di Antonietta Iolanda Lima [*]
Il 28 settembre del 1910 Vittorio Ziino nasce a Palermo. L’abitazione è un palazzo progettato da Nunzio Ziino, prozio, in via Dante 53. Il nonno giurista è un principe del foro, titolare del più prestigioso studio legale di Palermo dove fecero pratica Vittorio Emanuele Orlando, la cui memoria vive anche nel nome dato alla omonima piazza; è sposo di Maria Annunziata, figlia di Agostino Todaro dei baroni della Galia, avvocato ma talmente appassionato delle scienze naturali da occupare nel 1856 la cattedra di Botanica alla morte di Vincenzo Tineo. Successivamente direttore dell’Orto Botanico di Palermo, personaggio significativo nel panorama scientifico non solo italiano, è nominato senatore del Regno nel 1879.
La famiglia in cui Vittorio cresce ha una rara peculiarità: è grande e l’unione, la condivisione, la relazione ne timbrano il carattere, mantenendosi tutt’ora. Articolata e solidale, è in prevalenza costituita da giuristi. Avvocato, Agostino Ziino è il padre di Vittorio. Cresce insieme con i due cuginetti avendo entrambi un anno quando lui giunge nel mondo della vita.
Di appena tre anni, quanto è nella sua natura lo conduce verso il prozio Nunzio, cinquantenne ingegnere. L’intera famiglia abita e vive nel palazzo Ziino, dal 1895 al 1985 quando lo acquista prima l’Enpas e poi il Comune. E di essa il Sant’Anna, sin dalla sua istituzione nel 1894, è la scuola, e quindi anche di Vittorio. Il prozio è già alimento determinante al dar vita alle corde segrete di lui bambino. Si aggiunge presto suor Anna Violantina, una di quelle rare maestre che nel far ‘capire tutto’ fanno volare la curiosità e l’immaginazione degli alunni.
Sono questi gli anni delle elementari e l’arte entrando con Maria Accascina – storica dell’arte e studiosa dello scenario artistico-culturale del suo tempo – nel quotidiano della famiglia diventa nutrimento di Vittorio e ulteriore e significante evento per il suo formarsi e divenire, per i quali ulteriore contributo gli viene da padre Fedele frequentando le medie di via Torremuzza, un notevole personaggio, aperto anche lui a una cultura nutrita dai diversi saperi, amante della letteratura e della poesia, poeta.
La lettura diventa compagna del vivere di Vittorio e la musica lo affascina. IL violino è di casa, essendo nobile strumento abituale della madre e la zia, che ne è sorella, è una pianista, e il padre, anche se avvocato, è presidente degli ‘Amici della musica’. La sonata di Mozart è la ‘ninna nanna’ di tutti i bambini di questa grande famiglia. Bella, perché tessuta da una benefica complicità dove ciascuno si riconosce nell’altro, non ledendo la propria specificità, bensì arricchendola. Con la musica e l’arte l’amore ne é il quotidiano. E opera come il calore prodotto dal fabbro nel lavorare il metallo. Riverbera nell’ambiente tutto questo calore, in tal modo forgiandolo. E dell’ambiente da quando è nato fa parte Vittorio.
Ad Erice, l’araba Gebel-Hamed, mitologica e boschiva con in vetta l’antico castello di Venere, si spostavano, e anche nell’oggi, le quattro famiglie che ne formavano l’intero: venti persone circa. Rendevano brulicante di vita ‘nuova’ la via S. Francesco 58, che prende nome dall’omonimo monastero trecentesco dei frati minori ampliato e ‘ri-modernato’ nel Seicento.
Adolescente, la cultura umanistica, già entrata in Vittorio, nella sua interiorità e nel suo pensare, lo abita abitualmente frequentando il liceo classico dell’Umberto. Bravissimo in tutto, nel 1926, sedicenne, la maturità classica con il massimo dei voti e nel ’32 la laurea in ingegneria civile. Entra quindi in lui anche la logica scientifica. La vincita di una borsa di studio gli dona la Grecia con la sua scuola archeologica, quella di Atene. Due anni circa tra il 1937 e il ’39, sei contributi di cui tre sui capitelli di cui uno in particolare a me sembra confermi un diretto collegamento con Giovan Battista Filippo Basile che, quasi un secolo prima, rendeva il corinzio elemento costante del suo agire creativo ed anche simbolo di un pensiero permeato da risvolti politici.
Questo interesse di Vittorio sui capitelli potrebbe sembrare un’anomalia se superficialmente ci si sofferma sulla sua attività di progettista, senza quel necessario approfondimento fatto non di pre-giudizi ma soprattutto di domande. E le domande conducono al suo brulichio di pensatore e a tutto ciò che è diventato parola, verbale e scritta.
Poco potrebbero significare i due ‘anni greci’, ma non per Vittorio che non ancora trentenne è un giovane consapevole che, senza conoscenza della storia tutta, l’intervento progettuale non è solo monco ma privo di fondamento, e come tale impossibilitato a dare lì dove opera quello che deve dare l’architettura autentica il cui spessore deve essere tale da fare ‘bene’ al luogo, al contesto di cui esso fa parte, alle persone che lo vivono, al territorio e al paesaggio tutto. Non può avvenire questo senza cultura e in mancanza di essa non c’è visione. E la cultura, intendendo per essa l’esito di una formazione ininterrottamente alimentata dalla sete di sapere, appartiene al giovane Ziino ed è con essa e con il volere accrescerla che vive la fase ‘greca’.
