di Massimo Jevolella
La magnificazione del nemico: un caso storico più unico che raro
Il fenomeno delle false notizie fa parte della storia umana fin dalla più remota antichità. E non sarebbe nemmeno esagerato affermare che la storia stessa sia stata costruita in buona parte sulla base di clamorose fake news, dalla guerra di Troia fino all’invasione dell’Iràq nel 2003, all’elezione di Trump e alla vittoria della Brexit nel 2016. Molto rumore per nulla. Da una menzogna, ossia da un nulla, da un non essere, ecco generarsi come per magia un essere, una realtà. Magari una catastrofe, una svolta epocale, un impero millenario destinato a dissolversi in un ventennio o anche meno. O una strage di innocenti, o lo sterminio di un popolo. Oppure una semplice leggenda, o un enorme castello di leggende, come nel caso di tutte le infamanti e incredibili storie che si narrarono in Europa sul profeta Muḥammad per molti secoli, fino addirittura all’età dei Lumi 1.
Ma se la contraffazione della realtà, nel caso di Muḥammad, si può definire implacabile ed estrema, che cosa dovremmo dire allora del fiume di leggende che per altrettanti secoli, in Occidente, sommerse la figura storica del Saladino? Già, perché in questo caso la questione si complica e si presenta nelle forme di una stupefacente anomalia. Saladino, ovvero Ṣalāḥ ad-Dīn (che in arabo vuol dire “Integrità della Religione”), il sultano curdo che nel 1187 aveva distrutto il regno cristiano di Gerusalemme nato dalla prima crociata, doveva naturalmente essere considerato dagli europei come il nuovo Anticristo, l’arcinemico della vera fede, punto e basta. Se un fiume di fango aveva sommerso l’immagine di Maometto, lo stesso destino avrebbe dovuto abbattersi sulla figura del Saladino. Ma le cose non andarono proprio così. E il miglior punto di partenza del nostro racconto non può trovarsi che nelle parole del nostro sommo poeta, l’Alighieri.
In due luoghi dell’opera dantesca s’incontra il Saladino: il quarto trattato del Convivio, e il quarto canto dell’Inferno. Siamo agli albori del secolo XIV, e il Fiorentino, probabilmente, non ha ancora compiuto i quarant’anni quando, ormai all’inizio del suo doloroso esilio, prende a comporre questi scritti. Partiamo allora dalla Divina Commedia. Icastica e folgorante, come tutti ben ricordiamo, è l’apparizione del condottiero musulmano sulla scena quietamente triste del limbo, quello strano non-luogo in cui, segregate all’interno della settuplice cinta di mura di un “nobile castello”, le figure spettrali degli «spiriti magni” esclusi dalla cristiana salvezza soffrono sospirando di un “duol sanza martiri” 2 e solo, in parte, vidi ‘l Saladino 3.
Nella sua drammatica mestizia, la scena è di una potenza impressionante. Saladino è solo. Doppiamente segregato, dunque. Appartato fra gli appartati. E chi sono gli altri spiriti magni che vagano a passo lento, “con occhi tardi e gravi”, sul bel prato luminoso del castello, parlando tra loro, ogni tanto, “con voci soavi”? Dante non è in grado di nominarli tutti, ma quelli che ricorda sono forse i più abbaglianti tra i personaggi, uomini e donne, che popolano il suo universo culturale; figure della storia e dell’epopea letteraria, della scienza e della filosofia, da Ettore ed Enea a Socrate e Platone, da Lavinia e Lucrezia a Cicerone, Seneca, Euclide, e poi Ippocrate e Galeno, fino ai musulmani Avicenna e Averroè. E tutti costoro se ne stanno in compagnia, tranne uno solo. Tranne il Saladino. Perché lui fu sì un grande, vuol dirci Dante, ma fu anche il distruttore implacabile dei sogni cristiani in Terra Santa. Fu il condottiero che massacrò e umiliò i cavalieri del Tempio nella battaglia di Ḥittīn 4.
E in effetti, altro non possiamo dedurre da quel verso lapidario, se non per congettura. Possiamo solo fermarci a costatare l’estremo, quasi timoroso rispetto, che anima il Poeta nei confronti di quel personaggio al tempo stesso triste, sdegnoso e altero. E allora, ecco che in noi nasce naturalmente la curiosità. Vogliamo saperne di più, di quel Saladino, e della conoscenza che Dante aveva di lui. Perché mai lo rispettava? E in quel modo che potrebbe sembrarci perfino esagerato? A questo punto, non rimane che appellarci alle pagine del Convivio, per vedere se il Poeta, che in questo caso veste i panni del filosofo, vuole fornirci qui degli elementi più chiari per venire a capo del mistero.
Ma ad attenderci è una sorpresa. Da un lato, la nostra speranza non è affatto delusa: nel Convivio, Dante ci offre una chiave preziosa per giustificare l’alta considerazione in cui tiene il Saladino; dall’altro, dire che ci spiazza e che ci lascia stupiti sarebbe ancor poco. A quanto pare, infatti, non è la figura del vittorioso condottiero quello che lo interessa. Non sono le sue virtù guerriere e carismatiche, come il coraggio, l’idealismo, o l’animo clemente dimostrato nei confronti dei suoi nemici. No, niente di tutto questo. Il breve capitolo del Convivio in cui Dante evoca il Saladino 5 è tutto incentrato su un ben altro argomento: il valore che le divizie, ossia le ricchezze materiali, possono avere in rapporto alla qualità di una persona. Strana cosa? Niente affatto, in realtà. Perché l’argomento è non solo uno dei più affascinanti tra quelli che stanno al cuore dell’etica classica, ma è anche uno degli stimoli fondamentali, dei più vivi e brucianti, che muovono l’alta fantasia del Poeta nella sua ansia di fuggire dalla selva oscura del peccato, per correre verso il cielo puro della nobilitade, per liberarsi insomma da ciò che di più meschino – l’avidità dei beni materiali, e l’avarizia, che ne è la gemella – inchioda gli esseri umani al fango e alle tenebre della vita terrena 6..
Cos’altro vuol dirci infatti, nel primo canto dell’Inferno, l’apparizione della squallida lupa, la più terribile delle tre fiere che cercano di ricacciare Dante nel dolore della selva, spaventandolo al punto da fargli perdere la speranza di salvarsi? Questa lupa che, dice il Poeta, inferocita da “rabbiosa fame”, nella sua orrenda magrezza sembra carica di tutte le brame di questo mondo, è l’immagine della nostra stultitia più profonda. È la nostra ingordigia bestiale e insaziabile, che invece di procurarci la vera ricchezza ci rende sempre più indigenti e miserabili:
E ha natura sì malvagia e ria,
che mai non empie la bramosa voglia,
e dopo ‘l pasto ha più fame che pria 7.
