di Lavinia Giacobbe
Mazara del Vallo è da sempre un laboratorio ricco di spunti per indagare questioni relative alla migrazione e alla costituzione di comunità intrecciate e transnazionali; la sua cornice, il Mediterraneo, è sicuramente una lente privilegiata attraverso la quale osservare tutti i possibili fenomeni. È stato proprio attraverso il corso di Antropologia del Mediterraneo che ho avuto la possibilità di approfondire la questione legata all’identità delle donne tunisine (arrivate dalla Tunisia o nate a Mazara) attraverso la raccolta delle loro voci e delle loro istanze.
Ho deciso di intitolare il mio elaborato per la laurea magistrale “Le donne tunisine di Mazara del Vallo: stili di vita, spazi e pratiche”: utilizzando la preposizione semplice “di” ho voluto segnalare come la quasi totalità delle persone da me incontrate provi soprattutto un sentimento di appartenenza verso Mazara, che viene certamente negoziato con la stessa appartenenza alla Tunisia. Tematiche come il miscuglio, la percezione di sé stesse in quanto donne (e donne con un background migratorio) sono il corpo della tesi, che ha l’obbiettivo di dare voce direttamente alle donne tunisine incontrate e convolte in interviste semi-strutturate.
Le cornici teoriche del transnazionalismo e dell’intersezionalità sono state fondamentali per dare una struttura alla mia domanda di ricerca e creare un percorso metodologico attraverso cui restituire il più possibile una rappresentazione fedele alla realtà, in cui i confini e le pratiche sono mobili e fluidi come le persone. I trasferimenti non sono permanenti, i luoghi sono simbolicamente “a metà” tra il paese d’origine e quello di arrivo: è quanto si evince dalle parole delle intervistate.
Per loro, spesso, la questione identitaria diventa una lotta interiore che faticosamente giunge (o non giunge) ad un compromesso. Questo anche alla luce della condizione di totale invisibilità nel caso delle stesse donne, le uniche di fatto a vivere il territorio insieme ai propri figli, ma sorprendentemente spesso ignorate dalla letteratura più concentrata sulle attività di pesca dei mariti che vivono più a mare che a terra. Intervistando sette donne, ho ascoltato le loro opinioni in merito alla vita quotidiana, al rapporto personale con Mazara e con la Tunisia, nonché il rapporto con gli uomini, con i figli e con lo spazio.
Il testo delle informazioni è stato riportato interamente, senza intervenire su strutture grammaticali, sintattiche o lessicali, anche se esse non corrispondono alle norme dell’italiano standard e i nomi (anonimizzati) delle protagoniste sono stati schematizzati nella tabella per un più efficace orientamento da parte del lettore:
Amani, 60 anni | Arrivata a Mazara nel 1982 |
Farah, 38 anni | Arrivata in Italia nel 2003 e a Mazara nel 2014 |
Halima, 43 anni | Arrivata a Mazara nel 2002 |
Zahira, 35 anni | Arrivata a Mazara nel 1999 |
Hasna, 44 anni | Arrivata a Mazara nel 2003 |
Kamila, 28 anni | Nata a Mazara |
Aicha, 24 anni | Nata a Mazara |
Il rapporto con la Tunisia e lo stile di vita
Secondo Vertovec (2001: 573), i «network di persone transnazionali» condividerebbero forme di identità comune, spesso derivanti dalla comune provenienza e dai tratti linguistici e sociali ad essa associati. Numerosi studiosi delle migrazioni hanno quasi sempre riconosciuto che i migranti mantengono varie forme di contatto con persone e istituzioni del loro Paese d’origine. Il decennio scorso è stato testimone dello sviluppo di un approccio alla migrazione che sottolinea l’importanza delle relazioni dei migranti con loro famiglia, la loro comunità, le loro tradizioni al di fuori dei confini nazionali e questo favorisce la costruzione di identità diasporiche e multiple (ivi, 574). Le identità si snodano e posizionano gli individui nel corso della loro vita quotidiana, attraverso i luoghi di affezione o di appartenenza percepita (ivi, 578).
Le donne tunisine di Mazara del Vallo costituiscono ormai un esempio di migrazione femminile stabilizzato nel tempo e nello spazio, dato il profondo rapporto che le lega sia alla loro terra natale che alla nuova città di arrivo. Le prime sono giunte a Mazara all’inizio degli anni Ottanta con l’intenzione di ricongiungersi ai mariti, solitamente pescatori. Le condizioni in cui queste donne sono arrivate sono particolari, sia per l’assenza di normative che regolavano l’ingresso e la permanenza degli stranieri sul territorio italiano, sia per le difficoltà relative al nuovo contesto, tra le quali occorre evidenziare la questione linguistica, nonché la problematica di genere, il fatto di essere donne e soggette alla presenza di un marito spesso assente. Nello spoglio e analisi delle storie di vita e delle voci di queste donne, è possibile osservare come il tessuto sociale immigrato a Mazara sia mutato, soprattutto grazie al ruolo e all’organizzazione della comunità da parte delle donne.
Una prima differenza si può notare attraverso le parole di Amani arrivata a Mazara nel 1982. Amani descrive quel primo periodo così:
«[…] Sono venuta a Mazara nell’82. Sono venuta per mio marito, con il ricongiungimento familiare. Lui è venuto nel ’76. Ho 5 figli, tutti nati a Mazara. Quando sono arrivata c’erano pochi tunisini. Sono venuta senza visto e senza niente, solo con il passaporto. In quel tempo c’era mia zia qua. Mio marito andava sempre al mare e io stavo da sola a casa, poi sono nati i figli, uno dopo l’altro. […] Nell’82 c’era troppa paura. E poi gli uomini tunisini erano diversi [da quelli di oggi], la mentalità un poco chiusa. ‘Non devi uscire’. Io alle 5 di pomeriggio non esco fuori, chiudo la porta e sto a casa. Per passare alla marina, non si può passare. Non c’è il marito perché è al mare e vado solo a fare un poco di spesa. Poi sono nati i bambini, sono cresciuti, sono andati a scuola» (Amani, 60 anni).
