di Diego Cannizzaro
Raramente un musicista la cui eccelsa fattura musicale mette d’accordo tutti è circondato da un’aura di mistero sulla sua vita: è il caso di Bernardo Storace di cui possiamo affermare con sicurezza soltanto che nel 1664 era vicemaestro di cappella del Senato della città di Messina, come si legge nel frontespizio dell’unico suo lavoro giunto sino ai giorni nostri: la Selva di varie compositioni d’intavolatura per cimbalo et organo, pubblicata per l’appunto nel 1664 a Venezia.
Cappella musicale di Messina
La Cappella musicale del Duomo di Messina godeva di un certo prestigio nel XVII secolo: non era ai livelli della Real Cappella di Napoli ovvero delle cappelle musicali romane, ma aveva musicisti di livello provenienti da tutta Italia, segno evidente che c’era desiderio di tenere alto il livello musicale. Il compianto Giuseppe Donato scriveva che
«La cappella messinese, pur non essendo certo una grossa cappella musicale […], non si può definire semplicisticamente come una normale cappella di provincia. Il senato messinese […] cercò sempre di mantenerla ad un livello artistico di notevole prestigio. Solo così, infatti, si spiega la continua ricerca sul mercato musicale italiano e straniero di abili musicisti, capaci di conferirle quel prestigio del quale una città come Messina […] aveva strettamente bisogno» [1].
La Sicilia, d’altro canto, aveva vissuto nel XVI una straordinaria fioritura musicale legata alle grandi città, Palermo in primis con la corte vicereale affiancata dalla sua rivale Messina, ma anche ad altre città meno grandi. Sei editori musicali erano sorti a Palermo, tre a Messina, con una qualità tipografica non inferiore alle contemporanee edizioni veneziane.
Ai tempi di Storace, come già detto vicemaestro di cappella, il maestro era il romano Vincenzo Tozzi. Subentrato nel 1646 ad Ottavio Catalani, originario di Castrogiovanni (l’odierna Enna), ma anch’egli romano per formazione, operò nei circoli accademici messinesi, pur senza esservi formalmente iscritto. Compose concerti e musiche da scena per l’Accademia degli Abbarbicati, per l’Accademia della Fucina, per il teatro della Munizione. Al senato messinese dedicò Il primo libro de’ concenti ecclesiastici a due, tre, quattro e cinque voci, stampato a Roma nel 1662 (la lettera dedicatoria, datata 16 marzo 1661, è indirizzata ai senatori Andrea Patti, Marcello Cirino, Antonio Ruffo, Francesco Sergi, Pietro Gregori, Giovanni Agostino Duci): sono venticinque brani, caratterizzati dalla concatenazione di sezioni dai tempi e metri contrastanti. Nel 1644 fu cantato il suo L’Annibale in Capua presso il teatro dell’illustrissimo Senato di Messina.
Esercitò anche l’attività didattica, peraltro richiesta dall’ufficio ricoperto al duomo e fu in contatto con le istituzioni formative della città, in particolare gesuitiche. Mantenne presumibilmente l’incarico di maestro di cappella in duomo fino alla nomina del successore, il romano Paolo Lorenzani, che subentrò il 1o novembre 1675. Morì a Messina, sessantatreenne, negli ultimi giorni di dicembre del 1675.
Notiamo una certa predilezione del Senato messinese nei confronti della cultura musicale romana e ciò potrebbe fornirci qualche indizio sulla formazione musicale di Bernardo Storace. La cappella musicale di Messina, tuttavia, contava musicisti locali come Pietro Maurizio e Francesco Fiamengo, il pistoiese Raffaele Mellini e Giovanni Antonio Pandolfi Mealli da Montepulciano.
Proprio quest’ultimo violinista molto apprezzato, era stato fino al 1660 alla corte di Innsbruck e fino al 1675 a Messina («maestro d’imparare a sonare di violino [...] primo strumentista di violino della città»), ma dovette fuggire perché accusato di omicidio e riparò a Madrid nel 1678 dove venne accolto come violinista della Cappella Reale della Corte).
