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Eclisse del sacro in Occidente e creatività mitico-rituale nelle feste popolari siciliane

Capizzi, Pellegrinaggio a Cannedda

Capizzi, Pellegrinaggio a Cannedda (ph. Attilio Russo)

di Sergio Todesco [*] 

Le chiavi d’accesso per misurare in tutta la sua portata il processo che ha avuto come esito una sostanziale eclisse del sacro nel mondo occidentale sono molteplici. In questa sede cercherò di proporne alcune, soffermandomi in particolare su tre di esse.

Una prima chiave utile a fungere da indicatore è indubbiamente costituita, a me pare, dalla frattura tra l’uomo e il suo habitat, e la natura in genere. Non è un caso che il capo della cristianità, Papa Bergoglio, abbia ormai da tempo posto un accento accorato sulle condizioni critiche in cui versa l’intero pianeta a causa del poco rispetto che i sistemi di produzione oggi dominanti hanno riservato tanto alla natura in sé, vista come casa comune, quanto ai popoli e alle culture che da quei sistemi sono stati, dopo i genocidi praticati dal colonialismo, ulteriormente condannati a forme di vita connotate da mera sopravvivenza. In questa sede mi limiterò a citare Laudato si’, la Lettera enciclica sulla cura della casa comune (2015) e Querida Amazonia, l’Esortazione apostolica post-sinodale rivolta “al popolo di Dio e a tutte le persone di buona volontà” (2020).

Sul piano socio-antropologico Serge Latouche ha segnalato lo stretto rapporto di causa-effetto che intercorre tra il capitalismo, visto anche nell’ottica di uno sfruttamento indiscriminato delle risorse naturali e dei beni comuni, e il processo di secolarizzazione prodottosi nelle aree industrializzate d’Italia e del mondo: 

«Questa sorprendente sostituzione della religione economica alla religione tradizionale può essere spiegata principalmente da due circostanze: l’esistenza di un culto quasi universale, molto antico se non trans-storico, del valore incarnato in oggetti feticcio (oro, argento, beni preziosi…), “il Dio denaro”, come lo definisce in modo liquidatorio il teologo Alex Zanotelli, e l’avvento, con l’emergere della modernità, di una nuova fede nel progresso e i suoi corollari (la tecnica, la scienza, la crescita)» (Latouche 2020: 9). 

Un secondo indicatore dell’eclisse del sacro mi pare inoltre possa essere costituito da quella che Zigmunt Bauman chiama società liquida, una società – ci dice lo studioso svizzero – che non consente più alcuna forma di tesaurizzazione dell’esperienza:

«In una società liquido-moderna gli individui non possono concretizzare i propri risultati in beni duraturi: in un attimo, infatti, le attività si traducono in passività e le capacità in incapacità. Le condizioni in cui si opera e le strategie formulate in risposta a tali condizioni invecchiano rapidamente e diventano obsolete prima che gli attori abbiano avuto una qualche possibilità di apprenderle correttamente. È incauto dunque trarre lezioni dall’esperienza e fare affidamento sulle strategie e le tattiche utilizzate con successo in passato: anche se qualcosa ha funzionato, le circostanze cambiano in fretta e in modo imprevisto (e, forse, imprevedibile). Provare a capire come andrà in futuro sulla base di esperienze pregresse diventa sempre più azzardato e sin troppo fuorviante […..]. La vita nella società liquido-moderna non può mai fermarsi: deve modernizzarsi (leggi: continuare a spogliarsi quotidianamente di attributi giunti alla propria data di scadenza, e a smontare/togliere le identità di volta in volta montate/indossate) o perire. Spinta dall’orrore della scadenza, non richiede più di essere trainata dai sogni delle meraviglie immaginate come esito estremo dei travagli della modernizzazione. Ciò che bisogna fare è correre con tutte le forze semplicemente per rimanere allo stesso posto, a debita distanza dalla pattumiera dove altri sono destinati a finire» (Bauman 2008: VII, IX-X). 

