei due discepoli scrive non di un cieco, ma di due. Luca, stranamente, prende il racconto del singolo cieco senza dargli un nome e senza citare la precedente pretesa dei due discepoli. In tal modo si presta a trasformare una conclusione metaforica in un raccontino edificante, cosa che non mi sembra all’altezza di Luca. Manina di qualche amanuense? 

Gesù cammina sull’acqua 

… Gesù costrinse i discepoli a salire sulla barca e a precederlo sull’altra riva, finché non avesse congedato la folla. Congedata la folla, salì sul monte, in disparte, a pregare. Venuta la sera, egli se ne stava lassù, da solo.
La barca intanto distava già qualche miglio da terra ed era sbattuta dalle onde: il vento infatti era contrario. Sul finire della notte egli andò verso di loro camminando sul mare. Vedendolo camminare sul mare, i discepoli furono sconvolti e dissero: «È un fantasma!» e gridarono dalla paura. Ma subito Gesù parlò loro dicendo: «Coraggio, sono io, non abbiate paura!».
Pietro allora gli rispose: «Signore, se sei tu, comandami di venire verso di te sulle acque». Ed egli disse: «Vieni!». Pietro scese dalla barca, si mise a camminare sulle acque e andò verso Gesù. Ma, vedendo che il vento era forte, s’impaurì e, cominciando ad affondare, gridò: «Signore, salvami!». E subito Gesù tese la mano, lo afferrò e gli disse: «Uomo di poca fede, perché hai dubitato?».
Appena saliti sulla barca, il vento cessò. Quelli che erano sulla barca si prostrarono davanti a lui, dicendo: «Davvero tu sei Figlio di Dio!» (Mt 14,22-33). 
Cristo sul Trono, di Cima da Conegliano

Cristo sul Trono, di Cima da Conegliano

Possibile allegoria della comunità cristiana dopo la morte di Gesù: Gesù si ritira a pregare (allusione alla preghiera poco prima di essere arrestato?), scende la notte (la comunità è disorientata), la tempesta (la comunità comincia a dubitare), Pietro vuol emergere tra i compagni (“se sei tu, fai camminare anche me sull’acqua”) e rischia di affogare perché la sua richiesta nasconde il desiderio di primeggiare, ma poi rinsavisce e recupera il senso della fede; infine la comunità capisce che nulla è finito, ma che “Cristo è tra noi”; e torna il sereno. Tra l’altro il fatto che Gesù appaia all’alba («ha da passà ‘a nuttata» avrebbe detto millenni dopo un grande commediografo napoletano) e che venga preso per un fantasma (non c’è fantasma se non c’è morto) sembra confermare l’interpretazione. La collocazione del brano tra i due miracoli dei pani fa pensare che il travaglio della comunità cristiana sia quello della scelta tra essere una delle tante espressioni della religiosità ebraica o qualcosa di nuovo accettando anche coloro che vengono da altre religioni senza pretendere una preliminare adesione all’ebraismo.

La trasfigurazione (ovvero la rottura con la tradizione) 

Sei giorni dopo, Gesù prese con sé Pietro, Giacomo e Giovanni suo fratello, e li condusse in disparte, su un alto monte. E fu trasfigurato davanti a loro; il suo volto brillò come il sole e le sue vesti divennero candide come la luce. Ed ecco apparvero loro Mosè ed Elia che conversavano con lui. Pietro prese allora la parola e disse a Gesù: “Signore, è bello per noi restare qui; se vuoi, farò qui tre tende, una per te, una per Mosè e una per Elia. Egli stava ancora parlando quando una nuvola luminosa li avvolse con la sua ombra. Ed ecco una voce che diceva: “Questi è il mio figlio prediletto, nel quale mi sono compiaciuto. Ascoltatelo”. All’udire ciò, i discepoli caddero con la faccia a terra e furono presi da grande timore. Ma Gesù si avvicinò e, toccatili, disse “Alzatevi e non temete”. Sollevando gli occhi non videro più nessuno, se non Gesù solo. E mentre discendevano dal monte, Gesù ordinò loro: “Non parlate a nessuno di questa visione, finché il figlio dell’uomo non sia risorto dai morti” (Mt 17,1-9; vedi anche Mc 9,2-10 e Lc 9,28-36). 

Solo una decina di anni fa un commento del biblista Alberto Maggi mi ha fornito il bandolo della matassa. Sei giorni dopo cosa? Dopo i versetti 20-23 del capitolo 16 in cui Gesù proibisce ai suoi discepoli di continuare a dire che lui è il Cristo, e prevede prossima la propria morte. Ma Pietro lo chiama in disparte e gli dice che questo non deve accadere. Al che Gesù lo rimprovera chiamandolo addirittura Satana. Se non si tiene presente questo precedente e non ci si ricorda che anche gli altri due, i fratelli “Bar-timeo” (figli dell’onore, cioè desiderosi di gloria), sono convinti che Gesù salirà sul trono di Davide, non si capisce che la metafora parla del tentativo di convincerli che la predicazione di Gesù non è rivolta alla restaurazione della tradizione, ma al suo superamento. E quale restaurazione! Mosè chiaramente rappresenta la legge, imposta anche con il sangue, ed Elia è ricordato come un profeta-inquisitore (nel 1° libro dei Re si racconta che un giorno, fattosi boia, avrebbe sgozzato ben 450 profeti di Baal dopo aver dimostrato che la loro divinità non poteva nulla). Questo è il desiderio dei tre discepoli, ma ecco che la voce dal cielo (la capacità di Gesù di convincere?) li fa ravvedere e capiscono che per seguire Gesù è necessario rompere con la tradizione, e i due antenati di riferimento scompaiono.

Mi vien da pensare anche al gioco di luci: quando appaiono Mosè ed Elia è tutto uno splendore; lo splendore del potere? Poi la voce divina viene da una nube, sì luminosa, ma che attenua la luminosità precedente: Dio dell’uguaglianza? Aggiungo un altro particolare che dimostra ancora una volta che siamo di fronte ad una metafora: i tre vangeli sinottici si chiamano così perché, a differenza di quello attribuito a Giovanni, seguono lo stesso canovaccio: e seguendo lo stesso canovaccio le differenze vogliono ben dire qualcosa. Allora perché Luca decide di differire dagli altri due su una questione di date, che se si vuole raccontare una verità biografica, ha un suo peso? Luca infatti scrive non “sei giorni dopo”, ma “circa otto giorni dopo”. Perché differire dagli altri se proprio otto e sei non avessero una loro importanza? Nella Genesi il sesto giorno vede nascere l’umanità e quindi nella numerologia ebraica quel numero stava a indicare il proposito di Gesù di riuscire a cambiare i sentimenti di quei tre discepoli smaniosi di gloria, di creare tre uomini nuovi. Invece Luca usa il numero otto perché nella nascente numerologia cristiana stava a indicare il giorno della resurrezione, e quindi Luca diceva la stessa cosa scritta da Matteo a chiusura della metafora: che Gesù aveva ragione e che la sua morte, tanto temuta da Pietro, non avrebbe bloccato la diffusione della “buona notizia” e del “regno di Dio”.

Cristo e la Madonna, di Rinaldo da Siena

Cristo e la Madonna, di Rinaldo da Siena

Quanto all’espressione “figlio dell’uomo” sovente si afferma che si tratterebbe di una citazione del libro di Daniele, opera probabilmente del secondo secolo a.C. anche se narra avvenimenti e personaggi del 7° secolo. In tale testo si narra una visione apocalittica in cui a uno “simile a figlio d’uomo … furono dati dominio, onore e regno, tutti i popoli, nazioni e lingue lo servivano, il suo dominio è un dominio eterno che non passerà mai”. (Dn 7, 13-14). In realtà nella Bibbia l’espressione “figlio d’uomo” si trova molte volte, ed è utilizzata soprattutto da Ezechiele (6° sec.). Ad es. vedasi il versetto 2,1 del suo libro: «Mi disse “Figlio dell’uomo, drizzati in piedi, ché voglio parlarti”» commentato nella “Bibbia concordata” [12] come “espressione tipica di Ezechiele che ha il senso di creatura umana fragile”. E fragile appare Gesù nei Vangeli sinottici, fino alla morte. La forza di Gesù è contenuta nell’idea della resurrezione. 

La resurrezione secondo i tre vangeli sinottici 

Solo Matteo non accenna a una qualche difficoltà a riconoscere nel “risorto” le fattezze fisiche di Gesù. Invece per i due discepoli sulla via per Emmaus, sia Marco che Luca scrivono «apparve a due di loro sotto altro aspetto, mentre erano in cammino verso la campagna» (Mc 16, 12) e «mentre discorrevano e discutevano insieme, Gesù in persona si accostò e camminava con loro. Ma i loro occhi erano incapaci di riconoscerlo …» (Lc 24, 15-16). Per Luca però poi… «Gesù in persona apparve in mezzo a loro … Stupiti e spaventati credevano di vedere un fantasma. Ma egli disse: “… Guardate le mie mani e i miei piedi: sono proprio io! Toccatemi e guardate; un fantasma non ha carne e ossa come vedete che io ho”. … Ma poiché … ancora non credevano … disse: “Avete qui qualche cosa da mangiare?”» (Lc 24, 36-41). Quanto a Giovanni, vedremo tra poco che per lui Gesù risorto non è mai riconoscibile fisicamente.

A me pare di poter aggiungere un paio di considerazioni: innanzitutto chi voglia essere riconosciuto da amici di solito richiama l’attenzione sulle proprie fattezze a cominciare dal viso, e non  sulla possibilità di camminare e spostare oggetti oppure su ferite (Guardate le mie mani e i miei piedi) [13]; inoltre questa corporeità ribadita dalla richiesta di poter mangiare davanti a tutti sembra voler dire di non affidarsi a ricordi del passato ma al contrario cercare nella realtà del momento con chi condividere l’esperienza di fede. 

Gesù nella sinagoga di Nazaret, di Giotto

Gesù nella sinagoga di Nazaret, di Giotto

L’ascensione 

Che si tratti di un’allegoria, mi pare che ce lo faccia capire Luca, l’unico che, negli Atti degli apostoli, scrive della vita della comunità dopo la morte e resurrezione del maestro. A chiusura del vangelo scrive: Poi (durante l’apparizione agli apostoli che stavano ascoltando il racconto dei due discepoli che avevano vissuto l’esperienza sulla via per Emmaus) li condusse fuori verso Betània e, alzate le mani, li benedisse. Mentre li benediceva, si staccò da loro e fu portato verso il cielo… (Lc 24,50-51).

All’inizio degli Atti invece, dopo aver ripetuto che, “date le istruzioni agli apostoli,… egli fu assunto in cielo”, scrive: Egli si mostrò a essi vivo, dopo la sua passione, con molte prove, apparendo loro per quaranta giorni e parlando del regno di Dio … Detto questo, fu elevato in alto … (atti 1,1-9). Elevato in cielo subito dopo la resurrezione o dopo 40 giorni? È palese la contraddizione. E uno scrittore del livello di Luca non poteva non accorgersene.

A me sembra che ci stia dicendo una cosa molto semplice: Gesù è morto, ed è morto in un modo ignominioso con l’elevazione su una croce per mostrare a tutti la sua agonia. La sua elevazione ha mostrato invece la sua grandezza: immediatamente, dal punto di vista dello scrittore, nel Vangelo; invece, ben espresso negli Atti, per molti discepoli c’è stato bisogno di tempo (i quaranta giorni, durata simbolica: la quarantena che accerta la guarigione) per capire che ciò che sembrava chiudere la vicenda era solo l’inizio. E mi piace molto ciò che Luca fa dire, subito dopo, ai due bianco-vestiti: “Uomini di Galilea, perché state a guardare il cielo? Questo Gesù… tornerà un giorno allo stesso modo in cui l’avete visto andare in cielo”. Ora, se raccontasse un fatto materiale, i due dovrebbero dire il contrario: di continuare a scrutare il cielo. Invece dicono di non guardarlo, perché questo è stato il suo insegnamento: Dio non dovete cercarlo nell’ultraterreno ma nei sofferenti di questa terra. E Gesù lo rivedrete ogni volta che vedrete qualcuno spezzare la propria vita a sostegno dei più deboli. 

Ma i miracoli fuori metafora? 

Nei vangeli si citano anche miracoli privi di contesto, che quindi non si possono inserire in una metafora. E allora? Le risposte possono essere solo due: o si sta accennando a episodi portentosi che legherebbero il terreno all’ultraterreno o servono a ricordare che i vangeli non sono stati scritti per “cristiani in pantofole” quali quelli che sono venuti nei millenni successivi, ma per dei rivoluzionari impegnati continuamente da scelte costose ed esposti spesso a persecuzioni feroci. In ogni modo sono legami con la vita oltre la morte: o per una vita ultraterrena o per una testimonianza che attivi altri a seguitare il cammino. 

panikLa tua fede ti ha salvato 

Nei tre vangeli sinottici quando si ha un prodigio Gesù il più delle volte lo attribuisce, non a sé, ma alla fede di chi è stato “miracolato”. Quindi capire cosa sia la fede è essenziale per chi voglia tentare di comprendere il messaggio evangelico. Ora però fede è una parola ambigua, con diversi significati: da fiducia a credenza, passando per prova, tradizione, testimonianza, credito, lealtà, onestà, autenticità.

Raimon Panikkar sosteneva che «Nel momento in cui identifico la mia fede con la mia credenza, sono un idolatra, ed è molto probabile che divenga un fanatico. Ogni credenza deve essere relativizzata e richiede di essere sottoposta a discussione» [14].