Lo studio e l’esplorazione delle antichità archeologiche, proseguita anche in Italia, ad Ostia nel 1940 presso la Soprintendenza, sono i costanti compagni di quegli anni. Nascono in lui nuovi semi i cui germogli possiedono la vocazione allo stare in permanenza, acuendo lo spirito e la sensibilità in una persona la cui raffinatezza permeata da grande competenza ancor prima che nei suoi progetti ho colto da allieva e poi da laureanda con una tesi che univa architettura urbanistica, architettura degli interni e il tutto in relazione pressoché simultanea con gli aspetti strutturali. Glielo ho proposta, e lui con serena gentilezza pregna di partecipazione e di calore umano, mi ha posto domande, mi ha stimolato dubbi, mi ha affascinato con un dire forgiato dalla filosofia, e infine ne abbiamo discusso insieme. L’ha accettata e mi ha seguito, sempre disponibile, di una modestia ricca di conoscenza che accresceva in me l’interesse e la stima. Con il rigore gli abitava una intensa dimensione umana. La teneva nascosta e così bisognava scoprirla, e occorreva uno sguardo abituato ad avvicinarsi al ‘dentro’, all’invisibile, che come in tutto ciò che fa parte del ‘vivente’ è la parte più autentica. Poco alla volta l’ho colta quando di me studentessa il suo sguardo accogliente e attento si posava su ciò che andavo ‘componendo’. Ed è per questo che gli ho chiesto di seguirmi nella stesura della tesi di laurea. Un percorso faticoso, ma pieno di gioia.
Un Maestro raro, interessato ad estrarre ciò che di positivo poteva e doveva generarsi. Il mio destino dentro la Facoltà di Architettura sarebbe stato altro avendomi proposto di continuare a ‘seguirlo’. Ma quell’altra per gli umani ‘difficile compagna’ da accettare, e con la quale dobbiamo fare i conti sin dalla nascita, nel 1967 pose fine a questo ‘nuovo’ aprirsi. Rimasero però quanto in me aveva seminato, intrecciandosi con quelli di pochi altri ‘Maestri’ e dando frutti.
Con la Seconda guerra mondiale, la prigionia in Africa settentrionale. Ma è una reclusione colta. Il professore Riccobono, romanista, fa lezioni e lui tiene conferenze. Un clima fuori dell’ordinario ed è da esso che nasce un contributo, che pubblicherà successivamente, sul quale occorre soffermarsi per molteplici motivi.
Scelta della sua riflessione è un intellettuale che non è eccessivo ritenere geniale, se a sette anni dà avvio a un’opera illustrata in quattro volumi e quando è ancora un adolescente, nel 1834, «il Magazine of Natural History accoglie la sua prima pubblicazione, un saggio sugli strati delle montagne e sul colore del Reno» (Treccani). Una creatività variegata che costruisce parte non secondaria della Storia e non soltanto di quella britannica. Esplora campi diversi della espressività artistica e così lo scrivere, il dipingere, il poetare, sono per lui ineludibili. Unico inoltre il suo indefesso operare a favore dell’artigianato. Inserito nella schiera degli utopisti per la sua attiva propensione al socialismo, questo positivamente eclettico personaggio è John Ruskin (1819-1900).
Ma perché Ruskin, e ancor più in che modo lo conosce? Non esiste ancora alcuna Storia dell’architettura. La prima è quella di Bruno Zevi. In essa ci sono pagine che ben ne restituiscono princìpi e visione, ma esce nel 1945. Precedente, del ’41 è Space, time and architecture di Sigfried Giedion, ma Ruskin è in pochi cenni e in tutti presentato come un conservatore che teme l’avanzare dell’industria. La lista su mia richiesta inviatami dalla Biblioteca di Ingegneria elenca 40 libri a firma di Ruskin, ma tutti pubblicati in anni recenti.
Nella prigione è la fonte mi dice la figlia, Conni. «Un campo di inglesi con ragazzi di un certo livello in un luogo in cui “giravano libri di Ruskin”». Potrebbe sembrare una fiaba. Non lo è, essendo il racconto che fa Vittorio tornato in famiglia. Racconta che, ufficiale di artiglieria, combattendo in Africa Settentrionale, diventa prigioniero di guerra nei campi di concentramento di Ramgarh di Yol in India dal 1941 al 1946, dove svolge corsi di Applicazioni di Geometria Descrittiva e corsi sull’abilitazione ad allievi architetti, ingegneri e geometri, tutti prigionieri di guerra. Tiene inoltre alcune conferenze: “Tradizioni dell’architettura italiana (Ramgarh 1942); “Architettura e critica d’arte (Yol 1943); “Panorama dell’urbanistica contemporanea” (Yol 1943).
