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Passato, presente e futuro nell’esperienza dei migranti

civerdi Dario Inglese 

L’incontro con l’alterità ha inevitabilmente a che fare con il tempo. È, questa, un’affermazione insieme banale e controintuitiva: “banale” perché è evidente che il rapporto con l’altro sia sempre storico e accada, dunque, in tempi e momenti determinati; “controintuitiva” perché, quando ci posizioniamo fuori dal recinto dell’indagine storiografica, la relazione interculturale implica l’idea del movimento nello spazio e dell’attraversamento di confini fisici.

Se ci riflettiamo con attenzione, però, notiamo subito come la dimensione temporale abbia un peso determinante quando ci si approccia alla diversità culturale: ad incontrarsi (o scontrarsi) sono anche temporalità differenti, ovvero le idee sulla natura del tempo attraverso le quali ogni società definisce sé stessa rispetto alle altre.La sfera del tempo, infatti, plasmando quotidianamente l’esperienza degli esseri umani, è un elemento fondamentale in qualunque costruzione sociale: uno dei mattoncini dell’incessante lavoro di rappresentazione di sé e del mondo.

Soffermiamoci brevemente, ad esempio, sui modi in cui la modernità occidentale ha cercato di conoscere i popoli con cui è entrata progressivamente in contatto; modi in cui, come ben evidenziato da Michel Foucault, “volontà di sapere” e “volontà di potere” si sono irrimediabilmente intrecciate. Quando l’espansione politico-militare europea ha gettato le basi per lo sviluppo di una disciplina scientifica dell’alterità – l’antropologia culturale – uno dei primi quadri teorici approntati per inquadrare la diversità è stato quello dell’evoluzionismo: le culture altre, paragonate arbitrariamente all’Inghilterra vittoriana (scelta altrettanto arbitrariamente come apice dell’Occidente), non erano soltanto distanti nello spazio ma venivano altresì posizionate in stadi temporali più arretrati rispetto al corso della Storia di cui l’Europa si considerava orgogliosa avanguardia.

Anche dopo la crisi dell’evoluzionismo e la fioritura di indirizzi disciplinari meno interessati all’indagine diacronica (funzionalismo e strutturalismo) o comunque più sensibili alla sfera del significato sociale e simbolico (antropologia interpretativa e postmoderna), lo sguardo sull’alterità è rimasto sostanzialmente, spesso inconsapevolmente (giacché una sorta di neutralità epistemologica ha avvolto il “problema-tempo”), asincrono: per quanto non più “primitivi”, collocati cioè nei gradini più bassi della scala evolutiva, nelle rappresentazioni occidentali veicolate dalla scrittura etnografica gli altri hanno continuato ad abitare “bolle temporali” tutte loro. Si prenda, giusto per fare un esempio, il caso degli odierni gruppi di cacciatori-raccoglitori: sebbene oggi nessun ricercatore serio li considererebbe “arretrati” o “selvaggi”, risulta ancora difficile resistere alla tentazione di servirsi di questi popoli per immaginare e ricostruire l’infanzia di Homo sapiens sulla terra (Graeber, Wengrow 2022).

lalba_di_tutto1L’uso e l’abuso del “presente etnografico” nelle descrizioni antropologiche, la tendenza a gonfiare le differenze per far provare ai lettori il brivido dello shock culturale sperimentato dai ricercatori sul campo, la volontà di presentare oggettivamente universi simbolici lontani da quelli europei hanno allora contribuito a produrre una distorsione allocronica in cui l’alterità è stata (e continua in fondo ad essere) posta in un tempo altro rispetto al presente di chi produce il discorso antropologico (Fabian 2021). Un atteggiamento, quest’ultimo, che ha avuto parecchi punti di convergenza con il discorso politico-amministrativo e il suo “mito sviluppista” e che è stato fatto proprio anche dal marketing quando solletica nostalgie primitiviste negli stressati cittadini euro-americani in cerca di relax: negli altrove esotici il tempo scorre lento, i ritmi sono rilassati e più in linea con i dettami naturali dai quali i moderni urbanizzati – soggetti civili per eccellenza – si sono irrimediabilmente allontanati.