Al contrario, nell’edizione 1993 dell’Enciclopedia Garzanti di Filosofia la fede 

«indica quelle forme di conoscenza che non possono essere garantite né da controlli empirici né da procedimenti razionali … In senso più stretto, la fede appare come la credenza in principi o verità religiose, in particolare quando si afferma che esse sono rivelate in maniera soprannaturale. Nella religione biblica e cristiana il termine acquista un significato peculiare. La fede appare nella Bibbia come l’accoglimento della rivelazione di Dio, la quale, pur nella sua divina qualificazione, è un evento che si iscrive nella realtà del mondo e della storia». 

L’unico modo a disposizione per capire cosa secondo i tre evangelisti sinottici intendesse Gesù per fede sta nel vedere cosa avevano fatto o detto le persone a cui dice “la tua fede ti ha salvato”. È di qualche interesse notare che Giovanni, il più dogmatico, non cita mai questa frase?  Nei sinottici vi sono diversi episodi in cui per fede sembra intendersi il credere nell’onnipotenza divina:

Il centurione … lo scongiurava: “Signore, il mio servo giace in casa paralizzato e soffre terribilmente”. Gesù gli rispose: “Verrò e lo curerò”. Ma il centurione riprese: “Signore, io non son degno che tu entri sotto il mio tetto, dì’ soltanto una parola e il mio servo sarà guarito. …” … Gesù ne fu ammirato e disse … “…presso nessuno in Israele ho trovato una fede così grande …” (Mt. 8,5-13, ripreso da Lc 7,1-10). Qui però appare anche la tensione verso le sofferenze di un servo, per aiutare il quale l’ufficiale romano, che rappresenta il potere imperiale, si espone al ridicolo supplicando un umile ebreo.

L’emorroissa … gli si avvicinò alle spalle e toccò il lembo del suo mantello. Pensava infatti: “Se riuscirò anche solo a toccare il suo mantello sarò guarita”. Gesù, voltatosi, la vide e disse: “Coraggio figliola, la tua fede ti ha guarita” (Mt. 9,20-22, vedi anche Mc. 5,25-34 e Lc 8,43-48). Qui per fede sembra intendersi il credere nell’onnipotenza ma anche la volontà di superare tutti gli ostacoli, la capacità di non arrendersi, neppure di fronte alla presunta volontà divina, e fino a correre il rischio di una sfuriata del Maestro, contagiato moralmente dal suo contatto essendo lei considerata impura a causa delle perdite di sangue.

Qualche dubbio viene per la figlia di Giàiro (Mc.5,21-24 e 35-43):“Tua figlia è morta. Perché disturbi ancora il maestro?” … “Non temere, continua solo ad aver fede!” Sembra che la fede stia nel non perdere mai la speranza, malgrado le avversità, ma anche nel credere nell’onnipotenza divina. Stesso dubbio per l’episodio in cui Pietro tenta di camminare sulle acque: “uomo di poca fede perché hai dubitato?” (Mt. 14,22-31). 

I due ciechi (Mt. 9,27-30): “Credete voi che io possa fare questo?” … “Sì, o Signore” … “Sia fatto a voi secondo la vostra fede”. Ma, come abbiamo già visto, qui si tratta di una metafora del recupero di due discepoli che avevano avuto difficoltà ad accettare che il loro maestro si dichiarasse indisponibile al ruolo di restauratore del regno davidico.

Il ragazzo epilettico e l’incapacità dei discepoli a guarirlo: “Perché noi non abbiamo potuto scacciarlo?” … “Per la vostra poca fede”. (Mt.17,14-20) Cosa significa? Forse che non erano visceralmente dalla parte del malato? Lo esaminavano come un caso da laboratorio? Oppure il rimprovero li accomuna al Pietro della precedente citazione?

Però in altri episodi a me sembra che il significato di fede cambi:

La tempesta (Lc 8,22-25): … imbarcavano acqua ed erano in pericolo. Accostatisi a lui, lo svegliarono dicendo: “Maestro, maestro, siamo perduti!” E lui, destatosi, sgridò il vento e i flutti minacciosi; essi cessarono e si fece bonaccia. Allora disse loro: “Dov’è la vostra fede?”. Se la narrazione è, secondo qualche biblista, un’allegoria della successiva comunità cristiana esposta alle persecuzioni, allora il senso non sarebbe l’affidamento alla protezione divina (i perseguitati sapevano bene che Dio non era intervenuto a salvare i precedenti martiri), ma la volontà di perseverare anche a costo della vita.

Il lettuccio dal tetto (Lc 5,18-20): … alcuni uomini, portando sopra un letto un paralitico, cercavano di farlo passare e metterlo davanti a lui. Non trovando da qual parte introdurlo a causa della folla, salirono sul tetto e lo calarono attraverso le tegole con il lettuccio davanti a Gesù, nel mezzo della stanza. Veduta la loro fede, disse …

Qui la fede sembra avere il significato di perseveranza e capacità di individuare il modo per superare gli ostacoli nell’assistenza al più debole. Se i barellieri avessero avuto fede nell’Onnipotente avrebbero potuto poggiare a terra, alle spalle della folla, il paralitico, o addirittura lasciarlo a casa. Invece ritengono importante metterlo davanti a Gesù. Stanno rivolgendosi al medico, piuttosto che a Dio. Ma non per sé. In altri episodi, a mio parere, il significato di fede appare ancor più chiaramente privo di riferimenti all’Onnipotente:

La cananea. -  Matteo, ai versetti 21-28 del cap. 15, racconta che Gesù va a incontrare una comunità ebraica in terra pagana, nell’attuale Libano, e una donna del posto, non ebrea, cerca di avvicinarlo affinché le guarisca la figlia malata. Matteo fa dire a Gesù che il proprio compito è occuparsi degli ebrei per poi chiudere con una frase sprezzante: “Non è bene prendere il pane dei figli e gettarlo ai cagnolini”. Ma la donna non si arrende e risponde: “anche i cagnolini si cibano delle briciole che cadono dalla tavola dei loro padroni”. E qui Gesù si converte esclamando “Davvero grande è la tua fede! Sia fatto come desideri”. In questo episodio Gesù cosa intende per fede? Ovviamente non il credere in Dio padre onnipotente: la donna probabilmente non considera unico e onnipotente il dio predicato da Gesù, ma semplicemente una delle tante divinità, in questo caso una divinità curativa: si è messa a cercare Gesù come noi oggi cercheremmo un luminare della medicina. E allora in cosa consiste la fede portata a esempio? A me pare che le sole cose degne di nota nel comportamento della donna siano l’amore per la figlia e la convinzione che anche un uomo apparentemente così duro e mal disposto nei suoi confronti possa accogliere la sua preghiera: amore e fiducia, due spinte a uscire dal proprio io, verso gli altri. E la sua fede, secondo Matteo, è talmente forte da cambiare anche il modo di pensare di Gesù. Infatti questo episodio è messo tra le due moltiplicazioni dei pani e dei pesci (la prima in Mt 14,13-21 e la seconda in Mt 15,29-39, cioè subito dopo l’episodio della cananea), episodi che stanno a simboleggiare due diverse concezioni del messaggio di Gesù: nel primo episodio alla fine vengono raccolte dodici ceste di avanzi, a significare che il messaggio è rivolto alle dodici tribù d’Israele, mentre, dopo l’incontro con la cananea, le ceste diventano  sette; e il numero sette, nella numerologia ebraica, stava a significare tutta l’umanità. Già Marco aveva scritto dei due “miracoli”, ma percepire il legame con l’episodio di colei che Marco definisce siro-fenicia è meno facile per chi ha la mente rivolta ai miracoli, perché in quel vangelo c’è interposto un altro “miracolo”: la guarigione del sordomuto.[15]

Aumenta la nostra fede. – Secondo Luca, dopo che Gesù aveva predicato con una serie di parabole, gli apostoli dissero al Signore “aumenta la nostra fede!”. Il Signore rispose: “Se aveste fede quanto un granellino di senape, potreste dire a questo gelso: Sii sradicato e trapiantato nel mare, ed esso vi ascolterebbe. Chi di voi, se ha un servo ad arare o a pascolare il gregge, gli dirà quando rientra dal campo: Vieni subito e mettiti a tavola? Non gli dirà piuttosto: Preparami da mangiare, rimboccati la veste e servimi finché io abbia mangiato e bevuto, e dopo mangerai e berrai anche tu? Si riterrà obbligato verso il suo servo, perché ha eseguito gli ordini ricevuti? Così anche voi, quando avrete fatto tutto quello che vi è stato ordinato, dite: “Siamo poveri servi: abbiamo fatto quanto dovevamo fare” (Lc 17,5-10)

A lungo sono rimasto dubbioso su questo capitolo: già comincia con la macina da legarsi al collo e il lancio in mare, seguito però subito dopo dall’invito a perdonare (e ci può stare, se le due affermazioni contraddittorie si interpretano come un compenso alla nostra tendenza a trascurare i nostri scandali e a condannare quelli degli altri), ma poi parte un’altra bordata: qualunque cosa facciate siete solo dei servi inutili! Ma come? Ha sempre detto che Dio è un padre misericordioso, e ora lo fa apparire un padrone indifferente? Forse la soluzione sta nell’episodio successivo se lo si interpreta come parabola chiarificatrice e non come realmente accaduto. Ecco infatti come prosegue il vangelo:

Il lebbroso riconoscente (Lc 17,11-19) Entrando in un villaggio, gli vennero incontro dieci lebbrosi i quali, fermatisi a distanza, alzarono la voce, dicendo: “Gesù maestro, abbi pietà di noi!”. Appena li vide Gesù disse: “Andate a presentarvi ai sacerdoti”. E mentre essi andavano, furono sanati. Uno di loro, vedendosi guarito, tornò indietro lodando Dio a gran voce; e si gettò ai piedi di Gesù per ringraziarlo. Era un Samaritano. Ma Gesù osservò: “Non sono stati guariti tutti e dieci? E gli altri nove dove sono? Non si è trovato chi tornasse a render gloria a Dio, all’infuori di questo straniero?”. E gli disse “Alzati e va’; la tua fede ti ha salvato!”.

Cristo pantocratore, a Sofia

Cristo pantocratore, a Sofia

Qui il significato della parola “fede” mi sembra essere il desiderio di condividere la gioia con chi gliel’ha data. Se fosse stato la fiducia nei poteri sovrumani di Gesù non si capirebbe il dispiacere di Gesù per il comportamento degli altri nove: anche loro avevano pensato che poteva guarirli. Il problema a me pare stia nel loro concepire il rapporto personale in maniera strumentale: li aveva guariti, e questo bastava.

Gli apostoli nel chiedere a Gesù “Aumenta la nostra fede” mostrano di interpretare la fede come una serie di convincimenti sul rapporto con l’aldilà e con l’obbedienza a delle norme. Quindi ci sarebbe chi ne ha poca e chi molta, e occorre un maestro sempre pronto a insegnarla, a dare le prove dell’esistenza di Dio, e a spiegare la sua volontà. Gesù dà una risposta irritata: non avete capito niente! Se la fede è amore per l’altro non è quantitativamente valutabile: o la si ha o non la si ha. Se invece pensate di dover amare il prossimo “per amor di Dio” allora non vi ritenete figli di Dio ma suoi servi. La fede non sta nel pensare che Gesù abbia dei poteri sovrumani (altrimenti Gesù la frase finale l’avrebbe detta a tutt’e dieci i lebbrosi), ma sta nel pensare di andare a ringraziare chi l’ha guarito, per gioire con lui e vedere un sorriso sul suo volto; anche se ciò ritarda la propria uscita dall’emarginazione sociale (l’attestato dei sacerdoti) ed  espone al rimprovero (è stato Gesù a dire di andare dai sommi sacerdoti per farsi rilasciare l’attestato di guarigione, e non di tornare da lui). E quest’uomo che ha mostrato la propria fede, la propria empatia, non è della stessa religione di Gesù, è un samaritano! A conferma che la fede non è data dall’appartenenza a una particolare religione: né all’ebraismo allora, né al cristianesimo oggi. Lo sconforto di Gesù nei confronti di coloro che lo stanno ascoltando traspare dalla descrizione che fa dei loro rapporti con la servitù: un rapporto disumano, che contrasta con tutto l’insegnamento che viene dalle parabole appena raccontate.

Per concludere, la fede, nei vangeli sinottici, appare ben prima che Gesù venga percepito come Figlio unigenito di Dio. E questa fede è tanto potente da fare lei i miracoli! E almeno in un caso, quello della cananea, da cambiare persino il modo di pensare di Gesù. E Gesù ai miracolati dalla fede non dice “seguimi”! Sembra che non abbiano altro da apprendere, e che Gesù scelga per discepoli i meno pronti a capire.

E, se quei fedeli fossero vissuti secoli dopo, siamo sicuri che sarebbero stati lodati dalla gerarchia cristiana per la loro fede? O invece, esposti a domande sui dogmi di “fede”, sarebbero finiti sul rogo destinato agli eretici? 

E Giovanni? Nel suo vangelo si trova la parola “fede” poche volte, e solo per affermare la fede in Dio e in Gesù. Guarda caso: in questo quarto vangelo anche l’amore compare poco. E l’amore per il nemico non compare affatto. Sembra che la spinta rivoluzionaria, di fronte al ripetersi delle persecuzioni, si stia inaridendo in alcune comunità tentate a chiudersi in sé stesse e a trasformare la spinta verso l’umanità in spinta semplicemente aggregativa tra i “buoni”.