Anche chi è nata a Mazara, come Kamila, ricorda come suo padre sia venuto a conoscenza della possibilità di lavorare grazie alla costituzione di una prima catena migratoria.
«C’era il lavoro per una vita migliore, l’economia era meglio, c’era un passaparola fra le persone vicine a lui [a mio padre] a Mahdia, che gli dicevano ‘vedi che a Mazara è meglio’, quindi tramite il passaparola poi si sono spostati» (Kamila, 28 anni).
Al fine di dare una visione approfondita delle prospettive di queste donne riporto le loro testimonianze che strutturo sulla base di aspetti tematici centrali nel loro discorso, tra cui: le questioni relative alla lingua e all’integrazione, nonché rispetto all’identità delle donne in base alla condizione femminile e di immigrate.
La questione della lingua
La maggior difficoltà riscontrata dalle donne, nel primo periodo del loro arrivo o, nel caso di coloro che sono nate a Mazara, nei primi anni di scuola, è sicuramente quella legata alla lingua. Ben Yehoyada descrive la lingua dei tunisini a Mazara come un «misto di italiano, ‘siciliano imbastardito’ tunisino e francese» (2014, 65). Durante le interviste è emerso come ognuna delle donne adottasse diverse modalità per colmare il gap linguistico, tra cui i corsi di italiano promossi dalla Fondazione San Vito, l’apprendimento, grazie ai figli, attraverso i loro compiti di scuola, o attraverso una precisa scelta dei genitori di parlare italiano. La lingua deve essere considerata in questo caso come una variabile fondamentale per sentirsi integrata alla comunità mazarese. Secondo Hasna, infatti:
«Per dirti la verità, sempre, ogni paese in cui ti trasferisci trovi sempre la difficoltà della lingua perché io non so bene l’italiano, conosco il francese che è un po’ simile. Per questo ho trovato all’inizio un po’ di difficoltà, per la lingua. Per il resto non mi sono mai sentita “immigrata”, perché mi trattano bene, la verità. Forse perché io prima di tutto rispetto la città e le regole del posto in cui vivo. Ho imparato l’italiano con l’integrazione con qualche italiano e poi con la scuola, quando i miei figli andavano all’asilo, piano piano con le mamme, con le maestre. Ho iniziato così, anche se adesso non parlo ancora benissimo italiano, ma cerco sempre di migliorare. Piano piano» (Hasna, 44 anni).
Farah, che è arrivata in Italia nel 2003, precisamente a Cattolica, in Emilia Romagna, dopo alcuni anni è tornata in Tunisia (per un periodo di 8 anni), dopo è arrivata a Mazara, nel 2014, e spiega che:
«Per me il problema è stata la lingua. Quando sono ritornata qua [a Mazara] dopo 8 anni in Tunisia avevo dimenticato tante parole, e volevo fare un corso di italiano, soprattutto per i miei figli, per aiutarli a scuola o per parlare con i professori. Si deve parlare bene, per i documenti, per tutto, sennò non si capisce nulla e tutti ti fregano» (Farah, 38 anni).
Diversi, invece, sono i casi di Kamila e Aicha, nate a Mazara. La prima ha studiato fino alla terza elementare in Tunisia, mentre la seconda è sempre rimasta a Mazara, dove ha frequentato tutto il ciclo scolastico. Entrambe riconoscono nello studio un potente mezzo di emancipazione, ma anche una sfida particolare, poiché, pur sforzandosi di parlare in italiano a casa, questo non sempre era possibile date le competenze linguistiche dei genitori.
«[…] C’era un conflitto, gli italiani ridevano della mia lingua perché io non sapevo parlare [bene]. È stata tipo una parola che fino ad ora non ho dimenticato: non lo so se si può dire la storia… so la storia di Pinocchio, a me sembrava tipo… in quel periodo parlavano, parlavano sempre di pidocchi, pidocchi, e io mi sembrava che la parola ‘pidocchi’ fosse Pinocchio. E dicevo ‘pinocchio’ invece di dire ‘pidocchio’ e loro ridevano. Di quella cosa mi è rimasto in testa che dovevo essere superiore studiando. Come mi devono volere? Studiando, sapendo le cose, dicendomi brava. […] le maestre mi dicevano sempre, visto che spesso avevo i compiti sbagliati, mi dicevano ‘ah ti sta insegnando una tunisina, devi dire a tua madre che devi studiare in italiano, parlare in italiano a casa, sempre in italiano’. Ma io ero un po’ rivoluzionaria su ste cose, perché dicevo ‘no, la lingua è importante, perché con la lingua si comunica, se io dimentico l’arabo non posso comunicare con mia cugina che sta in Tunisia’» (Kamila, 28 anni).
E Aicha, in relazione alla questione linguistica, afferma:
«Mia mamma inizialmente mi parlava solo in italiano, solo che a differenza di mio padre che parlava un italiano perfetto, lei parlava un italiano ‘rotto’. Quindi io avevo imparato da lei, non dicevo ‘io vado a mangiare’ dicevo ‘andare mangiare’. […] quando ho imparato l’italiano, quando l’avevo fatto mio, i miei genitori hanno iniziato a parlare sia in italiano che in arabo, quindi ora ho un arabo tunisino molto fluente, mi faccio capire, capisco tutto. L’unica pecca è che non so leggere e scrivere» (Aicha, 24 anni).
La questione identitaria
In generale, come sottolinea Asami Tajiima, una giovane sociologa giapponese, ormai stabilmente residente in Italia, che ha condotto una ricerca sulle implicazioni identitarie delle donne tunisine a Mazara del Vallo, «è un problema di identità che si nasconde dentro il loro cuore. Più vivono in un Paese straniero per lungo tempo, e la loro vita diventa più stabile, più sentono una voce che le chiede “Chi sei?”» (Tajiima 2017: 158).
