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Il presente dell’antropologia visiva: una riflessione intorno alla rivista “Visual Ethnography”

cover_article_112_en_usdi Pietro Meloni 

L’iniziativa di Dialoghi Mediterranei rappresenta una preziosa occasione per conoscere meglio il panorama delle riviste di antropologia (e non solo) italiane, per discutere di problemi comuni, per cercare di immaginare possibili soluzioni. Gli interventi che hanno preceduto il mio hanno ben analizzato lo stato di salute delle riviste italiane, evidenziando le difficoltà di sopravvivenza, la necessità di perseguire un rigore scientifico e di condividerne i criteri, la diffusione nazionale e internazionale, la ricaduta nelle comunità scientifiche. Nello spazio messo a disposizione da Dialoghi Mediterranei vorrei tracciare un breve profilo della rivista Visual Ethnography, di cui faccio parte, e discutere alcuni quesiti sollevati dagli interventi precedenti e farlo attraverso una descrizione dei problemi quotidiani che incontriamo nella gestione della rivista. Come ha già scritto Eugenio Imbriani, parlare delle riviste è un modo per farle conoscere e anche per accogliere suggestioni e suggerimenti per poterle migliorare.

Nel 2012 usciva il primo numero di Visual Ethnography, rivista fondata da Francesco Marano, antropologo visivo dell’Università degli Studi della Basilicata. Oggi la rivista è in classe A per il settore M-DEA/01, indicizzata su Scopus e Web of Science.

Sin dalla nascita la rivista si è posta come obiettivo l’attenzione per quella sotto disciplina dell’antropologia culturale e sociale che rientra sotto il nome di antropologia visiva (o visuale, a seconda delle scuole), e di farlo accogliendone sempre i più recenti sviluppi teorici, metodologici e di campo. Al di fuori del circuito degli addetti ai lavori, infatti, si incorre spesso nell’errore di vincolare l’antropologia visiva alla produzione filmica – che, ovviamente, ne rappresenta l’origine.

Questo problema era già stato posto da Jay Ruby (2005), il quale aveva identificato tre fasi principali dell’antropologia visiva: una prima fase legata al film etnografico, una seconda fase sui pictorial e gli indigenous media e una terza fase che l’autore definisce della comunicazione visuale. Se la prima fase è quella che ha permesso la nascita dell’antropologia visiva, ponendola in dialogo e in contrapposizione con una disciplina che sembrava fondata sull’esclusivo uso delle parole (Mead, 1980), la seconda fase ha permesso lo sviluppo di più ampi studi sulle immagini e sulle rappresentazioni visive delle culture, sia a opera degli antropologi (Bateson, Mead, 1942), sia come forme di autorappresentazione (Adair, Worth, 1972) e strumento di negoziazione politica (Turner, 2002). La terza fase, quella della comunicazione visuale, è ciò che riguarda l’antropologia visiva di oggi e ha come scopo l’analisi dei processi sociali che interessano i mondi visibili, spaziando, come ha scritto Ruby, dalle pitture rupestri allo studio dell’abbigliamento (Ruby, 2005: 165), passando per tutta una gamma di campi e oggetti che sarebbe troppo lungo elencare.

Tre fasi che, ovviamente, non sono da pensare come separate tra loro. L’ultima, quella che oggi ci riguarda e interessa di più, non esclude affatto l’attenzione per la produzione video e filmica né per le immagini fotografiche. Si tratta piuttosto di un ampliamento necessario che l’antropologia visiva ha dovuto operare per rimanere al passo con tutta una serie di studi che negli ultimi decenni hanno messo le immagini al centro delle loro indagini, finendo con l’incrociare temi di interesse antropologico: studi culturali, semiotica, storia dell’arte, sociologia, media e visual studies.

15823402120389624106In Italia l’antropologia della comunicazione visuale era stata proposta da Massimo Canevacci (2001), in un testo per certi versi pionieristico per l’epoca, dove l’antropologia si confrontava principalmente con il cinema, la pubblicità e la moda. Si trattava, a ben vedere, di un lavoro ancorato a un’analisi teorica di stampo antropologico e semiotico, con un approccio fortemente decostruttivo e postmodernista. Mancava in qualche modo quell’aspetto peculiare dell’antropologia che le permette di rimarcare una propria autonomia di indagine e una specificità non facilmente replicabile in altre discipline: l’etnografia.

