di Silvia Di Meo
Sotto il pelo delle acque mediterranee di Kerkennah o Mahdia, nella camera mortuaria dell’ospedale Habib Bourguiba di Sfax, nel deserto di Ras Agedir oltre il check point di Ben Gardane che separa la Tunisia dalla Libia, nella terra polverosa del cimitero di Lajmi a Sfax, giacciono, senza riposo, diverse migliaia di corpi di persone senza nome, sconosciute. Una necrogeografia – che articola le sparizioni forzate del bacino centrale – dove “sconosciuti” diventano tali perché etichettati come “stranieri”: i “neri”, i “migranti”, i “diversi” che popolano, vivono e lavorano gli spazi di passaggio, di arrivo, di partenza ma soprattutto di controllo della Tunisia. Così, “stranieri” e “sconosciuti”, diventa un binomio inscindibile su cui si articolano le politiche e le geografie di morte delle frontiere.
Le persone migranti decedute sono seppellite come “sconosciute” dopo un percorso impervio dal Paese di origine lungo la rotta migratoria mediterranea, dove le politiche di non accoglienza dell’Unione Europea hanno esternalizzato le proprie frontiere provocando la morte violenta di chi le attraversa. Queste frontiere trovano ragion d’essere non solo nella negazione della vita, ma anche nella rimozione della morte, delle storie e della Storia; queste frontiere rendono estranei e stranieri ad un luogo le persone non riconosciute come aventi diritto di esistere; rendono ostili gli spazi marginali impedendo il riconoscimento di un nome o di un’identità poiché spogliano la vita degli “altri” di tutto il suo valore.
In uno scenario simile, la Tunisia è diventata nel corso degli ultimi anni, principale attore nell’implementazione di queste politiche, nonché principale area geografica dove corpi di persone straniere, poi rese sconosciute, hanno attraversato, vissuto e combattuto i meccanismi frontalieri di razzializzazione che svalutano le loro esistenze.
La terra maghrebina a sud del Mediterraneo è stata progressivamente trasformata in una zona di sicurezza migratoria dove le persone sono respinte dentro specifiche categorie svalutanti: gli infetti e gli untori durante l’epoca pandemica, i responsabili di una “sostituzione etnica”, gli oppositori della tradizione culturale e religiosa locale, sono tante le definizioni criminalizzanti che li colpiscono da più parti: privati in terra del diritto d’asilo e dei diritti fondamentali, deportati alle frontiere libiche e algerine e lasciati morire nel deserto; perseguitati in mare, uccisi o lasciati morire.
Tunisia, inferno nascosto
Per molto tempo, gli studi sulla violenza migratoria hanno distinto il genocidio, inteso come uccisione cosciente e attiva, dalla morte in migrazione, intesa come passiva accettazione della perdita di vite umane nell’impegno di salvaguardare i confini. Tuttavia è importante dimostrare come questa distinzione tra genocidio e gestione della migrazione mediterranea è ormai sempre meno netta: sulla passività delle autorità che lasciano morire i naufraghi attraverso omissioni di soccorso o ritardi nell’avvio di procedure di salvataggio, si innescano responsabilità attive – tangibili, visibili e documentate – nel causare direttamente e coscientemente le morti. Il mare tunisino, in particolare, è oggi scenario di questo consapevole e attivo meccanismo di attentato alla vita e di naturalizzazione della morte.
A partire da luglio 2021 [1] ho incontrato in Tunisia diverse persone di origine subsahariana sopravvissute a naufragi “provocati” dalle autorità intervenute nelle acque di Sfax. Il 10 luglio di quell’anno, la Guardia Costiera tunisina aveva fermato una barca di circa 40 persone subsahariane, mettendole in pericolo:
Uno degli uomini della Guardia costiera tunisina è montato sulla barca e ci ha chiesto dove andavamo, noi abbiamo risposto che andavamo in Italia, lui ha risposto che nessuna andava in Italia ma che saremmo morti lì (…) ci ha detto che avrebbe controllato la barca per capire se era a posto e lasciarci andare, è andato sull’altra barca e ci ha chiesto di cosa avevamo bisogno, noi abbiamo risposto acqua, sulla loro barca c’era altra acqua, ci hanno ripetuto che saremmo morti lì, noi abbiamo pensato che volessero dei soldi, qualcuno di noi ha controllato per dare soldi, ma loro non volevano soldi ma ci hanno ripetuto che saremmo morti lì. Hanno lanciato l’ancora dentro la nostra barca, bucandola, e l’acqua è cominciata a entrare, la gente ha cominciato a urlare, quelli del lato destra sono saltati verso l’altra barca, la nostra si è rovesciata (Majolie, migrante camerunense, 2021).