3-agambenCome è agevole notare, la chiave di lettura qui citata pone l’accento sull’incapacità del mondo moderno a tesaurizzare l’esperienza provvedendo a custodirla quale serbatoio di memorie. In maniera non dissimile un filosofo come Hegel (Enzyclopädie der philosophischen Wissenschaften im Grundrisse, 1830) individuava quale principio della dialettica l’aufheben, il togliere e al contempo conservare, per indicare cioè un superamento che non comporti la negazione o l’abolizione di quanto si sia superato.

Qualche decennio fa Giorgio Agamben ha svolto considerazioni analoghe: 

«Ogni discorso sull’esperienza deve oggi partire dalla costatazione che essa non è più qualcosa che ci sia ancora dato di fare. Poiché, così come è stato privato della sua biografia, l’uomo contemporaneo è stato espropriato della sua esperienza: anzi, l’incapacità di fare e trasmettere esperienze è, forse, uno dei pochi dati certi di cui egli disponga su se stesso. […..] Noi sappiamo però oggi che, per la distruzione dell’esperienza, una catastrofe non è in alcun modo necessaria e che la pacifica esperienza quotidiana in una grande città è, a questo fine, perfettamente sufficiente. Poiché la giornata dell’uomo contemporaneo non contiene quasi più nulla che sia ancora traducibile in esperienza […..]. È questa incapacità di tradursi in esperienza che rende oggi insopportabile – come mai in passato – l’esistenza quotidiana, e non una pretesa cattiva qualità o insignificanza della vita contemporanea rispetto a quella del passato (anzi, forse mai come oggi l’esistenza quotidiana è stata tanto ricca di eventi significativi)» (Agamben 1978: 5, 6). 

Terzo indicatore, le cui enunciazioni non pongono l’oblìo del sacro quale esito di un processo ma come fatale risvolto di una situazione strutturalmente già definita, è rappresentato dalla ormai famosa distinzione operata da Claude Lévi-Strauss tra società “calde” e società “fredde”. A metà del secolo scorso l’antropologo francese proponeva di sostituire alla distinzione tra “primitivi” e “civilizzati” quella tra società “fredde” (il cui clima interno è «vicino allo zero di temperatura storica») e società “calde” (le cui dinamiche sono «regolate da un motore a scoppio»), le prime tese ad annullare, attraverso le istituzioni e le forme di cultura che si danno, l’effetto dei fattori storici sul proprio equilibrio e la propria continuità, le seconde – come la nostra – volte viceversa a «interiorizzare il divenire storico per farne il motore del proprio sviluppo». Le prime dunque basate su continui “equilibri”, le seconde amanti degli squilibri come indicatori di vitalità e di sviluppo: 

«Pur essendo nella storia, queste società sembrano aver elaborato, o mantenuto, una saggezza particolare, che le induce a resistere disperatamente a ogni modificazione della loro struttura che permetta alla storia di fare irruzione in esse… La maniera in cui sfruttano l’ambiente garantisce, in pari tempo, un modesto livello di vita e la protezione delle risorse naturali.
A onta della loro diversità, le regole matrimoniali che esse applicano presentano, secondo i demografi, un carattere comune, che è quello di limitare al massimo e di mantenere costante l’indice di fecondità. Infine, una vita politica fondata sul consenso, e tale da non ammettere decisioni che non siano quelle prese all’unanimità, sembra concepita all’unico scopo di escludere quel motore della vita collettiva che utilizza scarti differenziali fra potere e opposizione, maggioranza e minoranza, sfruttatori e sfruttati» (Lévi-Strauss 1952: 40).   

4-levi-straussLa dicotomia tra società “calde” e società “fredde”, le prime caratterizzate da un elevato grado di accettazione del divenire, le seconde viceversa tese a congelare il fluire degli eventi, giova a render conto della diversa concezione del tempo in seno alle società tradizionali (tempo ciclico) e alle società moderne (tempo lineare). Il tempo lineare è un tempo che si dipana all’infinito senza che se ne scorgano e se ne possano controllare gli esiti. Il tempo ciclico, che periodicamente ritorna su se stesso, consente viceversa all’uomo determinate forme rituali di controllo.