Visual Ethnography, da questo punto di vista, non è un nome scelto casualmente. Sebbene la scelta ci sia stata favorita da alcuni vincoli – volevamo un nome inglese per inserire la rivista in un panorama internazionale e Visual Anthropology (con l’aggiunta di “review” nel caso della rivista dell’American Anthropological Association) era già utilizzato dalle due principali riviste internazionali –, la necessità di sottolineare l’aspetto etnografico dell’antropologia visiva ci è sembrato essenziale. L’etnografia ci ricorda che il lavoro dell’antropologo visivo non è semplicemente produrre delle immagini ma riflettere, in modo profondo, a partire dal loro uso e dalla loro osservazione, e costruire descrizioni dense (testuali e visive) di come i dispositivi visivi permettono oggi di fare ricerca sul campo.

9780415357654Già nella produzione filmica il medium visivo era inteso come un modo di stare sul campo, di fare etnografia (MacDougall, 1997). Oggi i diversi dispositivi visivi e digitali sono strumenti essenziali per l’antropologo sul campo (Pink et alii, 2016) e una riflessione sul loro uso, su come cambiano il nostro modo di raccolta, registrazione e interpretazione dei dati è di primaria importanza. L’etnografia visiva, in qualche modo, sottende all’idea che una buona immagine è sempre il risultato di una buona ricerca di campo (Leon-Quijano, 2022) e che una riflessione sui dispositivi visivi permette di comprendere il ruolo che essi giocano come agency distribuito del ricercatore (Luvaas, 2019; Hall, 2020).

Partendo da queste premesse Visual Ethnography ha sempre cercato di accogliere proposte capaci di mostrare una marcata propensione verso l’etnografia e la riflessione teorica, e dove le immagini non occupano un ruolo marginale, di corollario al testo scritto ma riescono a mettere in evidenza la profondità etnografica, la rigorosità dei metodi e l’ampiezza dell’analisi teorica.

Nel corso dei dieci anni di storia della rivista ci siamo aperti a contributi su un ampio ventaglio di temi, che riportiamo anche sulla home page del nostro sito internet: produzione e uso di immagini e media audiovisivi nelle pratiche socio-culturali; culture digitali; arte contemporanea e antropologia; antropologia dell’arte; sensi e culture; oggetti, design, architettura e antropologia; corpi e luoghi; teorie e metodi. L’obiettivo è sempre stato quello di includere studi relativi non soltanto all’antropologia visiva ma anche all’antropologia dei media, all’antropologia digitale, ai Visual, Film e Media Studies, all’antropologia museale, all’antropologia dei sensi.

71rjoxvyypl-_ac_uf10001000_ql80_In ambito internazionale la pictorial turn (Mitchell, 2017) ha ormai inglobato ogni ambito del visivo e del sensibile – è stata Sarah Pink (2006, 2009) a insistere sull’importanza di includere gli studi sensoriali nell’antropologia visiva. Antropologia visiva, digitale, dei media e del design dialogano spesso in modo stretto tra loro, evidenziando l’apporto dell’antropologia nello studio della produzione, della circolazione e del consumo delle immagini (Miller, Slater, 2000; Miller, 2011, 2016; Gunn, Otto, Smith, 2013; Gunn, Donovan, 2012; Young, 2022). 

Visual Ethnography è una rivista ibrida, digitale e cartacea. È così sin dalla sua origine, anche se per un certo periodo è uscita soltanto in formato digitale. Il formato ibrido, come è già stato sottolineato da Alberto Baldi in un precedente contributo ospitato su Dialoghi Mediterranei, permette di costruire testi multimodali, includendo immagini, video e audio con relativa facilità. La scelta di mantenere anche il cartaceo è dettata non soltanto da accordi editoriali e dalla possibilità di fornire un ulteriore strumento di lettura agli abbonati ma anche dalla volontà di restituire alle immagini una materialità che non sempre il formato digitale può garantire – o trasmettere.

277149050_4939746589408241_8771731713423012540_nLa struttura di Visual Ethnography prevede alcune sezioni: articoli (sottoposti a double blind peer review), report, video essay, photo essay, review, fieldwork. Inizialmente i video e i photo essay erano inseriti in formato html così da integrare sia le fotografie (in formato slide show) che i video. Con il tempo, però, si è preferito ritornare al classico PDF che incorpora le immagini o che presenta link o QR Code per la visione dei video sulle relative piattaforme. Ognuna delle sezioni della rivista è stata pensata per rispondere a diverse esigenze e consentire di coinvolgere un ampio numero di autori.