Ovviamente per comodità mi sono soffermato su un certo sguardo occidentale, ma è evidente come ogni cultura produca peculiari concezioni del tempo per dare forma al proprio sé sociale e al mondo circostante. E come tali temporalità entrino in gioco nel corso della relazione interculturale: per conoscere l’altro, per rappresentarlo, per controllarlo. Il tempo, pertanto, è un concetto decisivo per l’analisi antropologica della contemporaneità e la recente fioritura di studi in merito ne rivela un’importanza direttamente proporzionale all’epoca di incertezza (sociale, climatico-ambientale, politico-economica) che stiamo sperimentando a livello globale.

Fotografia di © Enrico Fravega

Fotografia di © Enrico Fravega

Un volume edito da Meltemi, La lotta per il tempo. Temporalità contestate nell’esperienza dei richiedenti asilo in Italia (2023), ha recentemente affrontato la questione soffermandosi sulle politiche migratorie implementate nel nostro Paese. Partita come un’indagine sull’abitare e il «fare casa» dei richiedenti asilo in contesti collettivi, appartamenti e spazi occupati, la ricerca etnografica condotta da Enrico Fravega, Daniela Giudici e Paolo Boccagni nell’ambito del progetto HOASI (Home and Asylum Seekers in Italy) ha visto progressivamente spostare il suo focus verso lo studio delle temporalità che emergono nel confronto tra migranti e Paese accogliente. Come ammesso dagli stessi autori nell’efficace conclusione, «cercavamo la casa e le pratiche di home-making: abbiamo trovato il tempo». Da una parte, infatti, l’abitare come pratica di conoscenza del mondo e appaesamento nel mondo si dimostra «un processo spaziale intriso dalle temporalità»; dall’altra, e in senso molto più ampio, la migrazione smette di essere un evento puntuale che impatta solo sulla geografia: 

«La migrazione […] non si compie nel mero attraversamento di uno o più confini. Piuttosto, essa prende forma nel prolungarsi del tempo e nello sviluppo dei percorsi biografici, oltre ad avere un profondo impatto sulle percezioni e sulle esperienze dello scorrere temporale […]. La migrazione è infatti caratterizzata da una dimensione processuale che si articola attraverso fasi e segmenti temporali molteplici e asincroni». 

Da questo punto di vista, il fenomeno migratorio (in tutte le fasi che lo scandiscono: decisione di espatriare, preparazione alla partenza, viaggio, approdo, accoglienza, post-accoglienza) assume i tratti di una vera e propria “lotta per il tempo” – espressione che, non a caso, dà il titolo al volume. Una formula che nelle intenzioni dei tre autori non vuole rinviare tanto a proteste o rivendicazioni strutturate messe eventualmente in atto dai richiedenti asilo per reclamare diritti e affermare la propria soggettività, quanto alla densità dell’incontro/scontro tra le concezioni del tempo che plasmano l’esistenza dei migranti nelle strutture di accoglienza e l’attività dei rappresentanti istituzionali italiani che operano sul campo.

Fotografia di © Enrico Fravega

Fotografia di © Enrico Fravega

Nella relazione di accoglienza, infatti, si confrontano progettualità e finalità differenti, spesso radicalmente differenti: quelle di chi lascia la terra d’origine per fuggire povertà e violenza o semplicemente, ma non meno legittimamente, per allargare il proprio orizzonte di possibilità; quelle di chi è preposto alla ricezione dei nuovi arrivati, diviso tra l’adesione formale al discorso istituzionale-burocratico e la concreta implementazione di pratiche che, traslate sul terreno, si caricano inevitabilmente della volubilità (empatie, idiosincrasie) dei rapporti interpersonali.

Il tempo, argomentano gli autori nell’Introduzione, non è mai uguale per tutti: al “tempo istituzionale”, quello dei rituali dell’accoglienza e dei relativi protocolli, si affiancano il “tempo desiderato” e il “tempo vissuto” dai soggetti migranti. Tale confronto si configura come una continua negoziazione per il “controllo del tempo” che mette in gioco modelli culturali e comportamenti individuali, i quali, a loro volta, si traducono in “strategie” organizzate o più lasche “tattiche” informali (de Certeau 1990). Il tempo del sistema di accoglienza, da questo punto di vista, emerge dall’interazione tra progetti differenti e produce uno scombussolamento categoriale (tanto nei migranti, quanto nella società d’approdo) che lo sguardo etnografico dal basso è particolarmente adatto a cogliere.

