CIP
di Domenico Cersosimo e Sabina Licursi
La rarefazione demografica non è un’increspatura contingente della traiettoria urbanocentrica. Le previsioni per i prossimi decenni prefigurano una diffusione dei luoghi a bassa o bassissima densità abitativa in gran parte dell’Italia e non solo. Si moltiplicheranno le aree dissonanti, remote e differenti dal paradigma dominante, che sfidano l’idea standard di adeguato, di progresso, di spazio di vita denso, normalizzato dalla regola del tot, ossia dall’imposizione di standard quantitativi per ogni servizio collettivo: un numero minimo di alunni per formare una classe o tenere aperta una scuola, un certo numero di abitanti per avere la farmacia, la caserma dei carabinieri, lo sportello postale e così via. In questo quadro di regressione demografica, lo svuotamento delle aree interne rappresenta la punta dell’iceberg dell’Italia in contrazione.
Fino ad ora, i luoghi rarefatti sono stati interessati da enormi disuguaglianze, non solo perché spesso più poveri, ma anche perché i residenti hanno minori possibilità di accesso a servizi essenziali e minori opportunità concrete di affermare i propri interessi, aspettative e valori. I fattori di innesco e di riproduzione nel tempo di queste disparità socio-territoriali sono diversi. Innanzitutto il silenzio. Pensiamo alle aree interne, estremo di questa Italia marginalizzata. Solo da un decennio sono riemerse, dopo mezzo secolo di oblio. Su impulso di Fabrizio Barca, allora ministro per la Coesione territoriale, nel 2013 ha preso avvio la Strategia nazionale per le aree interne (Snai), una politica place based, attenta ai luoghi e a chi li abita, interessata a potenziare allo stesso tempo le dotazioni di servizi essenziali e lo sviluppo economico e sociale (Lucatelli et al. 2022). Riconoscendo l’Italia come un Paese fortemente policentrico, la Snai ha contribuito a ridefinire le aree interne come luoghi con gravi deficit di cittadinanza, territori cioè dove i residenti sono costretti a convivere con dotazioni e qualità di servizi pubblici essenziali ben al di sotto di quelli medi urbani, interessati da un marcato spopolamento, conferendo così una nuova dimensione analitica alla magistrale dicotomia di Manlio Rossi Doria tra l’economia dell’osso, della collina più impervia e della montagna a bassa resa della terra, e l’economia della polpa, dell’agricoltura di pianura ad alta produttività.
Il piccolo, le aree rarefatte, inoltre, hanno subìto un trattamento differenziale istituzionalizzato, associato al loro presunto minore valore per lo sviluppo generale. Anche un certo sguardo produce disuguaglianza: la lettura stereotipata che considera i piccoli e piccolissimi paesi come scarti o residui in perdita del modello metropolitano, inevitabilmente destinati a spopolarsi o, ma con un effetto non meno nefasto, a trasformarsi in “borghi-bomboniere” per turisti frettolosi (Barbera, Cersosimo e De Rossi 2022). Una postura diffusa e giudicante, che sminuisce il valore delle montagne e dell’interno, del micro e meno produttivo per adottare a modello la vita e i ritmi della città; che occulta le necessarie interconnessioni tra le parti e la varietà territoriale che contraddistingue l’Italia. Mainstreaming posturale che ha implicato politiche pubbliche sottrattive: meno servizi essenziali nei campi della sanità, dell’istruzione e della mobilità nelle aree rarefatte, alimentando così il circolo vizioso dello spopolamento perché meno servizi spingono le persone a partire e meno persone legittimano la riduzione degli investimenti in servizi.