Se quella relativa agli articoli rimane la sezione principale, costruita sul modello classico della rivista scientifica, i photo essay sono certamente un tratto peculiare di Visual Ethnography. Come ha avuto modo di notare Leon-Quijano (2022: 585) proprio in relazione alla nostra rivista, la struttura del saggio fotografico permette di andare oltre la consueta restituzione testuale che caratterizza gli articoli accademici. In questi saggi le fotografie sono l’elemento centrale, sul quale il lettore concentra la sua attenzione. Non si tratta, però, di semplici portfolio, messa in mostra delle abilità fotografiche dell’autore. Sono racconti visivi, costruiti sull’idea del reportage o della narrazione artistica ma con l’idea di tenere insieme l’apparato teorico e metodologico dell’antropologia visiva. Il testo, infatti, non scompare nei photo essay: siamo ben consapevoli che la teoria dell’antropologia visiva non può essere esplicitata con il solo uso delle immagini (Pink, 2006). Prendendo spunto dalle imagetext di Mitchell (1995), negli anni abbiamo cercato di privilegiare saggi capaci di far dialogare testi e immagini, capaci di costruire narrazioni visive nelle quali l’intreccio tra i diversi linguaggi produce testi articolati e non più separabili tra loro.

La sezione fieldwork si situa a metà tra l’articolo scientifico e il photo essay. Nello stile della nota di campo, il fieldwork è un lavoro grezzo, per quanto già autosufficiente, che mostra come l’etnografo ha lavorato sul terreno e come le immagini lo hanno aiutato nelle sue ricerche. Non c’è ancora una riflessione teorica strutturata come negli articoli ma si tratta di impressioni, che potranno assumere forme scientificamente più concrete in riflessioni successive. Qui non soltanto le fotografie, ma anche schizzi, disegni e annotazioni rendono il fieldwork uno spazio di costruzione visiva del lavoro dell’antropologo che erode, in qualche modo, l’egemonia della scrittura (Hendrickson, 2008). 

page-1All’entusiasmo dell’essere parte di una rivista che si confronta con temi così variegati, importanti, di grande appeal anche per altre discipline, corrisponde la difficoltà di occuparsi di immagini in un momento in cui l’antropologia visiva ha subìto un forte ridimensionamento rispetto a una effervescenza durata dagli Ottanta fino ai primi anni Duemila. Gli insegnamenti di antropologia visiva in Italia sono minoritari così come sempre meno sono gli antropologi che si interessano di immagini – negli ultimi anni si assiste, tenuemente, a un rinnovato interesse per le immagini e per la sensorialità. È forse per questo motivo che Visual Ethnography è nata come rivista che guarda al panorama internazionale, privilegiando le pubblicazioni in lingua inglese – pur accettando contributi anche in italiano, francese, spagnolo e portoghese. Questo comporta alcuni vantaggi e molti disagi.

Ci troviamo in un momento in cui le riviste scientifiche si sono moltiplicate e dove i criteri di valutazione accademici – la nota formula publish or perish – hanno creato un sistema di competizione fondato sulla quantità di pubblicazioni. L’alto numero di riviste scientifiche (nazionali e internazionali) e la richiesta di aumentare le proprie pubblicazioni ha creato un problema di cui si parla poco ma che sembra riguardare molte riviste, relativo alla difficoltà di avere proposte sufficienti per la sopravvivenza delle riviste stesse e di avere proposte valide per la pubblicazione.

In Italia, attualmente, ci sono circa 27 riviste di Classe A per il settore M-DEA/01 – e molte altre riviste antropologiche nell’area scientifica 11. Il numero è molto elevato, soprattutto se consideriamo che l’attuale numero degli strutturati per il nostro settore disciplinare si attesta poco sotto le 200 unità e che il mondo professionale e del precariato accademico conterà forse un numero non troppo superiore a quello degli strutturati per quanto riguarda le persone interessate a pubblicare articoli scientifici. Il rischio diventa quello di avere più riviste rispetto ai potenziali autori. A questo problema si aggiunga l’elevato numero di “prestigiose” riviste internazionali, dove spesso molti autori si indirizzano, anche in virtù di migliori valutazioni in ambito concorsuale.

2022-2-aIl peso di Visual Ethnography in ambito nazionale è piuttosto modesto. I contributi di autori incardinati nel mondo accademico o professionale italiano sono relativamente pochi – più facile che le proposte arrivino da antropologi italiani affiliati a enti o università straniere, oltre che da studiosi esteri. Negli ultimi anni abbiamo cercato di promuovere la rivista nei circuiti universitari nazionali, anche coinvolgendo possibili autori a mandare proposte. C’è stato un certo miglioramento. 