E allora Dante nel Convivio si chiede: perché mai le divizie, che per loro essenza sono vili e imperfette – dal momento che, quantunque ammassate, non possono darci la serenità, ma ci rendono ancora più insoddisfatti – potrebbero conferire all’uomo la nobilitade? Ossia: quando mai ciò che è vile e imperfetto potrebbe renderci nobili e perfetti? Ed è ovvia la risposta. E ciò che ne consegue, per logica speculare, è un’altra semplice affermazione, ovvero che l’ignobiltà e la malvagità debbano essere le vere e usuali compagne delle ricchezze materiali. Anche perché, aggiunge Dante con una punta di veleno, è evidente che sono normalmente i malvagi a ottenerle, e non i buoni.
Ma, nella storia, quali esempi illustri ci si offrono di questa bontà? Di questa vera nobiltà? Dante non ha dubbi in proposito, ed è a questo punto che nel suo discorso s’inserisce ancora una volta, come una gemma inaspettata, il nome del Saladino. Non più solo e appartato, stavolta, ma in compagnia di altri personaggi che furono campioni di bontà e di generosità:
E cui non è ancora nel cuore Alessandro per li suoi reali benefici? Cui non è ancora lo buono re di Castella, o il Saladino, o il buono Marchese di Monferrato, o il buono Conte di Tolosa, o Beltramo dal Bornio, o Galasso di Montefeltro? Quando de le loro messioni si fa menzione, certo non solamente quelli che ciò farebbero volentieri, ma quelli prima morire vorrebbero che ciò fare, amore hanno a la memoria di costoro.
Amore, dunque. La memoria di Saladino è degna non solo di rispetto, ma perfino di amore, alla stessa stregua di quella d’un Alessandro Magno, o di un eroe cristiano come quel Corrado, marchese di Monferrato, che combatté valorosamente in Terra Santa proprio contro il Saladino. Dante, che caccia all’inferno Maometto, il fondatore dell’Islàm, è lo stesso uomo che esalta l’eroe più celebre dell’Islàm. Il paradosso è clamoroso, se poi pensiamo alla venerazione che il Poeta manifesterà al termine della Commedia per Bernardo di Chiaravalle, il mistico che in un fiammeggiante trattato aveva incitato i “soldati di Cristo” a “uccidere tranquillamente” i nemici musulmani, creando per questo la terribile teoria del “malicidio” 8. O anche alla beatificazione, nel diciottesimo del Paradiso, del “duca Gottifredi”, ossia di quel Goffredo di Buglione che nel luglio del 1099, alla guida della prima Crociata, aveva strappato Gerusalemme ai musulmani. E allora è chiaro che la nostra curiosità non può placarsi qui, nemmeno dopo avere inteso i saggi ragionamenti del Convivio.
Chi fu dunque realmente il Saladino? E attraverso quali flussi di informazione e di opinione venne formandosi in Europa, in brevissimo tempo dopo la sua morte,9 l’immagine del “nobile sultano saraceno, generoso e clemente” che pervenne poi come una leggenda già ben strutturata alle orecchie di Dante?
Sultano per caso
Ci sono uomini, estremamente rari, che il peso del proprio potere non lo fanno sentire agli altri, ma solo a se stessi. Sono quelli che vedono nel potere solo l’aspetto della responsabilità. Saladino fu uno di quei pochi. Ed è soprattutto per questo che nessuno lo vide mai esaltarsi o esultare dopo i suoi successi. Non sappiamo se egli avesse mai letto qualche libro dell’Antico Testamento – la cosa è improbabile – ma di sicuro avrebbe baciato le pagine della cosiddetta Sapienza di Salomone (testo particolarmente caro a Dante!) dove sono enunciate le regole d’oro del buon governo: «Amate la giustizia, voi che governate la terra […] Ascoltate, o re, e cercate di comprendere; imparate, potenti di tutta la terra. Porgete l’orecchio, voi che dominate le moltitudini e siete orgogliosi per il gran numero dei vostri popoli […] L’inferiore è meritevole di pietà, ma i potenti saranno esaminati con rigore»10.
Un episodio su tutti può aiutarci a intuire la natura di quest’uomo straordinario. Avvenne al Cairo alla fine di marzo del 1169, ma prima di evocarlo occorre fare una breve premessa. Non per tracciare un profilo biografico, sia pur sommario, del Saladino – impresa che ci porterebbe lontano dal nostro tema – ma almeno per chiarire un po’ le “origini” della sua storia11.
Ben poco si sa dell’infanzia di Saladino. Suo padre si chiamava ʻAyyūb (Giobbe) e aveva ricevuto il titolo onorifico di Naǧm ad-Dīn (Stella della Religione); era un avventuriero di stirpe curda, che insieme con il fratello Šīrkūh Asad ad-Dīn (Leone della Religione) aveva lasciato all’inizio del XII secolo la città armena di Dwin per trasferirsi in Mesopotamia al servizio del sultano selgiuchide di Baghdad. Divenuto governatore della città di Takrit – la stessa in cui molti secoli dopo sarebbe nato il famigerato dittatore iracheno Saddam Hussein – ʻAyyūb conobbe la sua vera fortuna verso la fine del 1132, quando grazie a un coraggioso gesto di lealtà si guadagnò l’amicizia del potente atabek di Mossul, ʻImād ad-Dīn Zinkī. ʻAyyūb e suo fratello Šīrkūh passarono allora al servizio di Zinkī. E molto probabilmente ʻAyyūb abitava ancora a Takrit quando, nel 1138, gli nacque un figlio a cui venne dato il nome di Yūsuf (Giuseppe): il futuro Saladino.
Chi sia stata sua madre, e come si chiamasse, è rimasto un mistero. Poeticamente, il grande arabista Francesco Gabrieli la definì: «Un’ignota rimasta avvolta nel malinconico destino d’ombra della donna musulmana» 12. Non sappiamo nemmeno se ʻAyyūb avesse altre mogli; l’unico fatto quasi sicuro è che Yūsuf fu il primo o forse il secondo di sei fratelli.