Giovanni Pandolfi Mealli pubblicò nel 1669 una raccolta di 18 sonate strumentali [2] che portano per titolo il nome di un musicista della Cappella messinese o di qualche altro notabile. Tra i dedicatari vi è proprio il nostro Storace che non reca il nome di Bernardo bensì di Candiloro. Tale nome figura anche nel Paschino di tutti i compositori et musici di Messina del anno 1666 di autore ignoto (con firma incomprensibile) i cui versi dipingono con pochi tratti le salienti caratteristiche di ciascun componente della cappella musicale di Messina, autentico spaccato del clima e della vita musicale a Messina. Riporto qui soltanto gli epigrammi dedicati a Vincenzo Tozzi e a Storace anche qui associato al nome di Candiloro:
D. Vincenzo Tozzi
Hor che il germano tuo sepolto giace,
di altrui l’opre famose più non sento:
dalla teorba il son solo mi piace
Candiloro Storace
Invan di Marco alla città n’andasti,
credendo di eternar tuo nome e vanto;
qual fin abbia il superbo assir provasti.
Il frontespizio della Selva di Varie Composizioni per Cimbalo ed Organo è l’unica fonte biografica di Bernardo Storace. È decorato con motivi floreali e con raffigurazioni di strumenti musicali: un’arpa, una viola da braccio, una viola da gamba, un liuto, una tiorba ed un organo portativo. Nella pagina successiva sono raffigurati due angeli nell’atto di aprire una tenda su uno sfondo bianco che avrebbe probabilmente dovuto accogliere la dedica: la Selva è l’unica fra le pubblicazioni esaminate in questo studio ad essere sprovvista di dedica. L’epigramma ci mette in guardia circa una cocente delusione patita da Storace in Venezia: le aspettative che riponeva negli ambienti della Serenissima non avranno avuto alcun seguito e i sogni di gloria ebbero probabilmente triste fine proprio come Nabucodonosor che nel famoso racconto biblico si prostrò al cospetto di Daniele.
La Selva di Varie Composizioni, unica opera conosciuta di Bernardo Storace, è pervenuta ai nostri giorni in un unico esemplare che si trova nella Biblioteca del Conservatorio di Napoli [3];
«…assai difficili risultano gli agganci culturali, che devono basarsi quasi unicamente su considerazioni inerenti i tratti stilistici delle varie composizioni in essa contenute.
Purtroppo non ci rimane neppure il nome dello stampatore che nel 1664 curò a Venezia l’edizione della raccolta facendola incidere su lastre di rame, procedimento notoriamente costoso e perciò riservato alle pubblicazioni più prestigiose. L’accurata ed elegante grafia dell’incisore, che si svolge sui due righi dell’intavolatura italiana per tastiera, mette in risalto il trattamento virtuosistico e tipicamente strumentale delle voci.
In questo lo Storace si rivela più vicino alla scuola cembalo-organistica del nord che ai coevi compositori dell’area meridionale, nei quali l’uso dei quattro righi corrisponde ad una maggior fedeltà a tecniche di scrittura tradizionali. A questi ultimi lo legano d’altra parte almeno una certa particolare predilezione per gli intervalli cromatici e il conseguente modo un po’ eccentrico di porre le dissonanze. Il non costante uso delle quattro voci, che sempre più diventerà una caratteristica idiomatica della letteratura clavicembalistica, indurrebbe anche a non considerare casuale il fatto che nella dicitura presente sul frontespizio della raccolta il Cimbalo sia anteposto all’Organo» [4].
La Selva è l’unica pubblicazione di un compositore del sud d’Italia in intavolatura italiana per tutto il XVII secolo; i manoscritti, invece, la impiegano più frequentemente. I compositori dell’area napoletana prediligevano la stampa a quattro pentagrammi mentre l’intavolatura a due sistemi era preferita nei manoscritti.