Ulteriore conferma di questa fase è in una pagina – la 13 – appartenente a tredici fogli manoscritti dai quali si colgono notizie importanti al fine di meglio definire il suo percorso. Mancano di data, ma scorrendoli con attenzione si legge che ultima inserita è il 1953, quando è dichiarato «maturo all’unanimità al concorso per la cattedra di Architettura e Composizione Architettonica dell’Università di Napoli», mentre insegna già dal ’49 come incaricato Storia dell’Arte e Storia e Stili dell’Architettura nella Facoltà di Architettura di Palermo. Nello stesso ’53 o successivamente ad esso potrebbe quindi collocarsi l’elaborazione degli inediti fogli inviatimi da Giorgio, figlio di Vittorio Ziino, che recependo con attenta partecipazione la mia sollecitazione con grande pazienza ‘ha cercato e trovato’. Loro finalità è l’elaborazione del curriculum da inviare per il concorso alla cattedra di Caratteri distributivi degli edifici nel Politecnico di Milano.
Cosa trarre da questa mia ‘ricucitura biografica’? Per prima cosa la legittima ansia di chi sente di trovarsi ancora dentro “una selva oscura’ e vuole al più presto uscirne per imboccare “la dritta via’. Non lo soddisfa l’insegnamento di Palermo, e nonostante Napoli gli darebbe la certezza di una cattedra prestigiosa con un insegnamento consono al suo essere architetto progettista con realizzazioni già in atto, sembra preferire Milano molto più pronta, socialmente e culturalmente, a vincere le plurime sfide connesse alla ricostruzione. Gli è noto inoltre il vivace e colto crogiolo di architetti pronti a mettersi in gioco dentro la sperimentazione di libero nuovo linguaggio capace di creare legami con lo scenario internazionale.
Tornando a Ruskin, originalità e ricchezza delle argomentazioni intridono le pagine su lui di Ziino, testimoniando inoltre la specificità di una poetica, che, proprio perché diversa dal suo sentire l’architettura, merita, sia pure traducendone i principi in modo elencale, di essere evidenziata, anche per quanti non la conoscono:
- rifiuto dell’industria e del nascente capitalismo;
- convinzione che inesauribile fonte per l’arte sia la natura;
- propensione per l’ornamento;
- riduzione dell’architettura a pittura e scultura, considerandola così mero atto figurativo;
- negazione dell’architettura come arte.
Concetti di cui, con una critica particolarmente serrata ma sempre tessuta da grande chiarezza, pone in luce il dissenso senza infine nascondere ciò che può accomunarli. Un solo principio ma di grande rilevanza; quello spirituale. Ed è proprio questo tendere di Ruskin verso ‘l’alto’, là dove vivono le stelle, è ciò che infine, pur criticandolo, non elide in Ziino, del suo elevato essere, l’apprezzamento.
Nel concludere il suo scritto, così scrive: l’architettura la «sentì come atto di elevazione e adesione alle bellezze della natura, e ne celebrò la risonanza universale, la religiosità, la funzione corale», e pur negandone la peculiarità estetica «… ebbe comunque il merito di porre ai giovani il problema del vedere e il metodo del comporre, reagire al positivismo e allo accademismo della sua epoca, di valorizzare la funzione del vedere e rivelare le qualità luministiche dell’architettura…».
Con il ritorno a Palermo, il 27 luglio del 1946, le nozze con Bianca Pirrotta. Due anni dopo, nel maggio del ’48, la sua comunicazione al II Congresso di Urbanistica ed Edilizia che si svolge a Roma, mette a nudo la robusta e colta capacità argomentativa, libera essendo priva di steccati disciplinari. E del resto questo era anche frutto di un insegnamento universitario ancora non rovinato, a mio parere, dai ben noti ‘Icar’, creatori di veri e propri feudi, sicché un docente passava da un insegnamento all’altro in continuo nutrimento. Per Vittorio, in sequenza: Composizione da assistente ordinario, Storia dell’Arte e Stili di Architettura, Architettura Tecnica, e infine Composizione da cattedratico.
Le varie materie contaminavano beneficamente se stesse e colui che le insegnava in una sorta di fertilizzazione che stimolava gli intelletti e arricchiva culturalmente dando lievito nuovo all’immaginazione creativa forgiata da una profonda istanza unitaria. Così, di lui giovane ancora è questa intensa riflessione: « …nell’opera architettonica, come nell’opera di musica, pittura e scultura, sempre che si tratti di un vero prodotto artistico … la bellezza consiste non già nella male intesa identità di arte e di tecnica, ma nella unità, nella coerenza, nella organicità estetica di cui la tecnica non è che un antecedente organicamente digerito e assimilato dall’autore».
E successivamente, al 5° Congresso Nazionale di Storia dell’Architettura, il suo dire a proposito delle «forme determinate dai pionieri ancor prima della conquista degli strumenti di analisi» confermava l’esigenza di una relazione profonda capace di espungere barriere: «…Un ruolo decisivo ha giocato la loro tecnica e la facoltà di padroneggiare gli elementi costruttivi e gli aspetti pratici della loro produzione: ma la recente rivalutazione della statica non deve farci incorrere all’equivoco che queste indagini scientifiche appartengano a due province divise da un solco così profondo da rendere inconciliabili le sue attività che vi si svolgono; da ciò nascerebbe una nuova scissione, forse più grave di quella verificatasi tra ingegneri e architetti alla fine del secolo scorso». Risale al 1948 e questo suo considerare errato lo iato tra due discipline che dovrebbero invece costituirsi in corpo unico – evocando così la medesima istanza espressa da Le Corbusier, come poi l’attività progettuale più chiaramente avrebbe dimostrato.