“Ci hanno detto che saremmo morti lì”. Majolie e gli altri sopravvissuti ripeterono più volte queste parole durante il lungo racconto. Un atto verbale e materiale di violenza che nei mesi successivi continuai a registrare nelle testimonianze di altri fatti analoghi. Infatti, nel corso del 2021, 2022 e 2023, le intercettazioni in mare ad opera delle autorità tunisine sono cresciute esponenzialmente e – parallelamente – i casi di naufragi provocati [2]. Speronamenti, uso di armi o bastoni, furto di motori accompagnano la promessa di morte dei militari che intercettano le barche delle persone subsahariane in mare [3]: “Non c’è Italia per voi, morirete qui”; “il vostro viaggio si ferma qui”; “non toccherete terra” sono le frasi che vengono pronunciate prima o durante le aggressioni.
Anche i respingimenti via terra dalla Tunisia verso la Libia – che dal 2019 sono diventate pratiche ricorrenti – vengono praticati con le stesse intenzionalità. Kone, una sopravvissuta a uno di questi episodi, mi raccontò nel 2021 quello che lei aveva vissuto con la sua famiglia nel limbo libico:
Era notte e ci hanno lasciato in mezzo al deserto. Eravamo circa 50/60 persone, davanti ai pullman c’era la polizia tunisina, sia davanti che dietro. Nel deserto ci hanno ordinato di andare verso la Libia, hanno cominciato a picchiare tutti e ci hanno detto che non avremmo più rivisto nessuno, che sarebbe finita lì (Koné, migrante ivoriana, 2021).
Le autorità tunisine da diversi anni sono solite attuare pratiche di respingimento alla frontiera libica, abbandonando nel deserto uomini, donne e bambini senza alcuna assistenza, minacciandoli con le armi di recarsi in Libia, aggredendoli e colpendoli fisicamente. Il caso del respingimento di centinaia di persone subsahariane nel luglio 2023 – prelevate dalla città di Sfax e abbandonate nel deserto libico – ha goduto di grande attenzione da parte della cronaca internazionale [4], sebbene non sia stato il primo caso di un atto così violento ma solo uno dei più eclatanti che dal 2019 contraddistinguono le politiche migratorie in Tunisia [5]. Infatti, da Sfax, al mare aperto fino al confine tunisino-libico esiste una geografia mediterranea – più o meno visibile – all’insegna della militarizzazione che ha disegnato spazi di morte (Kobelinsky 2017) coincidenti spesso con zone d’ombra.
Una necrogeografia che è stata invisibilizzata a lungo in Tunisia, sottotraccia di una carta europea dell’accoglienza: considerata Paese sicuro, la Tunisia è stata eletta ad alleata dell’Europa nel controllo migratorio e nella gestione delle domande di asilo e di protezione. Con questa veste, è stata supportata logisticamente dalle grandi organizzazioni internazionali e sostenuta economicamente e pubblicamente dagli Stati europei nell’implementazione di procedure di accoglienza e selezione, godendo di un’immagine pubblica rispettosa: Paese aperto, democratico e accogliente, soprattutto paragonato alla vicina Libia. Eppure, dal ritorno volontario forzato fino alla strategia della pseudo-accoglienza, sono numerosi i metodi utilizzati per controllare, smistare e allontanare le persone migranti, non solo da parte del potere securitario delle forze dell’ordine ma anche dai funzionari delle grandi organizzazioni Onu dell’Oim e dell’Unhcr [6].
Una gestione umanitaria della protezione e dell’accoglienza che ha mascherato a lungo un approccio repressivo, offrendo alle persone richiedenti protezione una versione umanitaria di politiche securitarie [7]: “La Tunisia è un l’inferno nascosto” ripetevano le persone migranti che hanno affrontato gli sfratti dai centri di accoglienza di Unhcr e Oim a Medenine, la mancanza di assistenza medica e legale a Zarzis, la negazione del diritto di asilo a Tunisi, il razzismo diffuso capillarmente, nel silenzio invisibile che ha coperto a lungo queste violenze [8].
Con il discorso del Presidente tunisino Kais Saied, nel febbraio 2023, è stata ufficialmente legittimata l’escalation del razzismo contro i “nemici” della Tunisia [9], divenuti di fatto un diversivo alla rabbia sociale scatenata dalla gravissima crisi economica: la legittimazione – verbale, pubblica, ufficiale – della discriminazione razzista ha approvato un vortice di violenza fisica, verbale e sociale verso le persone nere residenti o transitanti in Tunisia [10], rendendo visibile la loro esposizione alla razzializzazione conclamata socialmente e politicamente già da diversi anni. Omicidi, pestaggi, aggressioni per strada hanno incendiato la terra oltremare rendendo ancora più pericolosa la vita di coloro che – da stranieri – vivevano in Tunisia.
Prima i tunisini ti schiacciavano il piede sorridendo. Prima negavano che ci respingevano in Libia o ci abbandonavano in mare, prima era l’inferno nascosto. Adesso ci uccidono per strada, in mare e in terra, e non lo negano più. Siamo ufficialmente il nemico e siamo costretti ancor più di prima a scappare (Bintou, migrante ivoriana, 2023).