L’opera di Storace può essere divisa in quattro parti:
- partite sopra “tenori” (Capriccio sopra il Passo e Mezzo, Passo e Mezzo, Altro Passo e Mezzo, Romanesca, Aria sopra la Spagnoletta, Monica, Ruggero Partite sopra il Cinque Passi, Follia)
- variazioni su basso ostinato (quattro Passagagli ed una Ciaccona);
- danze stilizzate (Balletto, Ballo della Battaglia, due Correnti)
- pezzi organistici (due Toccate e Canzoni, due Ricercari ed una Pastorale).
Tenendo sempre ben presente l’ambivalenza strumentale di tutti i brani, a mio parere, il titolo dell’opera rispecchia la distribuzione dei brani: i brani elencati ai punti 1., 2. e 3. appaiono più appropriati al clavicembalo, i brani al punto 4. sono manifestamente organistici.
La Selva inizia con tre brani di variazioni sopra il Passo e mezzo; Storace non apre la sua pubblicazione con brani contrappuntistici “dotti”. Egli impiega il termine di Capriccio solo per il primo dei tre brani lasciando la semplice indicazione di Passo e mezzo e Altro Passo e mezzo per gli altri due.
Il Capriccio è fondato sul passo e mezzo moderno, gli altri due sul passo e mezzo antico; le singole “partite” sono dilatate poiché Storace impiega le note fondamentali del passo e mezzo arricchite da ornamenti armonici. Le altre partite sono composte sopra le più famose melodie dell’epoca: Romanesca, Aria sopra la Spagnoletta, Monica, Ruggero, Partite sopra il Cinque Passi, Follia.
Variazioni su basso ostinato
Storace pubblica quattro Passagagli ed una Ciaccona. I Passagagli sono generalmente in tempo ternario mentre la Ciaccona privilegia l’organizzazione metrica senaria.
«[…] ciaccona e passacagli sono contraddistinti da due “bassi armonici” molto affini: nel giro di due o di quattro battute il basso si porta dalla tonica alla dominante, per ricadere sulla tonica alla ripresa del basso stesso. Nei passacagli il basso scende generalmente per grado congiunto dalla tonica al sesto grado per poi esporre la formula cadenzante ([terzo], quarto e quinto grado); nella ciaccona il basso suole invece portarsi direttamente dalla tonica alla dominante, poi al sesto grado, indi cadenzare in modo analogo, se non del tutto identico ai passacagli» [5].
Storace impiega il cambio di tempo come elemento distintivo di sezioni differenti a volte scrivendo indicazioni quali “modo pastorale”, “a tempo”, “grave”, “allegro”, “vario” ed “ordinario”. Il “modo pastorale” si caratterizza per l’imitazione degli stilemi tipici delle musiche siciliane per zampogna. Storace mostra già qui il suo interessamento per il “modo pastorale” ma il massimo tributo a questo genere musicale verrà offerto dal nostro in conclusione della Selva come vedremo più sotto.
I Passagagli e la Ciaccona di Storace rappresentano il punto di massimo sviluppo di queste forme musicali nel XVII secolo; si avverte l’influenza dello stile di Frescobaldi [6] ma Storace mostra una sensibilità tonale molto più spiccata. Anche le figurazioni melodiche sono concepite a supporto delle relazioni tonali, sono organizzate ritmicamente in maniera rigida e solo in due casi si trovano delle cadenze conclusive nello stile libero di toccata: al termine del terzo Passagaglio e della Ciaccona.
Danze stilizzate
Storace inserisce due balletti e due correnti. Il primo Balletto è diviso in sei sezioni, cinque in tempo quaternario, l’ultima in tempo ternario e denominata “corrente”; le sei sezioni ripetono lo stesso schema armonico risultante da due semifrasi ripetute (la prima nel tono d’impianto, la seconda modulante). La scrittura, di tipo clavicembalistico, indulge in frequenti salti di ottava al basso che marcano i tempi forti delle battute.