In breve, se non tutti, l’insegnamento universitario aperto, libero, pulsante di saperi rendeva alcuni ‘uomini di valore’. Vittorio Ziino è tra questi, e in questa mia riflessione continuerò a cercare di dimostrarlo. La filologia, l’analisi e la critica viaggiano insieme nel suo pensiero e nel suo riverberarsi nella riflessione teorica, stemperandosi a mano a mano in una fase che non più giovanile lo porta a ripensare criticamente se stesso e l’agire progettuale con una logica la cui innata razionalità si mischia, ammorbidendosi, a un forte rigore morale che pretende un ininterrotto approfondimento culturale in mancanza del quale non può esserci visione alcuna.
Molteplici le problematiche che fermentano il mondo dell’architettura su cui si sofferma e ne scaturiscono considerazioni di grande intelligenza tese a evidenziare le diverse posizioni critiche, i preconcetti e i miti, che avviluppandole come in una tela di ragno impediscono il ‘vedere’. Un ’analisi, la sua, pacata, che pone e si pone interrogativi, che sollecita a evitare contrapposizioni, che stimola a non volgere le spalle ai nuovi orizzonti che «si schiudono all’eterna dialettica tra fattori razionali e fattori emotivi, tra ragione e intuito: nuove vie, cioè, verso quella unità» che, nel caso della invenzione strutturale, la indicano per arte e tecnica: «unità che per millenni è stata l’architettura», che nel suo fare ha costruito storia.
E Vittorio Ziino nel suo dire e fare non ha mai cessato di dimostrare e di riconoscere il valore che essa tutta possiede e di quanto sedimentandosi e mantenendosi, vincendo la selezione da essa stessa operata, diventa tradizione. E sulla storia e sul suo portato si sofferma più volte il suo sguardo acuto esprimendo ancora una volta che l’essere ingegnere-architetto votato all’intervento progettuale non espunge lo studio, la ricerca e la riflessione storico-critica, bensì la richiede irrobustendosi con essa la visione architettonica e il suo fisicamente tradursi. Scorrendo infatti la sua produzione teorica, agli scritti sui capitelli e su Ruskin si aggiungono quelli sull’architettura del ‘700 e Ottocento in Sicilia con una mirata attenzione su Villa Valguarnera e, nel 1956, sulla cultura architettonica dall’Unità d’Italia alla I Guerra Mondiale.
Nel confronto con l’oggi in cui raramente mi accade di essere piacevolmente colpita dall’uso di un lessico che dona alle pagine grande qualità letteraria, la colgo in tutta la sua bellezza in quelle di Vittorio avulsi da quello che acutamente Roberto Calandra definiva “architettese” così sottolineando la perdita di un modo di scrivere non ‘prefabbricato’ ma profondamente intriso della specificità intellettuale e culturale di ciascuno che conduceva al suo ri-conoscimento immediato. Come dire che lì dove occhi e mente si posano si diceva e si dice subito: questo è Gadda e non Calvino o viceversa. Insomma, era quanto si pretendeva alla licenza liceale scorrendo i temi di ogni candidato e quando avveniva gli otto, anche i dieci qualche volta, fioccavano. Ma nella loro tessitura la cultura che veniva fuori doveva essere intrisa di ciò che io chiamo ‘bellezza’, un impasto magnifico di ricchezza linguistica e di raffinata chiarezza. Insomma, doveva prendere, emozionare. Una cifra questa che io trovo in altri di Vittorio contemporanei. Luigi Epifanio o Giuseppe Caronia ad esempio. Di lui posseggo molti libri, avendomeli donato quando a Roma lo andavo a trovare. Ho, ora, tra le mani Io, l’architetto e gli altri. Che piacere scorrerlo dopo anni: profondo eppur fresco e leggero e scritto in un magnifico italiano. E lo stesso avviene ri-passando a Ziino, sia quando ragiona sulla prefabbricazione o sui paraboloidi e le superfici rigate o quando la città con tutti i suoi problemi è fulcro del suo pensare; un pensare ricco, profondamente libero, che non conosce steccati che a me sembra poetica comune della temperie del suo tempo: consapevole di ciò che appartiene al loro mondo in esso inserendo il passato da cui esso stesso deriva, aperta ai diversi saperi, acuta nell’interpretare, senza cesura alcuna tra architettura e letteratura, ciò non significando affatto identificazione, ma mantenendosi la specificità di entrambe.
In proposito, senza commento alcuno, qualche stralcio a sua firma:
- Sulla libera soggettività dell’autore in Architettura autarchica e sua legittimità estetica:
«L’architettura è dell’arte la manifestazione che più rispecchia …la storia di un popolo. L’Italia le affida oggi nuovi compiti; non le impone un periodo di stasi o di infeconda attesa. L’arte, d’altro canto, non può subire arresti né ammettere ritorni alle vecchie posizioni; essa è libera, autonoma, autosufficiente e come tale, deve proseguire il suo cammino dello spirito. … In sostanza nell’opera architettonica, così come nell’opera di musica, di pittura o di scultura, sempre che si tratti di un vero prodotto artistico, la soggettività dell’autore non può subire limitazioni di sorta. Ne viene di conseguenza che per l’architettura italiana si apre una nuova era, un novo ciclo tutto nostro…».