L’unico brano in cui ho trovato il richiamo all’amore è Gv 15, 12-17: Questo è il mio comandamento: che vi amiate gli uni gli altri, come io vi ho amati. Nessuno ha un amore più grande di questo: dare la vita per i propri amici. Voi siete miei amici, se farete ciò che io comando …

Come si vede, l’amore è solo per gli amici, e, per giunta, dura quanto il buon comportamento di questi ultimi. Con conseguenze anche nell’aldilà: Alitò su di loro e disse: “Ricevete lo Spirito Santo; a chi rimetterete i peccati saranno rimessi e a chi non li rimetterete, resteranno non rimessi”. (Gv 20, 22-23), legando le mani persino al “Padre amorevole”. Forse contraddetto, come vedremo, dalla bella parabola della resurrezione di Lazzaro. 

Il primato della fede sulla legge “divina”. Qual è il primo di tutti i comandamenti? 

… uno degli scribi … gli chiese: “Qual è il primo di tutti i comandamenti?”. Rispose Gesù: “Il primo è questo: … amerai il Signore Dio tuo con tutto il tuo cuore, con tutta la tua anima, con tutta la tua mente e con tutta la tua forza. Il secondo è questo: amerai il prossimo tuo come te stesso. Altro comandamento più grande di questo non c’è (Mc 12,28-40 e Mt 22,34-40). 
Cristo Patoncreatore

Cristo Pantocreatore

I tre evangelisti non sembrano dire nulla di nuovo saldando insieme il versetto 6,5 del Deuteronomio (ama il Signore, tuo Dio, con tutto il tuo cuore, con tutto te stesso, con tutte le tue forze) al 19,18 del Levitico (non vendicarti né serbare rancore verso i figli del tuo popolo. Bensì ama il tuo prossimo come te stesso), ma in realtà ne rivoluzionano il significato portandolo al livello dei dieci comandamenti fondamentali, subito dopo il primo, e non limitando al solo “popolo eletto” la prossimità. Del resto Matteo, nel discorso delle beatitudini, aveva già scritto (Mt 5,43-44): Avete inteso che fu detto “amerai il tuo prossimo e odierai il tuo nemico (è chiaro il riferimento al Deuteronomio, di cui vedasi anche il capitolo 7 dedicato allo sterminio degli altri popoli presenti nella “terra promessa”) ma io vi dico: amate i vostri nemici e pregate per i vostri persecutori. Ma è Luca a esplicitare al meglio il nuovo concetto di prossimo con la parabola del buon samaritano. 

Ma quegli, volendo giustificarsi, disse a Gesù: “E chi è il mio prossimo?” Gesù riprese: “Un uomo scendeva da Gerusalemme a Gerico e incappò nei briganti che lo spogliarono, lo percossero e poi se ne andarono, lasciandolo mezzo morto. Per caso un sacerdote scendeva per quella medesima strada e quando lo vide passò oltre dall’altra parte. Anche un levita, giunto in quel luogo, lo vide e passò oltre. Invece un samaritano, che era in viaggio, passandogli accanto lo vide e n’ebbe compassione. Gli si fece vicino, gli fasciò le ferite, versandovi olio e vino; poi, caricatolo sopra il suo giumento, lo portò a una locanda e si prese cura di lui. Il giorno seguente estrasse due denari e li diede all’albergatore, dicendo: “Abbi cura di lui e ciò che spenderai in più, te lo rifonderò al mio ritorno”.  E domanda allo scriba: “Chi di questi tre ti sembra sia stato il prossimo di colui che è incappato nei briganti?(Lc 10,29-37). 

L’ho sempre considerata la parabola dell’amore del prossimo, e mi chiedevo quale fine faccia l’amore per Dio che viene indicato come il più importante e poi apparentemente scompare. Ma perché il teologo che va a provocare Gesù non lo tira fuori per giustificare il comportamento dei due uomini del tempio? In fondo essi, obbedendo alla legge che li interdice dal servire nel tempio per sei giorni se toccano un cadavere, non si sono avvicinati a chi, “mezzo morto” poteva sembrare un cadavere: hanno dato più importanza all’amore per Dio rispetto all’amore per il prossimo. Eppure il provocatore non ne parla. Perché? Probabilmente perché ha capito che se va oltre finirà per “bestemmiare”, per ammettere che un comandamento, anzi il primo dei comandamenti, è contraddittorio: l’amore per Dio, basato sul culto, finisce per voltare le spalle al prossimo, anche inteso alla vecchia maniera: ebreo rimasto fedele alla religione dei padri. E probabilmente la domanda finale di Gesù lo spiazza definitivamente: chi è il prossimo non del samaritano bensì del ferito? Il prossimo selezionato non dal soccorritore ma da chi è stato soccorso. Quindi l’amore per il prossimo lo esprime colui che è stato aiutato. E l’amore che ha mosso il samaritano? Proprio quello è l’amore verso Dio che, secondo Gesù, si manifesta nel soccorrere i sofferenti e i perseguitati. 

E Gesù si confronta ancora con il Deuteronomio 

Allora gli scribi e i farisei gli conducono una donna sorpresa in adulterio e, postala nel mezzo, gli dicono: “Maestro, questa donna è stata sorpresa in flagrante adulterio. Ora Mosè, nella Legge, ci ha comandato di lapidare donne come questa. Tu che ne dici?”. Questo dicevano per metterlo alla prova e per avere di che accusarlo. Ma Gesù, chinatosi, si mise a scrivere col dito per terra. E siccome insistevano nell’interrogarlo, alzò il capo e disse loro: “Chi di voi è senza peccato, scagli per primo la pietra contro di lei”. E, chinatosi di nuovo, scriveva per terra. Ma quelli, udito ciò, se ne andarono uno per uno, cominciando dai più anziani fino agli ultimi.
Rimase solo Gesù con la donna là in mezzo. Alzatosi allora Gesù le disse: Donna dove sono? Nessuno ti ha condannata? Ed essa rispose: “Nessuno, Signore”. E Gesù le disse: “Neanch’io ti condanno, va’ e d’ora in poi non peccare più” (Gv 8,3-11; ex Lc 21,39-…). 

A me pare che questo sia uno dei momenti più duri del contrasto tra la tradizione biblica e la predicazione di Gesù: non solo perché rischia di anticipare il Golgota (le pietre in mano agli esaltati giustizieri, se la risposta di Gesù apparisse insoddisfacente, probabilmente verrebbero scagliate anche contro di lui), ma anche perché toccava uno dei tabù più radicati, e lo conferma il fatto che il testo poi abbia avuto vita travagliata anche tra i cristiani.

Tra i biblisti sembra opinione comune che questo passo non sia di Giovanni ma di Luca: per l’esattezza andrebbe collocato alla fine del capitolo 21, dopo il versetto 38, cui il testo, attualmente giovanneo, si lega perfettamente una volta tolti i versetti 1 e 2 che nella posizione attuale hanno funzione di collegamento.

zzqzsn2kyhsm_s4Ma cos’è successo? Agostino d’Ippona nel 5° secolo scrive: «Per timore di concedere alle loro mogli l’impunità di peccare, tolgono dai loro codici il gesto di indulgenza che il Signore compì verso l’adultera, come se colui che disse “d’ora in poi non peccare più” avesse concesso il permesso di peccare». (citato, nell’omelia del 13 marzo 2016, dal biblista Alberto Maggi che aggiunge “per cinque secoli questo brano di vangelo non è apparso nella liturgia e fino al 900 … non è stato commentato dai padri di lingua greca”). Quando poi qualcuno ha pensato di reinserirlo, ha sbagliato collocazione, probabilmente perché gli altri due testi sinottici non riportavano l’episodio.

Spesso ho sentito, soprattutto donne, chiedere: ma il complice dov’è? Alla fine, vincendo la pigrizia, sono andato a cercare tra le pieghe del Pentateuco se la legge mosaica fosse maschilista a tal punto. E ho trovato che no: anche l’uomo andava condannato!

Levitico 20,10: Se uno commette adulterio con … la moglie del suo prossimo, l’adultero e l’adultera devono morire. E il Deuteronomio 22,22 ribadisce: Se si troverà un uomo a giacere con una donna maritata, muoiano ambedue… Ma poi sono scivolato nell’orrore:

Deuteronomio 22, 13-21: Se un uomo prenderà una donna … “ma non ho trovato in lei i segni della verginità”, allora il padre della giovane e sua madre prendano i segni della verginità della giovane [16] e li portino davanti agli anziani della città … Allora gli anziani prendano quell’uomo e lo puniscano. Lo condannino a cento denari d’argento e li diano al padre …; gli sia moglie e non possa ripudiarla per tutta la vita. Ma se la cosa fosse vera, se non fossero stati trovati i segni della verginità nella giovane, allora traggano la giovane alla porta della casa di suo padre e gli uomini della sua città la lapidino ….

Quindi se la donna è sola significa, stando al Deuteronomio, che la notte precedente era stata la prima notte di nozze (probabilmente a 13 anni), e il marito non ha trovato le macchie di sangue. Perché? Ha avuto un rapporto con un compagno di giochi? O è stata violentata? O ha avuto, magari tanti anni prima, un trauma? O semplicemente il suo corpo non era nella norma? Tutto ciò per il legislatore non contava. La cosa certa era che il padre aveva rifilato al genero merce difettosa che quindi andava distrutta.

Visto che ci siamo, notate l’attenzione che si aveva per le donne violentate. Infatti il brano prosegue “… Se vi sarà una giovane vergine, promessa in matrimonio a un uomo, e un uomo la troverà in città e giacerà con lei, … lapidateli e muoiano: la giovane perché non ha gridato e l’uomo perché ha violato la donna del suo prossimo”. Non ci si domanda se non ha gridato perché compartecipe o perché paralizzata dal terrore. Non ha importanza: la donna ha il compito di farsi fecondare da un uomo e se quest’uomo è un israelita bisogna tutelare il suo diritto ad avere una discendenza sicuramente sua, senza nascosti mescolamenti di sangue.

Quanto fosse radicato questo tabù anche fuori della società ebraica è dimostrato dal fatto che sia sopravvissuto fino a oggi anche in Italia: ancora nel secolo scorso in diverse zone rurali italiane si praticava il rito del lenzuolo della prima notte esposto al balcone (vedasi il bel documentario realizzato alcuni anni fa da Maria Angela Capossela intervistando un gruppo di anziane). E oggi a quanto pare capita a qualche ginecologo la situazione imbarazzante di una giovane donna che si presenta, accompagnata dal fidanzato e dalla futura suocera, per una visita che ne attesti la verginità in prossimità del matrimonio. Si capisce allora come questo brano di Luca sia stato considerato molto scabroso, tanto da non trovar posto negli altri due sinottici e ben presto tolto da quello di Luca. E, se sa di miracoloso il coraggio di chi lo ha reintrodotto anche se ha sbagliato la collocazione, pensate quanto coraggio abbia dimostrato chi si oppose ai lapidatori.

Gesù instaura con le donne un rapporto del tutto diverso: ne accetta diverse all’interno del gruppo di discepoli e in una circostanza, di fronte alla richiesta di una donna di rammentare a un’altra il suo posto nella società, risponde che è proprio l’altra ad aver ragione: 

Mentre erano in cammino, entrò in un villaggio e una donna, di nome Marta, lo accolse nella sua casa. Essa aveva una sorella, di nome Maria, la quale, sedutasi ai piedi di Gesù, ascoltava la sua parola; Marta invece era tutta presa dai molti servizi. Pertanto, fattasi avanti, disse: «Signore, non ti curi che mia sorella mi ha lasciata sola a servire? Dille dunque che mi aiuti». Ma Gesù le rispose: «Marta, Marta, tu ti preoccupi e ti agiti per molte cose, ma una sola è la cosa di cui c’è bisogno. Maria si è scelta la parte migliore, che non le sarà tolta» (Luca 10,38-42). 
Cristo pantrocreatore, Monastero Monte Sinai

Cristo pantrocreatore, Monastero Monte Sinai

Quanto ai peccati in generale (“va’ e d’ora in poi non peccare più”) mi pare opportuno notare che Gesù li consideri in maniera nuova. Nella società in cui è vissuto, lo sguardo era rivolto all’indietro: bisognava rimediare alla violazione della legge divina; ed era pressoché impossibile passare un giorno senza peccare visto che avevano messo insieme più di 600 norme “divine” da rispettare nella vita quotidiana, dal lavarsi le mani prima di toccare cibo al tipo di cibo e al modo in cui era stato ucciso l’animale presente nel pasto, per cui si dava per scontato che era difficile che un povero diavolo passasse un giorno senza peccare! Ecco perché Gesù nel dire “scagli la prima pietra …” blocca i giustizieri: chi avesse scagliato la prima pietra a quel punto sarebbe stato condannato dagli altri per essersi ritenuto senza peccato, condizione ritenuta impossibile) E se ne poteva uscire solo sacrificando animali a Dio nel tempio. Gesù invece guarda al peccato come esperienza di vita da superare con una presa di coscienza. Non giudica il passato, ma la volontà di evolvere, e non tanto nel rispetto di norme quanto nell’attenzione per gli altri. 

Zaccheo (dalla biografia alla metafora) 

Entrato in Gerico, attraversava la città. Ed ecco un uomo di nome Zaccheo, capo dei pubblicani e ricco, cercava di vedere quale fosse Gesù, ma non gli riusciva a causa della folla, poiché era piccolo di statura. Allora corse avanti e, per poterlo vedere, salì su un sicomoro, poiché doveva passare di là. Quando giunse sul luogo, Gesù alzò lo sguardo e gli disse “Zaccheo, scendi subito, perché oggi devo fermarmi a casa tua”. In fretta scese e lo accolse pieno di gioia … “Ecco, Signore, io do la metà dei miei beni ai poveri, e se ho frodato qualcuno restituisco quattro volte tanto” (Lc 19, 1-10). 