Una delle cause, forse la principale, dell’eclisse del sacro in Occidente risiede proprio nella mancanza di controllo sul tempo che l’uomo moderno percepisce di avere smarrito. Parafrasando l’Ivan Karamazov di Fëdor Dostoevskij (Se Dio non esiste tutto è possibile) si potrebbe affermare: Se non è possibile padroneggiare il divenire il futuro non apre alla speranza.

Nella consapevolezza che la concezione ciclica del tempo possa tradursi in una fuga senza ritorno dalla storia, con la conseguente incapacità di elaborare strategie atte a costruire, giorno dopo giorno e con un mai intermesso lavorìo civile e politico (quello che Ernesto de Martino definiva ethos trascendentale del trascendimento nel valore) modelli diversi di “stare nel mondo” a misura d’uomo, nell’economia di questo contributo intendo riflettere su alcune modalità, evidentemente non immuni da arcaismi e irrazionalismi, con le quali la cultura popolare ha potuto esprimere nel corso della sua storia forme di resistenza al vuoto determinato dall’eclisse del sacro manifestatasi nell’Occidente euro colto, e oggi – possiamo affermare – nell’intero pianeta cui il sistema capitalistico mondiale funge ormai da placenta. E la chiave per cogliere alcune di tali strategie di resistenza a me pare possa trovarsi nell’universo festivo, come qui da noi in Sicilia ma anche in altri angoli di mondo è ancora dato sperimentare.

Il tempo della festa è un tempo sospeso. Esso si presenta come una particolare scansione del divenire umano mediante la quale gli uomini in società, attraverso l’assunzione deliberata o inconsapevole di modelli di comportamento in gran parte eccentrici rispetto a quelli adottati nella vita ordinaria, si pongono di fatto in una condizione aurorale, di effervescenza, in cui il mondo appare ancora allo statu nascenti. Ciò comporta che le azioni compiute, i gesti espressi, le parole dette durante la festa acquistino un’efficacia e una pregnanza reali e non simboliche, dato che essi sono azioni, parole, gesti posti in essere in un tempo straordinario, in una dimensione temporale non profana ma sacra, eccezionale; essi assumono in tal modo la veste di fatti rituali. Il rito è dunque la parte “elementare” del tempo strutturato per mezzo della quale, all’interno del continuum spazio-temporale, è dato operare le discrezioni, scandire gli eventi, creare le norme, conferire i sensi.

I Giudei di San Fratello

I Giudei di San Fratello (ph. Giangabriele Fiorentino)

La cultura popolare siciliana ha costellato di riti, di azioni rituali, ogni momento della vita dell’uomo passibile di crisi, ossia del rischio di abdicazione della umana operatività di fronte alla tentazione sempre presente del “non c’è niente da fare” e “il nulla avanza”. In genere ogni momento importante e significativo della vita dell’uomo è per ciò stesso un momento critico dell’esistenza: la nascita, il lavoro, l’amore, la guerra, la malattia, la morte etc., sono tutti ambiti esistenziali che richiedono l’intervento di dispositivi culturali, i riti appunto, i quali plasmino il reale e fissino delle regole, controllando e disciplinando ciò che in genere sfugge ai controlli e alla disciplina.

Attraverso i riti pertanto la comunità periodicamente si rigenera e si fortifica, proprio perché affronta ogni crisi immersa in una “campana da palombaro” (Kerènyi 1948), ossia muovendosi in un tempo protetto, destorificato in quanto collegato a fatti pregnanti avvenuti “in illo tempore” (Eliade 1954), in un tempo delle origini fondante e garante della storia stessa.