Il Ballo della Battaglia ha la seguente struttura formale: AABCADA. Il tema principale (A) è pomposo e solenne, il basso marca per il tutto il pezzo i tempi forti delle battute e si odono, nelle sezioni secondarie, effetti di eco. Adriano Banchieri, nell’edizione del 1611 dell’Organo suonarino dichiara che è
«…permesso per consuetudine il giorno di Pasqua di Resurrezione suonare una battaglia che sia onesta & conforme alla sacra Sequenza Paschale, Mors et vita duello…» [7].
Il genere della “battaglia” ha avuto anche grande diffusione presso gli organisti spagnoli. Nella forma iberica il pezzo è generalmente tripartito: l’appello alle armi con frequenti note ribattute ad imitazione delle trombe ed effetti d’eco, il combattimento con lunghe sequenze di accordi insistiti, la vittoria con carattere di marcia trionfale. Anche in Spagna le “battaglie” venivano suonate nel giorno di Pasqua a simboleggiare la vittoria della vita sulla morte [8]. Frescobaldi ha pubblicato un “Capriccio sopra la battaglia” mentre nessun compositore napoletano o siciliano ad eccezione di Storace ne ha scritto.
Le due Correnti sono scritte nel convenzionale metro ternario e presentano una scrittura abbastanza semplice; si riscontra frequentemente il tipico salto d’ottava al basso.
Pezzi organistici
Gli ultimi brani della Selva appaiono stilisticamente molto appropriati all’organo: vi sono lunghe note tenute, non ci sono più i salti di ottava al basso per marcare i tempi forti delle battute, le figurazioni prediligono maggiormente i gradi congiunti.
Quando Storace inserì nella Selva le due Toccate e Canzon, c’era stato un solo precedente nell’Italia meridionale di fusione di due forme musicali: la Toccata e Ricercare del secondo libro di Giovanni Maria Trabaci (1615). Storace non opta, però, per la non soluzione di continuità tra i brani: sia le toccate che le canzoni si possono benissimo eseguire indipendentemente. Le toccate ricalcano le caratteristiche elaborate e perfezionate da Mayone, Trabaci e Salvatore, le canzoni appaiono, invece, un po’ semplificate: la prima, infatti, è in un’unica sezione in tempo quaternario, la seconda è in due sezioni (tempo C e C3) con cadenza conclusiva in stile toccatistico molto affine agli esempi di Trabaci.
Seguono poi due Ricercari multitematici, organizzati in sezioni che presentano a turno i soggetti; i Ricercari sono gli unici brani della Selva che mantengono dall’inizio alla fine la distribuzione rigorosa delle quattro voci, la scrittura è rigorosa ed osservata, il contrappunto è fluido e non cade mai di interesse. Il primo tema del primo ricercare è identico alla quinta voce del famoso Ricercare che Frescobaldi inserì nella Missa Beatae Virginis Mariae dei Fiori Musicali pubblicati nel 1635, altro elemento stilistico che avvicina Storace maggiormente alla cultura organistica romana piuttosto che napoletana.
La Pastorale che chiude la Selva, è una trascrizione delle sonate natalizie delle zampogne a paro della Sicilia orientale e della provincia di Messina in particolare.
«La figurazione ritmica, l’accompagnamento per terze della seconda voce, l’ostinato ripetersi delle medesime cellule melodiche e l’evidente modularità della costruzione fanno pensare all’intera “Prima parte” della Pastorale come alla dilatazione di una toccata introduttiva di quelle zampogne a paro che Bernardo Storace senza dubbio sentiva suonare, in occasione del Natale, per le strade e nelle chiese di Messina dai pastori discesi dai colli che circondano la città» [9].
La Pastorale si suddivide in quattro parti dalle indicazioni ritmiche differenti: la prima è in tempo C, la seconda in 3/2 e 6/4 (il cambio metrico coincide con l’indicazione di “Aria”), la terza parte, con l’indicazione di “Allegro”, è in C come pure la “Quarta ed ultima parte”.