Il rapporto con la Tunisia può considerarsi come la naturale prosecuzione della convivenza tra tunisini e siciliani. Uno dei motivi che ha spinto alcune donne a stabilirsi a Mazara del Vallo riguarda proprio la pratica di passare le vacanze nella città siciliana (abitando a Mahdia) e, successivamente il contrario (andare in vacanza in Tunisia, essendo residenti in Italia), come spiega Zahira:
«Prima di compiere 12 anni andavo e tornavo, dopo sono rimasta per sempre qua [a Mazara]. Quando venivamo d’estate in vacanza io piangevo sempre perché volevo rimanere a Mazara, io e mio fratello» (Zahira, 35 anni).
Zahira continua raccontando il rapporto di sua madre con la Tunisia e la necessità di scegliere un solo luogo dove condurre la vita propria e quella dei figli, soprattutto a seguito della malattia del marito. La scelta però, non preclude per Zahira, la possibilità di “essere doppia”:
«Mia mamma stava tra due Paesi ma voleva stare in un Paese solo, poi mio padre [ha cominciato a stare] un po’ male, problemi ai polmoni, mia madre voleva stare sempre con mio padre. Siccome siamo quattro [figlie] femmine e un maschio, io e mio fratello siamo i più piccoli. Io e mio fratello siamo venuti con mia madre e siamo stati a Mazara per sempre e in Tunisia ci andiamo una volta ogni due anni. Però per vivere qui mia madre dice che non ha trovato mai problemi, le piace Mazara, però sempre uno non può lasciare il suo Paese. […] Sempre c’è la cosa che…uno si sente male qualche volta, sempre due Paesi, sempre restiamo doppi. Uno si sente male quando chiude la casa in Tunisia [per venire a Mazara] e si sente male quando chiude casa a Mazara [per andare in Tunisia]. Non è come avere un Paese solo. Non lascerò mai Mazara e non lascerò mai la Tunisia, io sono doppia. Il mio sentimento è che mi piacciono tutte due. Quando [mi avvicino] a Mazara e leggo “Mazara del Vallo” [sul cartello autostradale], sento qualcosa, sono contenta, sento che è il mio paese, sento qualcosa, e anche in Tunisia, in tutti e due. La verità, perché io a Mazara sono cresciuta, non posso dire che non è bella, non posso dire niente dei due Paesi, mi piacciono tutti e due» (Zahira, 35 anni).
Essere donne tra Tunisia e Sicilia
Ancora Ben Yehoyada spiega come, nel caso delle figlie femmine, queste siano spesso affidate alla custodia dei parenti del padre. Sul traghetto, indifferentemente dal suo percorso (Tunisia-Sicilia o Sicilia-Tunisia), «le madri si fanno estremamente vigili per assicurarsi che nessuna delle loro figlie si intrattenga con qualche “giovane teppista”. Hanno soprattutto paura di quelli che sono abbastanza lontani da sentirsi liberi di mirare alle loro ragazze, ma abbastanza vicini da credere di averne l’opportunità. In quello spazio liminale e galleggiante, le madri esercitano il massimo sforzo per proteggere l’onore della famiglia» (2014: 68). Anche attraverso le parole di Kamila, si intuisce anche un’altra condizione per cui la Tunisia rappresenta, per molte delle donne, un Paese dove ormai si sentono straniere, lontane da casa, e dove non condividono più alcuni elementi dello stile di vita di Mahdia:
«La nostra vita è troppo difficile, noi siamo divisi tra due posti. Sistemare tutto in Tunisia e fare tutto in Italia. È iniziato come se fosse un obbligo stare qua, e poi è diventata la quotidianità. Abbiamo comprato casa qua a Mazara perché era più conveniente che affittarla. Prima pensavamo ‘appena si pensiona papà, torniamo tutti in Tunisia’, ma ora che siamo cresciuti gli diciamo ‘papà, se vuoi andare, vai tu, noi non andiamo’. E infatti papà e mamma è da quattro anni che non vanno in Tunisia, perché per loro là è diventata una confusione, un mal di testa, che il pensiero è diventato strano. Loro vogliono tranquillità e vogliono pacenza tra loro; in Tunisia c’è ancora il sangue caldo, sono troppo vivaci, infatti papà e mamma da quattro anni non pensano neanche di andare in Tunisia, forse andranno in inverno perché hanno le olive, staranno venti giorni. Io la Tunisia la odio. Mia mamma mi diceva: quando stai qui [a Mazara] fai come dico io, studi, pulisci casa, e usciamo insieme – che per me andava, va bene – se prendi un buon voto alla fine dell’anno ti porto in Tunisia e lì ti puoi divertire. Questo da quando andavo alle medie. Andavamo in Tunisia e lì c’erano i miei zii che mi svegliavano presto perché ero diventata grande, mi dicevano ‘devi pulire casa, cucinare, perché devi trovarti un marito’. Dicevano a mia mamma ‘attenta, visto che i tuoi figli vivono lì [in Italia], poi si sposano con ‘italiani’. E quindi quando lei sistema le valigie per andare in Tunisia, io mi metto a piangere. Ho sviluppato quell’odio verso la Tunisia. Mi è ricominciata a piacere quando mi sono sposata, perché mi sono divertita lì, però più di tre settimane no. Io voglio vivere qua [a Mazara]» (Kamila, 28 anni).
Anche per Hasna, la Tunisia è diventato un luogo dove trascorrere delle brevi vacanze per poi ritornare a Mazara, questo anche per i figli perché:
«Normalmente ogni anno vado a Mahdia, però per dirti la verità, da tre anni non ci vado. Dato che i bimbi sono cresciuti qua, hanno tutti gli amici italiani, non hanno molti amici tunisini. E preferiscono stare qua. ‘Mamma, io vengo in Tunisia con te ma non ho amici, come passo l’estate?’. Tutti i nostri amici sono qua e preferiamo passare l’estate qua, ci divertiamo. È vero che in Tunisia c’è la nonna, gli zii, però i miei amici sono qui e per questo per colpa loro, non sono andata in Tunisia. Forse presto farò una scappata. Mi manca, è la nostalgia, è sempre il mio Paese, dove ho le mie radici. La mia nascita è lì, la mia infanzia, la metà della mia vita l’ho passata lì» (Hasna, 44 anni).