Qualche mese dopo la nascita di Yūsuf, su incarico di Zinkī, ʻAyyūb si trasferì in Siria con tutta la sua famiglia, per assumere il comando della fortezza di Baʻalbek, poco a nord di Damasco. Fu qui che Yūsuf trascorse la sua infanzia, accanto alle rovine dei grandiosi templi di quella che nei primi secoli dell’era cristiana era stata la Heliopolis romana. In quegli anni passati tra i giochi e i primi studi coranici, il figlio di ʻAyyūb dovette certamente dar prova di promettenti qualità, perché nel 1152 lo zio Šīrkūh riuscì a introdurlo ad Aleppo alla corte di Nūr ad-Dīn – noto come Norandino nelle cronache degli europei – il potente condottiero di stirpe turca, che oltre a combattere i cristiani in Terra Santa sognava di riunificare in un solo dominio i sultanati dell’Islàm dalla Mesopotamia all’Egitto. Yūsuf e Nūr ad-Dīn divennero presto intimi amici, inseparabili nelle spedizioni militari, nella vita di corte e negli svaghi preferiti a quell’epoca dai potenti: la caccia col falcone e i giochi del polo e degli scacchi.
L’ascesa irresistibile del Saladino sulla scala del potere e del prestigio ebbe inizio da allora, anche se sempre e comunque all’ombra del potente zio Šīrkūh, che egli continuò a servire con impareggiabile fedeltà. E se diciamo “all’ombra” è perché Yūsuf, appunto, non dette mai segni di ambizione personale, ma nel suo impegno di combattente seguì unicamente l’impegno della fede. Fu un “duro e puro”, diremmo oggi. Un idealista, pronto a sacrificare ogni suo interesse personale nel compimento del ǧihād, ossia nel coranico “sforzo sul sentiero di Dio” (perché questo significa ǧihād in arabo: “sforzo”, e non “guerra santa” come generalmente si crede).
Passò dunque il tempo, e si giunse al fatidico 1169. Il 18 gennaio di quell’anno, grazie soprattutto a un’abile manovra di Saladino, che portò alla decapitazione del corrotto e traditore Šawar, gran visìr del Cairo per conto del califfo Al-ʻĀdid, lo zio Šīrkūh diventò di fatto il nuovo padrone dell’Egitto. Il diciottenne califfo era solo un simbolo inoffensivo, ben rinchiuso nel suo palazzo dorato che lo teneva lontano dalle leve del potere. E l’indomito generale curdo, promosso al rango di governatore di un grande Paese, poteva abbandonarsi finalmente a un po’ di joie de vivre, dopo tanti anni passati sui campi di battaglia: dormire in pace in un palazzo regale, permettersi di mangiare e di bere a volontà. E tanto mangiò e tracannò, che la sera del 23 marzo gli si bloccò la digestione, e morì di colpo, lasciando costernati gli egiziani e i siriani, i copti e i musulmani.
Naturalmente si scatenò subito la lotta dei pretendenti alla successione. Ma il califfo Al-ʻĀdid, che nonostante la giovane età non era affatto uno sprovveduto, non ebbe esitazioni nel mandare affabilmente a farsi benedire gli emiri egiziani che lo adulavano dalla mattina alla sera. E con gran sorpresa di tutti chiamò il nipote di Šīrkūh – che invece non s’era nemmeno sognato di avanzare la propria candidatura – e senza preamboli gli comunicò che da quel momento il nuovo gran visìr dell’Egitto era lui. Non solo, ma lo insignì anche del titolo di Al-Malik an-Nāṣir, Il Re Vittorioso. ʻAyyūb non era presente alla scena, ma quando venne a sapere che in quell’occasione il volto di suo figlio non s’era illuminato affatto dalla gioia esclamò: «Allah si stupisce di colui che dev’essere trascinato in paradiso con le catene»13.
E in effetti è questo l’episodio-chiave per comprendere l’origine della leggenda di Saladino. Sulla scena della storia vediamo affacciarsi un uomo che non si agita per realizzare il suo interesse personale. Non è assetato di potere, e non mira nemmeno alle ricchezze materiali. Egli è coraggioso, è sincero, è fedele, ma, al di là di tutto questo, egli è anche frugale, generoso e magnanimo, e sono proprio queste ultime le virtù che impressionano i biografi che hanno la fortuna di conoscerlo a fondo personalmente. Leggiamo, per esempio, solo alcune delle righe che Bahā ad-dīn dedica a questo argomento14:
Il Profeta ha detto: «Quando l’uomo generoso inciampa, Iddio lo prende per la mano», e così più tradizioni canoniche parlano della generosità. Quella del Saladino era troppo manifesta per esser qui registrata, e troppo famosa per farsene qui menzione: mi sono qui limitato a un cenno complessivo. Egli insomma ebbe i dominii che ebbe, e morì senza che si ritrovasse d’argento nel suo tesoro altro che quarantasette dramme nasirite, e d’oro un sol pezzo di Tiro. Egli soleva donare intere province […] Donava in tempo di ristrettezze come in tempo di larghezza, e i suoi tesorieri gli tenevano nascosta qualche riserva di denaro, per timore di qualche spesa d’emergenza che sopravvenisse, ben sapendo che ove egli ne avesse saputa l’esistenza l’avrebbe spesa.
L’ho udito io dire nel corso di una conversazione: «Potrebbe esserci qualcuno che guarda al denaro come si guarda alla polvere della strada», col che sembrava alludere a se stesso. Donava al di là di ciò che il postulante stesso sperava, né mai l’ho sentito dire «Abbiamo donato al tal dei tali»; e largiva gran doni, facendo al donato così lieto viso come chi non gli avesse dato un bel nulla […] Tu, Signore, gli ispirasti la generosità, tu il più generoso dei generosi.
Tutta la vita di Saladino si svolse poi nel solco di quell’alba luminosa. Passati alcuni anni da quel 1169 – morti Al-ʻĀdid e il sultano di Siria Nūr ad-Dīn – il gran visìr divenne sultano di Siria e d’Egitto: il sovrano più potente dell’Islàm. Sbaragliò i cavalieri crociati nella battaglia di Ḥittīn. Riconquistò Gerusalemme, ma senza compiere massacri, senza cercare vendette. Al contrario, si prodigò per favorire il riscatto dei ventimila poveri che vivevano nella città, mentre i cristiani ricchi, e lo stesso patriarca Eraclio che possedeva grandi beni e oggetti preziosi, si mettevano in salvo vergognosamente senza versare un solo denaro per aiutarli. Tenne testa alla furia di Riccardo Cuor di Leone e degli altri potenti d’Europa accorsi in Terra Santa per liberare di nuovo il Santo Sepolcro. Mantenne sempre la parola data. Protesse i poveri e gli indifesi, perdonò i nemici ma fu spietato verso coloro che giudicava arroganti, fanatici e traditori dei patti. Morì il mattino del mercoledì 4 marzo 1193, all’età di cinquantacinque anni, lasciando un tesoro privato così esiguo, che non bastò nemmeno per sostenere le spese dei suoi funerali. Hamilton Gibb riferisce: «Uno di quelli che lo conobbero disse: “Fu questo il solo esempio della morte di un re pianto sinceramente dal popolo”»15.