Con il progressivo sostegno europeo – rinnovato recentemente dall’ultimo Memorandum tra Italia e Tunisia [11] – la Tunisia ha ormai dismesso ogni maschera di regione accogliente, mostrando un nuovo volto pubblico: da “inferno nascosto” è diventata visibilmente una terra ostile alle persone straniere e migranti per cui la fuga in mare è diventata l’unica strada percorribile:
Fuggiamo da stranieri in un Paese dove abbiamo vissuto, lavorato, dove abbiamo chiesto accoglienza e abbiamo trovato razzismo. In mare veniamo fermati dalla guardia nazionale, gli stessi che ci hanno cacciato dalla Tunisia e non ci hanno mai riconosciuti (Majolie, migrante camerunese, 2023).
Se da un lato l’Europa delega alla controparte tunisina, in una logica di esternalizzazione dei confini, il compito di controllare le frontiere e la migrazione non autorizzata, dall’altro insiste sulla necessità di fermare i migranti con ogni mezzo necessario, arrivando ad accettare l’uso della violenza in mare e in terra contro le persone che tentano di attraversarlo, pur di mantenere la sovranità nazionale degli Stati europei.
In tal senso, la morte in e per migrazione non va intesa soltanto come un effetto collaterale delle politiche di deterrenza, ma il prodotto diretto della violenza politica di frontiera implementata dall’Unione Europea. Tale logica sostiene il sistema necropolitico (Mbembe 2003) europeo che governa le zone di confine (Khosravi 2019), dentro il quale la morte e la sparizione vanno analizzati come passaggi complementari e non scindibili all’interno della complessa macchina della selezione ed espulsione che colpisce le persone in movimento. Come già emerso nel saggio di Salvador e Denunzio (2019) gli elementi caratterizzanti questo tipo di morti sono: l’alto numero di vittime, le dinamiche di opacità che le rendono invisibili, la violenza specifica riservata a una certa comunità, la frammentazione delle responsabilità e la negazione del riconoscimento.
Iscritti in una storia specifica, i naufragi non vanno letti come tragedie incontrollabili né come fenomeni inarrestabili. Essi sono il frutto di politiche ben precise che irregolarizzano lo spostamento delle persone che si muovono da sud verso nord e fanno del rischio della morte o della morte stessa un normale passaggio del processo migratorio. Pertanto, morire al confine è solo l’ultimo anello del sistema di repressione e violenza che governa e modella il regime frontaliero, costruito su una geografia di spazi di morte intrecciata ad un insieme di politiche di violenza.
Corpi interdetti
Dentro la logica securitaria che domina il governo degli spostamenti umani nel Mediterraneo, è possibile rintracciare una linea di continuità tra le violenze contro le persone migranti – o meglio, il tentativo di annientamento costante di qualunque loro traccia – e la gestione dei loro corpi dopo la morte: se i corpi viventi delle persone in movimento sono percepiti come una potenziale minaccia alla sicurezza e costantemente monitorati attraverso i dispositivi di frontiera e i suoi approcci punitivi, i cadaveri degli aspiranti migranti vengono ignorati e abbandonati dalle autorità statali e internazionali. Così, la necro-violenza che colpisce le persone in movimento ricade sui corpi di quelli il cui movimento è stato arrestato dallo stesso dispositivo frontaliero, condannandoli all’oblio di un silenzio senza giustizia e all’anonimato di sepolture senza memoria.
Di corpi sconosciuti e senza nome ne è piena la Tunisia. Questo perché – tanto in Tunisia come in tutta l’area euro-mediterranea – le autorità ufficiali non tengono registri delle sparizioni e non utilizzano un sistema di ricerca unico e condiviso dagli attori preposti a tale scopo, lasciando spesso i corpi in fondo al mare o compiendo sepolture senza che vengano raccolte le informazioni necessarie all’identificazione (Kobelinsky, 2019; Zagaria, 2019). Così, in assenza di una procedura univoca di recupero e identificazione dei corpi, nonostante gli sforzi di associazioni di cittadini e società civile, la maggior parte delle salme rimane inaccessibile e non identificata: le persone migranti morte e disperse vengono ignorate e la gestione dei loro corpi circoscritta dall’ambiguità legale e burocratica (Robins, 2016). Tale noncuranza è in Tunisia un elemento trasversale – a prescindere dalle nazionalità – ma particolarmente marcato nel caso delle persone di origine straniera, in particolar modo subsahariana.
Dalla partenza per mare come estranei alla morte e al seppellimento come sconosciuti, si tratta di un continuum di negazione delle esistenze, costruito e implementato da diversi attori: la Guardia costiera, la Croissant Rouge tunisina, il Comitato Croce Rossa internazionale, la Polizia scientifica, la Medicina legale degli ospedali e i Comuni.
