Il 13 aprile scorso moriva la stilista Mary Quant, nota soprattutto per l’invenzione della minigonna: un’invenzione, tra l’altro, che risale proprio a sessant’anni fa, quando apparve per la prima volta nel suo negozio londinese “Bazaar”. In realtà ci fu anche una disputa con il francese André Courrèges su chi propriamente fosse stato il primo ad introdurla; la stilista inglese minimizzava la controversia, sintetizzando: «Non siamo stati né io né Courrèges a inventare la minigonna: sono state le ragazze della strada a farlo» [1]. In effetti, il successo della minigonna derivò certo dall’aver intercettato la voglia di libertà e di cambiamento che caratterizzava gli anni ‘60 in tutto l’Occidente, e non solo. Non a caso il capo minimale è diventato un po’ il simbolo dell’epoca.
Ma se oggi quel tipo di gonna è diventato un indumento tra i tanti, va anche ricordato che per qualche tempo esso fu al centro di animati dibattiti e divenne, per settori importanti dell’opinione pubblica in Italia, l’emblema di una degenerazione profonda della nostra società. Furono in particolare gli ambienti più conservatori e il mondo cattolico a leggerla in quei termini, basandosi su una lunga tradizione di attenzione censoria all’evoluzione della moda e dei costumi femminili. Ce lo ricorda, aderendo a questa prospettiva, il libro a cura di Virginia Coda Nunziante, La moda cristiana nell’insegnamento della Chiesa, pubblicato nel 2022 per le Edizioni Fiducia.
Il volume offre una breve storia della moda in Europa e soprattutto, nella seconda parte, un’antologia dei principali interventi dei pontefici e di illustri prelati cattolici che si sono espressi in tema di moda femminile dalla fase del primo dopoguerra ai primi anni ‘60 del secolo scorso. La scelta dell’arco cronologico è significativa. Se già nel corso del XIX secolo la tradizione cattolica tendeva a presentare la purezza dei costumi (in senso lato) come una virtù custode della stessa vita affettiva della giovane, e quindi dei beni cui ciascuna aspira sopra ogni altra cosa, è certo che la rilevanza di queste tematiche si acuì soprattutto con la Grande guerra, quando la società e la cultura furono investite da repentini e profondi cambiamenti nei comportamenti e nei costumi, cui si sommarono fenomeni più di lunga durata relativi alla nuova società di massa.
Il volume riflette questa cesura, anche se innesta l’analisi sul piano storico con un intento sostanzialmente etico, che evidentemente ne è alla base. E in effetti accredita la tesi che l’epoca dell’abbigliamento più corretto – dal punto di vista della morale cattolica – sia quella medievale: una tesi tipica di certe correnti storiografiche che idealizzano più o meno implicitamente il Medioevo come espressione più vera della visione cristiana della vita.
E qui, inevitabilmente, lo sguardo analitico dell’autrice si trasforma in qualche cosa di natura diversa, com’è avvenuto altre volte all’interno della pubblicistica cattolica. Da questo punto di vista il libro si pone sulla scia di una lunga serie di scritti polemici contro la moda contemporanea, una serie che ha avuto il suo inizio appunto durante la Prima guerra mondiale. L’allarme nei confronti dei costumi femminili dagli anni del primo dopoguerra continuò a crescere costantemente fino alle «crociate della purezza» sostenuta dalla Gioventù Femminile di Azione Cattolica tra gli anni ‘30 e ‘40, e si concluse idealmente con la canonizzazione di Maria Goretti negli anni ‘50.
Nel clima di fervore nazionalistico prodotto dalla guerra, si parlò anche di moda e di costume nazionale, per promuovere contemporaneamente l’emancipazione dall’influenza esercitata dalle capitali estere e la creazione di un tipo di vestiario degno del senso estetico del popolo italiano, ma anche uno stimolo alla produzione nazionale e al lavoro femminile a domicilio. Quando poi al termine del conflitto, i costumi femminili risultarono ancor più segnati dalle trasformazioni, la campagna contro la moda femminile divenne per i cattolici uno dei terreni d’impegno e d’azione maggiori, come indicava papa Benedetto XV alle terziarie francescane: « (…) sia nel vestire come in tutto il loro contegno esteriore, siano esempio di santa pudicizia alle giovani e alle madri; e non credano di poter meglio meritare della Chiesa e della società che cooperando all’emendamento dei corrotti costumi» [2].