In breve, furono questi gli elementi biografici che immediatamente generarono nel mondo la fama e la leggenda di Saladino. Eppure, e con una punta di non lieve sorpresa, dobbiamo innanzi tutto notare che nel mondo islamico la figura di Saladino ha lasciato per almeno sette secoli – cioè fino alla riscoperta della sua figura nella seconda metà del Novecento – una traccia piuttosto insignificante. Francesco Gabrieli scriveva a tal proposito nella sua Letteratura araba: «Un personaggio che ha lasciato profonda impronta nella memoria degli egiziani è il sultano mamelucco Baibars, che regnò fra il 1260 e il 1277, turco e circasso di origine, ma legato alla storia dell’Egitto medievale da eventi memorabili come lo stornamento della minaccia mongola, e la quasi totale espulsione dei crociati dalla Siria. Il valoroso e temuto sultano dagli occhi azzurri, campione della fede, edificatore e restauratore di monumenti, ferreo dominatore della sua irrequieta aristocrazia feudale, ha preso nella fantasia popolare delle generazioni orientali quel posto che in Occidente ha avuto il Saladino, la cui figura ha lasciato invece in questa narrativa orientale lievissime tracce» 16. Ben a dispetto, aggiungeremmo noi, del meraviglioso ritratto che di lui fu lasciato dagli storici arabi, come si è visto poc’anzi nell’esempio di Bahā ad-dīn.
E il demonio si vestì da cavaliere
Perché avvenne questo strano fenomeno? La ragione non è poi così misteriosa. Tutto ebbe inizio, in modo particolare, dopo la riconquista di Gerusalemme da parte di Saladino nell’ottobre del 1187. L’estrema generosità dimostrata allora dal figlio di ʻAyyūb e da suo fratello Al-ʻĀdil nei confronti dei prigionieri destò una profonda e indelebile impressione nei Franchi del Vicino Oriente. Anche perché, come osserva Geoffrey Regan, l’esempio offerto allora dal sultano si riverberò in modo straordinario sugli uomini del suo esercito: «Ancora una volta, gli storici cristiani non poterono fare a meno di rilevare il contrasto esistente fra la gentilezza dei vincitori e l’insensibilità degli occidentali. Veniamo così a sapere che, mossi a compassione dalle sofferenze dei nemici, i soldati musulmani cedettero i loro cavalli ai profughi più anziani e presero i bambini fra le braccia o li sistemarono sulle loro selle» 17.
E tuttavia questo non bastò, all’inizio, per trasferire dall’Oriente all’Occidente l’immagine del sultano generoso e clemente. L’odio religioso e il bruciore delle sconfitte non lo permisero. E fu così che, in quello stesso periodo, come ha rilevato Norman Daniel: «La propaganda in Europa a favore della causa cristiana batté continuamente il tasto della distruzione di chiese e di croci, mentre nel Levante ricordarono che la povera gente della Città Santa venne risparmiata a opera di Saladino e del suo fratello Al-ʻĀdil»18.
Questa divaricazione di giudizio tra i cristiani del Levante e quelli europei venne poi accentuandosi con l’opera di propaganda anti-islamica lanciata da Corrado del Monferrato, con la predicazione ecclesiastica della Terza crociata e con l’arrivo in Palestina di Riccardo Cuor di Leone, il nuovo Goffredo di Buglione che divenne immediatamente, nella fantasia popolare degli europei e soprattutto degl’inglesi, l’antagonista glorioso del Saladino e il campione indiscusso della fede cristiana. La verità storica sul comportamento di Riccardo in Palestina venne in buona parte cancellata nella memoria dei cristiani; sopravvisse invece, eccome, in quella dei musulmani, a tal punto da far loro identificare Riccardo con l’emblema stesso della malvagità, o come l’orco delle fiabe che si raccontavano ai bambini 19. «Il 9 ottobre del 1192», scrive il Bréhier, «Riccardo s’imbarcava per l’Europa: il terrore ch’egli aveva ispirato ai saraceni doveva rivivere a lungo, in seguito, nelle canzoni popolari e, per calmare i bambini irrequieti, bastava che le madri li minacciassero di far venire il re Riccardo» 20.
La fama di Saladino, anche se con valenza negativa, s’era dunque già diffusa enormemente in Europa dopo la battaglia di Ḥittīn e dopo la caduta di Gerusalemme. E assieme alla fama, com’è naturale, avevano cominciato a formarsi le leggende. E ovviamente anche le calunnie, che, come già era avvenuto per la leggenda di Maometto, quando cominciarono a fioccare diventarono ben presto delle valanghe di fango. Si raccontava, in sostanza, che il “gran Soldano di Babilonia” – cioè il sultano del Cairo, città che all’epoca si soleva appellare così, con estensione all’Egitto e al Levante islamico in generale – era sì un condottiero pressoché invincibile, ma soprattutto un maestro di malefatte e di crudeltà, che s’era impadronito del potere in Egitto e in Siria uccidendo prima il gran visìr Šawar, poi il califfo fatimita Al-ʻĀdid, e infine lo stesso Norandino.
I particolari salienti di questo ciclo di leggende ostili al “gran Soldano di Babilonia”, compiutamente espresse nell’anonimo Carmen de Saladino della fine del XII secolo, si possono leggere nel fondamentale saggio di Gaston Paris La légende de Saladin, pubblicato a Parigi nel 1896 21. Tra le varie curiosità, si apprende per esempio che all’inizio della sua carriera, quando viveva a Damasco alla corte di Norandino, il figlio di ʻAyyūb non sarebbe stato un guerriero, ma il capo dei lenoni della città.