In questo team articolato e composito, è alla Guardia Nazionale che viene riconosciuto un ruolo preminente: le sue mansioni di dissuasione delle partenze – financo alla morte – rappresenta, secondo gli attori implicati nei processi di recupero e identificazione, una prassi ufficiale, che ben spiega la continuità tra le operazioni di morte e quelle di recupero dei morti.
Noi non vediamo che i cadaveri ma la guardia marittima conosce tutti i migranti che cercano di partire. Fanno una barriera e cercano di bloccare le loro partenze. Credo ci sia una collaborazione tra Tunisia e Italia per limitare le partenze lungo tutte le coste. La guardia nazionale si occupa anche di recuperare i corpi, noi non abbiamo possibilità di farlo. Loro sono i primi che hanno a che fare con queste morti (Dottor Samir Matoug, responsabile medicina legale Università di Sfax, 2021).
È alla Guardia nazionale che si rivolge la Croissant Rouge Tunisina o il Comitato della Croce Rossa Internazionale quando quest’ultime vengono contattate dalle famiglie di persone disperse o dalle comunità locali. Queste organizzazioni umanitarie avrebbero un iter specifico di accompagnamento dei familiari – dal riconoscimento delle vittime fino alla sepoltura. Tuttavia, come dichiarato dai rappresentanti e funzionari di tali organizzazioni, questo tipo di supporto logistico e burocratico non è sempre praticabile, in quanto le volontà dei singoli soggetti territoriali coinvolti – dalle forze di polizia ai Comuni – viene spesso a mancare, determinando ritardi e inadempienze.
Inoltre, secondo il personale medico e sanitario degli ospedali di Sfax, tale procedura viene applicata quasi esclusivamente per le persone migranti di origine tunisina: i corpi delle persone straniere in Tunisia sono per la quasi totalità dei casi non identificate e sepolte senza riconoscimento a causa delle difficoltà – dettate da discriminazioni sistemiche – che impediscono ai familiari presenti sul territorio tunisino di accedere a tali procedure. Questa mancanza è stata più volte rappresentata dalle persone straniere che hanno tentato di identificare i propri cari, rivolgendosi alle autorità competenti in materia:
Mi sono recata più volte all’ufficio della Guardia nazionale di Sfax per identificare mia sorella morta in mare. Non mi hanno voluto ricevere, hanno detto che non si poteva fare, che non sapevano dove fosse il corpo. Mi hanno impedito di vederla e di seppellirla (Bintou, migrante ivoriana, febbraio 2023)
Nel corso del 2023, in coincidenza con la diffusione di un’intolleranza sempre più capillare in ogni ambito della vita sociale, la situazione è ulteriormente peggiorata e i familiari subsahariani di persone decedute in mare non solo non hanno avuto nessuna possibilità di poter accedere alle procedure di riconoscimento in autonomia, ma sono stati anche abbandonati dagli organismi umanitari della Croce Rossa Internazionale che si è sottratta alle attività di accompagnamento delle famiglie giustificando tale mancanza con l’assunzione di nuove procedure interne a fronte della situazione di repressione politica e sociale.
Intanto, gli ospedali locali di Sfax – luogo di maggior concentrazione dei cadaveri delle persone migranti recuperate dal mare – si sono riempiti di corpi di sconosciuti che hanno sostato per mesi nelle camere refrigerate adibite a tali scopo e poi sono stati inumati senza nome; centinaia sono rimasti nella camera mortuaria dell’Ospedale universitario Habib Bourguiba senza un nulla osta delle autorità che autorizzasse la procedura di tumulazione, anche in mancanza di posti disponibili per il seppellimento nei cimiteri locali [12]. Così, mentre i familiari di queste persone richiedevano a gran voce il diritto di poter riconoscere e seppellire i propri parenti, le autorità lasciavano che i corpi marcissero nei corridoi degli obitori [13].
Queste criticità sono state aggravate dal fatto che non tutti gli ospedali o gli uffici di medicina legale in Tunisia effettuano il prelievo del DNA dai cadaveri o la raccolta dei dati post mortem, soprattutto quando numerosi naufragi verificatisi in contemporanea sovraccaricano le strutture ospedaliere e alimentano il lavoro delle équipe mediche. Ciò comporta che nessun riconoscimento potrà essere facilmente e agevolmente effettuato a distanza di tempo dalle inumazioni, limitando ulteriormente il diritto al riconoscimento e alla cerimonia funebre per queste persone “non degne di lutto” (Butler 2013).