Tutti e tre i vangeli sinottici riportano l’incontro di Gesù con un esattore delle imposte, destinate all’impero romano, che Gesù chiama a seguirlo (Mc 2,13-17; Mt 9,9-13; Lc 5,27-32); e Matteo dà il proprio nome al pubblicano a differenza degli altri due che lo chiamano Levi. E fin dall’antichità si è detto che l’evangelista Matteo fosse proprio l’ex pubblicano. Quindi un episodio probabilmente accaduto. Ma qui Luca, diversi capitoli dopo, ripete l’incontro con delle variazioni non di poco conto: lo colloca innanzitutto lontano da Cafarnao, a Gerico, città maledetta (si era opposta al tentativo degli ebrei di invadere la “terra promessa”, e Giosuè, dopo averla distrutta, l’aveva maledetta predicendo che chiunque avesse provato a ricostruirla sarebbe morto nel sangue dei propri figli). Nella Bibbia Concordata si commenta che la Gerico degli anni di Gesù non è quella delle mura cadute a suon di tromba; ma quale differenza fa per chi fin dall’infanzia ha sentito maledire la città che si oppose a Giosuè? Quindi quale luogo migliore per collocare il peggior peccatore agli occhi di un ebreo osservante? E per rendere ancora meno gradevole il personaggio, Luca lo indica non col nome romanizzato (Matteo) ma col nome ebraico e lo trasforma da semplice esattore delle tasse in capo degli esattori. Il capo dei pubblicani era, usando il linguaggio di oggi, un banchiere che aveva acquistato il diritto a esigere le imposte: si era impegnato a versare all’impero le tasse da questo stabilite a carico di quel popolo e aveva avuto in cambio l’autorizzazione a prelevare queste tasse, in questo caso dai propri compatrioti, libero di prenderne di più rispetto a quanto versato ai romani. Un investimento molto vantaggioso, e al tempo stesso il peggiore dei peccati agli occhi dei propri compatrioti, sia di coloro che mal sopportavano i romani, sia di chi veniva sottoposto al salasso monetario. Ecco allora che ambientare l’episodio nella città maledetta dava tono alla narrazione. Luca aggiunge “piccolo di statura, non riesce a vedere Gesù …” che fa pensare a un arrampicatore sociale, convinto che nei rapporti umani ci si debba mettere sempre in posizione elevata, o a un teologo che, per comprendere questo mondo e l’altro, deve elevarsi al disopra e cercare di immaginare la realtà più ampia possibile. E invece Gesù gli dice di scendere, ma al tempo stesso gli dice che pranzerà a casa sua: la “buona notizia” non si realizza elaborando più o meno ardite idee sull’aldilà ma scendendo a condividere la vita (il pranzo) e dando il di più a chi non lo ha. Tutto funzionale al messaggio che Luca vuol dare, infischiandosene della verità biografica. Un racconto, fatto alcuni capitoli prima in chiave biografica, ora viene trasformato in parabola. Si è sempre detto che Gesù parlasse spesso in parabole perché il genere letterario più comprensibile per tutti. Bisognerebbe aggiungere alle parabole di Gesù quelle su Gesù: si farebbe un passo avanti nella comprensione dei testi. 

L’amore di Dio per i propri figli 

Scrive Luca: 

Un uomo aveva due figli. Il più giovane disse al padre: Padre, dammi la parte del patrimonio che mi spetta. E il padre divise tra loro le sostanze… Il figlio partì per un paese lontano … e sperperò le sue sostanze … In quel paese venne una grande carestia. … Allora … si mise al servizio di uno degli abitanti … che lo mandò … a pascolare i porci. Avrebbe voluto saziarsi con le carrube che mangiavano i porci, ma nessuno gliene dava. Allora rientrò in sé stesso e disse: Quanti salariati in casa di mio padre hanno pane in abbondanza e io qui muoio di fame! Mi leverò e andrò da mio padre e gli dirò: Padre, ho peccato contro il Cielo e contro di te; non sono più degno di essere chiamato tuo figlio. Trattami come uno dei tuoi garzoni. Partì … Quando era ancora lontano il padre lo vide e commosso gli corse incontro, gli si gettò al collo e lo baciò. Il figlio gli disse: “… non sono più degno di esser chiamato tuo figlio”. Ma il padre disse ai servi: “Presto, portate qui il vestito più bello e rivestitelo; mettetegli l’anello al dito e i calzari ai piedi. Portate il vitello grasso, ammazzatelo, mangiamo e facciamo festa, perché questo mio figlio era morto ed è tornato in vita, era perduto ed è stato ritrovato. E cominciarono a far festa.
Il figlio maggiore si trovava nei campi. Al ritorno, quando fu vicino a casa, udì la musica …; chiamò un servo … Il servo gli rispose: È tornato tuo fratello e il padre ha fatto ammazzare il vitello grasso … Egli si arrabbiò, e non voleva entrare. Il padre allora uscì a pregarlo. Ma lui rispose …: “Ecco, io ti servo da tanti anni …”. Gli rispose il padre: “Figlio, tu sei sempre con me e tutto ciò che è mio è tuo; ma bisognava far festa e rallegrarsi perché questo tuo fratello era morto ed è tornato in vita, era perduto ed è stato ritrovato” (Lc 15, 11-32). 

Luca mette in bocca a Gesù questa bella parabola sull’amore che Dio ha, e che chiede a noi di avere, per chi ha sbagliato. È un amore smisurato, che si espone anche all’accusa di essere ingiusto, Infatti l’anello con il sigillo dava potere politico,[17]  ma anche solo potere economico: in questo caso chi lo utilizzava garantiva che la famiglia, evidentemente nota per le sue ricchezze, avrebbe pagato. Quindi il padre della parabola, pur sapendo che il figlio ha scialacquato la sua parte d’eredità, lo mette in condizione di usufruire liberamente della parte che al momento della morte del padre dovrebbe andare al fratello. L’amore può essere causa d’ingiustizia? Ne riparleremo quando esamineremo il vangelo di Giovanni. 

La preghiera 

E questo capovolgimento del concetto di Dio non può non modificare la funzione della preghiera: 

Quando pregate non siate simili agli ipocriti … entra nella tua camera e, chiusa la porta, prega il Padre tuo nel segreto … Pregando, poi, non sprecate parole come i pagani … perché il Padre vostro sa di quali cose avete bisogno ancor prima che gliele chiediate. Voi dunque pregate così: Padre nostro che sei nei cieli, sia santificato il tuo nome, venga il tuo regno, sia fatta la tua volontà, come in cielo così in terra; dacci oggi il nostro pane quotidiano, rimetti a noi i nostri debiti come noi li rimettiamo ai nostri debitori, e non ci abbandonare nella tentazione, ma liberaci dal male. Se voi infatti perdonerete agli uomini le loro colpe, il Padre nostro celeste perdonerà anche voi” … (Mt 6,5-14).
“Chiedete e vi sarà dato, cercate e troverete … Quale padre tra voi, se il figlio gli chiede un pesce, gli darà … una serpe?  Se dunque voi … sapete dare cose buone ai vostri figli, quanto più il Padre vostro celeste darà lo Spirito Santo a coloro che glielo chiedono!” (Lc 11,9-13). 

Giaculatorie, santini con sul retro la preghiera per il favore in cui il santo era specializzato, rosari ripetuti all’infinito, ringraziamenti per il pasto. Ricordo quando tanti anni fa un padre disse al prete radiofonico come il suo bambino l’avesse messo in crisi quando, dopo la preghiera di ringraziamento prima del pranzo, gli aveva chiesto: “Papà, ma allora i bambini che muoiono di fame hanno fatto qualcosa di brutto se Dio non gli permette di sfamarsi?”.

E dire che da 2000 anni i vangeli stanno lì a dirci praticamente di non pregare per il nostro tornaconto, ma di affinare sempre di più la nostra coscienza. Soprattutto di non chiedere favori che ci avvantaggerebbero rispetto ad altri.  Dio sa di cosa abbiamo bisogno: dello Spirito Santo che ci illumini a realizzare il regno; e nell’unica preghiera insegnata, il Padrenostro, quando sembra che stiamo chiedendo il cibo in realtà stiamo chiedendo a noi stessi di non eccedere, di non accumulare beni, memori del “pane quotidiano”, la manna che nel deserto permetteva solo di sopravvivere giorno per giorno, senza la possibilità di accumulare. E che dire dei debiti? Non chiediamo di condonarceli ma di metterli sulla bilancia a confronto con i debiti che rimettiamo agli altri, cioè chiediamo a Dio di non essere severo verso di noi solo se noi non lo siamo verso gli altri. È la legge del taglione capovolta! 

Il regno di Dio e le beatitudini 

Da allora Gesù cominciò a predicare e a dire 
“Convertitevi perché il regno dei cieli è vicino” (Mt.4,17) … li ammaestrava dicendo: “Beati i poveri in spirito perché di essi è il regno dei cieli. Beati gli afflitti, perché saranno consolati. Beati i miti, perché erediteranno la terra. Beati quelli che hanno fame e sete della giustizia, perché saranno saziati. Beati i misericordiosi, perché troveranno misericordia. Beati i puri di cuore, perché vedranno Dio. Beati gli operatori di pace, perché saranno chiamati figli di Dio. Beati i perseguitati per causa della giustizia, perché di essi è il regno dei cieli…” (Mt.5,2-10). 
Cristo Re, Monreale

Cristo Re, Monreale

Il regno dei cieli è vicino: nell’originale greco il verbo è un perfetto, indica un movimento già avvenuto: il regno dei cieli si è avvicinato. Nel pensiero ebraico, grazie al movimento dei farisei, si era andata diffondendo l’idea dell’immortalità dell’anima e quindi il regno dei cieli poteva essere inteso come il tempo dopo la morte della carne; a me pare che le beatitudini stiano a precisare: il regno dei cieli non è un futuro “paradiso terrestre” ma è il momento in cui vi accorgete del prossimo bisognoso di aiuto. E le beatitudini sembrano cippi di confine intorno al regno. 

Dopo Gesù. La prima comunità cristiana 

In quei giorni Pietro si alzò in mezzo ai fratelli (il numero delle persone radunate era circa centoventi) e disse: “Fratelli, era necessario che si adempisse ciò che nella Scrittura fu predetto dallo Spirito Santo per bocca di Davide riguardo a Giuda che fece da guida a quelli che arrestarono Gesù. … Bisogna dunque che tra coloro che ci furono compagni per tutto il tempo in cui il Signore Gesù ha vissuto in mezzo a noi, incominciando dal battesimo di Giovanni fino al giorno in cui è stato assunto in cielo, uno divenga, insieme a noi, testimone della sua risurrezione”.
Ne furono proposti due, Giuseppe detto Barsabba, che era soprannominato Giusto, e Mattia. Allora essi pregarono dicendo: “Tu, Signore, che conosci il cuore di tutti, mostraci quale di questi due hai designato a prendere il posto in questo ministero e apostolato che Giuda ha abbandonato per andarsene al posto da lui scelto”. Gettarono quindi le sorti su di loro e la sorte cadde su Mattia, che fu associato agli undici apostoli. (Atti 1, 15-26)
… In quei giorni, mentre aumentava il numero dei discepoli, sorse un malcontento fra gli ellenisti verso gli ebrei, perché venivano trascurate le loro vedove nella distribuzione quotidiana. Allora i Dodici convocarono il gruppo dei discepoli e dissero: “Non è giusto che noi trascuriamo la parola di Dio per il servizio delle mense. Cercate dunque, fratelli, tra di voi sette uomini di buona reputazione, pieni di Spirito e di saggezza, ai quali affideremo quest’incarico. Noi, invece, ci dedicheremo alla preghiera e al ministero della parola. Piacque questa proposta a tutto il gruppo ed elessero Stefano, uomo pieno di fede e di Spirito Santo, Filippo, Pròcoro, Nicànore, Timone, Parmenàs e Nicola, un proselito di Antiochia.  Li presentarono quindi agli apostoli i quali, dopo aver pregato, imposero le mani (Atti 6, 1-6). 

Dunque il nuovo (e, par di capire, anche l’ultimo) apostolo viene scelto solo tra coloro che hanno condiviso la vita pubblica di Gesù “incominciando dal battesimo di Giovanni”, e per il ballottaggio si ricorre al sorteggio. Invece i diaconi vengono scelti anche tra chi non ha conosciuto personalmente Gesù, e la scelta viene fatta mediante votazione (come, in seguito, nelle chiese locali e nei conclavi). E par di capire che i dodici abdichino visto che non vogliono più servire. D’altra parte non ha senso che la nuova comunità sia rappresentata dai dodici che esprimevano la precedente realtà ebraica. Ecco il passaggio a un organismo di sette, a testimoniare la nuova realtà universale. I numeri continuano a parlare.

Ma riesaminando il motivo addotto per passare dai dodici ai sette appare chiaro anche il compito affidato alle nuove guide della comunità: non la difesa dell’ortodossia, ma il controllo dell’ortoprassi affinché la comunità non compia discriminazioni e ingiustizie verso i poveri e gli indifesi provenienti dal mondo pagano. Siamo sicuri che ai giorni nostri i successori (non di Pietro, ridottosi alla preghiera, ma di Stefano) abbiano sempre presente questo loro compito? 