Rito per eccellenza è il momento festivo, che nella cultura popolare siciliana, oltre ovviamente che in tutte le culture umane tout court, assume una specifica rilevanza. I tempi festivi sono tempi forti, qualitativamente differenziati rispetto ai tempi deboli della vita quotidiana e connotati da una sacralità percepibile anche nel caso di feste non religiose. Durante il periodo festivo, come si è detto, si attua la sospensione istituzionale del tempo ordinario, vengono spesso invertiti o soppressi i diversi ruoli sociali e le gerarchie abitualmente vigenti e si procede a una sistematica consumazione delle scorte alimentari che vuole essere atto esorcistico contro la penuria e propiziatorio di costante abbondanza. Nel periodo festivo, inoltre, l’uomo delle culture arcaiche, preindustriali, premoderne (nel nostro Paese, in primo luogo, le culture agro-pastorali e contadine) si riconcilia con i propri simili nella misura in cui con essi riesca a elaborare solidalmente un tempo protetto, a regime di risparmio, posto cioè fuori della storia e del divenire, con tutta la carica negativa che storia e divenire comportano, un tempo in cui possono essere rivissuti determinati temi mitici (nella accezione tradizionale di mito come storia vera), a esempio il martirio di un Santo o la passione di Cristo, attraverso una drammatizzazione nella quale l’intera comunità si sente coinvolta.

Secondo il detto di Aristotele (citato in in Synesio, Dione. 48) agli iniziati ai misteri non veniva richiesto di apprendere bensì di ricevere sensazioni e predisposizioni: ού μαθεĩν αλλά παθεĩν. Tale principio può essere fatto valere nel caso dei meccanismi di fruizione dei momenti festivi, così come essi vengono emicamente percepiti dalle comunità presso le quali essi mantengono tuttora ampi margini di vitalità e di persistenza.

Angioletto di San Pier Niceto

Angioletto di San Pier Niceto (Archivio Todesco)

Nel tempo festivo, tempo sacro per eccellenza, le distanze sociali dunque si accorciano o cessano di esistere, e gli uomini celebrano la gioia della condivisione di una forte esperienza comunitaria. Si tratta evidentemente di una fictio, di una pia fraus, dato che la storia non cessa di accampare i propri diritti e i difficili, a volte alienanti, rapporti interpersonali e sociali della vita di ogni giorno tornano presto a far valere le loro esigenze; ma proprio tale pia fraus, che l’uomo avverte l’esigenza di imporre periodicamente a se stesso, consente di sospendere, sia pure per un breve periodo, la monotonia di giornate sempre uguali e senza prospettive, e agevola un ritorno alla vita ordinaria improntato alla riconciliazione e alla tolleranza.

Ci troviamo di fronte a un’esigenza, pressoché universalmente avvertita, di creare momenti forti, periodi pregnanti nei quali il tempo ritorni per così dire su se stesso e si possa stare nella storia come se non ci si stesse. Durante tali periodi, culturalmente determinati (a seconda di esigenze connesse con i cicli della vita biologica, o di quella naturale, ovvero di quella sociale e produttiva), vengono compiuti riti attraverso i quali si attua una restaurazione dell’uomo al centro del proprio universo, o si rivive un certo particolare dramma risolvendolo sul piano simbolico; ma intanto, attraverso questa rappresentazione mascherata del divenire in un tempo metastorico, protetto, vengono di fatto sottratti a una concezione meccanicistica del divenire tutti gli altri momenti della concreta storia quotidiana che intercorrono tra un “tempo forte” e l’altro.

San Sebastiano a Tortorici (ph. Giangrabriele Fiorentino)

San Sebastiano a Tortorici (ph. Giangabriele Fiorentino)

Come è ovvio, le chiavi di lettura qui solo sommariamente delineate (la festa come dispositivo di reintegrazione culturale, come esito di una “destorificazione istituzionale”, come oggettivazione formale di miti, come stratagemma comunitario, come tempo protetto, salvato, liberato) non esauriscono certo la variegata fenomenologia festiva, che si sostanzia di numerosissimi apporti tratti dai vari aspetti della vita associata e che comunque va imprescindibilmente commisurata alle modalità, storicamente condizionate, che regolano la produzione e la riproduzione delle condizioni materiali di esistenza degli uomini. Conviene inoltre rilevare come le dinamiche attraverso cui la festa si esprime e le strategie che al suo interno sono poste in essere non facciano che rinviare a modalità di gestione di intere famiglie di linguaggi, a forme plurime di adozione di fasci di codici tra i più disparati, dal verbale al sonoro, all’olfattivo, al gestuale, tra i quali però finisce con l’affermarsi come privilegiato quello corporeo; le feste sono infatti, altresì, grandiose manifestazioni corporee che consentono agli esseri umani che le vivono di rapportarsi reciprocamente, nella propria fisicità, in modo affatto differente da quanto avviene nella realtà quotidiana, sperimentando forme nuove di comunicazione che  investono la sfera  emotiva, affettiva, sessuale.