Non mi soffermerò qui troppo a lungo sulla montagna di fesserie di lega più o meno bassa prodotte in quell’epoca dalla pubblicistica diffamatoria, oggi diremmo “islamofoba”, che cercò di demolire in Europa l’immagine del Saladino. Al Carmen de Saladino si associò in quest’impresa – destinata al fallimento, come subito vedremo – almeno un altro livoroso libello satirico, stavolta in lingua volgare, la Chronique d’Ernoul, falsamente attribuita a quell’Ernoul che fu scudiero del celebre cavaliere crociato Baliano di Ibelin, e a quanto pare presente accanto a lui nella disastrosa battaglia di Ḥittīn. Molto più tardi, addirittura nel XV secolo, queste panzane stucchevoli furono riprese in un altro romanzo francese, il Jean d’Avesnes. Ma, come avverte Gaston Paris nel suo saggio, queste opere di scadente qualità letteraria furono in pratica le sole che tentarono di lanciare in Occidente un’immagine deplorevole e demoniaca del Saladino.
Solo, a me pare interessante aggiungere qui una nota su un’opera e su un autore che il Paris non cita nella sua rassegna saladiniana. Credo sia importante, perché questo ci porta in Inghilterra, ed esattamente negli anni in cui avvenivano in Oriente i trionfi del Saladino. È qui che lo scrittore gallese Walter Map, attivo presso la corte di Enrico II Plantageneto e di Eleonora d’Aquitania, nonché ecclesiastico di notevole importanza – giunse a ricoprire cariche come quella di arcidiacono di Oxford – nel suo zibaldone dal titolo De nugis curialium (Bagattelle dei cortigiani), si esprimeva così riguardo a Saladino e alla sua conquista di Gerusalemme:
«Infatti nello stesso anno di disgrazia – il 1187 – si riferisce conquistata e sottomessa per ordine di Saladino, capo dei miscredenti (a Saladino principe paganorum) la Città Santa di Gerusalemme, che è devastata da un flagello più terribile di quello che Geremia deplorò nelle Lamentazioni, quando piangendo disse: “I suoi sacerdoti sono gementi, le sue vergini afflitte”. In essa però i sacerdoti non gemono, le vergini non sono afflitte, perché non ci sono. Tito, vendicatore – benché non ne fosse consapevole – delle ingiurie arrecate a Dio, ridusse quel popolo ai minimi termini; ma costui lo ha annientato completamente fino alle radici, cancellando del tutto lì ogni traccia di cristiani».
Non contento poi di avere stravolto in questo modo la verità dei fatti, e costretto a dare spiegazione della generosità, ormai nota al mondo intero, mostrata da Saladino verso i prigionieri, Map aveva il coraggio di argomentare l’episodio con queste parole: «Il sepolcro e la croce di Dio sono preda dei cani, la cui fame si è tanto domata e saziata del sangue dei martiri, che hanno ammesso il riscatto per diverse persone, non tanto per cupidigia di denaro o per mancanza di cattiveria, quanto per il diminuito impeto della loro rabbia, ormai priva di mordente ed estenuata»22. La piaggeria cortigiana di Map e la volontà ostinata di mistificare comunque i fatti della storia sfiorano qui il ridicolo, ma al tempo stesso rivelano, per involontaria trasparenza, il bisogno recondito di esprimere quello che ormai era sulla bocca di tutti: e cioè che Saladino, nel bene o nel male, doveva essere un personaggio assolutamente straordinario.
In tal modo, poi, si spiega anche un altro fatto, abbastanza curioso e sorprendente: il gran desiderio che lo stesso Riccardo Cuor di Leone ebbe di conoscere personalmente Saladino, e che alla fine non riuscì mai a soddisfare. Scrive Amin Maalouf: «Riccardo era affascinato dalla figura di Saladino. Già al suo arrivo [in Terra Santa] cercò di incontrarlo. Mandò un messaggero ad Al-ʻĀdil chiedendogli di organizzare un incontro con suo fratello. Il sultano rispose senza esitazione: “I re si riuniscono soltanto dopo la conclusione di un accordo, poiché non è conveniente farsi la guerra dopo essersi conosciuti e dopo aver mangiato alla stessa mensa» 23. Dopo questo primo episodio, Riccardo tentò un’altra volta di incontrare Saladino, ma ricevette ancora un secco rifiuto, e con le stesse motivazioni. Infine, dopo l’accordo di pace, quando Saladino invitò Riccardo a un banchetto a Gerusalemme, fu il re inglese a dire di no, e per puro orgoglio: «Riccardo rifiutò, perché non voleva entrare in qualità di ospite in una città in cui si era ripromesso di entrare come conquistatore. Un mese dopo la conclusione della pace, lasciò la terra d’Oriente senza aver visto né il Santo Sepolcro né Saladino»24.
La rabbia inglese nei confronti di Saladino ha dunque delle profonde radici storiche. Ma, con buona pace di quella ristretta schiera di calunniatori astiosi, occorre ben precisare che, dopo quell’esordio ostile, la leggenda occidentale di Saladino venne decisamente incamminandosi – et per saecula saeculorum, fino al film di Ridley Scott Kingdom of Heaven, del 2005 – nella direzione opposta, cioè nel senso del rispetto, della lode e perfino della glorificazione. Forse anche perché, come acutamente ebbe a notare Franco Cardini, i cristiani dovevano pure “inventarsi una buona scusa” per giustificare le loro sconfitte in Terra Santa:
«È singolare che l’Idealtypus del cavaliere fosse a partire dal Duecento, non un cristiano ma un musulmano. Una sottintesa polemica forse contro le scarse virtù dei cristiani […] E magari una loro astuzia: dal momento che quel personaggio aveva più volte battuto, in battaglia e in magnanimità, i guerrieri della croce, era necessario dimostrarne l’assoluta eccezionalità. Il fiore della cavalleria cristiana non poteva certo essere stato sconfitto da un pagano qualsiasi» 25.
All’improvviso, verso l’inizio del XIII secolo, l’empio e crudele inimicus crucis divenne l’esempio, il modello ideale del cavaliere dotato di tutte le più nobili virtù: coraggio, generosità, affabilità, urbanità, cortesia, probità, sincerità, fedeltà, modestia. A tal segno lo si immaginava e lo si voleva cavaliere, che s’inventò la scena della sua regolare investitura, e si attribuì il merito di aver fatto cavaliere Saladino a un suo prigioniero cristiano, il principe di Galilea Ugo di Tiberiade. E qui è giocoforza tornare sul tema fondamentale della generosità, anche perché ovviamente non poteva essere che quella, in un’epoca di miseria e di fame – e di totale dipendenza dei letterati dai loro principi mecenati – la virtù più amata in assoluto. E perciò ricco, ricchissimo e infinitamente munifico: questo divenne Saladino nelle favole dei popoli europei. Non c’era re, non c’era imperatore al mondo che si potesse dire dovizioso e liberale come lui:
Se tanto aver donassemi
quanto ha lo Saladino
e per ajunta quant’ha lo soldano,
toccare me non pòteri a la mano.