- Sul compito della interpretazione estetica:
«è indubbio che chi voglia intendere e storicizzare l’opera d’arte debba raggiungere l’intimo nucleo lirico e fantastico e debba riconoscere il valore d’interiore individualità del linguaggio. È quest’ultima infatti il fondamentale punto di partenza d’ogni critica veramente estetica, che guarda appunto all’espressione inconfondibile e originale del singolo e alla sua parola integra e viva e non allo schema convenuto tra il singolo e la collettività e nel quale la personalità artistica debba come dissolversi di fronte al bisogno di farsi comprendere… Ferma la convinzione che riconosce il principio individuale e però interiore e assolutamente spirituale del linguaggio e ne afferma insieme l’ideale sovrasensibile di esistere come l’unico attraverso cui quel valore possa venire concretamente significato e intuito».
Sul saper vedere:
«l’architettura va guardata nella sua unità e molteplicità: …la forza geometrica, o la luce o lo spazio, per se stessi, come oggetti di visione artistica, non sono qualcosa di più di quel dramma di forze, se effettivamente sentito», che connota l’architettura. «…L’arte va guardata nella sua totalità e nella sua concretezza che è essenzialmente sintesi: La critica non può trascurare i momenti di questa concretezza. Guardarla da un solo punto di vista, ingabbiarla entro un’unica categoria classificatoria dicendo, ad esempio, che è solo spazio, sarebbe impoverire la vita ricchissima dell’arte … ».
Sostenitore convinto delle nuove possibilità artistiche dell’architettura, da Ziino intesa come arte, generate dai nuovi mezzi della tecnica, ritorna su concetti e preconcetti a proposito della questione concernente i rapporti tra arte e tecnica nel suo naturale sviluppo, in un’Italia in cui è ancora presente il preconcetto che i mezzi di cui si dispone (pietra, mattoni, legno, ferro ecc.) possano limitare lo svolgimento dell’architettura creandosi al contrario una subordinazione. Ugualmente rischiosa la posizione di chi sostiene l’identità di arte e tecnica. Due diversi e opposti preconcetti che conducono ad un unico effetto: «la rinuncia alla realizzazione di un’opera veramente degna dei nostri tempi», capace di proseguire, senza arresti, «il suo cammino che è quello dello spirito» e per questo essa è libera, autonoma nell’atto della creazione. Non identità o cesure, ma unità, coerenza in nome dell’organicità estetica «di cui la tecnica è solo un antecedente originariamente digerito e assimilato dall’architetto», e in quanto tale può anche accadere che il vero grande artista sperimenti un fare creativo con mezzi più propriamente tradizionali.
Intendendo l’architettura arte, ma la cui intrinseca specificità la lega alla città e come tale al modo in cui essa è governata, il pensare e l’agire di Vittorio non possono non avere anche funzione e significato politici. Così va inteso il suo interesse alla questione delle autonomie regionali collegata ai problemi urbanistici che lo porta a sostenere quella della Sicilia, della quale, pur dotato di grande lungimiranza, non avrebbe potuto avvertire quanto di negativo sarebbe diventata.
Ma anche la problematica del verde, del traffico, dei centri storici, del risanamento con i vincoli paesistici che si porta dietro, esortando ad «affrontarli come problemi di fondo», mai slegati dai piani urbanistici che non vanno «cristallizzati in una forma chiusa e immutabile, ma da interpretarsi piuttosto come una concezione aperta e adeguabile alla realtà demografica ed economica e al progresso tecnico». Saggi tutti in cui l’analisi e la riflessione non giungono a una sintesi assolutistica, ma sono piuttosto le domande, gli interrogativi la conclusione. Ecco, tra le dimostrative, molteplici considerazioni che potrei qui ri-portare, cosa scrive a proposito della “Invenzione strutturale nella esperienza architettonica”: la sua questione «non può sfuggire ad una prospettiva meramente empirica non potendosi risolvere su un terreno di assolutezza e in base a una definizione categoriale dell’arte, ma si può affrontare solo sul terreno della particolare esperienza delle opere architettoniche. Sono le opere infatti che ci aiutano spesso a liberarci dagli idoli e dai miti tendenti a condizionare e talvolta a deformare i giudizi e le stesse caratteristiche critiche».
Il robusto volume promosso nel 1982 da Giuseppe Caronia in onore di Vittorio Ziino, contiene con gli scritti le opere sin dall’esordio nel 1932. Più volte mi ci sono soffermata cercando di cogliere il generarsi e man mano maturarsi della sua poetica. Con una certa difficoltà colgo la poetica organica di Alvar Aalto di cui dice Giuseppe Caronia. Forse, ma più razionalmente espressa, quella modestia comunicativa che non sminuiva, anzi accresceva l’armonia che intride le sue architetture permeate da ordine e chiarezza. Entrambe da Ziino possedute, spesso generative, queste qualità, di una lieve armonia la cui pacatezza che vi traspare rimanda al suo sentire la carica di responsabilità che permea l’atto creativo in cui è presente la consapevolezza che non una ma molteplice, come ci ricorda Pareyson (in Verità e Interpretazione), è l’interpretazione. Un rimando al fronte laterale del sanatorio di Paimio – 1928-’33 – del maestro finlandese potrebbe leggersi nello schizzo tridimensionale pensato per un edificio a Pozzallo, ma in un dire sintetico sulle sue opere, sempre libere dalla sintassi cubista, a me sembra maggiore, soprattutto per la disposizione delle masse, l’adesione alle poetiche di Gropius, con qualche eco lontano anche a quella di Terragni, e di le Corbusier.