È in ogni caso importante notare che, all’interno di una situazione di forte mutazione antropologica come quella in cui si trova oggi il nostro Paese, la festa ha finito col costituirsi come luogo deputato per una serie di azioni, tutte in qualche modo volte a mantenere la coesione del gruppo sociale, a preservare l’identità comunitaria, a innescare comportamenti collettivi basati su un più o meno consapevole esercizio della memoria, avvertito come valido e a volte unico baluardo contro ogni possibile rischio di disgregazione culturale.

Nonostante l’universo festivo popolare sia andato incontro a decisivi processi di de-sacralizzazione, esso non ha ancora smarrito una certa sua valenza evocativa, simbolica, responsabile: 

«In tempi recentissimi nessuna certezza metafisica rischiara più le immagini-anime del mondo popolare. Una concezione realistica e razionalistica dell’immagine (e dell’anima) va affermandosi ovunque per via di processi economico-sociali, culturali, tecnici, estesi e dirompenti. L’immagine conserva ancora, tuttavia, certi suoi caratteri animatici, una sua natura, insieme responsabile ed eticamente dichiarata. Essa è, comunque, senz’altro essenza, per quanto questa possa essere difficilmente traducibile in una forma concettuale definita e in un apparato mitico coerente. Risiede e opera, nell’immagine, parte infinitesimale, ma non per questo trascurabile, della potenza e dell’intelligenza del referente. Per questo suo carattere che, se riconnette al referente disegna anche un particolare statuto autonomo, l’immagine occupa un posto determinante, vicario della potenza e della volontà operativa figurate, nelle mitologie, nelle simbologie, nei rituali popolari» (Faeta 1989: 20). 

Lo stesso studioso precisa ancora più esplicitamente tale statuto, rimarcando 

«una compattezza, ignota al pensiero e alla prassi egemoni, dell’immaginario folklorico. Qui le immagini hanno origini e natura metafisica e metastorica. Benché eseguite per lo più da mano umana, scaturite dall’attività artigiana, esse promanano sempre, in ultima istanza, da una realtà sovrannaturale, identificano un ambito sacrale, significano nel contesto di metadiscorsi […], esse sono sempre fondate sacralmente e consentono una comunicazione, altrimenti impossibile o disagevole, tra entità poste su differenti livelli, in differenti spazî e tempi: costituiscono il tramite di un rapporto strutturalmente asimmetrico» (Ibid: 22). 

le-figure-inquiete-tre-saggi-sullimmaginario-folklorico-faeta-1Le feste dunque, assumendo sempre la funzione di presentificare Entità assenti, svolgono un ruolo analogo a quello degli ex voto, pur all’interno di un rapporto tra realtà incommensurabili quale già Pietro Clemente, sulla scorta di Émile Benveniste, segnalava (Clemente 1982). Mi provo quindi a enumerare brevemente, a titolo esemplificativo ma non certo esaustivo, alcune delle caratteristiche riscontrabili nelle feste popolari siciliane nelle quali la dimensione del sacro mostra di aver conservato ancora un suo senso, una sua vitalità.

Una prima caratteristica consiste nel praticare – la festa – la ripetizione periodica di un mito. Attraverso la ripetizione periodica di un evento mitico-sacrale avvenuto in illo tempore la comunità in festa si riappropria di un tempo delle origini prezioso per il rafforzamento della propria identità e la confermazione nella congruità dei propri orizzonti. Basti pensare ai grandi scenari che il ciclo natalizio e la Settimana Santa in Sicilia sono ancora in grado di esibire.

Altra caratteristica saliente dell’universo festivo consiste nel grande investimento corporeo. Le feste popolari, in tante loro manifestazioni, prevedono un grande investimento e coinvolgimento corporeo. Esso produce un effetto terapeutico, tanto sotto il profilo somatico quanto sotto quello mentale e psicologico. I portatori di fercoli e varette processionali, i fedeli festanti e corporalmente contigui in attesa dell’uscita del santo, i pellegrini sdraiati per terra nei luoghi di culto extraliturgici sperimentano tutti forme prossemiche diverse da quelle della vita di ogni giorno.    