Eppure, i paesi non si sono demograficamente spenti né sono diventati aridi deserti senza risorse e potenzialità. Il destino per i luoghi rarefatti non è segnato, o almeno non lo è per tutti. Per accorgersene tuttavia bisogna indossare lenti che consentano di cogliere i dettagli e occorre “invertire lo sguardo”, come suggeriscono gli studiosi raccolti in Riabitare l’Italia (De Rossi 2018). Anche nell’ “estremo dell’Italia estrema”, dove più marcati sono i trend demografici negativi, dove si perdono con maggiore rapidità bambini, giovani, donne in età fertile, famiglie, ci sono cittadini che progettano o desiderano restare. Lo dimostra una ricerca nelle aree interne pilota della Snai in Calabria (Sila e Presila crotonese e cosentina, Versante Ionico Serre, Reventino-Savuto e Area Grecanica, per un totale di 63 comuni e poco più di 115 mila abitanti). I principali risultati, contenuti nel libro Lento pede. Vivere nell’italia estrema (Donzelli, 2023), curato da chi scrive, permettono di acquisire elementi di conoscenza circa le strategie, gli adattamenti e le valutazioni dei restanti (per scelta o per necessità) che vivono l’ordinario e immaginano il futuro dei luoghi lontani.
Nata da un accordo di collaborazione tra la Scuola superiore di scienze delle amministrazioni pubbliche del Dipartimento di scienze politiche e sociali dell’Università della Calabria e il Nucleo di valutazione e verifica degli investimenti pubblici della Regione Calabria, la ricerca ha adottato uno sguardo da vicino: oltre a realizzare approfondimenti conoscitivi mirati sullo stato dei servizi essenziali nel campo della salute, dell’istruzione e della mobilità, valorizza i risultati di mille interviste rivolte a giovani (18-39 anni) e residenti-genitori di figli minorenni, raccoglie e analizza il punto di vista dei rappresentanti della “classe dirigente” locale (sindaci, segretari comunali, medici di base, dirigenti scolastici, parroci).
L’analisi pendola tra due movimenti: quello della tragedia, legata all’estinzione demografica incombente, alla scomparsa delle nascite, all’indifferenza pubblica per comunità lontane dagli standard dell’Italia normocentrica; e quello della speranza del possibile, dei segni di rinascita e di ripopolamento, dell’ostinazione di giovani e famiglie che praticano la “restanza” come scelta di vita (Teti 2022), dell’attenzione crescente per piani di vita più lenti e relazioni umane meno sottomesse alla mercificazione. La speranza di rimanere fiduciosi anche quando il contesto rimanda segnali scoraggianti; di rifiutare letture deterministiche, di non farsi intrappolare in visioni che propongono la tirannia dell’unica scelta possibile, che non contemplano sentieri laterali rispetto a quello dominante.
Lento pede contiene la ricostruzione di uno spaccato non scontato della vita che resta e a cui viene riconosciuta dignità, nonostante le limitazioni e i condizionamenti del deficit assoluto di infrastrutturazione sociale. Ci sono famiglie che hanno deciso di restare. Così come ci sono tanti giovani che hanno scelto di continuare a risiedervi e tanti altri che resterebbero se si creassero le condizioni per farlo, nell’estremo calabrese come in quello di tante altre parti della Penisola (Membretti et al. 2023). E ci sono anche tanti anziani, il più delle volte soli, che restano perché radicati da sempre in quelle terre e che continuano a mantenere vive relazioni sociali di prossimità e piccole economie. Inoltre, la prospettiva di analisi adottata permette di intravedere gli elementi discriminanti del restare e del partire.
Chi vuole restare costituisce la maggioranza. E per chi resta contano soprattutto fattori riconducibili alla qualità della vita e ai rapporti interpersonali, il senso di sicurezza e protezione che dà la dimensione piccola e nota del paese. Sono rilevanti anche le ragioni strumentali, come il più basso costo della vita, la casa di proprietà. Al contrario, ad incoraggiare la partenza sono il desiderio di vivere in contesti (urbani) più densi di relazioni, opportunità e servizi, ma soprattutto il timore di un futuro interno sempre più svuotato di opportunità di vita, carico di difficoltà ordinarie e minacciato dalla mancanza di servizi pubblici di base.