Non sono mai prismi elementari chiusi, le elaborazioni progettuali di Ziino e in essi, e subito, appaiono i rimandi al linguaggio e alla espressività del ‘Movimento Moderno’ palesando i riverberi di quanto conosciuto e assorbito da ruoli, molteplici pregressi e in atto: membro degli Istituti Nazionali di Architettura e di Urbanistica e dell’Accademia di Scienze, Lettere e Arti di Palermo, redattore corrispondente della rivista “Palladio” e della rivista “Urbanistica” (foglio manoscritto 13).
Pienamente inserito nello scenario architettonico a lui contemporaneo e nel dibattito e nelle polemiche che gli sono implicite, con focus sulle poetiche, sui problemi particolari dei mezzi espressivi e sul nuovo linguaggio che deve acquisire l’architettura, e simultaneamente studia, si confronta, mette in dubbio concetti e convinzioni intrecciando autocritica e critica, frequenta le più importanti riviste internazionali di architettura (in proposito vedasi il corsivo che conclude il suo scritto sull’edilizia sanitaria e anche soltanto i titoli degli altri).
Intride questo ‘bagaglio’ di variegata e feconda ricchezza, ancor più di altre, alcune opere. Si guardi, ad esempio, una delle sue prime: una sala cinematografica. È giovanissimo, ventitreenne appena. E tuttavia è già evidente un’immaginazione spaziale protesa al moderno che addirittura ancor prima, nel villino ideato nel 1932 evoca di Walter Gropius la sofisticatezza di linguaggio.
La sobria elegante e ben riuscita volumetria del Palazzo di Giustizia di Sanremo del 1952 (progetto di Concorso). Giocata sui contrasti di masse e di materiali potrebbe manifestare la conoscenza ed adesione anche a quanto Michelucci aveva appena creato, a Pistoia, con la Borsa Merci. Interessante quanto esprime lo schizzo prospettico del progetto del Palazzo di Giustizia di Sanremo del 1952. E riflessi dell’Unité di Le Corbusier del 1952, evocano le scansioni e i ritmi della facciata di Palazzo Garboli (1959) costruita sulla reiterazione.
C’è ancora una sua realizzazione estremamente interessante per ciò che ci dice. È la chiesa di San Vincenzo all’Arenella. 1955-58 gli anni. Ospita la storia quest’opera proponendo all’esterno quanto, ad opera di un tempo lungo di secoli, – duomi di Cefalù e di Monreale – sedimentandosi nell’immaginario collettivo e inserendosi come insieme di significati nella struttura sociale, le ha dato riconoscibilità immediata. La tradizione quindi che qui, testimoniando la sua tempra di autentico architetto moderno, Ziino trasforma in lingua nuova. Ruotate le torri campanarie; una sequenza di tre fornici uguali, profondi come antri, diventa il portico di ingresso, motivo già presente nel progetto di chiesa a Trapani (quartiere Macello, 1951-’54), ma più debolmente inteso. Lastre di pietra levigata rivestono la facciata, e la loro forma e disposizione genera uno slancio verso l’alto attenuando la larghezza determinata dalla rotazione delle torri campanarie.
Dell’insieme la geometria ne costruisce l’ordine e la misura. Un meditato e sapiente contrasto ne è cifra linguistica e figurativa. Fuori, un antico motivo mutato da ‘un gesto’ piccolo e però determinante; dentro una cavità forgiata da architettura e struttura, non intuibile all’esterno. Assenza quindi di una gerarchia anticipatrice dello spazio interno, il cui impianto sostituisce la forma rettangolare, propria delle basiliche benedettine, con quella di un grande poliedro tronco assimilabile a un dodecaedro a dodici facce. Vi si cela la grande lezione di Borromini e di Wright (Beth Schalom).
Di poco sollevato è lo spazio dell’abside: un trapezio che aprendosi sulla grande aula e specchiando in lunghezza la dimensione del portico ri-crea l’antica focalità dello spazio liturgico. La forma dell’aula si denunzia all’esterno, non per l’abside, di poco sollevato, che Ziino involucra facendovi iniziare i necessari ambienti di pertinenza della chiesa che si declinano completandosi in una ‘elle distanziata’, costituendosi in tal modo una corte pensata soprattutto per le libere attività di coloro che abitano il luogo. E con loro, essendomi noto l’intendere dell’architettura di questo responsabile e raffinato architetto, certamente si è confrontato unendone le aspirazioni a quelle della chiesa locale forgiate da una inderogabile normativa.
Tutto qui, all’Arenella, in cui appieno si mostra cosa significhi per Vittorio Ziino l’essere architetto e ingegnere insieme, è dunque a fondo pensato. Ma per ‘intenderlo’ occorrono lentezza e profondità. Appartengono al ‘saper vedere’. Forse, tranne quest’opera e forse qualche altra, raramente crea lingua nuova, ma trovo ottima la sintesi tra un passato a lui quasi contemporaneo e un presente colmo di interrogativi.