Amani, inoltre aggiunge che:
«Anche se vado in Tunisia mi sento strana, sento paura, mi sento… anche se c’è la famiglia, ma non lo so perché. Quando torno qua mi sento a me paisi. Appena scinnu dalla nave mi sento… ‘sono tornata a casa’. Quando vado in Tunisia, più di un mese non ci sto» (Amani, 60 anni).
D’altra parte, Mazara, per le sue caratteristiche, che la rendono molto simile a diverse città della Tunisia, non crea quel sentimento di straniamento e shock dovuto ad un posto totalmente nuovo, infatti:
«Appena sono arrivata qua ho pensato ‘sono in Tunisia, forse abbiamo sbagliato posto’. Appena ho fatto il primo passo ho sentito l’adhan e la moschea e mi sono detta ‘ma siamo in Tunisia o in Italia?’. Sentivo la mattina i tunisini che parlavano tra loro, mi sentivo come in Tunisia. Qua ti senti al tuo paese. Tra Mazara e la Tunisia per me è uguale, qua forse costa meno, gli stipendi sono di più qua. […] A Mazara del Vallo non senti che non sei nella tua città, nel tuo paese. Al nord si sente, ma qua no. Non c’è differenza tra la Tunisia e Mazara, anche la gente… non ho trovato nessuna difficoltà. Anche se hai un problema ti aiutano, non ti lasciano senza aiuto. Sono sempre pronti. Ho trovato tutto bene qua […]» (Farah, 38 anni).
La questione dell’inclusione
Non mancano certamente altre sfide che le donne si trovano ad affrontare in relazione alla loro identità e alla percezione di sè stesse in quanto immigrate, tuttavia le interviste rivelano che non ci sono mai stati grandi problemi relativi all’inserimento sociale e alla convivenza della comunità mazarese e tunisina.
Paola Rebughini, docente di sociologia dei processi culturali e comunicativi presso il Dipartimento di Scienze Sociali e Politiche dell’Università degli Studi di Milano, nel suo volume In un mondo pluralista: grammatiche dell’interculturalità si concentra sul concetto di pluralismo, spiegando che «Sul piano antropologico il pluralismo non va inteso come un semplice accostamento di differenze, di identità o di comunità, quanto piuttosto come la normale coesistenza delle culture. Per l’antropologia, in particolar modo per l’antropologia interpretativa, tutte le culture sono intrinsecamente plurali e ibride, sono il prodotto di incontri, di traduzioni empiriche e pratiche, sono processi di continua invenzione e rielaborazione locale e situata; pluralismo, sincretismo, mélange sono quindi elementi essenziali di ogni cultura; poiché le culture “pure” non esistono» (Rebughini, 2014: 15).
Quanto discusso dalla Rebughini può essere d’aiuto per rappresentare le relazioni tra immigrate e autoctoni che si sviluppano sulla base della solidarietà e della condivisione. Di grande interesse, a mio avviso, è l’aneddoto raccontato da Aicha, la cui madre è stata impiegata per un periodo come badante presso l’abitazione di due anziani signori mazaresi, e si è inserita, inoltre, nel tessuto del vicinato, Aicha infatti racconta che:
«Inizialmente [mia madre] ha iniziato appoggiandouna sarta qui in zona mia, poi si è resa conto che il guadagno era minimo, nel senso, ti dico, 2 euro per sistemarsi i pantaloni, 3 euro…Infatti poi parlò con qualche sua amica e le trovarono un lavoro come badante. Badante di due anziani che vivevano soli in casa, non erano a letto, facevano tutto da soli e avevano semplicemente bisogno di un po’ di compagnia e un aiuto per sistemare la casa, e quando stavano male qualcuno che li venisse a trovare dato che non avevano figli. Mia mamma lavorò con loro dal 2010 al 2016, perché poi morirono. […] Inizialmente era iniziato come un lavoro, in cui lei andava a lavorare e veniva pagata, poi però nel tempo si trasformò, anche per me, in una seconda famiglia. Perché loro trattavano mia mamma come una figlia e di conseguenza si preoccupavano per noi, pensavano a noi. A Natale i regali li facevano a noi, per i compleanni la torta non mancava mai, ci trattavano come loro nipoti. Sono arrivata a chiamarli ‘nonno’ e ‘nonna’, perché comunque colmavo la distanza fisica con i miei veri nonni, che c’erano pure. Diciamo che mi ritengo una ragazza fortunata perché ho avuto tantissimi nonni. Poi anche con le vicine di casa, alcune di loro le chiamo ancora ‘nonne’. Diciamo che si è venuto ad instaurare un rapporto, non tra semplici vicini di casa ma proprio un rapporto di parentela, in cui tu ti senti parente di quella persona, ti senti un pezzo di quella persona. Tutto è iniziato con le mie vicine di casa, perché la domenica mia mamma faceva loro il piacere di accompagnarle alla chiesa più vicina a casa mia. Mia mamma lo faceva senza nulla in cambio, semplicemente perché le vedeva andare da sole, con il bastone, e quindi per paura che succedesse loro qualcosa per strada, le accompagnava all’ingresso della chiesa, le lasciava un’oretta e poi le andava a riprendere. Loro proponevano qualcosa in cambio, 5 euro, 10 euro, un pensierino… ma mia mamma rifiutava sempre perché per lei era un’opera di bene, di carità. Una di loro perse la vista e chiese a mia madre non solo di accompagnarla all’ingresso ma di andare con lei dentro, per aiutarla a sedersi eccetera. Quindi mia mamma iniziò ad assistere all’intera messa con lei, infatti, più volte mia mamma si ritrovava a scambiarsi il segno di pace con altre persone quando mia mamma non è cristiana. Ma mi diceva ‘è un segno di pace, alla fine tutti ci scambiamo un segno di pace, indipendentemente dalla religione’. Per anni ogni domenica mia mamma andava a messa. Poi quando sono cresciuta, tipo 11 o 12 anni, ho cominciato io ad accompagnare le signore a messa, perché magari mia mamma aveva da fare a casa… Nemmeno io lo facevo per avere qualcosa in cambio, però i regali per i compleanni non sono mai mancati, neanche per Natale, anche se noi non lo festeggiamo, l’uovo per Pasqua…mi trattavano davvero come una nipote… […] La domenica facevano le lasagne e ne facevano senza maiale per me e me le portavano, mi pensavano […]» (Aicha, 24 anni).