Così replicava sdegnosa al suo spasimante la “rosa fresca aulentissima” del Contrasto di Cielo d’Alcamo. (Ed è ben degno di nota, a me pare, che il nome del Saladino compaia in quello che generalmente si ritiene il primo documento poetico della letteratura italiana!) Le gesta generose del sultano si moltiplicavano nei romanzi e nelle novelle del XIII e del XIV secolo – come il Ménestrel de Reims, o le Cento novelle antiche – mostrandoci un uomo che non solo prodiga gioiosamente denari a bizzeffe a chiunque ne abbia bisogno, ma con altrettanta passione odia e punisce gli avari, come quel tal “marchese di Cesarea”, a lui talmente insopportabile per la sua tirchieria, che un giorno lo uccide facendo fondere il suo oro e versandoglielo nella gola 26.
In quella stessa epoca, cioè dopo la metà del Duecento, la nomea iperbolica di Saladino comincia anche a emergere dai repertori della novellistica minore, per conquistare la fantasia dei massimi scrittori e diffondersi ovunque come una verità inconfutabile, intorno al cui tronco storia e leggenda si avviluppavano fino al limite dell’indistinguibilità. Tutti quei rivoli si aggregano e si sciolgono nelle acque di un un unico fiume. Ed è esattamente quello il fiume che arriva fino a Dante, rivelandosi in quel magnifico verso dell’Inferno, e nel capitolo del Convivio che già si è citato e commentato.
Dopo Dante, gloria e avventure senza fine
Se poi Dante ritrae Saladino come un campione di virtù e lo pone anche in compagnia dei filosofi più eccelsi, chi potrà ormai impedire l’ingresso del sultano nell’esclusiva cerchia dei maestri di saggezza universali?
In Spagna fu la penna di Don Juan Manuel, autore, pochissimi anni dopo la morte di Dante, del Libro de los enxiemplos del Conde Lucanor et de Patronio, a indicare il gran soldano di Babilonia come un chiaro modello di nobiltà morale. Nel racconto di Juan Manuel (Enxiemplo XXV) un certo conte di Provenza cade prigioniero dei musulmani in Terrasanta. Saladino non lo tratta come un nemico, ma come uno dei suoi uomini più rispettati. Entrato in confidenza con lui, un giorno il conte gli chiede un consiglio su una questione che lo angustia: con quale criterio dovrà scegliere il marito ideale per la sua unica e amatissima figlia? Il sultano risponde lapidario: «Sposate vostra figlia con un vero uomo» 27. Intendendo dire che egli non deve cercare nel suo futuro genero ricchezza, blasoni, potenza o altre qualità esteriori, ma le pure e semplici virtù dell’anima che fanno di un individuo un vero uomo: onestà, fedeltà, coraggio, generosità.
In altri racconti del genere moralistico e sapienziale, Saladino non è più il maestro, ma il fervido allievo, cercatore di verità, che apprende da una guida spirituale i più profondi insegnamenti e sa farne tesoro. Così è nella celebre novella dei “tre anelli” che Boccaccio fa raccontare a Filomena nella prima giornata del Decamerone, dove Saladino ascolta estasiato l’apologo del saggio giudeo Melchisedec, teso a dimostrare in forma estremamente arguta l’equivalenza essenziale delle tre religioni nate dal monoteismo di Abramo. Nella storia, i tre figli di un ricco signore ereditano dal padre tre anelli assolutamente identici. In realtà uno solo dei tre è quello autentico, ed è di inestimabile valore. Ma nessuno saprà mai distinguere l’anello vero dai falsi, e così ciascuno dei tre fratelli potrà vivere nella convinzione che il suo sia quello vero. Nella versione lessinghiana di Nathan il Saggio, questa deliziosa storia, di sapore squisitamente illuminista – e sottilmente relativista, potremmo anche aggiungere – diventerà il paradigma stesso dell’idea di tolleranza religiosa 28.
Molto meno speculativa e assai più moraleggiante è un’altra storia che vede Saladino nelle vesti dell’apprendista-sapiente: nel cinquantesimo Enxiemplo delle novelle di Don Juan Manuel, il sultano s’accende di passione per la moglie di un suo vassallo, e comportandosi come re Davide con Uria ordina al vassallo di andare in guerra per restare solo in pace con la donna. Lei però, onesta e saggia, pone, come condizione per concedersi a lui, che Saladino risponda a una sola domanda: qual è la cosa migliore che possa avere un uomo in sé, la madre e l’inizio di tutte le bontà? Saladino va alla ricerca di un sapiente che gli sappia dire la verità, e per questo si mette in giro per il mondo, arriva in Francia e ancora più in là, e trova infine un anziano cavaliere che gli rivela: quella cosa è il pudore. Tutto contento, Saladino torna in Egitto, si presenta alla moglie del suo vassallo, e si può bene immaginare a questo punto come abbia facile gioco la saggia donna nel raffreddare i suoi bollenti spiriti, convincendolo a non abusare di lei 29.
In quest’ultima storia cogliamo un aspetto nuovo e interessante, destinato a notevoli sviluppi nell’aggrovigliarsi della leggenda occidentale di Saladino: il sultano si stacca dal suo trono e dalla sua tenda di guerriero, e si mette a viaggiare per il mondo. Diventa pellegrino e viandante per amore della verità e della sapienza oppure per semplice curiosità, per voglia di conoscere i Paesi lontani in cui vivono i suoi rispettatissimi nemici cristiani. Ed è, quest’ultimo, il caso di un’altra famosa novella del Decamerone, la nona della Giornata decima, che ha per protagonista Messer Torello da Pavia.