Rivivono i maestri, Le Corbusier e Alvar Aalto in particolar modo, ai quali credo abbia sempre guardato, carpendone infine ciò che, reinterpretato secondo i dettati del suo spirito, portava a far vibrare le sue corde, le segrete anche, quelle non sempre percepibili, e il tutto riverberando qui, a Parco d’Orleans, il luogo dove crea un suo intervento, e vi trovo: la sublimazione della funzione anche nell’anti-cubica pianta – una ‘elle ‘ articolata, sfrangiata che nel suo disporsi crea una corte che non è corte, bensì, generosa, aprendosi ai molteplici luoghi della ‘cittadella universitaria’; il generarsi dall’interno la forma e il suo corrispondere con l’esterno; lo spazio creato dalla luce; l’unità di struttura e architettura; la coscienza del valore figurativo, il carattere organico della forma, da Wright sempre magistralmente ottenuto, che dà voce alla misura umana. La sintesi, appunto: un ordine che non espunge l’armonia, che anzi a me pare la esalti, donando un respiro di bellezza che è in un insieme di raccordi, di risonanze, di calme relazioni. Una autentica esperienza estetica che può generare solo un’architettura che ha valore estetico, configurandosi nella coerente unità di arte e tecnica. Anticipo di quanto inizierà a fare il britannico Rogers.
Una delle sue prime testimonianze è la sistemazione nel 1933 della chiesa della Collegiata a Monreale di cui redige il Piano Regolatore, seguita, in età più matura, dall’intervento nel quartiere Malaspina tra il 1949-50. La committenza è statale, e ciò che vuole direttamente discende dal piano Fanfani finalizzato all’attuazione di case «da assegnare, a condizioni economiche particolarmente favorevoli, a cittadini con redditi bassi o che si trovino in condizioni economiche disagiate».
Una sfida per architetti e ingegneri. Il tema da affrontare era il focus del vivere uno spazio nel quotidiano, farlo e sentirlo proprio – da soli, in famiglia, col vicinato –, ed era anche momento di revisione critica di un razionalismo la cui spesso maldestra interpretazione aveva impoverito riducendolo a un razionalismo di maniera.
Il neo-realismo era lo spirito del tempo e con esso si metteva a nudo del proletariato e dei marginali la durezza del mestiere spesso nutrita dai sogni del benessere. Una moralità nuova si cercava e che fosse aderente ai problemi concreti della società. Il cinema donò capolavori. Come dimenticare ad esempio “Mamma Roma”, “Miracolo a Milano”, “Ladri di biciclette”? Può dirsi lo stesso ponendo lo sguardo sullo scenario architettonico? Non credo. Nasceva bacato il piano Fanfani da parte dei singoli Governi, censurando alla base il mileiu di un’autentica architettura sociale «diretta a creare – come sollecitava Ridolfi – l’ambiente di una nuova civiltà democratica». Insiemi di case, con corti e strade, ma autonome, separate, chiusi alla città. Questa la loro identità.
Ma nonostante queste limitazioni, palese la compiuta sintesi di Vittorio Ziino tra costruttività, funzionalità e figuratività nell’evocazione di un linguaggio popolare tessuto dalla tradizione contadina. Difficile oggi coglierne quella magnifica capacità di creare vitali rapporti di vicinato, riverberandosi così la loro architettura sullo spazio pubblico della strada.
Era rigoroso Ziino ma questo non sminuiva il suo essere prodigo di consigli quando sguardo e attenzione si posavano su quanto elaboravano gli studenti, e allora slanci di mitezza, da cui trapelava un calore umano solitamente celato, stemperava il suo abituale rigore. Ha certamente depositato semi di saggezza architettonica e umana nelle fessure della storia nel suo farsi segnando la geografia culturale siciliana.
Dialoghi Mediterranei, n. 63, settembre 2023
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Il testo sull’architetto Vittorio Ziino è stato occasione di incontro e conoscenza della sua famiglia, alla quale rivolgo un grazie sentito, in particolare ai figli Conni e Giorgio per la pazienza con la quale hanno cercato documenti che potessero dare maggiore fondamento alle mie considerazioni e per la cortese disponibilità alle mie ripetute interviste. Si precisa che le immagini in bianco e nero sono tratte dal volume Vittorio Ziino architetto e scritti in suo onore, a cura di Salvatore Caronia, Facoltà di Architettura dell’Università di Palermo, Palermo 1982.
Scritti e saggi consultati di Vittorio Ziino
Riflessi architettonici italici in Grecia, estratto dagli Atti del III Convegno Nazionale di Storia dell’Architettura (Roma 1938-XVI9, Casa Editrice Carlo Colombo, Roma, 1941: 41-60.
Introduzione al capitello composito, estratto dalla rivista “Palladio”, anno V – n. III, Casa Editrice Carlo Colombo, Roma, 1941: 97-111.
Ruskin e il problema dell’architettura come arte, mancante di data: 1-13, pubblicato in <Scienza e umanità>, n. 9-10, settembre-ottobre 1946 e successivamente inserito in Il linguaggio degli architetti, Palermo 1950.
Interpretazioni dell’Architettura, estratto dalla Rivista Scienza e U, Fascicolo 2, 1948, Palermo Tipografia Michele Montana, Palermo 1948: 3-14.