Un terzo elemento lo si trova nelle strategie poste in essere volte a tenere collegati mondo dei vivi e mondo dei morti. In molte feste i riti consentono alla comunità di riunire periodicamente e tenere uniti mondi irrelati e disgiunti come quello dei vivi e quello dei morti, ricucendo in tal modo il trauma dell’assenza e recuperando i defunti, nelle strategie del cordoglio, come care memorie. Dai riti del cordoglio alle veglie funebri, ai dolci dei morti destinati ai bambini, si dispiega un’ampia gamma di comportamenti, tecniche, credenze, investimenti affettivi volti a recuperare come care memorie, quando non Lari benefici, i parenti scomparsi.

Il culto dei morti in Sicilia

Il culto dei morti in Sicilia

Ancora, un’ulteriore caratteristica che offre ampi margini di apertura a dimensioni sacrali è quella relativa alla creazione di tempi “sospesi”, durante i quali vengono a ribaltarsi gli equilibri sociali ordinari. I tempi sospesi della festa – sospesi perché sospendono i criteri della vita ordinaria – determinano anche, assai spesso, un ribaltamento dei ruoli che, per quanto effimero, contribuisce alla stabilità sociale agendo da elemento neutralizzatore dei conflitti. In questo caso la sacralità risiede nella possibilità di sperimentare, per coloro che vivono emicamente la festa, l’immersione, sia pur essa temporanea, in un mondo alla rovescia, altro da quello profano della vita ordinaria. La Sicilia offre in questo ambito un arco amplissimo di esempi, dai Giudei di San Fratello al Camiddu di Casalvecchio per la festa di Sant’Onofrio, al Sirpintazzu di Butera all’Orso di Saponara.

Altro aspetto che mi pare degno di sottolineare in molte fenomenologie festive è quello relativo alla consumazione comunitaria di cibi e bevande. La consumazione collettiva e condivisa di alimenti rafforza la coesione del gruppo sociale e ne sancisce la comune identità attraverso un’esperienza agapica. Un tipico esempio è offerto dalla festa del Convito di Roccavaldina, ma anche ai pasti consumati durante i pellegrinaggi da uomini e donne che si trovano uniti in una comunità provvisoria.

Ulteriore elemento indicatore di un’alterità sacrale della festa consiste nella presenza di codici comunicativi e di simboli “eccentrici” rispetto a quelli ordinari. I codici multimediali (gestuali, sonori, olfattivi…) e i simboli “eccentrici” in quanto extra-ordinari fanno vivere agli attori della festa esperienze di alterità esistenziale che si rivelano positive sotto il profilo psicologico. Le figure stranianti, i fuochi rituali, i giochi pirotecnici, le pantomime en plein air come quella del cavadduzzu e l’omu sarbaggiu nella festa del Pagghiaru a Bordonaro concorrono tutti a creare spaesamento e reverie.

Il Cristo Lungo a Castroreale

Il Cristo Lungo a Castroreale

Non posso poi tacere della dimensione teatrale, direi onnipresente nel folklore religioso meridionale. I teatri a cielo aperto che sostanziano gran parte delle feste popolari siciliane rendono possibile alla comunità di creare simbolicamente performance che agevolano il deflusso di nodi critici irrisolti. Anche in questo caso gli esempi sono molteplici, mi basterà menzionare la festa del Mastro di Campo a Mezzojuso per evidenziare come le strade, le piazze, gli slarghi paesani si trasformino nel tempo della festa in palcoscenici privilegiati per rappresentazioni sempre uguali a se stesse e al contempo irripetibili.

Ultimo, ma non ultimo per pregnanza ed efficacia simbolica, è – nelle dinamiche festive – il controllo, o la ridefinizione, rituale degli spazi. La festa, adottando strategie di controllo e addomesticamento simbolico degli spazi e dei luoghi – attraverso processioni o pellegrinaggi – consente di riscattare gli stessi dalla loro insignificanza di non-luoghi riguadagnandoli come spazi “appaesati”, ancora in grado di garantire sicurezza e protezione a quanti a tali dinamiche si affidino.