Come dimostrato dal caso di Zarzis del 21 settembre 2021 – quando i corpi di 18 persone tunisine partite in barca verso l’Europa e morte in mare furono seppellite nel Cimitero degli sconosciuti Jardin d’Afrique senza alcun riconoscimento – tali inadempienze sono strutturali e raccontano molto dell’approccio che ha guidato e guida il soccorso, la ricerca e l’identificazione dei corpi delle persone migranti, ma anche il rispetto dei diritti fondamentali, in particolare quello del lutto e del diritto a conoscere la verità per i familiari [14]. In questo senso, il caso di Zarzis è stato rivoluzionario: il movimento 18/18 nato da questa tragedia ha lacerato la cortina di silenzio che avvolge il dispositivo di frontiera mediterraneo, ha de-naturalizzato la morte per migrazione e l’ha fatta tornare un tema di dibattito, mettendo in discussione in Tunisia la credibilità delle procedure messe in atto per il recupero dei cadaveri e la loro identificazione nel corso degli anni. Il tema è stato riaperto, dentro un processo pubblico che non riguarda solo il naufragio dei 18 di Zarzis ma il sistematico approccio al tema degli scomparsi nell’area maghrebina ed euro-mediterranea.
Queste sepolture anonime o non sepolture – che testimoniano delle morti a causa dell’esternalizzazione delle frontiere europee e degli accordi con i Paesi terzi – hanno sollevato numerose questioni che riguardano la Tunisia ma anche i Paesi mediterranei: Quale supporto per le famiglie che denunciano le scomparse alle autorità? Quali procedure hanno guidato la ricerca e l’identificazione delle centinaia di vittime, autoctone e straniere, seppellite nel territorio nazionale? Quali risorse umane e materiali sono state effettivamente impiegate allo scopo di ricercare e identificare gli scomparsi?
Oltre al governo tunisino, anche quelli europei non hanno mai davvero provveduto a risposte efficaci rispetto a tali domande e richieste (Cattaneo 2018) [15]. Questo perché è nella natura di queste politiche migratorie, quelle stesse che provocano le morti in mare, la non assunzione di responsabilità dei conseguenti massacri dovuti alla negazione di viaggiare in maniera sicura, all’omissione di soccorsi fino alla negligenza vera e propria nella gestione dei corpi senza vita.
Sappiamo che di migranti morti in mare ne è piena la Tunisia: non solo l’area di Zarzis – dove il “Cimitero degli sconosciuti” si è riempito fino ad esaurirsi e il “Jardin d’Afrique” ha quasi raggiunto il limite massimo – ma soprattutto la zona di Sfax dove, nei tre cimiteri comunali, sono sepolti centinaia di corpi non identificati, in particolare di persone di origine sub-sahariana. I tre cimiteri – il Cimitero cristiano, il Cimitero di Route Gremda e il cimitero Lajmi – si rassomigliano nella loro anonimità: tombe contraddistinte da codici e numeri, archiviate dalle autorità in maniera sommaria. Su alcune tombe compare un anno di nascita o di morte, ma sono una minoranza rispetto al totale delle lapidi avvolte dall’oblio. Collocati su strade dissestate e terrose, lontano dalla città di Sfax, questi cimiteri sono un deserto di anonimi e anonime, in un luogo la cui esistenza è sconosciuta così come tante delle spoglie che vi riposano sotto le dune di sabbia e le correnti di aria.
In questa geografia della morte, i corpi dei deceduti e delle decedute continuano a muoversi. Non tutti i corpi dei cadaveri che sono stati recuperati nelle acque di Sfax vengono seppelliti nel governatorato di riferimento: possono essere spostati e interrati a Zarzis, a Gabes o in altre città tunisine anche molto lontane tra loro, a seconda delle disponibilità che i comuni offrono per la sepoltura. Perciò, spesso famiglie e comunità intere sono costrette a muoversi in un peregrinaggio tra i luoghi di frontiera che segue la morte in tutte le tappe della sua realizzazione: dalle spiagge agli uffici delle autorità, alle camere mortuarie fino ai cimiteri.
Zarzis è in tal senso emblematica: negli ultimi due anni, la cittadina ha ospitato moltissimi corpi di persone migranti recuperate in altri luoghi di frontiera – di partenza e di morte – collocati sulle spiagge di Sidi Mansour, di Mahdia o di Djerba. Tutte persone senza identità, i cui corpi sono stati spostati dal mare alla spiaggia, «morti sospesi né dimenticati né ricordati vivono nella misura in cui sono corpi interdetti» (Beneduce 2010: 165). Un controllo dei corpi interdetti che si applica anche dopo la morte: corpi rimaneggiati, trattati, spostati, congelati, sotterrati, riesumati.
Damnatio memoriae
In mano agli uomini delle istituzioni di Medenine, Zarzis e Sfax sta il dispositivo di frontiera di gestione delle morti delle persone migranti: attorno a loro si articola un quadro specifico di quelle che sono le prassi ufficiali dello Stato, le sue contraddizioni, i suoi vuoti e le sue apparenze. Uno Stato che esercita un potere sulla vita, sulla morte e sul lutto e lo fa frammentando queste responsabilità tra più soggetti e tra più realtà: anche in questo caso, l’apparato umanitario concorre, insieme alle forze dell’ordine, alla gestione di ciò che resta del complesso processo migratorio. Una migrazione la cui violenza non viene registrata: senza corpo non c’è crimine, quindi non c’è colpa, quindi non c’è possibilità di giustizia.