«La struttura complessiva della composizione ricalca del resto, in forma ampliata, la successione di movimenti delle sonate natalizie delle zampogne a paro della Sicilia orientale, che prevede, appunto, una breve toccata, cui seguono senza soluzione di continuità un’aria in tempo lento e un movimento di danza» [10].
La pastorale di Storace potrebbe essere eseguita così com’è su una zampogna messinese: la lunga nota al pedale equivale alla nota “re” del bordone, le due voci affidate alla tastiera hanno la tessitura compatibile ai due “chanter”. L’organista deve solo tener presente la differente modalità di emissione sonora delle canne labiali dell’organo rispetto alle ance doppie dello strumento popolare.
La Selva di Storace spicca per originalità nel panorama musicale dell’Italia meridionale del XVII secolo. I maestri napoletani hanno certamente influito nel carattere inquieto delle Toccate e nella sapienza contrappuntistica dei Ricercari ma gran parte della Selva sembra essere idealmente legata all’opera di Frescobaldi e, in generale, all’ambiente romano. Storace è l’unico dei meridionali a scrivere Passagagli e Ciaccone e solo Frescobaldi prima di lui aveva dedicato a strumenti da tasto questo genere di composizioni. Storace, sfrutta una vasta gamma di “tenori” per le variazioni, operando scelte molto simili a quelle di Frescobaldi. Anche la composizione di Battaglie e di Pastorali, generi totalmente sconosciuti ai napoletani fino a tutto il XVII secolo, accomunano Storace e Frescobaldi. Non è pertanto da escludere l’ipotesi che Storace fosse laziale e che, quindi, abbia subìto il grande influsso dell’arte di Frescobaldi, e che solo in una seconda fase sia entrato in contatto con la scuola tastieristica napoletana durante il suo soggiorno a Messina, unico episodio conosciuto e documentato della sua vita.
Purtroppo non sono giunti fino ai nostri giorni gli organi secenteschi del Duomo di Messina. In verità ne sono rimasti pochi di questi organi in tutta la Sicilia ma un esemplare interessante ed indicativo lo troviamo presso la chiesa di San Pantaleone in Alcara Li Fusi (ME) costruito nel 1666, due anni dopo la pubblicazione della Selva di Storace. Abbiamo l’atto d’obbligo della costruzione [11] dal quale traiamo con certezza l’autore Mag(iste)r Joseph Speradeo organarius civis Pan(ormi). Lo Speradeo si avvalse dei consigli di Giovambattista Fasolo, a quei tempi maestro di cappella del Duomo di Monreale. L’organo è collocato in cantoria lignea prospiciente all’altare dal lato sud, presenta una cassa in stile rinascimentale dipinta a tempera verde antico e decorata con foglia di oro zecchino. Le 33 canne di facciata sono distribuite in 5 campate disposte a cuspide (5-7-9-7-5) sovrastate da organetti morti; la canna maggiore è il Mi1 del Principale primo. La tastiera, a finestra, ha l’estensione di quattro ottave (do1 – do5) con prima ottava corta, la pedaliera è del tipo siciliano, non ha registri propri e tira i tasti della prima ottava della tastiera.
I 9 registri vengono azionati da lance di ferro imperniate a ¾ del somiere, a destra, si raggiungono attraverso un foro quadro a destra della tastiera e si inseriscono da sinistra a destra. Ecco la disposizione fonica: Principale primo – Principale secondo – Ottava – Decimaquinta – Decimanona – Vigesimaseconda – Vigesimasesta – Vigesimanona – Flauto in ottava.
L’organo di Alcara presenta i mantici a cuneo a pelli intere, il sistema trasmissivo con meccanica sospesa con catenacciatura a rulli di legno rivolta all’interno. Il somiere maestro è a tiro con nove stecche, il crivello è in cuoio e le bocche sottostanti, il La3 suona a 415 Hz con un temperamento mesotonico regolare. L’organo è stato restaurato nel 2000 da “Artigiana organi” di Francesco Oliveri, Aci Catena (Catania). Ѐ uno dei pochissimo organi in cui l’azionamento dei registri avviene tramite lance che scendono direttamente dal somiere: il foro quadrato accanto alla tastiera consente l’azionamento delle lance con la mano destra senza costringere l’organista a spostarsi dalla panca; l’esiguo numero di stecche, nove in totale, mettono l’organista nelle condizioni di familiarizzare con molta rapidità con questo sistema.