Architettura autarchica e sua legittimità estetica, estratto dagli Atti del convegno di Ingegneria dell’anno XVIII sindacato fascista ingegneri di Milano – VII Triennale, Milano.
Urbanistica e autonomie regionali, Comunicazione presentata al II Congresso Nazionale di Urbanistica ed Edilizia, Roma 1948, Tipografia Priulla, Palermo 1950: 3-14.
Contributi allo studio dell’architettura del ‘700 in Sicilia, Priulla, Palermo 1950
Il linguaggio degli architetti, Tipografia Priulla, Palermo 1950: 9-126
Edilizia sanitaria, Priulla, Palermo 1953.
Produttività e tecnica edilizia, estratto dalla rivista “Casa Nostra”, n. 6, giugno 1954: 1-11.
Note di Edilizia sanitaria, Priulla, Palermo 1953: 7-76.
Il verde a Palermo ieri e oggi, in “Casa nostra”, Rassegna mensile a cura dell’istituto Case popolari di Palermo, gennaio-febbraio 1954: 35-41.
Risanamento e vincoli paesistici, VII Congresso Nazionale di Urbanistica, Estratto dalla rivista “Casa Nostra”, n. 78, 1958: 1-7.
Problemi edilizi e piani di risanamento, Comunicazione al Rotary Club di Palermo, luglio 1959pp. 1-11. Nuovi documenti sull’attività edilizia in Sicilia nel ‘400 e nel ‘500, Quaderni dell’Istituto di Architettura Tecnica dell’Università di Palermo, Arti Grafiche Zangara, Palermo 1960: 3-23.
Gli architetti e l’evoluzione delle forme strutturali, editore la Monaca, Palermo, gennaio 1961: 5-49.
La prefabbricazione in Sicilia, Convegno sui problemi della prefabbricazione e dell’edilizia industriale, Fiera del Mediterraneo, Palermo, 4-5 giugno 1964: 3-43 con tavole allegate I- IX.
Considerazioni sull’Invenzione strutturale nella esperienza architettonica, estratto: 1-11.
Altri libri
T. Basiricò, L. Casadei, Il quartiere Malaspina Notarbartolo a Palermo (1949-1957), in R. Capomolla, R. Vittorini (a cura di), L’architettura Ina Casa 1949-1963. Aspetti e problemi di conservazione e recupero, Gangemi editore, Roma 2003.
Vittorio Ziino architetto e scritti in suo onore, a cura di Salvatore Caronia, Facoltà di Architettura dell’Università di Palermo, Palermo 1982.
Lamberini Daniela (a cura di), L’eredità di John Ruskin nella cultura italiana del Novecento, Firenze, Nardini Editore, 2006: 109-118.
Gli Ziino di Oliver. Tre medaglioni di famiglia: 3-73 (mancante di editore e data di pubblicazione).
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Antonietta Iolanda Lima, architetto, già professore ordinario di Storia dell’Architettura presso l’Università di Palermo. Sostenitrice della necessità di pensare e agire con visione olistica, sua ininterrotta compagna di vita, è quindi contraria a muri, separazioni, barriere. Per una architettura che sia ecologica, sollecita il rispetto per l’ambiente e il paesaggio, intrecciando nel ventennio ‘60-‘70 l’elaborazione progettuale, poi dedicandosi alla formazione dei giovani. Ad oggi continua il suo impegno a favore della diffusione della cultura e di una architettura che si riverberi positivamente su tutti e tutto: esseri umani, animali, piante, terra; perché la vita fiorisca. Promotrice di numerose mostre ed eventi, è autrice di saggi, volumi e curatele. Tra essi, qui si ricordano: L’Orto Botanico di Palermo, 1978; La dimensione sacrale del paesaggio, 1984; Alle soglie del terzo millennio sull’architettura, 1996; Frank O. Gerhy: American Center, Parigi 1997; Le Corbusier, 1998; Soleri. Architettura come ecologia umana, 2000 (ed. Monacelli Press, New York – menzione speciale 2001 premio europeo); Architettura e urbanistica della Compagnia di Gesù in Sicilia. Fonti e documenti inediti XVI-XVIII sec., 2000; Monreale, collana Atlante storico delle città Europee, ital./inglese, 2001 (premio per la ricerca storico ambientale); Critica gaudiniana La falta de dialéctica entre lo tratados de historia general y la monografìas, ital./inglese/spagnolo, 2002; Soleri; La formazione giovanile 1933-1946. 808 disegni inediti di architettura, 2009; Per una architettura come ecologia umana Studiosi a confronto, 2010; L’architetto nell’era della globalizzazione, 2013; Lo Steri dei Chiaromonte a Palermo. Significato e valore di una presenza di lunga durata, 2016, voll. 2; Dai frammenti urbani ai sistemi ecologici Architettura dei Pica Ciamarra Associati, 2017 (trad.ne inglese, Londra e Stoccarda, Edit. Mengel; Bruno Zevi e la sua eresia necessaria, 2018; Giancarlo De Carlo, Visione e valori, 2020; Frugalità Riflessioni da pensieri diversi, 2021. Il suo Archivio è stato dichiarato di notevole valore storico dal Ministero dei Beni Culturali.
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