I tentativi di criminalizzare le persone migranti – additate a scafisti, trafficanti di uomini o spacciatori – fanno parte della retorica [16] che sostiene l’assetto securitario del sistema di frontiera [17]. Specularmente, l’abbandono delle loro salme e la noncuranza con cui vengono trattate le loro spoglie, appartengono a quello stesso regime che sancisce non solo chi ha diritto a viaggiare e chi no, ma anche il diritto al riconoscimento della morte e al lutto.
A dirigere il sistema di gestione e controllo dello spazio Schengen che produce queste morti e sparizioni sono dunque i governi che sembra vogliano cancellare dalla memoria collettiva ogni traccia delle persone che hanno perso la vita o sono scomparse ai confini (Kobelinsky e Le Courant, 2017: 159). In tal senso l’impatto politico del trattamento dei corpi delle persone migranti è proprio il loro essere abbandonati, innominati, rimossi, invisibilizzati ma anche criminalizzati, come coloro che li difendono o li ricordano.
La storia ufficiale delle migrazioni nel Mediterraneo si fonda pertanto su una costante negazione: delle violenze commesse contro le popolazioni che si spostano, delle sofferenze prodotte su queste persone, delle vite umane e delle storie che appartengono loro. Tutto ciò rientra in un processo che possiamo definire di damnatio memoriae: l’oblio storico-politico è generato tramite una sistematica rimozione di queste storie e delle voci di chi cerca di raccontarle. Partiti dalla Tunisia perché considerati stranieri a quella terra – estranei ad essa – e quindi criminalizzati e violentati da un sistema economico e sociale fortemente razzista e repressivo – sono infine morti come sconosciuti, privati di identità e memoria.
Geografie e movimenti del riconoscimento
La frammentarietà e l’opacità nel soccorso, nella ricerca e nell’identificazione delle persone migranti, trova la sua ragione nel tentativo – politico, sociale, strutturale – di mettere a margine le conseguenze criminali delle politiche migratorie. Ma i “fatti scomodi” trovano spesso il modo di emergere, attraverso voci dal margine e contro-narrazioni che sfidano la “politica dell’oblio” (Fassin 2016).
Infatti, al cuore di questa negazione – politica e sociale – si genera una tensione che assegna a queste morti e a questa violenza una totale intollerabilità. Nell’ordine dell’intollerabile (Fassin 2005) che tocca la vita dell’individuo e dei gruppi di appartenenza, si trova la resistenza dei corpi nei quali resta inscritta la memoria del passato: sopravvissuti e sopravvissute, familiari e parenti, compagne e compagni di viaggio. Le configurazioni sociali della violenza strutturale si inscrivono e si radicano nei corpi delle storie individuali, in particolare in quelli delle donne e degli uomini che sopravvivono alla violenza direttamente subita o inferta ai loro cari: corpi che resistono alla cancellazione della storia (Fassin 2016).
Queste persone, portando i loro corpi nei luoghi della violenza che ha causato le morti, negli spazi in cui la morte viene burocraticamente sancita, nei luoghi di sepoltura anonima o presso gli uffici di quelle autorità silenti in Tunisia o in Europa, tracciano una geografia mediterranea opposta alla necro-geografia del regime frontaliero: un peregrinare rivendicativo e resistente delle madri, sorelle, compagne e compagni, figli e fratelli che si muove ai due lati del Mediterraneo. Movimenti di donne e uomini che da vari Paesi del bacino mediterraneo costruiscono, lungo viaggi di denuncia e sensibilizzazione, una memoria collettiva e mediterranea sulle morti della frontiera che nasce proprio dai luoghi in cui le violenze si sono consumate [18].
Dunque, a fronte di questi spazi di morte disposti e costruiti politicamente, esistono altri luoghi di resistenza agli “inferni nascosti” che sono le frontiere. Le donne subsahariane che rivendicano i loro morti a Medenine [19], le madri e sorelle tunisine che ricercano i propri cari e denunciano la loro scomparsa alle autorità, i viaggiatori delle Carovane che attraversano l’Europa attraverso le voci dei familiari delle vittime delle violenze [20], le CommemorAzioni [21] che celebrano le vite spezzate dalla brutalità delle frontiere, le mobilitazioni in Tunisia delle famiglie. Una cartografia della sopravvivenza all’annientamento storico-politico e di vita rivendicata e vissuta nonostante la morte alla frontiera. Rivendicando una memoria contro l’oblio, rivendicandosi come memoria contro l’indifferenza, queste persone creano – negli interstizi del potere – strade alternative al riconoscimento della vita, della morte, dei diritti. Allora, nell’interazione che c’è tra gli effetti della struttura – il razzismo di Stato, la geografia e la politica di morte delle frontiere – e la libertà di agire dei protagonisti e delle protagoniste di questo campo, si ribadisce una presenza storica e materiale, simbolica ed empirica che contrasta geografie e politiche della sparizione e dell’assenza forzata.