Mazara diventa quindi casa, per alcune ‘una delle case’ e per altre l’unica possibile.
«Qui a Mazara non trovi difficoltà di integrarti. Però c’è una cosa… parlo sempre della mia esperienza, di quello che ho vissuto qua… Io, per esempio, sono qui da quasi 19 anni, la mia idea è che dovunque vado rispetto la gente e le loro regole, così non trovo nessun problema. Mai uno mi ha trattato come un’immigrata, come straniera. Anche a scuola, tanti bambini trovano difficoltà perché… ‘tu sei tunisino’ ‘tu sei così’. Io non ho avuto questo problema all’inizio. All’inizio ho dato un’educazione ai miei figli: tu devi rispettare il tuo amico, anche se vieni da un altro Paese. Per me, mai ho trovato una difficoltà, o razzismo o qualcuno che mi ha esclusa dalla società. Però ci sono anche tanti tunisini che non rispettano le regole del posto dove vivono. Se tu rispetti le regole del Paese in cui vivi, gli altri ti aiutano. Però se tu te ne freghi, e non ti interessa delle regole, nessuno ti rispetta e nessuno ti dà un aiuto o una mano per imparare. E tu dopo dici: perché mi hanno escluso? O perché mi hanno guardato così? Perché tu hai iniziato. Tu rispetta le regole del Paese in cui vivi, e ricevi un rispetto, questo è quello che ho vissuto io in vent’anni qua» (Hasna, 44 anni).
Per Halima invece, la nostalgia è ancora forte, soprattutto in alcune specifiche occasioni, come lei stessa ci spiega:
«Per me, sono da 20 anni qua a Mazara, tranne per 5 o 6 anni che sono stata in Tunisia con i miei figli perché studiavano. Per ora mi piace qua, a Mazara. Il primo periodo è stato difficile, ma ora i figli sono cresciuti. È vero, mi manca mio marito, quando ci sono feste o a tavola, al compleanno…mi manca… però mi piace, sto tranquilla qua, i miei figli studiano. Mi manca la Tunisia solo nelle occasioni di feste come l’Eid o il Ramadan, mi manca vedere la mia famiglia che festeggia l’Eid, ma sono felice anche quando resto a casa, e festeggio con i miei figli, anche se alla festa manca sempre qualcosa. Per me, personalmente, la Tunisia manca solo per queste cose: il mese del Ramadan, per le due feste dell’Eid. Quando facciamo festa a Tunisi siamo tutta la famiglia, madri, cugini, fratelli» (Halima, 43 anni).
Anche per Amani, Mazara ormai costituisce una casa da più di quaranta anni. La condizione in cui viveva Amani durante il suo arrivo e per tutti gli anni in cui si è occupata dei suoi cinque figli, non le ha permesso di scoprire la città in autonomia; per questo, a seguito di una colazione in un noto bar di Mazara, mi spiega che ci sono ancora tante ‘prime volte’ per lei:
«La vita non era come adesso, adesso c’è tanta libertà […] L’altra volta, quando siamo state insieme [in un bar sul lungomare] era la prima volta che m’assittava lì, manco u canuscivo. Mi sono divertita. Ora mi incontro con le altre donne al mercato. La vita è un poco dura per me. Mi sento una donna più forte, prima ero sempre scantata. Io mi trovo meglio con gli italiani, la verità. Coi tunisini… sempre c’è qualcuno che è chiuso. Dentro mi sento mazarese» (Amani, 60 anni).
Anche per Zahira, che soffre di una malattia per cui per lei spostarsi risulta particolarmente difficile, spiega che a Mazara si sente più a suo agio, soprattutto rispetto alla sua condizione:
«Quando cammino [a Mazara] mi sento più tranquilla, più libera. Il mio Paese [la Tunisia] non è brutto, è bello, sistemato, però non hanno cose adatte per disabili, qua c’è il bar e il ristorante [senza barriere architettoniche]. Posso spostarmi tranquillamente. Là in Tunisia c’è il mare, è bello, c’è tutto, però non posso spostarmi da sola. Non ci sono le… [condizioni] per i disabili. Per questo a Mazara mi sento più tranquilla. Però non è che non mi piace il mio Paese, la verità» (Zahira, 35 anni).
Il ‘miscuglio’ e il futuro
Guardando al futuro, le donne in generale desiderano per i loro figli di far continuare loro gli studi in una città del Nord Italia, o piuttosto in altri Stati europei come la Germania, la Francia. Per loro stesse invece, la maggior parte desidera rimanere a Mazara, come testimoniano le parole di Kamila:
«Ci sono persone che mi dicono ‘eh se vuoi cercare il lavoro devi andare sempre fuori’, ma io dico ‘no, il lavoro lo voglio trovare qui, voglio stare qua a Mazara, perché non ci riesco a vivere lontana. Però a mio figlio lascerò scegliere come vuole lui. Come io ho scelto il mio futuro lui sceglierà» (Kamila, 28 anni).
Vivere tra due culture porta spesso a operare una negoziazione che mira a rendere “pacifica” la convivenza di identità complesse, o, come lo chiama Kamila, il “miscuglio”:
«Frequentavo più italiani che tunisini, perché come ti ho detto loro mi volevano e io vedevo che ero uguale agli italiani come studio, e quindi andavo sempre con loro. Da lì mi è iniziato a cambiare il modo di pensare: ah femminismo! Ah perché mia mamma è casalinga? Perché mia mamma è casalinga e non sa parlare l’italiano? Mia mamma è analfabeta. Non sa neanche scrivere. Io sono troppo legata a mia mamma e nel frattempo sentivo la [sua] cultura, le nostre tradizioni, ero sempre legata, quindi ho fatto il ‘miscuglio’» (Kamila, 28 anni).