Le parabole di Giovanni 

Come avete potuto notare, finora non ho coinvolto, salvo qualche accenno, uno dei quattro evangelisti canonici: Giovanni, l’autore del quarto vangelo, del vangelo che viaggia per proprio conto con episodi che gli altri non riportano, il vangelo più lontano, nel tempo, dalla vita di Gesù essendo stato scritto almeno sessant’anni dopo la sua morte. Un vangelo che risente fortemente di un retroterra filosofico particolare, e che, secondo me, non rispetta la volontà del maestro di rivolgersi agli umili. Giovanni chiaramente le sue parabole le rivolge ai “sapienti”, con un linguaggio, apparentemente semplice ma carico di sottintesi, all’epoca molto apprezzati dagli gnostici, ossia quegli evangelisti che, preceduti già nel primo secolo dal Vangelo apocrifo di Tommaso, si moltiplicarono nel secondo secolo perseguendo quell’impasto di esperienza mistica e linguaggio esoterico che porta il nome di gnosi.

Poco meno di un secolo dopo, il grande Origene, considerato uno dei Padri della Chiesa (salvo poi, dopo altri due secoli, essere retrocesso ad eretico) “spiegava che Giovanni, pur non dicendo sempre la verità dal punto di vista letterale, diceva però sempre la verità dal punto di vista spirituale, cioè simbolico. Origene arrivò a suggerire che le contraddizioni nel Vangelo di Giovanni fossero opera dello Spirito Santo, per costringere il lettore, sconcertato, a chiedersi che cosa mai significhino quei racconti e a capire che non vanno presi alla lettera.”[18]

A conferma ecco l’inizio del suo Vangelo:

“In principio era il Logos,

e il Logos era presso Dio

e il Logos era Dio.

Egli era in principio presso Dio:

tutto è stato fatto per mezzo di lui” (Gv. 1,1-3)

Un secolo prima il già citato filosofo Filone di Alessandria, appartenente alla diaspora ebraica in Egitto e contemporaneo di Gesù anche se sembra non averlo conosciuto, ebreo di lingua greca, interpretando la narrazione biblica con la filosofia di Platone e degli stoici affermava che Dio ha creato il mondo attraverso il Logos, sua emanazione personale (Logos in greco significava “pensiero” e “parola”, e in Genesi1 le successive fasi della creazione sono scandite da “E Dio disse …”). Scrive Edmondo Lupieri: 

«Importantissimo e in buona parte nuovo fu … il suo tentativo organico di rendere l’intera Scrittura giudaica comprensibile alla cultura pagana dell’epoca, applicando al testo sacro quelle tecniche allegoriche che i commentatori alessandrini avevano elaborato per interpretare Omero ed Esiodo. Come i testi degli antichi poeti, soprattutto dove trattavano degli dèi, erano stati ammodernati grazie ad un’interpretazione allegorica che permetteva di risolverne asperità e incongruenze, così il testo biblico cessa di essere espressione di una barbarie inusitata per gli elleni, e diventa una specie di manuale di etica e di filosofia. Le norme rituali e i tabù alimentari dal Levitico diventano degli insegnamenti morali… Per quanto riguarda problemi più strettamente teologici, Filone tenta di conciliare platonicamente la trascendenza di Dio con i suoi aspetti immanenti. Il Logos di Dio, in quanto «Ragione», è inteso come l’insieme delle Idee, la somma idea di Dio; in quanto “Parola” è la sua presenza creatrice, anteriore al mondo che ha creato, ma anche immagine e “Figlio” di Dio nel mondo e per gli uomini» [19]. 

A me pare dunque che, con i primi tre versetti del suo vangelo, l’evangelista ci stia dicendo a quale scuola di pensiero si rifà e con quale genere letterario intenda esprimersi. 

Le nozze di Cana ovvero come ti trasformo un testo teologico in una banalità miracolistica 

… ci fu uno sposalizio a Cana di Galilea e c’era la madre di Gesù. Fu invitato alle nozze anche Gesù con i suoi discepoli. Nel frattempo, venuto a mancare il vino, la madre di Gesù disse: “Non hanno più vino” … La madre dice ai servi: “fate quello che vi dirà”. Vi erano sei giare di pietra per la purificazione … E Gesù disse loro: “Riempite d’acqua le giare”. E le riempirono fino all’orlo. Disse loro di nuovo: “Ora attingete e portatene al maestro di tavola” … Come ebbe assaggiato … il maestro di tavola, che non sapeva da dove venisse … chiamò lo sposo e gli disse: “Tutti servono da principio il vino buono e, quando sono un po’ brilli, quello meno buono …”. (Gv 2,1-12). 
Nozze di Canaa, di Paolo Veronese

Nozze di Canaa, di Paolo Veronese

Tra gli evangelisti, solo Giovanni scrive delle nozze di Cana di Galilea, in cui colloca il primo di quelli che successivamente sono stati considerati i miracoli di Gesù. Eppure non si sogna di giustificare questa differenza, come non si sognerà di giustificare quella, ben più rilevante, della resurrezione di Lazzaro: le parabole non vanno giustificate, vivono di vita propria.

Questo “miracolo” è davvero strano: sembra, più che un miracolo, un gioco di prestigio degno di un’osteria. Quindi perdonatemi se ci metto un commento più lungo del solito. L’ho preso dal sito del biblista Alberto Maggi e mi pare esemplare per un corretto approccio al Vangelo scritto da Giovanni. Per cui ve ne offro i punti salienti.

Scrive Maggi: «I vangeli non sono stati scritti per essere letti dalla gente… la gente, nella stragrande maggioranza, era analfabeta. I vangeli sono delle opere letterarie, teologiche, spirituali, molto molto complesse, dense, ricche di significati e venivano inviati in una comunità dove il lettore, cioè il teologo di quella comunità, non si limitava a leggerli agli altri, ma li interpretava. E per interpretarli seguiva quelle chiavi di lettura, quelle indicazioni che l’evangelista metteva nel testo». E Maggi prova a fare lo stesso percorso: 

«Vediamo subito la prima indicazione che l’evangelista infatti pone. Il terzo giorno vi fu una festa di nozze a Cana di Galilea. Il terzo giorno, a un ebreo del tempo, richiamava subito il giorno dell’alleanza, il giorno in cui Dio a Mosè sul Sinai donò l’alleanza con il suo popolo. Quindi l’evangelista vuole dire: attenzione; tutto questo brano è in chiave dell’alleanza con Dio. … Quest’alleanza tra Dio e i suoi profeti veniva raffigurata attraverso un matrimonio; Dio era lo sposo e il popolo, Israele, la sposa. … e c’era la madre di Gesù. Anche in questo brano tutti i personaggi sono anonimi. Quando un personaggio è anonimo … significa che è un personaggio rappresentativo. L’unica persona che in questo brano ha un nome è Gesù. Fu invitato alle nozze anche Gesù con i suoi discepoli. Venuto a mancare il vino … nel rito matrimoniale il momento culminante è quando lo sposo e la sposa bevono da un unico calice di vino, il vino rappresenta l’amore. Ebbene qui c’è un matrimonio dove manca l’elemento più importante, manca il vino. La madre di Gesù gli disse: «Non hanno vino». La madre di Gesù che pure apparteneva alle nozze, non dice, come ci saremmo aspettati: “Non abbiamo vino”, ma dice “Non hanno vino”, la madre di Gesù rappresenta quell’Israele fedele che ha sempre conservato questo amore con Dio. E la risposta di Gesù può sembrare strana, addirittura sgarbata, se pensiamo che è rivolta da un figlio alla madre. E Gesù le rispose: «Donna, che vuoi da me? Non è ancora giunta la mia ora». Ma vediamo anche qui di comprendere che cosa l’evangelista vuole esprimere. “Donna” significa “moglie, donna sposata”. Sono tre i personaggi femminili ai quali Gesù in questo vangelo si rivolge con questo appellativo. Sono le immagini delle spose di Dio. Per cui la madre di Gesù rappresenta la sposa fedele dell’Antico Testamento … Allora Gesù richiamando la sua caratteristica di sposa fedele dice: “Che vuoi da me”? Cioè che cosa ci importa? Non è ancora giunta la mia ora”. La madre di Gesù crede che il messia vada ad annunciare nuova vita alle antiche istituzioni. Ma Gesù non è venuto a mettere nuova vita nelle antiche istituzioni, ma a formularne una nuova, che adesso vedremo.
Quindi Gesù dice: “Non ci interessa questo”. Ma sua madre disse ai servitori…, e qui l’evangelista mette in bocca alla madre quanto nel libro dell’Esodo aveva risposto il popolo a Mosè: “Quanto il Signore ha detto noi lo faremo”.
Qui sua madre disse ai servitori: «Qualsiasi cosa vi dica, fatela». Quindi vede in Gesù il nuovo legislatore, il nuovo Mosè che è da ascoltare. E qui la descrizione ora va all’ambiente.
Vi erano là sei anfore di pietra, non anfore di coccio, come a volte nelle rappresentazioni i pittori ci fanno vedere, ma sei anfore di pietra, quindi grosse inamovibili, di pietra come le tavole della legge. Per cosa dovevano servire? Per la purificazione rituale dei Giudei, contenenti ciascuna da ottanta a centoventi litri. Quindi in questo ambiente familiare ci sono queste anfore che dovevano contenere ben seicento litri d’acqua per la purificazione.
Ecco perché non hanno vino. Una religione che inculca il senso di colpa, di indegnità, che fa sentire l’uomo sempre bisognoso di chiedere perdono, di purificarsi, sempre impuro, è una religione che impedisce di scoprire e di accogliere l’amore di Dio. Ecco il bisogno sempre quindi di purificarsi.
E Gesù disse loro: «Riempite d’acqua le anfore»; e le riempirono fino all’orlo. Disse loro di nuovo: «Ora prendetene e portatene a colui che dirige il banchetto». … c’era un incaricato che doveva stare attento … a che non mancassero i cibi e soprattutto il vino.
Costui non se ne occupa. Qui rappresenta i capi religiosi che non si preoccupano del fatto che il popolo non abbia questa relazione con Dio.
Ed essi gliene portarono.  Come ebbe assaggiato l’acqua diventata vino… - quindi le anfore non contengono mai il vino di Gesù ma contengono l’acqua, – chiamò lo sposo.
… È la nuova alleanza che Gesù ci propone. Un nuovo rapporto con Dio, non più basato sull’obbedienza alla legge, che fa sentire sempre indegni e impuri, ma sull’accoglienza del suo amore …
Chiamò lo sposo, e lo rimproverò.  “… Tu invece hai tenuto da parte il vino buono finora».
Per le autorità il vino nuovo appartiene al passato. Le autorità sono incapaci di comprendere che il bello e il buono deve ancora venire. Bene, a conclusione di questo episodio … l’evangelista dice: Questo, a Cana di Galilea, fu l’inizio dei segni compiuti da Gesù; egli manifestò la sua gloria. L’unica volta nella quale si scrive che Gesù manifestò la sua gloria. Non viene detto quando Gesù risuscita Lazzaro, un morto da quattro giorni, ma qui l’evangelista ci dice: “Attenzione! Questo non è un racconto di un’acqua cambiata in vino per ospiti già alticci, ma ci parla del cambio dell’alleanza. Non più il bisogno di purificarsi per accogliere l’amore di Dio, ma accogliere l’amore di Dio, che è quello che purifica l’uomo». (commento del 17 gennaio 2016, leggibile sul suo sito internet). 

Il cieco dalla nascita (per affermare che Gesù è venuto a creare l’uomo nuovo) 

… sputò per terra, fece del fango con la saliva, spalmò il fango sugli occhi del cieco e gli disse “Va a lavarti …”… condussero dai farisei quello che era stato cieco. Era però sabato il giorno in cui Gesù aveva fatto del fango e gli aveva aperto gli occhi … Dicevano dunque alcuni farisei: “Quest’uomo non è da Dio, perché non osserva il sabato” … (Gv 9,1-41)
il Signore Iddio con la polvere del suolo modellò l’uomo, gli soffiò nelle narici un alito di vita e l’uomo divenne un essere vivente (Genesi 2,7). 
Gesù, di Rembrandt

Gesù, di Rembrandt

Credo che si possa considerare l’evangelista Giovanni un rappresentante della terza generazione di cristiani, ben lontana da coloro che avevano conosciuto Gesù da vivo; e che voglia dirci di non  avere intenzione di fare la biografia di Gesù mi pare confermato dal fatto che in questo passo il guarito venga portato non davanti ai sacerdoti ma davanti ai farisei, collocando così la vita di Gesù in un ambiente che si concretizzerà solo dopo diversi decenni dalla sua morte, quando, scomparso nel 70 il tempio con i relativi sacerdoti, erano rimaste solo le sinagoghe a riunire gli ebrei; e nelle sinagoghe si confrontavano, talvolta anche in maniera violenta, farisei e cristiani, le due correnti sopravvissute alla scomparsa dei sadducei. Verso la fine del secolo, forse nel 90, si arriva alla separazione: la componente farisaica dichiara scismatica quella cristiana e stabilisce che i seguaci di Gesù vadano espulsi dalle sinagoghe (e mi pare che a questa situazione alluda Giovanni quando scrive al versetto 34 “e lo cacciarono fuori”, mentre negli atti degli apostoli troviamo che, dopo la morte di Gesù, i suoi discepoli “ogni giorno tutti insieme frequentavano il tempio” (At 2,46) senza esserne espulsi. Ecco dunque il nuovo ambiente in cui Giovanni, forse riprendendo un episodio narrato prima solo da Marco che lo presentava più come cura che procede per tentativi che come miracolo (Mc 8,22-26), colloca questo racconto, disinteressandosi dell’anacronismo.