In tal senso, denunciare la violenza dei respingimenti in terra e in mare, ridare qualificazione storico-sociale ai corpi, portare la memoria davanti alla frontiera sono oggi – in tempi di geografie e politiche di morte – radicali atti politici che riguardano tutta la comunità – migrante, locale, transitante, autoctona – che vive il Mediterraneo.
Sotto il pelo delle acque mediterranee di Kerkennah o Mahdia, nella camera mortuaria dell’ospedale Habib Bourguiba di Sfax, nel deserto di Ras Jedir oltre il check point di Ben Gardane che separa la Tunisia dalla Libia, nella terra polverosa del cimitero di Lajmi a Sfax, giacciono, senza riposo, diverse migliaia di corpi di persone senza nome, sconosciute. Eppure lo sforzo per non lasciarle andare all’oblio, per non permettere che siano annientate dalla rimozione storico-politica, è costante e continuato: una geografia di vita e resistenza mediterranea sta scolpendo le loro storie su una pietra d’inciampo, che il futuro troverà indistruttibile e inaffondabile, in nome della memoria di coloro che fuggirono da stranieri e morirono da sconosciuti.
Dialoghi Mediterranei, m. 63, settembre 2023
Note
[1] I risultati del presente articolo si inseriscono nel quadro della mia ricerca di Dottorato in Scienze Sociali – Curriculum Migrazioni e processi interculturali presso l’Università di Genova. Ho svolto un periodo etnografico in Tunisia dal giugno 2021 al dicembre 2022.
[2] Secondo il Forum Tunisino per i Diritti Economici e Sociali (Ftdes) – ONG tunisina che si occupa di diritti civili e diritti delle persone migranti – le intercettazioni in mare dall’inizio del 2022 sono state più di 29 mila (544 i morti nella traversata, dato aggiornato al 26 ottobre). L’ Ftdes ha inoltre osservato che le operazioni della Guardia costiera tunisina [5] di recupero dei migranti dal 2020 ad oggi si sono moltiplicate. Dal 2011 ad oggi il budget di soldi destinati al controllo delle frontiere tunisine è progressivamente aumentato. Nel 2011 si trattava di 16.500.000 euro, nel 2017, 12.000.000 euro e tra 2020 e 2021, con l’approvazione dei progetti del Fondo di premialità, la parte più consistente del budget destinato alla Tunisia è stata allocata sul controllo delle frontiere: ben 19 milioni su 24 totali investiti.
[3] Si veda “Violenze della Guardia Costiera tunisina. Osservazioni dal Campo” di MeltingPot Europa: https://www.meltingpot.org/2023/06/talk-a-sherwood-festival-violenze-della-guardia-costiera-tunisina-osservazioni-dal-campo/;
[4] Si veda “Internazionale”: https://www.internazionale.it/notizie/2023/07/27/migranti-tunisia-libia-morti-aiuto; “ The Guardian”: https://www.theguardian.com/world/2023/jul/16/libyan-border-guards-rescue-migrants-left-in-desert-near-tunisia; “Le Monde”: https://www.lemonde.fr/en/le-monde-africa/article/2023/07/31/they-want-to-kill-us-tunis-refugees-left-stranded-in-desert-speak-of-their-despair_6074063_124.html;
[5] Nell’agosto del 2019 è stato registrato un respingimento alla frontiera libica di 36 persone: https://www.meltingpot.org/2019/08/i-36-ivoriani-deportati-al-confine-libico-sono-al-sicuro-in-tunisia/; Successivamente nel 2021 e nel 2022, si sono ripetuti episodi analoghi nella stessa area frontaliera, come denunciati da ASF (Avocats Sans Frontieres Tunisie) che hanno coinvolto decine di persone subsahariane, incluse donne e bambini: https://asf.be/wp-content/uploads/2022/07/FR_Communique-de-Presse-Refoulement-de-migrants-subsahariens-vers-la-frontiere-libyenne.pdf;
[6] Si veda il comunicato di AlarmPhone: https://alarmphone.org/fr/2023/04/17/la-tunisie-nest-ni-un-pays-dorigine-sur-ni-un-lieu-sur-pour-les-personnes-secourues-en-mer/;
[7] Si veda il rapporto di FTDES e Migreurop: « Politiques du Non – Accueil en Tunisie » http://ftdes.net/rapports/ftdes.migreu.pdf;
[8] Si veda l’Espresso, 31 gennaio 2022 “Tunisia inferno nascosto”: https://espresso.repubblica.it/mondo/2022/01/31/news/tunisia_strupri_violenze-335859012/;
[9] Si veda Amnesty International: https://www.amnesty.org/fr/latest/news/2023/03/tunisia-presidents-racist-speech-incites-a-wave-of-violence-against-black-africans/;
[10] Si veda Dialoghi Mediterranei: https://www.istitutoeuroarabo.it/DM/vite-da-salvare-o-disuguaglianze-da-riconoscere-etica-dei-sopravvissuti-alle-intercettazioni-della-guardia-costiera-tunisina/;
[11] Si veda ASGI: https://www.asgi.it/notizie/memorandum-tunisia-ue-sottoscrive-rastrellamenti-deportazioni-illegali-e-violenze-contro-migranti/;