Parlando poi della sua esperienza da studentessa fuorisede presso l’Università per Stranieri di Siena, racconta che:
«I miei coinquilini all’università si sono un po’ confusi con me, dicevano ‘non capiamo chi sei tu, di carattere… sei un miscuglio’. Cioè, a me piace il miscuglio, sia di lingua, sia di cultura, mi piace troppo la cultura tunisina e, allo stesso tempo, adoro quella italiana. Vanno in modo parallelo e non si incontrano mai. […]. Quando mia mamma è venuta all’università a Siena, durante la settimana della laurea, mi ha detto ‘dai, portami in giro, fammi vedere!’ e io le ho detto ‘mamma, vedi che non la conosco bene’. Io in tre anni e mezzo non sono mai uscita dopo le otto di sera, quando si abbassano le saracinesche dei locali commerciali. Perché a Mazara mia mamma non mi faceva mai uscire la sera [con gli amici], quando i padri erano a mare, perché se ci vede un uomo e dice a papà che ‘tua figlia è uscita di notte’ e lui…succederà il manicomio, il casino! Hai capito il fatto del mio miscuglio? Anche se voglio uscire però dico ‘no, posso uscire la mattina fino alle otto [di sera]’. Quando mia mamma ha aperto il mio armadio e ha visto i vestiti che mettevo all’università, mi ha detto ‘ma questi sono da buttare’ e io le ho detto ‘no, perché se mi vesto bene, all’università c’è gente di tante nazionalità, e non voglio che mi guardano. Mi devo vestire male così nessuno mi guarda’» (Kamila, 28 anni).
Il rapporto con gli uomini
Il ‘miscuglio’, per Kamila, si ripercuote sulle sue scelte sentimentali, come continua a raccontare:
«Tipo, ti dico una cosa per la cultura tradizionale nostra: io a 23 anni mi sono sposata. Mi sono sposata perché noi tunisini non possiamo convivere, però, allo stesso tempo, io voglio conoscere il mio fidanzato, nello stesso tempo non devo avere fiducia, perché forse mi lascerà. Capito come? Era il miscuglio, fra ‘volevo’ ma ‘avevo paura’, volevo lasciare la mano però, allo stesso tempo, eh, non si fa, perché noi non possiamo. Infatti, per dire, io italiana, perché io ho la cittadinanza, non posso dire ‘noi’ e ‘voi’, dico ‘noi italiani’, ‘noi tunisini’» (Kamila, 28 anni).
La condizione di sposarsi prima di approfondire una conoscenza con il futuro marito, ha portato Kamila ad una situazione che ha avuto delle ripercussioni anche sull’intervista.
«Quando lui [mio marito], viene dal mare, cioè io mi annoio, perché mi sono abituata che mi sistemo le mie cose, ho la mia quotidianità. Quando lui viene, io mi confondo. E là inizia un battibecco, perché io devo poi pulire, cucinare per forza a mezzogiorno, quella cosa che non mi piace. Perché io sono libera. Sono la tunisina libera, che non vuole il maschio che si alza la mattina, io voglio uscire perché la mia testa mi dice così e lui mi dice ‘ma dove esci?’, già io mi innervosisco» (Kamila, 28 anni).
Durante questa conversazione, il collegamento con Kamila ha delle interruzioni. Mi spiega che è proprio suo marito che chiama, le chiedo se ha bisogno di interrompere l’intervista per riprenderla in un secondo momento, ma lei mi risponde:
«Non sono disponibile [riferendosi al marito], perché lui è a mare e quindi deve sapere tutto quello che faccio».
La conversazione continua ad interrompersi:
«Chiama, lui chiama, mi chiama perché non rispondo e vuole sapere perché non rispondo».
Le dico che non voglio creare problemi, quindi possiamo interrompere tranquillamente. Lei mi dice:
«Tranquilla, io devo avere un posto per me. Mia mamma è analfabeta e ha fatto tutto quello che poteva per farmi diventare come sono io, e io non voglio che lei pensi che non ho fatto niente e sono come le altre. Lei voleva studiare ma i miei nonni hanno detto ‘no, come? Una ragazza che studia? No, i ragazzi si devono istruire. Ti dico un detto che diceva mia nonna ‘i maschi sono come il sapone, prima sono sporchi, poi ci passi l’acqua e si puliscono velocemente. Le femmine no, un’impronta non si toglie’. È legata al Corano, la verginità, capito come?» (Kamila, 28 anni).
Per alcune delle donne intervistate infatti, il controllo operato dai mariti ha avuto ripercussioni sulla formazione, sulle scelte di vita passate e presenti, come nel caso di Farah, che, al suo arrivo in Italia, avrebbe dovuto continuare gli studi per ottenere un diploma, e invece, da ciò che racconta:
«Con mio marito avevamo detto che potevo riprendere una volta arrivata in Italia ma non è stato così, perché lui non ha voluto, dato che neanche lui ha studiato, e neanche io dovevo studiare, dovevo restare come lui, ignorante.[…] . È questo il nostro problema: lasciamo che il marito comandi la nostra vita, e questo è un grande problema. Ormai ho cominciato a fare per me, ci saranno giorni più pesanti ma spero cambierà» (Farah, 38 anni).
Per altre, invece, qualcosa sta cambiando:
«Mazara è cambiata in 20 anni, è cambiata. Prima cosa: nella mentalità anche degli arabi, sono cambiati… Ti dico una cosa: prima se una donna tunisina andava a lavorare in bar o in pasticceria [fa un gesto con la mano come per indicare qualcosa che ‘non va bene’], pensa da sola… questa non è una donna brava, questa ha abbandonato la famiglia, ha un marito che non comanda, hai capito? Adesso no, la donna ha più valore, adesso forse anche la vita… hai lasciato la donna, tu marito dai una mano per aiutare. Anche io, prima mio marito non mi lasciava lavorare in pasticceria o nel bar. Adesso hanno cambiato idea perché il mondo cambia, siamo nel 2021, c’è un ‘altra mentalità» (Hasna, 44 anni).