Gli storici del costume individuano effettivamente nella Grande guerra l’inizio di un grande cambiamento nella moda femminile, che nel giro di pochi decenni divenne più pratica ed essenziale, con gonne più corte, punto vita abbassato, abbandono del busto (e di tanta parte della biancheria connessa) e capelli tagliati ‘alla maschietta’. Si pensi, per contestualizzare, allo stile garçonne introdotto da Coco Chanel e al romanzo di Victor Margueritte La garçonne, uscito nel ‘22. Da un punto di vista generale si tratta di modifiche legate alle esigenze di una vita più mobile, in cui le condizioni di viaggio e di lavoro erano radicalmente mutati, ma certo esse contenevano anche una critica al formalismo educativo e alla mancanza di indipendenza femminile. Ma all’interno del mondo cattolico esse furono viste in primo luogo come un attentato alla moralità collettiva, tanto da ispirare veri e propri decaloghi di ciò che un abito femminile doveva assolutamente evitare: scollature, assenza delle maniche, attillature, accorciamento della gonna, alleggerimento dei capi di biancheria, calze trasparenti o color carne. Del tutto condannati i capelli corti che, si sosteneva, avendo lo scopo di accomunare la donna all’uomo, non consentono più che lei sia per lui lo stimolo spirituale che lo eleva.
In questa battaglia tra ‘morale pagana’ e morale cristiana, in cui fu impegnata la gerarchia fino ai suoi massimi livelli, emergevano anche altri aspetti della cultura cattolica del tempo. Si pensi, ad esempio, alla conferenza Moda e carattere femminile, tenutasi a Genova nel 1916 e ristampata poi a metà degli anni ‘20: in essa l’autrice, la contessa Elena da Persico (dirigente dell’Unione femminile cattolica) richiamava il tema biblico della donna forte «vestita di porpora e bisso», ma soprattutto sottolineava che attraverso il controllo della moda femminile alcune realtà monopolizzatrici potevano controllare lo spirito dell’intera nazione. Si trattava a suo avviso di sette giudaico-massoniche che mediante la moda potevano raggiungere la paganizzazione di tutta la vita sociale; sarebbero stati soprattutto esponenti ebrei ad avere un vero e proprio controllo sull’intero settore dell’abbigliamento, facendone uno strumento contro la società cristiana: «fin dal 1885 E. Drumont nel suo libro La France juve aveva indicato il pericolo: i sarti e le sarte – scrive – sono quasi tutti d’origine ebrea, e continuando le sue rivelazioni, egli si scagliava contro l’incoerenza delle donne cristiane che favorivano mode destinate a condurre alla scristianizzazione dei costumi e allo sfacelo sociale»[3].
Perché tanta attenzione alla moda femminile, al di là della sua ciclica mutevolezza? Tanta attenzione era (ed è) fatta dipendere dalla centralità delle donne nella creazione dei costumi collettivi e dalla relazione, ritenuta molto stretta, tra aspetto esteriore e vita interiore. Smentendo il noto proverbio, si arrivava infatti a sostenere che, se l’abito non fa il monaco, l’abito fa però la donna, perché il vestito può fare della donna un angelo o un demonio; perché il senso del pudore è la più forte barriera con cui la donna può arginare la corruzione, nella sua vita come nella società.
Si individuavano le ragioni della trasformazione dei costumi in una crisi dei valori religiosi e in una sorta di ‘deriva materialistica’ che investiva l’Italia e i Paesi europei, di cui le donne portavano la massima responsabilità e che poteva diventare premessa di una profonda azione di ricristianizzazione. Si indicava, quindi, un modello di «santa purezza» che proponeva esempi di ragazze pronte a sacrificarsi per il rifiuto dell’amore illecito e per mantenersi pure fino al matrimonio: un modello di virtù femminile praticabile nel ‘secolo’, che attribuiva grande importanza all’abbigliamento e ai comportamenti nella relazione con l’altro sesso, ammettendo un’implicita equivalenza tra gestione del corpo e moralità femminile. Nella lotta nel campo della moda la componente maschile della società era (ed è) vista più come oggetto del narcisismo e della vanità femminile, che come parte in causa, così come spesso era sostenuto in rapporto alla prostituzione: come non si trattasse di realtà che nascono dall’interdipendenza antropologica tra i due sessi.