Per rendere abitabili i paesi servono le indagini, ma non bastano. Bisogna, su più piani, sostenere la politicizzazione della restanza. Su quello della conoscenza per acquisire consapevolezza che la marginalizzazione spaziale e sociale è frutto di scelte politiche e che carenze e debolezze si rafforzano vicendevolmente, e, allo stesso tempo, per riconoscere i cittadini che hanno scelto di restare, i loro bisogni, i loro desideri, la loro voglia di continuare a vivere in luoghi appartati, diversamente appaganti. Su quello degli interventi per trasformare i vincoli in opportunità: non guardare allo spopolamento come a un destino inevitabile e sempre svantaggiante, ma pensare la rarefazione come una condizione compatibile con una vita diversa ma non meno appagante di quella urbana, che nel “vuoto” demografico è possibile costruire relazioni umane più dense che nelle aree “piene”.
La strada maestra è quella della ri-territorializzazione dell’intervento pubblico, è il superamento della dittatura del tot, è l’avvio sperimentale di percorsi che consentano di rispondere alle esigenze di cittadinanza dei residenti marginalizzati e di ricostruire spazi di partecipazione e co-costruzione di risposte su misura. Non rinunciare alla scuola primaria per evitare la pluriclasse, ma utilizzare la pluriclasse per mettere a punto nuovi metodi educativi e didattici, per cambiare la formazione universitaria dei potenziali maestri di domani. Fare i conti con la distanza dagli ospedali per sviluppare forme di mobilità e accessibilità diverse e una diagnostica innovativa per una sanità appropriata alla distanza. Non pensare alla “rigenerazione” del patrimonio edilizio come un’operazione economicistica di mercato bensì come una occasione per “fare comunità”, per attrarre nuovi residenti, immigrati, profughi, per irrobustire trame relazionali locali sfilacciate dall’emigrazione. Non guardare alla distanza urbano-rurale come separatezza di mondi polarmente contrapposti bensì come opportunità per riscoprire connessioni e complementarietà metromontane, urbanopaesane (Barbera e De Rossi 2021).
Sul piano del metodo, serve ascolto, negoziazione per progettare servizi e prestazioni che siano di riconquista civile e di cittadinanza per persone che sono costrette a convivere con un welfare debole o introvabile. Servizi pensati, costruiti ed erogati per e con i beneficiari. Il benessere non può essere delegato a soggetti terzi: una «buona» vita presuppone protagonismo e attivazione delle persone luogo per luogo, una loro legittimazione come «soggetti politici» e non come passivi «individui bisognosi».
Dialoghi Mediterranei, n. 64, novembre 2023
Riferimenti bibliografici
Barbera, F., Cersosimo, D., De Rossi, A. (a cura di) (2022), Contro i borghi. Il Belpaese che dimentica i paesi, Donzelli, Roma.
Barbera, F. – De Rossi, A. (a cura di) (2021), Metromontagna. Un progetto per riabitare l’Italia, Donzelli, Roma.
De Rossi, A. (a cura di) (2018), Riabitare l’Italia. Le aree interne tra abbandoni e riconquiste, Donzelli, Roma.
Lucatelli, S. et al. (a cura di) (2022), L’Italia lontana. Una politica per le aree interne, Donzelli, Roma.
Membretti, A. et al. (a cura di) (2023), Voglia di restare. Indagine sui giovani nell’Italia dei paesi, Donzelli, Roma.
Teti, V. (2022) La restanza, Einaudi, Torino.
______________________________________________________________
Domenico Cersosimo, già professore di Economia applicata nell’Università della Calabria, svolge attività di ricerca sui temi delle disuguaglianze territoriali, sociali, economiche e civili. Ha contribuito, insieme ad un gruppo composito di studiosi e di esperti, alla costituzione dell’Associazione “Riabitare l’Italia”, di cui è vicepresidente e membro del comitato direttivo.
Sabina Licursi, professoressa di Sociologia presso l’Università della Calabria, si occupa di solidarietà, homelessness, povertà educativa. Nell’ultimo triennio ha co-coordinato una ricerca su aree interne e demograficamente rarefatte. È socia e componente del comitato direttivo di “Riabitare l’Italia”. Ha recentemente curato: Lento pede. Vivere nell’Italia estrema, Donzelli, Roma, 2023 (con D. Cersosimo).
______________________________________________________________