Il cambiamento si può osservare anche attraverso le parole di Aicha:
«Sono tunisina, sono musulmana, credo tantissimo. Per me la religione, l’Islam sono la cosa più importante della mia vita e se non recito almeno una sura prima di andare a letto non riesco a dormire. Ma comunque da un punto di vista sociale mi dissocio da quello che mi viene detto. Nel senso…io non nuoto coperta, vado a mare in bikini, ho iniziato a fare la ceretta sin da piccola, faccio le sopracciglia anche se non sono sposata. Ormai tutti fanno così, i tempi sono cambiati. […] Nel mondo arabo siamo evoluti, ma non quanto l’Europa, o l’America. […] Nel mio caso ho la fortuna di essere una cittadina europea e mi adeguo a quella che è la donna nel mio contesto, quello italiano. Una donna che studia, che un giorno lavorerà, che vivrà da sola e non avrà bisogno di nessuno che la mantenga, questa è la mia visione di donna» (Aicha, 24 anni).
Alle forme di controllo da parte dei mariti di alcune delle intervistate, si aggiunge anche un controllo da parte della società di appartenenza: questi due elementi sono spesso collegati attraverso l’uso del pettegolezzo e, nei casi più gravi, con la calunnia. Questo spinge molte donne a non lasciarsi coinvolgere in attività che potrebbero “costare loro” voci da parte di altre persone che potrebbero riferire poi al marito. Un esempio ci è proposto da Hasna, relativamente alla realizzazione di uno spettacolo teatrale a seguito di un laboratorio promosso dalla Fondazione San Vito:
«La donna tunisina a Mazara è sempre nascosta. L’ho scoperto io quando abbiamo fatto teatro. Nel progetto della Fondazione abbiamo creato un corso di teatro e abbiamo fatto uno spettacolo. Le donne tunisine erano tutte d’accordo a partecipare ma appena hanno sentito che ci sarebbe stato un pubblico di persone che avrebbero visto lo spettacolo, tutte si sono ritirate: ‘no, mio marito non vuole, no, non voglio che le altre mi vedano’. Hai visto com’è la mentalità? Per dirti la verità, tutti sono responsabili, ma loro non hanno cercato di cambiare la mentalità, anche quella dei loro mariti. Io voglio farlo, qual è il problema? Anche se mi vedono, se mi vedono in televisione, qual è il problema? Forse è anche l’uomo arabo che ha un po’ questa mentalità: ‘no, mia moglie non deve essere in televisione’. Ci sono tante donne che ancora non pensano a ciò che vogliono loro ma pensano a ciò che vuole il marito. Se piace al loro marito, hai capito? Chiedere il permesso va bene, ma se una cosa piace a te perché non farla?. Io per esempio, anche quando mi hanno scelto per un cortometraggio, mi hanno chiesto ‘ma tuo marito è d’accordo?’. Per me se io voglio, perché mio marito non dovrebbe lasciarmi fare? Cosa faccio di male? Il teatro è male? Hanno ancora questa mentalità un po’… ritardata» (Hasna, 44 anni).
La solitudine e la riscoperta di sé stesse
In ogni caso, l’assenza dei mariti, lontani in mare per mesi, ha come effetto per le donne quello di provare il senso di una profonda solitudine. Questa diventa spesso un vuoto incolmabile poiché il pescatore non è un mestiere sicuro. Tante delle intervistate raccontano di avere mariti, padri e parenti che, a causa della prolungata esposizione a vernici, scarichi e in generale ad uno stile di vita particolarmente duro e precario al livello della salute, si sono ammalati di malattie polmonari e, in alcuni casi, sono deceduti. La solitudine perciò accompagna queste donne, che devono assumersi la responsabilità di tutta la famiglia. Di seguito il racconto di Hasna su un’altra donna di sua conoscenza:
«È un po’ difficile, con un marito che è sempre fuori e tu sei sola, devi fare più ruoli, devi essere presente per i figli con la scuola, badare alla casa. Fare tutto da sola è un po’ pesante, però sono abituata. […] Per esempio gli immigrati, soprattutto le donne tunisine, quando i loro mariti vanno a mare. Una volta ad una è successo che le hanno detto che il marito era morto, non le hanno portato neanche il suo corpo. E questa donna come può vivere in un Paese straniero, che non è il suo, da sola? Come fa? Come si integra? Soprattutto perché non hanno quasi nulla qua. Conosco una donna, suo marito prima si occupava di tutto, anche la spesa la faceva lui. Un giorno ha sentito che suo marito era morto in mare, e lei era persa veramente, persa, persa… manco sapeva dov’è il Comune, manco sapeva cosa fare. In questo caso, lei non sapeva nemmeno se il marito era vivo o morto, perché non hanno trovato il corpo» (Hasna, 44 anni).
Ritrovarsi, riscoprire la propria o le proprie identità in base al sentimento di appartenenza a due Paesi diversi, è stato l’obbiettivo di una domanda a cui sono state sottoposte tutte le intervistate. Ho chiesto loro di descrivermi come si sentissero, al netto del loro percorso migratorio, ad essere una donna tunisina a Mazara del Vallo, di seguito le risposte di Hasna, Kamila, Aicha, Farah e Amani:
«Ti do un esempio: un bambino, sua madre è uscita a lavorare e l’ha lasciato con la nonna. Lui ha vissuto tutto il tempo con la nonna, ha pianto con la nonna, ha riso con la nonna, tutto. Ti sembra che questo bambino può dimenticare la sua mamma anche se lei è tutto il giorno fuori? E non può neanche dimenticare la nonna perché ha vissuto tanti momenti con lei, ha pianto con lei e riso con lei. È questo per me, non posso dimenticare la Tunisia e non posso dimenticare Mazara. Sono metà: metà tunisina e metà mazarese. A Mazara ho passato tanti momenti, ho pianto a Mazara, ho vissuto tante cose a Mazara. È questo» (Hasna, 44 anni).