Ebbene, travestitosi da mercante, Saladino lascia un giorno l’Egitto e s’imbarca per l’Italia. Arriva a Milano e da lì s’incammina per Pavia. Giunto sulle sponde del Ticino sul far della sera, incontra un gentiluomo chiamato Messer Torello di Strà da Pavia, grande esperto di falconeria, che lo invita per una notte ad alloggiare in una sua casa di campagna, e il giorno dopo lo accompagna in città per ospitarlo ancor meglio nel palazzo di famiglia, dove sua moglie accoglie il forestiero “non con femminile animo ma reale”, cioè trattandolo come avrebbe fatto una regina col suo re. Conoscendo la lingua latina, il sultano entra in facile conversazione con Torello, e gli racconta d’essere un mercante di Cipro in viaggio verso Parigi. La vicenda poi si complica, e i due finiscono per ritrovarsi in Terra Santa, dove Torello diventa prigioniero di Saladino, il quale non solo lo “adotta” come suo falconiere, ma addirittura gli mette a disposizione un letto volante – come non pensare qui ai favolosi tappeti delle Mille e una notte? – per tornare in fretta a Pavia dove sua moglie lo credeva morto. Il fortunato gentiluomo – precursore dei viaggi aerei in classe di extra-lusso – atterra col suo letto non in luogo qualsiasi, ma nella chiesa di San Pietro in Ciel d’Oro, la stessa austera basilica romanica di Pavia che Dante cita nel Paradiso come luogo di sepoltura di Severino Boezio (Par. X, 125-129). Spacciandosi poi per «un saracino mandato dal Soldano al re di Francia ambasciadore», Torello ritrova la moglie a un pranzo di gala, appena in tempo per scongiurare che lei finisca nel talamo d’un nuovo sposo.
In questa curiosa novella si trovano concentrati tutti gli elementi essenziali della leggenda cristiana di Saladino. Gli stessi elementi che si ritroveranno in una serie di romanzi successivi al XIV secolo, dove il sultano curdo perderà perfino i suoi connotati di religione e di stirpe, acquisendo dei nobili parenti europei come i conti di Pontieu, e diventando egli stesso cristiano, e addirittura giudice severo dei costumi corrotti e della tiepida religiosità di molti fedeli e sacerdoti di Santa Romana Chiesa. Ma a parte queste tardive impennate moralistiche e confessionali, il suo originale spirito di tolleranza, che traspare intensamente dall’affetto ch’egli mostra verso Messer Torello, fa di lui il campione immaginario d’una cavalleria che anticipa i moderni ideali della civiltà laica e liberale. Nella visione romantica di Walter Scott, Saladino si confronta così – nel romanzo The Talisman – col suo nemico Riccardo Cuor di Leone non in una guerra spietata ma in una gara di magnanimità e di cortesia. Ed è significativo che il primo vero biografo occidentale di Saladino, il francese Louis-François Marin che verso la metà del XVIII secolo studiò le fonti latine e arabe sulla vita del sultano ʻayyubide, concludesse il suo libro dichiarando che «senza le guerre in cui Saladino fu trascinato, il suo popolo sarebbe stato forse il più felice della Terra» 30.
Ma per tornare, infine, al nostro Dante da cui eravamo partiti, mi piace qui riprendere, e fare mia, l’osservazione che Francesco Gabrieli pose a suggello della sua breve biografia di Saladino: «Ma per la memoria di noi italiani, la figura del Saladino, più che in tutte queste stilizzazioni ingegnose o sapienti della novellistica medievale, dell’illuminismo settecentesco, del romanticismo dell’Ottocento, si aderge nella luce di cui l’ha circonfusa, sfiorandola nel suo volo, l’ala di Dante. Avicenna e Averroè, gli altri due spiriti magni dell’islamismo che egli vide sul prato di fresca verzura, tra i saggi poeti ed eroi non cristiani, restano più che altro nomi di un elenco. Il Saladino, “solo in parte”, chiuso in un riserbo sdegnoso o malinconico, conserva intatta la fisionomia della sua realtà storica sublimata dalla fantasia poetica, e spicca in alto rilievo, in una misura d’eroica grandezza» 31.
Dialoghi Mediterranei, n. 64, novembre 2023
Note
[1] Del 1739 è la tragicommedia Le fanatisme ou Mahomet le prophète di Voltaire, che nel suo intreccio di calunnie si riannoda in sostanza alle più antiche versioni della leggenda occidentale di Maometto. Dovevano passare ancora più di trent’anni prima che il giovane Goethe capovolgesse, nei versi del Mahomets Gesang, l’immagine del profeta arabo, descrivendolo nella luce di un’eroica figura faustiana, capace di rinnovare i destini del genere umano. A proposito di Voltaire, mi corre l’obbligo, qui, di ricordare come proprio lui abbia affermato che tutti i racconti storici sono avvolti in una nebbia di menzogne: «La menzogna ha troppo a lungo assoggettato i popoli; è tempo che si conosca quanto sian poche le verità che si possono estrarre da quelle nubi di favole che coprono la storia romana dai tempi di Tacito e Svetonio, e hanno quasi sempre avvolto gli annali delle altre nazioni dell’antichità»: Voltaire, Trattato sulla tolleranza, traduzione e cura di Palmiro Togliatti, Roma 1966: 67. Per una visione complessiva dell’argomento, mi permetto di rimandare al mio excursus: La leggenda di Maometto e dell’origine del Corano nell’Europa medievale e nella concezione di Dante, pubblicato in appendice a: Corano libro di pace, Apogeo-Feltrinelli, Milano 2013: 311-345.
[2] Inf. IV, 106-147.
[3] Inf. IV, 129.
[4] E notiamo, per inciso, che proprio negli anni in cui Dante scriveva la Commedia i Cavalieri del Tempio venivano nuovamente umiliati e massacrati, ma stavolta dalla spietata ingordigia del “cristianissimo” Filippo IV il Bello, re di Francia.
[5] Convivio IV, 11. Ma il discorso sulle “divizie” prende già le mosse dal cap. 10.
[6] Solo per esempio, pensiamo a come quest’idea sia di centrale importanza nella Consolatio Philosophiae di Severino Boezio, certamente uno dei libri che Dante amò di più ed elesse a sua guida ideale. Boezio fu colui che, forse più di ogni altro autore classico, svolse con appassionata chiarezza la condanna dei “beni illusori” della vita, e quindi della falsa ricchezza che genera la falsa felicità e la falsa nobiltà. Per questo Dante colloca la sua anima in Paradiso, definendone la virtù con questi versi: «Per vedere ogni ben dentro vi gode/ l’anima santa che ‘l mondo fallace/ fa manifesto a chi di lei ben ode» (Par. X, 124-126). Ma in epoca contemporanea a quella di Dante, come non pensare a un altro autore da lui ben conosciuto e apprezzato, ossia al francese Jean de Meun che nel Roman de la Rose aveva deriso la stupidità e l’arroganza dei falsi nobili, ricchi soltanto di denaro e vanità, ma totalmente privi di quella “generosità naturale” che è il principale tratto distintivo della vera nobiltà? (E non dimentichiamo che il poema francese divenne poi la “traccia” di quel poemetto del Fiore, che da vari critici – in accordo con gli studi del Contini – viene incluso tra le opere giovanili dello stesso Dante. Jean de Meun, che aveva ultimato il Roman intorno al 1278, morì – all’età di circa 65 anni – probabilmente nel 1305, ossia nel tempo in cui Dante aveva già iniziato a scrivere sia la Commedia, sia il Convivio).