Fotografia di © Enrico Fravega

Fotografia di © Enrico Fravega

All’interno dello spazio-tempo della migrazione passato, presente e futuro si rivelano per quello che sempre sono (sebbene si faccia finta di non saperlo): finzioni, costruzioni. Categorie che non hanno natura oggettiva e universale, ma che sono il risultato della dialettica tra particolari visioni del mondo all’interno di una situazione contingente e in perenne divenire. Precarietà e opacità sono, al di là della retorica ufficiale, i tratti caratteristici dell’accoglienza italiana: a partire da questi aspetti, sostengono gli ideatori del volume, prende forma tanto la scansione temporale dei migranti che percorrono l’iter per l’ottenimento della protezione internazionale, quanto la cronologia burocratica che produce, anche quando formalmente le integra, soggettività segregate rispetto al corpo nazionale. Passato, presente e futuro, allora, perdono quell’aura di concretezza che rivestono nel senso comune e si strutturano incessantemente a partire dal qui e ora dell’accoglienza in una costante disputa tra le agencies migranti e il paese ricevente.

Il passato vive (e rivive) nelle esperienze pregresse dei migranti, ma prende effettivamente forma nella produzione di buoni racconti: vie di accesso privilegiate alle storie di vita dei richiedenti asilo in vista dell’inserimento nella società ospite. Si tratta di un processo in cui l’esercizio della memoria, lungi dall’essere un atto privato che va soltanto portato alla luce pubblica, emerge come una costruzione intersoggettiva: una co-costruzione in cui il passato traumatico dei migranti, per essere davvero efficace, deve essere adeguato, con l’aiuto di figure ad hoc, alle coordinate retorico-formali della cultura narrativa e giurisprudenziale italiana.

Il presente, da parte sua, si configura come una dimensione totalizzante che tende a protrarsi indefinitamente: esso permea la quotidianità dei richiedenti asilo chiudendoli in una bolla di cui si fatica a scorgere la fine. Il dispositivo dell’accoglienza, infatti, è contraddistinto da tempi dilatati, sovente incomprensibili e schizofrenici, che impattano anche sulla fruizione degli angusti spazi abitativi e lavorativi: attese infinite, brusche accelerazioni, improvvisi rallentamenti; soste prolungate, spostamenti affrettati. Scansioni orarie pianificate dall’alto e fruizione controllata degli spazi che spesso generano la sensazione di “perdere tempo” e da cui spesso si cerca di uscire proprio tirandosi fuori dal soffocante abbraccio istituzionale per entrare nell’informalità/illegalità.

Il futuro, infine, assume le sembianze di una chimera che sembra allontanarsi quanto più si pensa di avvicinarvisi: un orizzonte grottesco in cui la “capacità di aspirare” (Appadurai 2014) degli asilanti deve fare necessariamente i conti con la precarietà strutturale e le mille restrizioni che disciplinano lo spazio-tempo dell’accoglienza.

Fotografia di © Enrico Fravega

Fotografia di © Enrico Fravega

Il volume di Fravega, Giudici e Boccagni sviluppa questi aspetti in cinque capitoli (più un’Introduzione e delle Conclusioni) che mettono in evidenza le contraddizioni della politica migratoria italiana e i diversi timescapes in essa prodotti. I tempi della vita quotidiana, affermano gli autori, «si rivelano un campo di battaglia in cui le esigenze di controllo sociale e amministrativo degli enti gestori si scontrano e sovrappongono con le esigenze di auto-organizzazione delle persone accolte».