Le cause profonde del fenomeno erano rintracciate nella superficialità dell’educazione femminile: un’educazione che le rendeva – secondo questa prospettiva – inclini alla pietà ma non alla fede, alla devozione, ma non alle convinzioni radicate, al desiderio di piacere ma non alla forza di carattere. Anche per questo a scendere in campo furono chiamate in primo luogo le forze dell’Azione cattolica femminile, proponendo la costituzione di strumenti ad hoc – aldilà della testimonianza personale, come mostra il volume, riportando le tesi di Benedetto XV all’UFCI:
«Noi perciò vorremmo che le numerose ascritte all’Unione Femminile Cattolica, oggi adunate alla Nostra presenza, stringessero fra loro una lega per combattere le mode indecenti, non pur in se medesime, ma anche in tutte quelle persone o famiglie, alle quali, può giungere efficace l’opera loro. Sarebbe superfluo il dire che la buona madre non deve mai permettere alle figlie di cedere alle false esigenze di una moda non perfettamente castigata; ma non sarà superfluo l’aggiungere che ogni dama, quanto più elevato è il posto da essa occupato, ha tanto più stretto il dovere di non tollerare che chi si rechi a visitarla osi offendere la modestia con indecente foggia di vestire» [4].
In effetti nel ‘27 si ebbe la prima grande campagna nazionale contro la moda ‘immodesta’ o ‘indecente’. Fu emanato un Appello alle donne d’Italia per la moralizzazione della moda femminile, il cui primo firmatario era il vescovo scaligero, monsignor Cardinale; fu quindi creato, un comitato e un apposito organo di stampa a Verona, diretto da Amedeo Balzaro che, col titolo “Le donne italiane” (successivamente “Le forze italiane”), doveva essere lo strumento fondamentale per coinvolgere l’opinione pubblica. A queste iniziative centrali dovevano affiancarsi le singole strutture dell’Azione cattolica, recuperando anche il lavoro che le sezioni dell’Opera Protezione della Giovane aveva avviato da tempo. Il Comitato nazionale per la correttezza della moda e il suo organo veronese promossero una grande raccolta di firme. Due erano i livelli d’intervento proposti dall’Azione Cattolica: un livello d’intervento rapido ed efficace, cioè di denuncia, censura, proibizione con atteggiamento di ‘intransigenza assoluta’; e un livello di penetrazione, teso cioè ad arrivare anche alle donne più estranee agli ideali cattolici e quindi con relativa maggiore tolleranza per ‘attirare a Gesù Cristo’.
La lotta alla moda immodesta doveva essere pensata in modo organico, secondo le indicazioni della Sacra Congregazione del Concilio che anche Coda Nunziante riporta:
«Le monache, in conformità con la Lettera del 23 agosto 1928 della Sacra Congregazione dei Religiosi, non devono ricevere nei loro collegi, scuole, oratori o campi di ricreazione, o, se ammesse, tollerare ragazze che non siano vestite con cristiana modestia. Le monache, inoltre, dovrebbero fare del loro meglio affinché l’amore per la santa castità e la modestia cristiana possano radicarsi profondamente nel cuore delle loro allieve.
- È auspicabile che siano fondate organizzazioni di pie donne, che con il loro consiglio, esempio e propaganda, combattano l’uso di indumenti inadatti alla modestia cristiana e promuovere la purezza dei costumi e la modestia nel vestito.
- Nelle pie associazioni di donne coloro che vestono immodestamente non dovrebbero esservi ammesse all’appartenenza; ma se, per fortuna, sono ricevute, e dopo essere state ammesse, ricadono nel loro errore, dovrebbero essere immediatamente respinte.
- Le fanciulle e le donne vestite in modo immodesto devono essere escluse dalla Santa Comunione e dall’essere garanti dei Sacramenti del Battesimo e della Cresima; (…)» [5].
In una prospettiva di lungo respiro, poi, si trattava di favorire l’incontro tra sarte e ‘signore pie’, sorvegliando tutte le riviste di area; ancora, di promuovere il buon gusto tra le socie dell’Unione Donne Cattoliche, sapendo comunque che l’azione più incisiva era quella sulle madri. Anche i bambini dovevano essere adeguatamente vestiti, e le madri ne dovevano avere diretta responsabilità, come chiarisce Pio XII: «o madri cristiane, se sapeste quale avvenire d’interni affanni e pericoli, di mal compresi dubbi e mal contenuti rossori voi preparate ai vostri figli e alle vostre figlie con l’imprudenza di avvezzarli a vivere appena coperti, facendo loro smarrire il senso ingenuo della modestia, arrossireste di voi medesime, e paventereste l’onta che fate a voi stesse e il danno che cagionate ai figli affidativi dal cielo a crescerli cristianamente» [6].