Quindi, ancor più che nei sinottici, nel suo vangelo non dobbiamo cercare episodi della vita di Gesù di Nazareth, ma quel che Giovanni aveva capito del suo insegnamento. L’elemento chiarificatore, a mio modesto parere, è dato dal “metodo di cura”: la descrizione dell’impasto e poi dell’applicazione agli occhi ricalca la descrizione della creazione dell’uomo nella Genesi: modellato con il fango. Quindi a me sembra che qui si parli non di una cura degli occhi ma della nascita di un uomo nuovo, di una conversione che fa vedere la realtà con occhi nuovi; mi pare che il centro del racconto non sia il “miracolo”, ma sia l’incapacità, da parte di uomini di religione, di vedere il valore del risveglio di un’anima; uomini di religione “accecati” dalla fredda tutela di una delle tante norme religiose, nello specifico quella del sabato.

La mentalità che Giovanni condanna è quella di un rapporto con la divinità attraverso l’obbedienza, volta a volta, alla singola norma senza porsi il perché delle norme, senza, cioè, usare la coscienza che, sola, permette di dare un senso alle norme valutando quando rispettarle e quando invece andare oltre. 

Lazzaro. Resurrezione dalla morte o dal peccato? 

In quel tempo, un certo Lazzaro di Betània, il villaggio di Maria e di Marta sua sorella, era malato. Maria era quella che cosparse di profumo il Signore e gli asciugò i piedi con i suoi capelli; suo fratello Lazzaro era malato. Le sorelle mandarono dunque a dire a Gesù: «Signore, ecco, colui che tu ami è malato». All’udire questo, Gesù disse: «Questa malattia non porterà alla morte, ma è per la gloria di Dio, affinché per mezzo di essa il Figlio di Dio venga glorificato». Gesù amava Marta e sua sorella e Lazzaro. Quando sentì che era malato, rimase per due giorni nel luogo dove si trovava. Poi disse ai discepoli: «Andiamo di nuovo in Giudea!». I discepoli gli dissero: «Rabbì, poco fa i Giudei cercavano di lapidarti e tu ci vai di nuovo?». Gesù rispose: «Non sono forse dodici le ore del giorno? Se uno cammina di giorno, non inciampa, perché vede la luce di questo mondo; ma se cammina di notte, inciampa, perché la luce non è in lui». Disse queste cose e poi soggiunse loro: «Lazzaro, il nostro amico, s’è addormentato; ma io vado a svegliarlo». Gli dissero allora i discepoli: «Signore, se si è addormentato, si salverà». Gesù aveva parlato della morte di lui; essi invece pensarono che parlasse del riposo del sonno. Allora Gesù disse loro apertamente: «Lazzaro è morto e io sono contento per voi di non essere stato là, affinché voi crediate; ma andiamo da lui!». Allora Tommaso, chiamato Didimo, disse agli altri discepoli: «Andiamo anche noi a morire con lui!». Quando Gesù arrivò, trovò Lazzaro che già da quattro giorni era nel sepolcro. Betània distava da Gerusalemme meno di tre chilometri e molti Giudei erano venuti da Marta e Maria a consolarle per il fratello. Marta dunque, come udì che veniva Gesù, gli andò incontro; Maria invece stava seduta in casa. Marta disse a Gesù: «Signore, se tu fossi stato qui, mio fratello non sarebbe morto! Ma anche ora so che qualunque cosa tu chiederai a Dio, Dio te la concederà». Gesù le disse: «Tuo fratello risorgerà». Gli rispose Marta: «So che risorgerà nella risurrezione dell’ultimo giorno». Gesù le disse: «Io-Sono la risurrezione e la vita; chi crede in me, anche se muore, vivrà; chiunque vive e crede in me, non morirà in eterno. Credi questo?». Gli rispose: «Sì, o Signore, io credo che tu sei il Cristo, il Figlio di Dio, colui che viene nel mondo». Dette queste parole, andò a chiamare Maria, sua sorella, e di nascosto le disse: «Il Maestro è qui e ti chiama». Udito questo, ella si alzò subito e andò da lui. Gesù non era entrato nel villaggio, ma si trovava ancora là dove Marta gli era andata incontro. Allora i Giudei, che erano in casa con lei a consolarla, vedendo Maria alzarsi in fretta e uscire, la seguirono, pensando che andasse a piangere al sepolcro. Quando Maria giunse dove si trovava Gesù, appena lo vide si gettò ai suoi piedi dicendogli: «Signore, se tu fossi stato qui, mio fratello non sarebbe morto!». Gesù allora, quando la vide piangere, e piangere anche i Giudei che erano venuti con lei, si commosse profondamente e, molto turbato, domandò: «Dove lo avete posto?». Gli dissero: «Signore, vieni a vedere!». Gesù scoppiò in pianto. Dissero allora i Giudei: «Guarda come lo amava!». Ma alcuni di loro dissero: «Lui, che ha aperto gli occhi al cieco, non poteva anche far sì che costui non morisse?». Allora Gesù, ancora una volta commosso profondamente, si recò al sepolcro: era una grotta e contro di essa era posta una pietra. Disse Gesù: «Togliete la pietra!». Gli rispose Marta, la sorella del morto: «Signore, manda già cattivo odore: è lì da quattro giorni». Le disse Gesù: «Non ti ho detto che, se crederai, vedrai la gloria di Dio?». Tolsero dunque la pietra. Gesù allora alzò gli occhi e disse: «Padre, ti rendo grazie perché mi hai ascoltato. Io sapevo che mi dai sempre ascolto, ma l’ho detto per la gente che mi sta attorno, perché credano che tu mi hai mandato». Detto questo, gridò a gran voce: «Lazzaro, vieni fuori!». Il morto uscì, i piedi e le mani legati con bende, e il viso avvolto da un sudario. Gesù disse loro: «Liberatelo e lasciatelo andare». Molti dei Giudei che erano venuti da Maria, alla vista di ciò che egli aveva compiuto, credettero in lui. Ma alcuni andarono dai farisei e riferirono loro quello che Gesù aveva fatto. Allora i capi dei sacerdoti e i farisei riunirono il sinedrio e dissero: «Che cosa facciamo? Quest’uomo compie molti segni. Se lo lasciamo continuare così, tutti crederanno in lui, verranno i Romani e distruggeranno il nostro tempio e la nostra nazione» (Gv 11,1-45). 
Gesù e il miracolo di Lazzaro, di Giotto

Gesù e il miracolo di Lazzaro, di Giotto

Proviamo a leggere il brano non come il racconto d’un fatto accaduto, ma come un apologo. Perché tutto sta a indicare che come tale lo si debba considerare. Se fosse veramente accaduto, per quale motivo non ne parlano gli altri evangelisti? Non è un avvenimento da poco per cui si possa dire che gli altri se ne sono scordati, né Giovanni motiva questa assenza nei testi precedenti, magari dicendo che erano presenti solo due o tre persone che poi si erano impegnate al segreto. No, Giovanni parla della presenza d’una vera folla. Proprio questo mi fa pensare che Giovanni voglia dirci che d’un apologo si tratta. Allora, apologo per dirci cosa? Gesù si commuove, o, secondo altri commentatori che parlano di cattiva traduzione, si adira. Per cosa? I presenti pensano per la morte dell’amico; ma Gesù era stato tranquillissimo quando annunciava l’evento, anzi ha aspettato apposta che fosse troppo tardi. Allora vien da pensare che il suo pianto e la sua ira non fossero per il morto ma per i presenti. E vien da pensare che il tema non fosse quello apparente della resurrezione della carne ma quello della comunità cristiana. A pensarci bene è lo stesso tema svolto da Luca nel brano dei discepoli di Emmaus. Ma lì il concetto era che la comunità nel momento in cui si mette nella sequela di Gesù, lo fa risorgere; qui invece la comunità viene forse vista nei momenti meno esaltanti, quando si divide ed esclude una parte perché la considera morta alla fede, morta definitivamente, morta a tal punto che puzza di cadavere. E il Gesù di Giovanni si adira e dimostra che il morto, se si ha fede nello Spirito che soffia dove vuole, può tornare vivo e vitale.

Quando Giovanni scriveva, ormai da decenni si susseguivano episodi di persecuzione nei confronti dei cristiani (per cui si può capire meglio “Andiamo a morire con lui!”), e di fronte alla minaccia di morte qualcuno non reggeva e negava di essere membro della comunità, o addirittura denunciava gli altri sperando di salvarsi. Nelle comunità si discuteva se coloro che non avevano avuto il coraggio di riconoscersi cristiani potessero ancora ricoprire incarichi e qualcuno metteva anche in discussione il loro permanere nella comunità, ma per coloro che avevano fatto i nomi degli altri non c’era alcuna possibilità di reintegro. Forse è di questo che parla Giovanni, dicendo che non esistono colpe “mortali” che escludano a vita dal rapporto con i figli di Dio. E allora acquista un senso l’antefatto, ossia il rifiuto di andare appena saputo della “malattia”: non si salva il fratello standogli con il fiato sul collo, ma lo si fa crescere dandogli fiducia, … e poi riaccogliendolo. 

Incoerenza di Giovanni? 

Tuttavia questa interpretazione pone un problema di coerenza con quanto scritto in altri passi di questo vangelo: come ho già scritto citando Gv.15,12-17, l’amore è solo per gli amici, e per giunta dura quanto il buon comportamento di questi ultimi. Con conseguenze anche nell’aldilà: Alitò su di loro e disse: “Ricevete lo Spirito Santo; a chi rimetterete i peccati saranno rimessi e a chi non li rimetterete, resteranno non rimessi” (Gv 20, 22-23), legando le mani persino al “Padre amorevole”!

Resurrezione, di Pier della Francesca

Resurrezione, di Pier della Francesca

Abbiamo letto la parabola dei due figli narrata, secondo Luca, da Gesù per esprimere l’amore di Dio per i peccatori, anche a scapito dei suoi “figli” fedeli. Il Gesù risorto descritto qui da Giovanni, se invitato a ripetere quella parabola, direbbe sostanzialmente che di fronte al figlio ritrovato il padre dovrebbe trincerarsi dietro al figlio “devoto” dicendo all’altro: “figlio mio, vorrei tanto, ma la tua parte di eredità te l’ho già data. Quello che resta toccherà in eredità a tuo fratello, per cui non lo posso intaccare: non ti posso rivestire, non posso offrirti il vitello grasso; ma soprattutto non posso darti l’anello. Prova a convincere tuo fratello”. Certo, avremmo davanti l’immagine di un padre severo ma giusto, ma non avremmo la tensione dell’amore materno.

Torno a ricordare che la frase messa in bocca a Gesù risorto è la formula usata dagli imperatori quando assegnavano le province dell’impero ai governatori “con pieni poteri”. Quindi Giovanni a conclusione del vangelo torna a ripristinare l’imperatore celeste? Mi resta una sola via d’uscita, stretta e tortuosa forse, ma che dire: quando non c’è altro …

Ecco la via d’uscita: la legge del taglione che noi pronunciamo ogni volta che recitiamo il Padrenostro: rimetti a noi … E allora, povera gerarchia! 

Per dare maggiore forza a questa investitura si è detto che viene confermata anche dai sinottici. Ma a me pare un’enorme forzatura. Leggiamo in Mt 16, 17-19: 

Beato te, Simone figlio di Giona, perché né la carne né il sangue te l’hanno rivelato, ma il Padre mio che sta nei cieli. E io ti dico: Tu sei Pietro e su questa pietra edificherò la mia Chiesa … A te darò le chiavi del regno dei cieli, e tutto ciò che legherai sulla terra sarà legato nei cieli, e tutto ciò che scioglierai sulla terra sarà sciolto nei cieli. 

Ripeto: a me pare una forzatura, innanzitutto perché qui si parla di potere dato al solo Pietro e non all’insieme dei discepoli, e a quel Pietro che pochi minuti dopo Gesù rimprovera duramente, arrivando a chiamarlo Satana, quando si accorge che ha in mente un’idea del Messia come sovrano che per riportare all’antico splendore il regno d’Israele deve intanto pensare alla propria sicurezza e non rischiare la vita. Per questo alcuni giorni dopo lo convocherà, assieme agli altri due discepoli tentati dagli onori del potere, per quello che oggi chiameremmo corso di recupero, sul monte della Trasfigurazione. Mi sembra quindi che il mandato preso in esame sia solo un’iperbole per dire che in quel momento Pietro aveva, apparentemente, capito tutto.

Ben diverso è il peso che Giovanni dà al mandato, collocandolo al termine del vangelo e indirizzandolo a tutti i discepoli, facendolo intendere quindi come controllo capillare su tutti i fedeli 

La resurrezione di Gesù secondo Giovanni 

Apparizione a Maria di Màgdala. 

- Maria di Màgdala… si voltò indietro e vide Gesù che stava lì in piedi; ma non sapeva che era Gesù. Le disse Gesù: “Donna, perché piangi? Chi cerchi?”. Essa, pensando che fosse il custode del giardino, gli disse … 

Le due apparizioni all’assemblea dei discepoli: 

- … quello stesso giorno … mentre erano chiuse le porte del luogo dove si trovavano i discepoli per timore dei giudei, venne Gesù … e disse: “Pace a voi”. Detto questo, mostrò loro le mani e il costato … Gesù disse di nuovo “Pace a voi!  Come il Padre ha mandato me, anch’io mando voi”. … Alitò su di loro e disse: “Ricevete lo Spirito Santo; a chi rimetterete i peccati saranno rimessi e a chi non li rimetterete, resteranno non rimessi”. Tommaso … non era con loro …disse … “Se non vedo nelle sue mani … e non metto il dito nel posto dei chiodi e non metto la mia mano nel suo costato, non crederò. Otto giorni dopo … c’era con loro anche Tommaso. Venne Gesù a porte chiuse… disse a Tommaso: “Metti qua il tuo dito e guarda le mie mani; stendi la tua mano e mettila nel mio costato; e non essere più incredulo…” … “Perché mi hai veduto, hai creduto: beati quelli che pur non avendo visto crederanno!” (Gv 20, 14-29). 