Dopo un inquadramento teorico sui contributi socio-antropologici allo studio del tempo (Capitolo primo), l’approccio etnografico da essi adottato indaga lo iato tra la ricerca di indipendenza dei richiedenti asilo e la sostanziale “infantilizzazione” cui l’azione di cura/controllo istituzionale invece li confina (Capitolo secondo); lo scarto tra “tempo narrato”, “tempo taciuto” e “tempo vissuto” e il loro reciproco influenzarsi (Capitolo terzo); l’ambiguità di un “tempo presente-assente” di cui si fatica a scorgere il senso, tanto nella percezione dei migranti quanto in quella di molti operatori sociali (Capitolo quarto); la faticosa ricerca di orizzonti di possibilità nel “tempo sospeso” dell’accoglienza (Capitolo quinto). Evidenzia, soprattutto, come la scarsa attenzione alla dimensione temporale propria del discorso politico-amministrativo sia sostanzialmente responsabile della marginalità cui i migranti vanno incontro dopo l’approdo: durante il tortuoso iter di riconoscimento della protezione internazionale in qualità di “vittime” (da curare e controllare) prive della libertà di pianificare autonomamente il proprio avvenire e, per i più fortunati, nel passaggio dall’identità di richiedenti asilo a quella di “perturbanti” immigrati regolari che devono inserirsi, adesso sì in piena autonomia e senza alcuna assistenza, nel tessuto socio-economico nazionale.

augeIl vero merito del testo, tuttavia, riposa altrove: nel riconoscimento che «il tempo della migrazione non è limitato a quello del viaggio, o al semplice attraversamento di una linea di frontiera. Esso si estende ben oltre, ibridandosi con quello dell’accoglienza e del radicamento» I contributi dei curatori, infatti, fuggono logiche binarie e schematiche letture culturaliste (ennesima riproposizione dello schema Noi Vs Loro) per riconoscere, al contrario, come le visioni dello spazio-tempo che entrano in relazione nella macchina dell’accoglienza finiscano comunque con il produrre emergenze temporali nuove e spazi di agibilità inediti. Da questo punto di vista, stando attento ad evitare le trappole cognitive di certo wishful thinking quando si evidenzia l’emersione di margini di autonomia all’interno di oggettivi sistemi di coercizione, attraverso l’analisi delle pratiche, dei comportamenti e delle parole di migranti e operatori (volontari, psicologi, assistenti sociali), il volume coglie bene il rimescolamento delle categorie temporali proprio di questa fase della contemporaneità.

Se la modernità ci ha abituato a separare nettamente passato, presente e futuro, il mondo odierno, con le sue catastrofi e le sue crisi, ci chiede invece di riconsiderare questi concetti. Pensare il tempo – ha scritto non a caso Marc Augé – rappresenta oggi una sfida e una necessità: 

«Una sfida, perché ogni cosa ci suggerisce o vuole farci credere che viviamo in un sistema che si colloca definitivamente al di fuori della storia. Una necessità, perché il tema della fine della storia che nega la speranza ai tanti esclusi del sistema globale oggi esistente, è portatore di tutte le violenze» (Augé 2020: 63). 

La lotta per il tempo di Fravega, Giudici e Boccagni intercetta allora un filone di indagine, già particolarmente vivace fuori dai confini italiani, sempre più decisivo per la comprensione degli scenari prossimi venturi. Ci spinge a rivedere il nostro rapporto con l’alterità e, soprattutto, a far luce sugli ingranaggi più nascosti della nostra società. Un compito, questo, che non possiamo più permetterci di rimandare. 

Dialoghi Mediterranei, n. 63, settembre 2023 
Riferimenti bibliografici 
Appadurai A. 2014, Il futuro come fatto culturale. Saggi sulla condizione globale, Raffaello Cortina Editore, Milano. 
Augé M. 2020, Che fine ha fatto il futuro?, Eleuthera, Milano. 
Certeau, M. de. 1990, L’invenzione del quotidiano, Edizioni Lavoro, Roma. 
Fabian J. 2021, Il tempo e gli altri, Meltemi, Milano. 
Fravega E., Giudici D., Boccagni P. 2023, La lotta per il tempo. Temporalità contestate nell’esperienza dei richiedenti asilo in Italia, Meltemi, Milano. 
Graeber D., Wengrow D. 2022, L’alba di tutto. Una nuova storia dell’umanità, Rizzoli, Milano.

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Dario Inglese, ha conseguito la laurea triennale in Beni Demo-etnoantropologici presso l’Università degli Studi di Palermo e la laurea magistrale in Scienze Antropologiche ed Etnologiche presso l’Università degli Studi di Milano Bicocca. Si è occupato di folklore siciliano, cultura materiale e cicli festivi. A Milano, dove insegna in un istituto superiore, si è interessato di antropologia delle migrazioni e ha discusso una tesi sull’esperimento di etnografia bellica Human Terrain System.

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