[12] Si veda il rapporto prodotto dall’equipe medica dell’ospedale universitario Habib Bourguiba di Sfax: https://www.emro.who.int/emhj-volume-28-2022/volume-28-issue-12/gestion-des-catastrophes-de-masse-liees-au-naufrage-de-bateaux-dimmigres-clandestins-experience-du-service-de-medecine-legale-de-sfax-tunisie.html;
[13] Si veda La Repubblica:
https://www.repubblica.it/esteri/2023/06/10/news/tunisia_obitorio_corpi_naufraghi-403847398/;
[14] Si veda “Zarzis 18/18. Una mobilitazione in Tunisia per i morti nel Mediterraneo”: https://www.meltingpot.org/2022/10/zarzis-18-18-una-mobilitazione-in-tunisia-per-i-morti-nel-mediterraneo/;
[15] Si veda il rapporto di Mem.Med Memoria Mediterranea, La mer(e) Mediterranée: https://www.meltingpot.org/2023/03/la-mere-mediterranee/;
[16] Spesso all’interno di questa narrazione, accuse del genere sono state rivolte anche ai e alle solidali, ai pescatori che effettuano soccorsi in mare, così come alle famiglie delle persone scomparse, soprattutto le madri e le sorelle tunisine che dal 2011 costituiscono la voce denunciante le omissioni di soccorso, le negligenze e la mancanza di volontà istituzionale nella ricerca di verità e giustizia.
[17] Soprattutto quando si tratta dei migranti cosiddetti “economici” che provengono spesso dal Nordafrica, si tende a qualificarli come portatori e commettitori di crimini per giustificare la logica respingente ai confini.
[18] Si veda ad esempio il viaggio delle donne tunisine – madri e sorelle dei migranti morti e scomparsi dal 2011 ad oggi – che nel 2021 hanno attraversato il Mediterraneo, la Sicilia e Lampedusa per denunciare la scomparsa dei loro cari e ricercarli nei luoghi di trattenimento e morte: https://www.meltingpot.org/2021/10/il-viaggio-delle-madri-tunisine-in-sicilia-per-verita-e-giustizia-per-i-familiari-scomparsi/;
[19] Si veda FreeFemmes- Artigiane per la Libertà di Movimento: https://www.meltingpot.org/2022/11/freefemmes-artigiane-per-la-liberta-di-movimento/;
[20] Si veda la Carovana 2023 per commemorare il massacro di Melilla del 2022: https://www.meltingpot.org/2023/05/la-carovana-abriendo-fronteras-2023-a-melilla-diritto-di-migrare-diritto-di-vivere/;
[21] Si veda la CommemorAzione a Zarzis del settembre 2022: https://alarmphone.org/en/2023/05/30/commemoraction/?post_type_release_type=post;
Riferimenti bibliografici
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2010, Archeologie del trauma. Un’antropologia del sottosuolo, Editori Laterza, Bari Roma
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2013, Vite precarie. I poteri del lutto e della violenza, Postmedia Books
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2018,Naufraghi senza volto. Dare un nome alle vittime del Mediterraneo, Raffaello Cortina, Milano
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2019, Io sono confine, Elèuthera, Milano
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2017 Exister au risque de disparaître. Récits sur la mort pendant la traversée vers l’Europe in Revue européenne de migration internationale, vol. 33 – n° 2 et 3 | 2017
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2019, Morti senza sepoltura. Tra processi migratori e narrativa neocoloniale, Ombre Corte, Verona
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2019, ‘Une petite histoire au potentiel symbolique fort’. La fabrique d’un cimetière de migrants inconnus dans le sud-est tunisien, Critique Internationale.
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Silvia Di Meo. antropologa, nel 2023 ha conseguito il Dottorato in Scienze Sociali – in ambito antropologia, migrazioni e frontiere – presso l’Università di Genova. Il suo terreno di ricerca è l’area mediterranea e i suoi confini esternalizzati, in particolare la Sicilia, la Tunisia. In questi campi si occupa di etnografia delle frontiere, di mobilità e mobilitazioni transnazionali, nonché di politiche migratorie europee. Si interessa di pratiche di memoria, di resistenze femminili e utilizza la fotografia per indagare i processi migratori, le storie di vita e di viaggio. È membro di Mem.Med Memoria Mediterranea e collabora con associazioni italiane ed estere impegnate nel monitoraggio e nella tutela dei diritti delle persone in movimento nell’area mediterranea.
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