[7] Inf. I, 97-99.
[8] Bernardo scrisse il Liber ad Milites Templi. De laude Novae Militiae, dedicato ai cavalieri del Tempio, tra il 1132 e il 1135. Il 31 marzo del 1146, l’abate di Clairvaux inciterà la Cristianità a riprendere le armi per riconquistare Gerusalemme, dando così il via alla Seconda crociata che si concluderà due anni dopo in una catastrofica sconfitta. Per un approfondimento di questo tema, mi permetto di rinviare al capitolo su “La guerra giusta” nel mio saggio del 2006 Saladino eroe dell’Islàm: 35-59.
[9] Saladino morì a Damasco il 3 marzo del 1193, ossia 72 anni prima della nascita di Dante.
[10] Sapienza 1, 1; 6, 1-6. (CEI 2008).
[11] I principali biografi musulmani di Saladino furono Bahā ad-dīn ibn Šaddād di Mossul (1145-1234), e ʻImād ad-dīn di Isfahan (1125-1201). Alle loro opere farò riferimento qui di seguito, nella versione data in Storici arabi delle crociate, a cura di Francesco Gabrieli, Torino 1973.
[12] Francesco Gabrieli, Il Saladino, Firenze 1948: 12.
[13] Ivi: 17.
[14] Cit. in Storici arabi delle crociate (vedi nota 12): 96-97.
[15] Hamilton Gibb, Vita di Saladino dalle opere di Imàd ad din e Bahà ad din, Roma 1979 (Oxford 1973): 92.
[16] Francesco Gabrieli, La letteratura araba, Milano 1967: 246.
[17] Geoffrey Regan, Il Saladino, Genova 1992 (London 1987): 199.
[18] Norman Daniel, Gli arabi e l’Europa nel Medio Evo, Bologna 1981: 291.
[19] Basti pensare all’orrendo eccidio ordinato da Riccardo il 20 agosto del 1191: duemila e settecento musulmani sopravvissuti all’assedio di Acri, in gran parte donne e bambini, furono radunati sotto le mura della città e trucidati a freddo dai soldati crociati, solo perché Riccardo si era stancato di trattare con Saladino sulle modalità della resa.
[20] Louis Bréhier, Les Croisades, Paris 1928: 137.
[21] Edizione italiana: Gaston Paris, La leggenda di Saladino, Roma 1999, a cura di Massimo Gialdroni e con una bella Introduzione di Franco Cardini.
[22] Walter Map, Svaghi di corte, a cura di Fortunata Latella, Parma 1990: 84-85.
[23] Amin Maalouf, Le crociate viste dagli arabi, Torino 1989: 231.
[24] Ivi: 237.
[25] In La leggenda di Saladino, cit., Introduzione: 9.
[26] Ivi, p. 40. La raccapricciante storiella deriva con ogni probabilità dall’antica leggenda della morte di Marco Licinio Crasso, a cui Orode, il re dei Parti, dopo averlo sconfitto nella battaglia di Carre, avrebbe fatto versare oro fuso nella gola, per punirlo della sua incredibile avidità. Scena, del resto, molto simile a quella raffigurata nel Giudizio Universale del Camposanto di Pisa, dove agli avari vengono versate in gola delle monete fuse.
[27] Don Juan Manuel, Le novelle del Conde Lucanor, a cura di Aldo Ruffinatto e Sandro Orlando, Milano 1985: 86.
[28] Il Nathan der Weise fu pubblicato da Gotthold Ephraim Lessing tra il 1778 e il 1780.
[29] D. J. Manuel, Le novelle, cit.: 163-171.
[30] François-Louis-Claude Marin, Histoire de Saladin, sulthan d’Égypte et de Syrie, vol. II, Parigi 1758.
[31] F. Gabrieli, Il Saladino, cit,: 53-54.
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Massimo Jevolella. Si laurea in filosofia nel 1974 con Remo Cantoni con una tesi sull’utopia surrealista. Fin dal 1979 si dedica allo studio del pensiero islamico ed ebraico medievale. Negli anni ‘80 collabora con la rivista “Studi cattolici” e con l’Istituto di Storia della Filosofia dell’Università Statale di Milano. Pubblica articoli sulla rivista “Acme” della Facoltà, traduce testi filosofici dall’arabo (come il Libro dei cerchi di Ibn As-Sid al-Batalyawsi, Arché Editore), ed entra in contatto con i professori Giuseppe Sermoneta e Shlomo Pines dell’Università Ebraica di Gerusalemme (dove nel 1985 partecipa a un convegno internazionale su Maimonide, con uno studio sulle fonti arabe della profetologia nella Guida dei perplessi). Negli anni ‘90 dirige la collana di libri “Spazio interiore” della Red di Como. Nel 1991 pubblica il libro di saggistica-narrativa I sogni della storia (Mondadori Oscar). Seguono i saggi: Non nominare il nome di Allah invano (Boroli 2004, con postfazione di Franco Cardini); Le radici islamiche dell’Europa (Boroli 2005); Saladino eroe dell’Islàm (Boroli 2006); Rawà, il racconto che disseta l’anima (Red 2008); la traduzione dall’arabo e curatela del Collare della colomba di Ibn Hazm (Apogeo-Feltrinelli-Urra 2010); l’antologia coranica Corano, libro di pace (Apogeo-Feltrinelli-Urra 2013). La traduzione integrale in prosa e curatela del Romanzo della Rosa di J. De Meun e G. De Lorris (Feltrinelli UE 2016). Torna sul tema dell’utopia con uno studio sulla “città ideale” dei filosofi arabi, pubblicato nel 2012 sui “Quaderni di studi Indo-Mediterranei”. Intensa la sua attività di conferenziere, fin dai primi anni ‘80 e in molte città d’Italia, indirizzatasi sempre più sul versante del dialogo interreligioso e interculturale. Di recente, ha fatto dono degli oltre 700 volumi della sua biblioteca di cultura islamica ed ebraica alla Biblioteca del Seminario Vescovile di Mazara del Vallo (Fondo Jevolella).
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