Negli anni della presa del potere da parte del fascismo, davanti alla violenza politica che insanguinava il Paese, alcuni settori del mondo cattolico avevano individuato addirittura un nesso tra degenerazione della moda femminile e lotta politica: «Perché lo svestirsi della donna è indice di corruttela di costumi, di guasto profondo della società e l’uccidere degli uomini è frutto di tale guasto. Lo svestire delle donne spegne nell’uomo ogni luce d’ideale e vi lascia dominar la passione cupida e torva e l’uccidere dell’uomo è l’effetto dello spegnersi di quella luce, del divampare di quelle passioni» [7].
La battaglia poteva trovare vari terreni di convergenza con alcune scelte avviate nel frattempo dal fascismo. Poco dopo la marcia su Roma, il governo Mussolini cominciò ad approvare una serie di provvedimenti che andavano proprio nella direzione di salvaguardia della «pubblica moralità» in questa accezione: fu attuata una politica di repressione dei giochi d’azzardo, dell’alcolismo, della “pornografia” e di vigilanza sui locali pubblici «per la saldezza fisica e morale delle giovani generazioni». Più tardi il ministro degli Interni Federzoni introdusse forme di controllo sulle sale da ballo, sui costumi da bagno, divieti ai concorsi di bellezza. Decine di podestà aderirono alla ‘lotta antimodista’ già nel ‘27, rimproverando di esterofilia le donne delle classi agiate; il regime affidava poi a Elisa Majer Rizzioli – la nazionalista ex ispettrice generale dei Fasci femminili – la direzione del Consorzio femminile italiano per la valorizzazione dei prodotti nazionali, per poi creare nel ‘33 l’Ente Nazionale della Moda.
Emblematica è poi la tesi sostenuta dall’ormai noto Amedeo Balzaro, direttore del periodico sorto appositamente per la battaglia alla moda indecente. Egli sottolineava esplicitamente il presunto nesso tra abbigliamento immorale e sviluppo demografico: «è impossibile che le Mode presenti non influiscano a rendere più rare le nozze. Del corpo femminile la maggior parte è esposta al pubblico: che cosa resta di proprietà del povero marito? Ora ciò che è in vista di tutti, tutti i momenti, perde il pregio, non alimenta il desiderio, né l’ammirazione» [8]. E, ancora più chiaramente, nel gennaio del ‘29 “Le donne italiane” titolava a tutta pagina una serie di notizie con la sintesi: «La soluzione del problema demografico è ostacolata dalla Moda scorretta» [9].
Che ci sia un nesso tra i due aspetti sembra peraltro sostenerlo anche la Congregazione del Concilio nel ‘54, quando afferma che la degenerazione della moda riguarda non solo l’aspetto morale della vita, ma anche quello fisico. Ecco il testo riportato nella parte antologica del volume di Coda Nunziante: «Si tratta, è chiaro, di una cosa gravissima, che tocca non solo la virtù cristiana, ma anche la salute del corpo ed il vigore dello sviluppo della società umana. Un antico poeta ha potuto giustamente affermare: “la nudità dei corpi praticata fra i cittadini è principio di dissolutezza” (Ennius, Su Cicerone, Tusc. IV, 33); perciò, come si può constatare facilmente, ciò non interessa solo la Chiesa, ma anche coloro che hanno l’incarico del potere civile, poiché devono cercare di allontanare ciò che può indebolire e spezzare le forze del corpo e gli slanci della virtù»[10].
Anche durante la Seconda guerra mondiale continuò l’impegno dell’Azione cattolica su questo terreno, perché la guerra è sempre sinonimo di repentine trasformazioni, e più tardi lo sarà anche di ‘americanizzazione’ dei costumi. Così nel ‘40 Pio XII indicava alla Gioventù femminile soprattutto l’attribuito mariano della verginità: «Possa questa Vergine delle Vergini, Maria, Regina del SS.mo Rosario, essere il vostro modello e la vostra forza, in tutta la vostra vita di giovani cattoliche, e specialmente nella vostra Crociata della purezza!» [11].