Come si vede, anche in queste apparizioni Gesù non viene riconosciuto subito per le caratteristiche fisiche. Maria dovrà sentirlo chiamarla per nome, mentre gli altri discepoli lo riconoscono per le ferite, che compaiono agli arti e al costato solo in questo vangelo[20].

L'apparizione di Gesù nel lago di Tiberiade, di Duccio  Boninsegna

L’apparizione di Gesù nel lago di Tiberiade, di Duccio Buoninsegna

L’evangelista ha mostrato in vari modi di non essere uno sprovveduto, e in un racconto veristico come si può passare attraverso porte chiuse, e conversare tranquillamente mantenendo aperte le ferite che hanno provocato la morte? Non ha senso: resuscita ma continuamente muore? E, se fosse morto come morirà poi Saulo, si sarebbe presentato con la testa sotto braccio? Quindi la soluzione scelta per far riconoscere Gesù a me pare che stia a dire che non scrive un episodio di vita, ma una metafora e che ogni volta che vedremo soffrire qualcuno per le cose che Gesù riteneva degne di sacrificio vedremo Gesù risorto. Mi fa venire in mente il film di Kubric su Spartacus: quando il generale romano chiede agli schiavi, ormai sconfitti, di indicargli Spartacus promettendo salva la vita a chi tradirà il proprio condottiero, uno dei prigionieri si alza dicendo: “Io sono Spartacus”, e diversi altri lo imitano.

Quanto all’episodio di Tommaso, ricordo che quand’ero bambino il catechista lo commentava come invito a credere ai miracoli anche se non se ne vedono. Successivamente mi è parsa una banalizzazione del testo di un autore, sicuramente controverso, ma mai banale. Secondo me l’appello è rivolto a coloro che, quando le cose non vanno come si vorrebbe e sembra che nessuno si dia da fare, cadono nella depressione, e non passa per la mente che forse è proprio quel momento a chiedere loro di essere non nei panni di Tommaso ma in quelli del risorto. O forse è un incoraggiamento ai cristiani “diversamente abili”? Agli agnostici? A coloro che non hanno bisogno dei miracoli per credere valido il messaggio? 

Il mistero del 21° capitolo 

Qui sembra terminare il vangelo di Giovanni con le classiche frasi di chiusura: 

Molti altri segni fece Gesù in presenza dei suoi discepoli, ma non sono stati scritti in questo libro. Questi sono stati scritti perché crediate che Gesù è il Cristo, il Figlio di Dio, e perché, credendo, abbiate la vita nel suo nome (Gv. 20, 30). 

Ma stranamente il testo prosegue con il 21° capitolo. Sicuramente non opera dell’evangelista, perché quando un autore vuole aggiungere qualcosa a un testo che ha già diffuso, la frase di chiusura non la lascia in mezzo al nuovo testo ma la sposta in fondo. Evidentemente chi ha inserito il nuovo episodio ha voluto far sapere che è un’aggiunta posteriore. Perché? Esaminiamo l’aggiunta:

L’apparizione di Gesù sul lago di Tiberiade: 

 … salirono sulla barca; ma in quella notte non presero nulla. Quando già era l’alba Gesù si presentò sulla riva, ma i discepoli non si erano accorti che era Gesù. Gesù disse loro: “Figlioli, non avete nulla da mangiare? Gli risposero: “No”. Allora disse loro: “Gettate la rete dalla parte destra della barca e troverete”. La gettarono e non potevano più tirarla su per la gran quantità di pesci.
Allora quel discepolo che Gesù amava disse a Pietro: “E’ il Signore!”. Simon Pietro, appena udì che era il Signore, … si gettò in mare. Gli altri discepoli invece vennero con la barca, trascinando la rete piena di pesci: infatti erano lontani da terra se non un centinaio di metri.
Appena scesi a terra, videro della brace con del pesce sopra, e del pane: Disse loro Gesù: “portate un po’ di pesce che avete preso or ora”. Allora Simon Pietro salì nella barca e trasse a terra la rete piena di centocinquantatré grossi pesci. E benché fossero tanti, la rete non si spezzò. Gesù disse loro: “Venite e mangiate”. E nessuno dei discepoli osava domandargli: “Chi sei?”, perché sapevano bene che era il Signore. … Questa era la terza volta che Gesù si manifestava ai discepoli, dopo essere resuscitato dai morti. … (Giovanni 21,1-24). 

Finita poi la cena Gesù conversa con Pietro, prima dandogli per tre volte l’incarico di guidare i suoi discepoli (“pasci le mie pecore”) e poi esaltando il discepolo prediletto che la tradizione identifica nello stesso evangelista, anche se pare improbabile per la distanza temporale. Torno a chiedermi: perché l’aggiunta? E perché l’esaltazione dell’evangelista?

L’aggiunta sembra la descrizione di un’apparizione del Risorto dimenticata nella prima stesura. Il tutto in un’atmosfera distesa: una pesca miracolosa, seguita da una cena tra amici e una chiacchierata a due, piena di consigli.  Ma il testo riporta una stranezza, la conta dei pesci pescati: 153, precisione degna di un ragioniere. Questo ha creato per molto tempo qualche problema d’interpretazione. Solo dopo il fortunoso ritrovamento di diversi vangeli gnostici nel secolo scorso, scrive Paolo Farinella nel suo sito, si sono avuti gli elementi sufficienti a capire il legame esistente tra la gnosi e le dottrine esoteriche e mistiche dell’ebraismo che successivamente daranno vita alla qabbalah, e aggiunge: «In ebraico l’espressione «bny h’lhym» (si pronuncia: benè ha’elohim) significa “figli di Dio”. Perché, aggiunge, se si mettono insieme le consonanti dell’espressione e si sommano i numeri che vi corrispondono si ottiene il numero 153» [21]. E in tutto questo, accanto a Gesù visto nel ruolo di sacerdote alla maniera di Melchisedec [22], una persona emerge in modo inusuale: Pietro che si getta a nuoto, Pietro che prende dalla barca i pesci per portarli al Risorto, e la rete che nelle sue mani, pur appesantita dall’abbondante pesca, non si rompe; e infine al termine della colazione, l’invito di Gesù a Pietro ripetuto tre volte: pasci le mie pecore.

Quindi l’autore dell’aggiunta al vangelo di Giovanni, probabilmente fatta quando ormai si va delineando la cacciata degli gnostici dalla Chiesa, sembra dire alla maniera gnostica che i figli di Dio sono uniti sotto la guida della gerarchia.  Ma poi il testo continua:  

Pietro, voltatosi, vide venirgli dietro il discepolo che Gesù amava; quello stesso che durante la cena stava inclinato sul petto di Gesù e aveva detto: «Signore, chi è che ti tradisce?» Pietro dunque, vedutolo, disse a Gesù: «Signore, e lui?» Gesù gli rispose: «Se voglio che rimanga finché io venga, che t’importa? Tu, seguimi». Per questo motivo si sparse tra i fratelli la voce che quel discepolo non sarebbe morto; Gesù però non gli aveva detto che non sarebbe morto, ma: «Se voglio che rimanga finché io venga, che t’importa?» Questi è quel discepolo che testimonia tali cose e le ha scritte; e sappiamo che la sua testimonianza è verace (Gv. 21, 20-24). 

Quindi, stando all’autore dell’aggiunta, l’apostolo Giovanni, indicato come autore del Vangelo, sarebbe stato, dopo la morte di Pietro negli anni 60 del 1° secolo, l’ultimo degli apostoli in vita; per giunta è l’apostolo che, unico a riconoscere Gesù dalla barca, rende possibile a Pietro di raggiungerlo a nuoto e ricevere l’incarico … e quindi il suo Vangelo non si tocca!

Il Vangelo secondo Giovanni evidentemente qualche rischio alla fine del 2° secolo deve averlo corso se il principale avversario degli gnostici, Ireneo vescovo di Lione, scrive che molti di questi “eretici” usavano come fonte principale del loro insegnamento proprio il vangelo di Giovanni (Elaine Pagels: I Vangeli gnostici, Mondadori 2005: 185). Ma, come abbiamo visto, il testo dell’evangelista e, ancor più, l’aggiunta postuma deve aver reso inattaccabile questo vangelo, se il contrasto verteva sul ruolo della gerarchia. E tale sembra essere, stando alla Pagels che, narrando il contrasto tra gli gnostici e il vescovo di Lione, loro principale antagonista, scrive: 

«Il Trattato Tripartito, scritto da un seguace di Valentino [23], contrappone gli gnostici, “figli del Padre”, ai non-iniziati, progenie del demiurgo [24]. I figli del Padre, dice, si mettono insieme da eguali, godendo di amore reciproco, aiutandosi spontaneamente l’un l’altro. Mentre la progenie del demiurgo – i cristiani tradizionali – “volevano comandare l’un l’altro …” … Ireneo ci parla delle pratiche di un gruppo che conosce … di Lione … il gruppo diretto da Marco, discepolo di Valentino, … osavano incontrarsi al di fuori dell’autorità del vescovo, che consideravano – ed era lo stesso Ireneo! – portavoce del demiurgo. Poi, ogni iniziato presumeva d’aver ricevuto, nel rito di iniziazione, il dono carismatico dell’ispirazione diretta tramite lo Spirito Santo. … Ireneo ci dice che quando si riunivano, la prima cosa che tutti facevano era quella di effettuare un sorteggio. Un certo risultato designava un membro … nel ruolo di prete, a un altro toccava offrire il sacramento come vescovo; un terzo avrebbe letto le scritture per il culto e un altro ancora doveva rivolgersi al gruppo come profeta, impartendo estemporanee istruzioni spirituali. Al raduno successivo avrebbero ugualmente effettuato un sorteggio» [25]. 

Quindi il capitolo aggiunto avrebbe lo scopo di dire agli gnostici “buoni” di restare nella Chiesa, mentre le “teste calde” venivano espulse. Ma forse un accenno di speranza l’autore lo dedica anche agli espulsi: il pesce che Gesù stava già cuocendo, esito di un’altra pesca, indica anch’esso un figlio di Dio? Quindi anche fuori della Chiesa si può essere tali? Interessante ipotesi ventilata in un testo che sembra scritto a sostegno del contrario.

cop_sandriA chiusura di questo capitolo, permettetemi un’osservazione sul numero delle apparizioni e sulla storia successiva di questo brano: In questo 21° capitolo si dice che la narrazione riguarda “la terza apparizione”, quando in realtà ne contiamo quattro. Chi viene escluso dal conteggio? Tutto porta a pensare che l’esclusa sia Maria. Perché?  Non è una discepola? Credo che questo si voglia far credere, diversi decenni dopo il testo originale. Forse già in quei decenni è cominciato il processo di emarginazione delle donne dalle posizioni di vertice nelle comunità?

Ma non è solo la mano di un epigono dell’evangelista, perché a distanza di millenni qualcuno insiste nel sottolineare la riduzione a “pia donna” di Maria di Magdala: nel testo greco non compaiono i titoli dei paragrafi, che invece appaiono già nella traduzione latina, e per questo brano è “Manifestatio Christi in Galilaea”; nella traduzione della CEI sarebbe bastato tradurre in italiano il titolo latino. Invece il titolo diventa “La terza apparizione …”. Per rimarcare l’esclusione? 

Tre secoli dopo: il trionfo della Trinità o il trionfo dell’Impero? Sicuramente la sclerosi della Chiesa: i dogmi 

Gli undici discepoli, intanto, andarono in Galilea, sul monte che Gesù aveva loro fissato. Quando lo videro, gli si prostrarono innanzi; alcuni però dubitavano. E Gesù, avvicinatosi, disse loro: “Mi è stato dato ogni potere in cielo e in terra. Andate dunque e ammaestrate tutte le nazioni, battezzandole nel nome del Padre e del Figlio e dello Spirito Santo, insegnando loro ad osservare tutto ciò che vi ho comandato. Ecco, io sono con voi tutti i giorni, fino alla fine del mondo”. (Mt. 28,16-20). 

Matteo conclude il proprio vangelo riassumendo il significato del proprio scritto: non ho raccontato una storia finita, ma l’inizio di una storia ancora tutta da scrivere. E sarà scritta da miliardi di donne e uomini attraverso i millenni futuri.

Questo concetto lo esplicita Paolo nella lettera ai Romani: 

Tutti quelli infatti che sono guidati dallo Spirito di Dio, costoro sono figli di Dio. E voi non avete ricevuto uno spirito da schiavi per ricadere nella paura, ma avete ricevuto uno spirito da figli adottivi per mezzo del quale gridiamo: “Abbà, Padre!”. Lo Spirito stesso attesta al nostro spirito che siamo figli di Dio. 17 E se siamo figli, siamo anche eredi: eredi di Dio, coeredi di Cristo, se veramente partecipiamo alle sue sofferenze per partecipare anche alla sua gloria.… (Rm 8,14 e 17). 