Concludo, se una qualche conclusione possa mai essere data su tali argomenti. A fronte della povertà di orizzonti che il mondo di oggi offre ai suoi abitanti (devastazione del pianeta e miraggio fallace di crescita illimitata, guerre e conflitti diffusi, progressivo tramonto degli ideali, carestie e povertà, epidemie, egemonia della finanza etc.) la cultura popolare e tradizionale (direi, ad onta della globalizzazione, tanto le Indias de por acà quanto le Indias de por allà) riesce dunque ancora – seppure con difficoltà e non sappiamo ancora per quanto – a testimoniare di una pluralità di forme diverse di “stare nel mondo” implicitamente contestatrici delle forme e dei modelli culturali che governano la parte opulenta del nostro pianeta.

Dialoghi Mediterranei, n. 64, novembre 2023
[*] Intervento presentato al Convegno “La memoria, il tempo e la storia. L’oblio del sacro in occidente” tenutosi a Mandanici, 8-10 settembre 2023.
Riferimenti bibliografici
Giorgio Agamben, Infanzia e storia: Distruzione dell’esperienza e origine della storia, Torino, Einaudi, 1978.
Zygmunt Bauman, Vita liquida, Bari, Laterza, 2008.
Pietro Clemente, “Il voto come parola, come dono, come scambio” e “Trans-azioni; le tavolette votive come scambio e come debito, in P. Clemente, L. Orrù, Sondaggi sull’arte popolare, Storia dell’Arte Italiana: Forme e modelli, Torino, Einaudi, III-IV, 1982: 237-341.
Mircea Eliade, Trattato di storia delle religioni, Torino, Einaudi, 1954; Id., Il sacro e il profano, Torino, Boringhieri, 1967; Id., Il mito dell’eterno ritorno: (Archetipi e ripetizione), Torino, Borla, 1968.
Francesco Faeta, Le figure inquiete: Tre saggi sull’immaginario folklorico, Milano, Franco Angeli, 1989.
K. G. Jung, K. Kerènyi, Prolegomeni allo studio scientifico della mitologia, Torino, Einaudi, 1948.
Serge Latouche, Come reincantare il mondo: La decrescita e il sacro, Torino, Bollati Boringhieri, 2020.
Claude Lévi-Strauss, Elogio dell’antropologia, in Razza e storia e altri studi di antropologia, Torino, Einaudi, 1952; Id., Primitivi e civilizzati: Conversazioni con Georges Charbonnier, Milano, Rusconi, 1970.
Sinesio di Cirene, Dione Crisostomo, Napoli, Libreria Scientifica Editrice, 1970.

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Sergio Todesco, laureato in Filosofia, si è poi dedicato agli studi antropologici. Ha diretto la Sezione Antropologica della Soprintendenza di Messina, il Museo Regionale “Giuseppe Cocchiara”, il Parco Archeologico dei Nebrodi Occidentali, la Biblioteca Regionale di Messina. Ha svolto attività di docenza universitaria nelle discipline demo-etno-antropologiche e museografiche. Ha al suo attivo numerose pubblicazioni, tra le quali Teatro mobile. Le feste di Mezz’agosto a Messina, 1991; Atlante dei Beni Etno-antropologici eoliani, 1995; IconaeMessanenses – Edicole votive nella città di Messina, 1997; Angelino Patti fotografo in Tusa, 1999; In forma di festa. Le ragioni del sacro in provincidi Messina, 2003; Miracoli. Il patrimonio votivo popolare della provincia di Messina, 2007; Vet-ri-flessi. Un pincisanti del XXI secolo, 2011; Matrimoniu. Nozze tradizionali di Sicilia, 2014; Castel di Tusa nelle immagini e nelle trame orali di un secolo, 2016; Angoli di mondo, 2020; L’immaginario rappresentato. Orizzonti rituali, mitologie, narrazioni (2021).

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