Dalla fine della nuova guerra mondiale la preoccupazione continuò a rinnovarsi, con fasi di maggiore accentuazione in prossimità delle scadenze politiche, fino agli anni ‘60, quando la trasformazione della moda diventerà travolgente. Sempre presente nell’agenda dell’Unione femminile cattolica, ancora nel 1955 il tema sarà – ad esempio – al centro di lettere pastorali dei vescovi. Tuttavia l’influenza crescente delle strutture della società di massa rese via via più articolata l’analisi dei fenomeni. Ed ecco Pio XII, verso la fine del pontificato, che sembrava ampliare lo sguardo alla complessità del presente, in cui all’evoluzione produttiva si affiancava la diversificazione di classe dei consumi:
«(…) l’estrema instabilità della presente moda è soprattutto determinata dalla volontà dei suoi artefici e guide, che hanno dalla loro parte mezzi sconosciuti nel passato, come l’enorme e svariata produzione tessile, la fertilità inventiva dei “modellisti”, la facilità dei mezzi di informazione e di “lancio” nella stampa, nel cinema, nella televisione e nelle mostre e “sfilate”. La rapidità dei mutamenti è inoltre favorita da una specie di muta gara, in verità, non nuova, tra le “élites”, desiderose di affermare la propria personalità con forme originali di abbigliamento, e il pubblico, che immediatamente se le appropria, con imitazioni più o meno felici. Né deve trascurarsi l’altro sottile e decadente motivo: lo studio dei “modellisti” che, per assicurare successo alle loro “creazioni”, puntano sul fattore della seduzione, consapevoli dell’effetto che provocano la sorpresa e il capriccio continuamente rinnovati» [12].
Un altro grande ‘ostacolo’ era rappresentato dall’uso dei calzoni, che tanto ricordava la polemica di mezzo secolo prima contro la moda ‘alla maschietta’. E in effetti il cardinal Siri, arcivescovo di Genova e cardinale, noto per le sue posizioni conservatrici, ancora nel 1960 sosteneva che se, da una parte, l’uso femminile dei calzoni – data l’attillatura dei vestiti – non poteva più costituire un grave torto alla modestia, l’aspetto a suo avviso più grave era costituito da altri elementi. In generale gli abiti maschili usati dalle donne comportavano aspetti di natura psicologica e morale che erano forieri di disordine nei rapporti tra i sessi e tra le generazioni:
«L’abito maschile usato dalla donna: – altera la psicologia propria della donna; – tende a viziare i rapporti tra la donna e l’altro sesso; – è facilmente lesivo della dignità materna davanti ai figli» [13].
Nel frattempo drasticamente e in modo repentino il boom economico stava sconvolgendo la vita e l’immaginario collettivo degli italiani, mentre modelli di comportamento legati al consumismo invadevano i media. Eravamo ormai alle soglie della nota ‘invenzione’ di Mary Quant.
Ed è davvero singolare che la città e la diocesi di Verona, che negli anni ‘20 avevano acquisito una sorta di primato nazionale nella lotta alla ‘moda indecente’, siano ridiventate un po’ il centro di questi dibattiti anche negli anni ‘60 grazie al ‘fenomeno Cinquetti’. Com’è noto, la veronese Gigliola Cinquetti, vestita con un morigerato abito verde erba, vinse il Festival di Sanremo nel 1964, bissando poi a Copenaghen il primo posto al “Premio Eurovisione della Canzone”, grazie alla famosa Non ho l’età (il lato B del disco presentava la canzone Sei un bravo ragazzo [14]). Nella moda seguita e negli atteggiamenti mostrati, così come nello stesso stile e testi musicali, Cinquetti sembrava proprio la ragazza acqua e sapone, in linea con la battaglia per la purezza, che il mondo cattolico continuava ad auspicare. Tantissimi furono i fans, uomini e donne, di Azione cattolica che in lei intendevano constatare come in Italia ancora si apprezzassero ‘il modesto, il moderato’: «Ammiriamo soprattutto, gentile signorina, la sua modestia nell’abbigliamento e negli atteggiamenti» [15]. E non mancava chi prevedeva per lei – che non a caso era definita ‘colomba di Verona’– ogni bene e felicità nel matrimonio e nella vita, al contrario di sue colleghe ‘scatenate’ come Mina o Rita Pavone.
Quando poi, dopo qualche tempo, la stessa Cinquetti apparirà in pubblico osando indossare un abbigliamento più moderno, prontissima si ebbe la reazione degli ex-osannanti osservatori. Come Maria Luisa di Bologna, che nel 1967 le scriveva: «Ti sei creata una personalità di ragazza gentile, saggia, fine e che nel vestire usi un metodo sobrio, modesto, ma però tanto elegante e veramente fine; perché quando di fronte a noi sei apparsa l’altra sera a presentare la tua nuova canzone la ‹Rosa nera› in minigonna, non ci sei veramente piaciuta e io sono rimasta veramente mortificata; ricordati Gigliola, io sarò una Matusa, però noi ti vogliamo veramente tutti bene ed io per prima dico che a mia figlia permetterei andare al mare in costume – alludo ai due pezzi – ma in minigonna mai perché è uno sconcio» [16].