La musica di Storace su quest’organo suona con una naturalezza e spontaneità impagabili, e siamo più che certi che ad Alcara Li Fusi è possibile riprodurre le sonorità del maestro messinese con estrema fedeltà.
Dialoghi Mediterranei, n. 63, settembre 2023
Note
[1] Giuseppe Donato, “La cappella del Duomo di Messina” in Musica sacra in Sicilia tra rinascimento e barocco, Atti del convegno di Caltagirone 10-12 dicembre 1985, a cura di Daniele Ficola, Flaccovio, Palermo, 1988.
[2] Sonate cioè Balletti, Sarabande, Passacagli, Capriccietti & una Trobetta, a uno, e dui Violini con la terza parte della Viola a beneplacito di D. Gio. Antonio Pandolfi [da Montepulciano] Musico Istrumentista di violino della Proto – Metropoli della Nobilissima & Esemplare Città di Messina, Dedicae all’Illustrissimo & Eccellentissimo D. Gio: Antonio La Rocca, Principe d’Arcontes, Marchese di Rocca Alumara, eBarone di S. Michele, e Bitonte IN ROMA, Per Amadeo Belmonte, 1669
[3] Segnatura NA0059
[4] Introduzione all’edizione anastatica del manoscritto curata da Laura Alvini, S.P.E.S, Firenze, 1982.
[5] Luigi Ferdinando Tagliavini, Varia frescobaldiana, L’Organo, XXI, Bologna, Pàtron Editore, 1983: 124.
[6] Le monumentali Cento partite del 1637 costituiscono il più alto contributo dato da Frescobaldi all’inserimento dei passacagli e delle ciaccone nel repertorio per strumento da tasto in Europa.
[7] Adriano Banchieri, L’Organo suonarino, Venezia, Ricciardo Amadino.1605.
[8] Ancora oggi alcuni organisti spagnoli suonano regolarmente una “battaglia” la domenica di Pasqua.
[9] Nico Staiti, Angeli e Pastori, Ut Orpheus, Bologna, 1997: 134. A questa stessa pubblicazione si rimanda per la comparazione e l’analisi dettagliata delle formule melodiche.
[10] Ibidem, 134
[11] Archivio Storico di Palermo., Not. Rocco Li Chiavi, vol. 3673.
________________________________________________________
Diego Cannizzaro, ha affiancato gli studi musicali e quelli umanistici conseguendo i Diplomi di Pianoforte, Organo e Composizione organistica e, parallelamente, la Laurea in lettere moderne ad indirizzo musicologico. Vincitore di borsa di studio, ha conseguito il Dottorato di ricerca in “Storia ed analisi delle culture musicali” presso l’Università di Roma “La Sapienza” con una dissertazione sulla musica per organo e clavicembalo nei regni di Napoli e Sicilia tra XVI e XVII secolo pubblicata in lingua italiana presso l’archivio PADIS dell’Università di Roma “La Sapienza. Attivo come organista, pianista e clavicembalista, è stato invitato in diverse rassegne musicali internazionali esibendosi in tutta Europa, Russia e U.S.A. Vanta diverse collaborazioni con riviste specialistiche italiane ed estere presso cui ha pubblicato diversi saggi. Ha inciso 25 CD per la Bottega Discantica, Elegia records, Bongiovanni, Tactus e Da Vinci. Insegna organo presso il Conservatorio di Musica “V. Bellini” di Caltanissetta, è stato anche docente invitato di organo e clavicembalo presso il Conservatorio Rimski-Korsakov di San Pietroburgo (Russia), il Real Conservatorio Superiore di Musica di Madrid (Spagna), L’Accademia delle arti musicali di Vilnius (Lituania), la National University of California (USA).
______________________________________________________________