Quindi la Trinità può indicare il fatto che Dio ha bisogno di donne e di uomini per realizzare il proprio disegno, a cominciare da Gesù di Nazareth e proseguendo con chiunque, nella sequela di Gesù, dia ascolto allo Spirito. Quindi uno stretto legame tra Dio e l’umanità, attraverso Gesù e lo Spirito.

81qart7ty4l-_ac_uf10001000_ql80_Figli adottivi accanto al Figlio unigenito? Forse era questo che Gesù voleva evitare quando in più di un’occasione appare dopo la crocefissione con caratteri somatici confusi; tanto che i discepoli lo riconoscono, il più delle volte, solo per quello che fa, o per le ferite ancora aperte (altra apparente contraddizione: nel prodigio di una resurrezione ci si attende che anche le ferite che lo hanno portato alla morte siano scomparse). Forse non è noi che vuole confondere ma il Padre, precorrendo il personaggio di Filomena Marturano: il padre non deve sapere chi dei tre figli della donna è anche figlio suo perché altrimenti sarebbe portato ad avere delle preferenze. Gesù sembra dire al Padre “Siamo tutti figli tuoi ogni qualvolta ci sentiamo tali e continuiamo la Tua opera creatrice superando i limiti della nostra ferinità” e allora la trinità diventa “Padre, figli e Spirito Santo”, e non descrive Ciò-che-è, ma la relazione Creatore – creature.

Diversi decenni dopo, Giovanni scrive: 

Dio infatti ha tanto amato il mondo da dare il suo Figlio unigenito, perché chi crede in lui non muoia, ma abbia la vita eterna. Dio non ha mandato il Figlio nel mondo per giudicare il mondo, ma perché il mondo si salvi per mezzo di lui. Chi crede in lui non è condannato, ma chi non crede è già stato condannato, perché non ha creduto nel nome dell’unigenito Figlio di Dio (Gv. 3,16-18). 

Quindi Giovanni non parla di Gesù come il primo dei figli di Dio, ma di “unigenito”, unico vero figlio di Dio. E così Gesù, che secondo i sinottici era il tramite tra Dio e il resto dell’umanità in un terreno misto di divino e umano, ora fa sì da tramite, insieme allo Spirito, con l’umanità, ma ben chiuso nel recinto della divinità.

Questa interpretazione diventerà vincente a partire dal quarto secolo quando il concilio di Nicea (indetto non dalla gerarchia ecclesiale ma dall’imperatore Costantino) proclamerà dichiarazione identitaria dei cristiani il “credo”[26]. Così la fede dell’ortoprassi viene soppiantata dal credo dell’ortodossia, e il mistero viene sezionato come il corpo umano sul tavolo anatomico. E con l’accordo tra Chiesa e Impero cominciano le condanne a morte degli eretici.[27]

A differenza dalla fede, l’ortodossia si adegua alle convenienze. Scrive Craveri:  

«È successo che talune dottrine, accolte in certi tempi come perfettamente ortodosse, siano state, in altri, rifiutate come eretiche. … Altre volte verranno contemporaneamente considerate eretiche alcune dottrine e ortodosse altre che avevano identico contenuto. … Bisogna seguire la storia dell’ortodossia, con i compromessi, i condizionamenti e le mediazioni a cui la Chiesa è dovuta addivenire nel corso dei secoli per assicurare l’autonomia del proprio magistero, se si vuole avere in controluce anche la storia dell’eresia» [28]. 

In conclusione. Il profeta e i figli di dio

… In verità io vi dico: fra i nati da donna non è sorto alcuno più grande di Giovanni il Battista; ma il più piccolo nel regno dei cieli è più grande di lui (Mt 11,2-11). 

Tutto questo arzigogolare su Dio e sul suo regno è poca cosa rispetto al più piccolo gesto che attua, anche solo per un attimo, quel regno. È la differenza che corre tra l’attendere chi dovrà attuare la giustizia e il praticare la giustizia. Ognuno di noi crea il regno dei cieli (“il regno dei cieli è in mezzo a voi”) nel momento in cui si apre agli altri anche se questo ha un costo; e in quel momento, anche se fa qualcosa di modesto, è più grande del più grande dei profeti, cioè degli “annunciatori”. 

Dialoghi Mediterranei, n. 63, settembre 2023 
Note
[1]  Paolo De Benedetti: Le due tasche del Rabbi, il giudaismo talmudico.
[2] Vedasi Edmondo Lupieri “Fra Gerusalemme e Roma” in Storia del cristianesimo a cura di G. Filoramo e D. Menozzi (edito nel 1997 da CDE su licenza di Gius. Laterza & Figli) 1° vol.: 44-45.
[3] Paolo Farinella: Parola e fatto, vol.7A-2 (edizione elettronica), Tempo ordinario – A Domenica 15^ : 9 (preambolo al vangelo)
[4] Per i brani del Nuovo Testamento ho usato la Bibbia Concordata (Arnoldo Mondadori 1969) e l’edizione a cura della Conferenza Episcopale Italiana (nella ristampa periodica dei foglietti preparati per le celebrazioni eucaristiche).
[5]  Già nel 2° secolo scrittori cristiani successivamente dichiarati eretici «criticano comuni credenze cristiane, quali l’immacolata concezione o la resurrezione della carne, come ingenui malintesi» (Elaine Pagels I vangeli gnostici, Mondadori, 2005: 18). La Pagels in un testo successivo, Il vangelo segreto di Tommaso (Mondadori, 2008), riporta, a pagina 110, il pensiero dell’autore gnostico del “Vangelo di Filippo” che scriveva: «C’è chi dice: “Maria ha concepito per opera dello Spirito Santo”. Sbagliano», e spiegava che la nascita verginale non è un evento unico che riguarda soltanto Gesù: è un evento che tocca tutti i battezzati, i quali “nascono di nuovo” per virtù della “vergine discesa dall’alto”, ossia dello Spirito Santo, parola che in ebraico è femminile. Così Gesù, nato da Maria e Giuseppe, rinacque spiritualmente quando lo Spirito Santo discese su di lui.
[6]  Spesso mi è capitato di sentire o leggere empatia usata come sinonimo di simpatia. Non è la stessa cosa: si può essere empatici anche nei confronti di una persona che stia violando i più radicati nostri tabù: “in psicologia, termine di uso comune per indicare la capacità di immedesimarsi in un’altra persona, di calarsi nei suoi pensieri e stati d’animo. Affinata e approfondita mediante l’esercizio sistematico, l’empatia occupa un posto importante fra i metodi utilizzati in psicologia clinica… (Enciclopedia Garzanti di filosofia, 1981).
[7] Vedasi A. C. Bouquet: Breve storia delle religioni, Mondadori, 1961:118.
[8] Scrive Ornella Pompeo Faracovi: «Nell’area mesopotamica è presente fin dalla prima metà del secondo millennio a.C. una forma di divinazione astrale, che il mondo antico indicherà concordemente come l’arte dei Caldei. Le tavolette cuneiformi conservate al British Museum … contengono non solo osservazioni sui movimenti dei pianeti, in particolare di Venere …, ma anche pronostici di eventi a valenza collettiva, come le guerre e i raccolti. Strettamente connessi con una religione astrale che venerava nei pianeti altrettante divinità, l’osservazione del cielo e il tentativo di farne scaturire segni premonitori di eventi futuri furono coltivati precocemente nella pianura del Tigri» O. P. Faracovi: Scritto negli Astri, L’astrologia nella cultura dell’Occidente, Marsilio 1996: 25
[9]  Dalla liturgia per l’Epifania del 2022, sul suo sito internet
[10]  Scrive papa Benedetto XVI nel suo Gesù di Nazareth: «In altre parole Barabba era una figura messianica. La scelta tra Gesù e Barabba non è casuale: due figure messianiche, due forme di messianismo si confrontano. Questo fatto diventa ancor più evidente se consideriamo che Bar-Abbas significa figlio del Padre. È una tipica denominazione messianica, il nome religioso di uno dei capi eminenti del movimento messianico. … Da Origene apprendiamo un ulteriore dettaglio interessante: in molti manoscritti dei Vangeli fino al III secolo l’uomo in questione si chiamava Gesù Barabbas – Gesù figlio del Padre. Si pone come una sorta di alter ego di Gesù, che rivendica la stessa pretesa, in modo però completamente diverso. La scelta è quindi tra un Messia che capeggia una lotta, che promette libertà e il suo proprio regno, e questo misterioso Gesù, che annuncia come via alla vita il perdere sé stessi»  (Joseph RatzingerBenedetto XVIGesù di Nazareth, Dal Battesimo alla Trasfigurazione; Rizzoli, 2011: 63-64)
[11]  Benedetto XVI domenica 28 ottobre 2012, presiedendo la messa per la conclusione del sinodo dei vescovi, all’omelia (leggibile sul sito www.vatican.va), spiega che Bartimeo significa “figlio di Timeo” senza però accennare alla stranezza di un nome che inizia in aramaico e finisce in greco; e sul significato di Timeo si affida non a un buon vocabolario dal greco antico ma all’interpretazione di Sant’Agostino secondo cui il nome indicherebbe persona “di grande prosperità”. Però poi arriva a parlare d’insegnamento sulla perdita della fede, che può avere attinenza con la prosperità, ma sicuramente ce ne ha di più con la ricerca dell’onore che il potere dà.
[12] Tra il 1959 e il 1963 la Società biblica italiana, nell’atmosfera conciliare riuscì ad elaborare una edizione della Bibbia con una squadra di biblisti ebrei, cattolici, metodisti, ortodossi e valdesi per superare le controversie confessionali
[13] I vangeli sinottici non parlano di chiodi nelle mani e nei piedi. I metodi di crocifissione nell’impero romano prevedevano che il legame del condannato al legno potesse avvenire mediante corde o chiodi, perché la morte sopravveniva in ogni caso quando il condannato, per stanchezza, smetteva di reggersi sulle gambe e finiva per restare appeso per le braccia in una posizione innaturale che rendeva difficile la respirazione comprimendo i polmoni. Matteo fa precedere la crocifissione dalla flagellazione e da una corona di spine (Mt 27,26-29) e Marco solo dalla corona di spine (Mc 15,17). Luca, che scrive dopo di loro, ma asserendo di aver fatto ricerche accurate (Lc 1,1-3), non riporta neppure le spine e la flagellazione, per cui quando scrive “Guardate le mie mani e i miei piedi” non si può sapere se faccia    riferimento a ferite o alla mobilità.
[14]  Tra Dio e il Cosmo. Dialogo con Gwendoline Jarczyk, Laterza, 2006
[15] Probabilmente un modo per invitare colui che avrebbe letto il vangelo alla comunità cristiana, comprendente anche molti analfabeti, a soffermarsi richiamando una maggiore attenzione su quanto è stato appena narrato, e ora sta per accadere in modo diverso, per percepirlo in profondità, aprendo bene le orecchie (il sordomuto) e diventando capaci di raccontarlo nel suo vero significato.
[16]  Il telo che si poneva sul letto la notte delle nozze per raccogliere il sangue della deflorazione.
[17]  Genesi 41, 39-42: «…il faraone disse a Giuseppe: “… Ti do autorità su tutta la terra d’Egitto” … Si tolse di mano l’anello e lo mise nella mano di Giuseppe»
[18] Elaine Pagels: Il vangelo segreto di Tommaso, Mondadori, 11^ ristampa 2013: 99
[19]  “Fra Gerusalemme e Roma” di Edmondo Lupieri, nel 1° vol. di Storia del cristianesimo a cura di Giovanni Filoramo e Daniele Menozzi, Laterza 1997: 44-45.
[20] Il vangelo di Giovanni, il meno attendibile dal punto di vista biografico scrive non solo di chiodi nelle mani e di lancia che trapassa il costato, ma, riprendendo Matteo, anche di precedente fustigazione che, con gli strumenti dell’epoca, avrebbe ridotto la superficie del torace a un’unica piaga sanguinante con un effetto visivo ben maggiore delle altre ferite. Eppure mette in bocca al risorto solo il riferimento alle ferite delle mani e del costato omettendo quelle probabilmente più evidenti dell’intero torace.
[21]  Per la precisione i numeri da sommare sono 2+50+10+5+1+30+5+10+40
[22] Melchisedec è il re-sacerdote che in Genesi 14,18-20 al ritorno di Abramo e dei suoi, stanchi dopo aver combattuto, invece di offrire sacrifici alla divinità, offre ai reduci pane e vino
[23] Uno dei maestri gnostici più stimati che arrivò fino a “rischiare” l’elezione a vescovo di Roma, prima di essere espulso per eresia.
[24] Il dio della Genesi, nel linguaggio platonico: un’immagine di Dio evidentemente considerata ormai inappropriata.
[25]  Elaine Pagels: I vangeli gnostici cit.: 89- 90
[26]  vedi Luigi Sandri: Dal Gerusalemme 1° al Vaticano 3°, i Concili nella storia tra Vangelo e potere, Il margine 2013: 39 e seguenti
[27]  Marcello Craveri ne L’eresia (Mondadori 1996: 57) scrive che è del 385 la decapitazione per ordine imperiale di Priscilliano, vescovo di Avila, in Spagna, e di sei suoi seguaci dichiarati eretici “per magia”.
[28]  Marcello Craveri: op. cit.: 5 – 6

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Vincenzo Meale, laureato in Scienze Politiche, per trenta anni ha insegnato geografia economica negli Istituti tecnici commerciali e professionali per il commercio. Partecipa da sempre alla vita della comunità cristiana di base di San Paolo, di cui è stato uno dei fondatori assieme all’abate Franzoni e a tanti altri. Ed è qui che l’abitudine, ormai cinquantennale, alle omelie dialogate ha permesso la nascita del presente testo.

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