«Penso ogni giorno a questa domanda. Hai presente Luigi Pirandello che ha fatto mille e una maschera? Io sono così, non capisco cosa sono, forse è il miscuglio che fa… io voglio essere me stessa, cioè io sono così, sono un miscuglio tra Mazara e mazaresi e fra Tunisia e tunisini, quando mi trovo con i tunisini di Tunisi, non quelli che vivono qua, quelli che stanno in Tunisia… con loro mi trovo strana. Allo stesso tempo quando sono con i mazaresi ‘veri’, non sono io, non faccio parte di questo gruppo. Quindi mi trovo…un miscuglio. Penso alla mazarese, però allo stesso tempo ho degli standard tunisini. E anche in Tunisia, mi piacciono i tunisini ma hanno i pensieri sbagliati. Quindi sono io, a volte non vado d’accordo con tante persone e penso che sono io che sono sbagliata. Ti trovi senza identità o con più identità» (Kamila, 28 anni).
Nel caso di Aicha, è doveroso sottolineare che quando l’ho conosciuta, si è presentata a me con un nome italiano.
«Io sono sempre stata nome arabo, sempre. Però la mia dottoressa, quando sono nata, per scrivere il mio nome… le è sembrato un po’ difficile, quindi ha detto a mia mamma ‘io la chiamo nome italiano’, e quindi tutti gli italiani mi hanno sempre chiamato così. Quando sono arrivata in classe e ho detto il mio nome, la maestra mi ha detto ‘ma sul registro non c’è nessuno con questo nome’. Io ho voluto farlo scrivere, a matita sul registro, ho un doppio nome, anche se sulla carta ne ho uno solo. Perché mi vergognavo di dire che mi chiamavo nome arabo, e vallo a spiegare chi sono, già dal nome si capisce che non sono una di loro. Che non sei come loro. […] Io mi sono sempre sentita mazarese, sempre, anche quando non avevo ancora la cittadinanza. Poi però succedono cose che ti fanno cambiare visione totalmente. Non ti riconosci più. Sono cose che purtroppo accadono ma da un altro punto di vista per fortuna accadono, perché ti fanno capire chi sei. Io mi sono sempre reputata italiana con origini tunisine, fin quando un anno e tre mesi fa è venuto a mancare mio padre e lì ho cambiato totalmente visione. Oggi se mi chiedono ‘sei italiana o tunisina’ io rispondo ‘sono tunisina ma ho la cittadinanza italiana e sono nata in Italia’. Fino ad un anno e mezzo fa rispondevo ‘sono italiana ma i miei genitori sono tunisini’. Il perché di questo cambiamento te lo spiego: quando è morto mio padre ci hanno detto che la sua salma poteva fare un solo viaggio per essere seppellito: o verso Mazara o verso la Tunisia. Mia madre disse subito ‘Tunisia’ e io, che ero stata consultata, perché ero maggiorenne, ho risposto senza pensarci minimamente ‘mio padre è ovvio che deve tornare in Tunisia”. Ho sentito l’esigenza che mio padre dovesse tornare nella sua terra natale. E lì ho detto: un giorno, quando sarà, e morirò anche io, anche io sentirò l’esigenza di andare nella mia terra natale anche se effettivamente non sono nata lì. Ma io in quel momento mi sono sentita completamente tunisina. E quello è stato l’episodio che per sfortuna è successo, ma per fortuna anche, perché lì mi sono realmente conosciuta, cioè lì ho capito realmente chi sono. E oggi alla domanda ‘sei tunisina o sei italiana’ io rispondo ‘sono tunisina al 100 per 100 ma italiana per legge perché ho la cittadinanza’. Ora detengo entrambe le cittadinanze» (Aicha, 24 anni).
«Io sono una tunisina a Mazara e lo sarò sempre. Sono tunisina, non penso di essere italiana o mazarese, non puoi cambiare le origini. Ci sono delle donne che vogliono cambiare tutto, anche la religione, ma per me ormai è difficile. Tanti mi chiedono perché mi vesto occidentale anche se metto il foulard. Metto i jeans stretti, tengo il collo scoperto, mi vesto a modo mio. Faccio le preghiere a casa, cinque volte al giorno, ma non vado in moschea» (Farah, 38 anni).
«Io mi trovo meglio con gli italiani, la verità. Coi tunisini… sempre c’è qualcuno che è chiuso. Dentro mi sento mazarese» (Amani, 60 anni).
Come si è potuto evincere dalle interviste, le storie delle donne sono diverse sia per età che per il percorso migratorio. Possono tuttavia riscontrarsi dei punti in comune: tutte le intervistate sono mogli di pescatori e madri di più figli. La questione identitaria, influenzata dal continuo spostamento tra Tunisia e Sicilia emerge maggiormente, insieme alla percezione di sé in quanto donne immigrate. Le sfide e le possibilità date rispettivamente dalla lingua e dalle modalità di inclusione a Mazara del Vallo continuano a fare parte delle modalità di vita di queste donne, nonché spesso di quelle dei loro figli o delle loro amiche connazionali. Mazara del Vallo, per molte di queste donne, diventa un luogo di appartenenza, una casa.
Emblematici sono gli esempi, soprattutto delle intervistate più giovani e nate (o scolarizzate) nella città siciliana che descrivono le modalità di convivenza con i locali, condividendo usi e tradizioni che vengono mischiate, come nel caso delle feste, specialmente Natale e Pasqua, o pratiche alimentari, come la commistione tra elementi culinari tunisini e siciliani.
L’ascolto delle voci di queste donne, insieme all’analisi degli stili di vita, degli spazi, delle pratiche che attraversano i confini geografici e culturali, costituiscono un’efficace prospettiva che, implementata attraverso politiche di inclusione e di riconoscimento sociale, può aprire scenari nuovi e inediti e possono confermare la città di Mazara che ospita da più di mezzo secolo la comunità tunisina un laboratorio antropologico di estremo interesse.
Dialoghi Mediterranei, n. 63, settembre 2023
Riferimenti bibliografici
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Lavinia Giacobbe, nata a Messina, ha frequentato l’Università di Torino, laureandosi alla magistrale in Studi Internazionali con una tesi sull’identità delle donne tunisine a Mazara del Vallo. Attualmente è tornata in Sicilia dove si occupa di vari progetti, tra cui un archivio filmico tra Messina e Ortigia insieme alla Cineteca Dello Stretto.
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