Non si può non riconoscere che le successive trasformazioni degli stili di vita hanno facilmente mostrato quanto travolgenti fossero quei processi in corso e quanto poco utili fossero quei criteri di valutazione, anche e soprattutto nei confronti della moda. Ecco perché, quando Virginia Coda Nunziante afferma – nel suo volume – che quella formidabile arma che è la moda esige di essere combattuta, quando minaccia di stravolgere non solo i principi della morale cattolica, ma gli stessi valori fondanti della cultura occidentale, siamo portate a pensare che servano altri piani di analisi per offrire una lettura non ideologica del fenomeno.
Dialoghi Mediterranei, n. 63, settembre 2023
Note
[1]https://www.vogue.it/news/article/minigonna-nascita-leggenda-anni-60-podcast#:~:text=%22N%C3%A9%20io%20n%C3%A9%20Courreg%C3%A8s%20l,tra%20lei%20e%20Andr%C3%A9%20Courreg%C3%A8s.
[2] Benedetto XV, Enciclica Sacra Propediem del 6 gennaio 1921, in V. Coda Nunziante, La moda cristiana nell’insegnamento della Chiesa, Edizioni Fiducia, Roma 2022: 54-55.
[3] E. Da Persico, Moda e carattere femminile, Libreria del S. Cuore, Torino 1916: 6-7.
[4] Benedetto XV, Allocuzione alle Dirigenti dell’Unione Femminile Cattolica Italiana del 22 ottobre 1919, in V. Coda Nunziante, La moda cristiana nell’insegnamento della Chiesa, cit.: 50.
[5] Lettera della Congregazione del Concilio del 12 gennaio 1930, in V. Coda Nunziante, La moda cristiana nell’insegnamento della Chiesa, cit.: 61-62.
[6] Pio XII, Discorso alla gioventù Femminile di Azione Cattolica del 22 maggio 1941, in V. Coda Nunziante, La moda cristiana nell’insegnamento della Chiesa, cit: 76.
[7] I nostri commenti, “Azione muliebre”, maggio 1925.
[8] La terza guerra d’Italia. Lettera aperta del cav. A. Balzaro, “Azione Muliebre”, febbraio 1928.
[9] La soluzione del problema demografico è ostacolata dalla Moda scorretta, “Le donne italiane”, 31 gennaio 1929.
[10] I pericoli della moda immorale. Lettera della Sacra Congregazione del Concilio ai Vescovi del mondo intero del 15 agosto 1954, in V. Coda Nunziante, La moda cristiana nell’insegnamento della Chiesa, cit,: 80.
[11] Pio XII, Discorso alla Gioventù Femminile di Azione Cattolica del 6 ottobre 1940, in V. Coda Nunziante, La moda cristiana nell’insegnamento della Chiesa, cit.: 67.
[12] Pio XII, Discorso ai partecipanti al I Congresso Internazionale di Alta Moda del 8 novembre 1957, V. Coda Nunziante, La moda cristiana nell’insegnamento della Chiesa, cit.: 91.
[13] Lettera del Card. Giuseppe Siri ai responsabili della educazione e della vita associativa cattolica a proposito del costume maschile della donna del 12 giugno 1960, in V. Coda Nunziante, La moda cristiana nell’insegnamento della Chiesa, cit: 108.
[14] https://lyricstranslate.com/it/sei-un-bravo-ragazzo-you-are-good-boy.html
[15] Museo Storico in Trento, Archivio Gigliola Cinquetti, M.D., Salva (SA), 5 settembre 1964, b. 232.
[16] Museo Storico in Trento, Archivio Gigliola Cinquetti, M. L. R., Bologna 8 maggio 1967, b. 92.
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Liviana Gazzetta, Dottore di ricerca in storia sociale europea presso l’Università Cà Foscari di Venezia, è docente nelle scuole secondarie superiori. Socia della Società italiana delle storiche, studia la storia dei movimenti femminili in età contemporanea, anche di matrice religiosa; tra le sue ultime pubblicazioni i saggi Orizzonti nuovi. Storia del primo femminismo in Italia (1865-1925), Roma 2018 e Virgo et sacerdos. Idee di sacerdozio femminile tra ‘800 e ‘900, Roma 2020. A Padova è direttrice della delegazione locale dell’Istituto per la storia del Risorgimento.
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