Essere inseriti in un circuito internazionale aumenta la possibilità di ricevere proposte, nei limiti di quanto una rivista di nicchia come la nostra può consentire. Le riviste internazionali di antropologia visiva, anche le più prestigiose, affrontano i problemi di sopravvivenza comuni a tutte le altre riviste: numeri con pochi articoli, accorpamenti di due numeri in uno per rispettare le uscite annuali e così via. Visual Ethnography non fa eccezione. Certo, fino ad oggi siamo sempre riusciti a pubblicare la rivista nei tempi e nei numeri richiesti ma le difficoltà sono comuni ormai all’intero mondo accademico e non soltanto in ambito nazionale.

117309119_10222547338383195_6800528194414849099_nUna rivista ha problemi di gestione del lavoro. Negli anni ci siamo attestati su un comitato di redazione di cinque persone e solo di recente abbiamo inserito altre due persone per aiutarci in un lavoro a volte difficile da gestire. Selezionare preliminarmente le proposte, decidere quali sono adatte o meno alla rivista, cercare i referees, seguire l’intero processo di revisione, seguire le correzioni delle bozze sono impegni – varrebbe la pena di ricordare, non retribuiti – che richiedono l’impiego di molto tempo libero e di una dedizione che in tempi di incertezza come quelli che stiamo vivendo spesso rischia di non esser ripagata dai risultati ottenuti.

Una rivista internazionale, però, consente anche di fare importanti esperienze e aumentare il proprio bagaglio di conoscenze. Nel tempo abbiamo avuto la possibilità di verificare che le proposte straniere non sempre sono migliori di quelle degli autori italiani. Abbiamo avuto occasione di confrontarci con le antropologie visive di gran parte del mondo, in special modo le esperienze con autori non anglosassoni e, in qualche modo, posizionati nel sud globale del mondo accademico, che sono sempre particolarmente interessanti.

53894590_2139237272792534_4940333552957915136_nI processi di peer review, invece, sono particolarmente difficili. Il mondo accelerato della ricerca accademica sembra produrre sempre più individui che guardano alla produzione come forma di promozione sociale e professionale e sempre meno orientati a pensarsi come comunità scientifica. Trovare dei revisori è un lavoro oggi sempre più complicato. In questo caso la rete internazionale non aiuta. Se molte riviste poggiano su una rete di solidarietà tra i diversi antropologi – siamo tutti al contempo autori e revisori – sul piano internazionale la maggior parte delle persone non risponde ai nostri inviti a revisionare articoli, a volte perché oberati da troppi impegni, altre volte perché il lavoro di revisione è poco stimolante o poco utile dal punto di vista curricolare.

Un ulteriore aspetto che merita essere menzionato è quello relativo all’interdisciplinarità. Le immagini sono un oggetto di studio trasversale a diverse discipline. Nel tempo abbiamo cercato di creare un comitato scientifico interdisciplinare e di coinvolgere nelle proposte autori di formazioni scientifiche differenti. La classe A, in qualche modo, sembra rappresentare un ostacolo insormontabile a livello nazionale, mentre sul piano internazionale è più facile ricevere proposte di studiosi non antropologi. Questa difficoltà rimanda ai problemi già sollevati da Fabio Dei sull’irrigidimento delle riviste che, dovendo adeguarsi a criteri sempre più condivisi e omologanti, sembrano perdere di originalità, da una parte, e di chiudersi dentro le specificità disciplinari, dall’altra. Uno dei grandi sforzi di Visual Ethnography è da sempre quello di privilegiare linguaggi visivi e creativi che, ad occhi esterni a questi studi, possono talvolta apparire come meno rigorosi.

Come altre riviste Visual Ethnography si è costruita una propria nicchia capace di consentirle una più o meno agevole sopravvivenza e di porsi come riferimento sul tema delle immagini. Confrontarsi con le altre riviste, come suggerito in precedenti interventi, è probabilmente un passo necessario, per tracciare una rotta comune. 

Dialoghi Mediterranei, n. 64, novembre 2023 
Riferimenti bibliografici 
Adair, J. & Worth, S. (1972) Through Navajo Eyes. An Exploration in Film Communication and Anthropology. Indiana Press University, Bloomington.
Bateson, G., Mead, M. (1942) Balinese Character. A Photographic Analysis. New York Academy of Sciences, New York.
Canevacci, M. (2001) Antropologia della comunicazione visuale: feticci, merci, pubblicità, cinema, corpi, videoscape. Meltemi, Roma.
Gunn, W. & Donovan, J. (2012) Design and anthropology. Ashgate, Burlington.
Gunn, W., Otto, T. & Smith, R.C. (2013) Design Anthropology. Theory and Practice. Bloomsbury, New York.
Hall, A.C. (Ed.) (2020) The Camera as Actor: Photography and the Embodiment of Technology Routledge, London.
Hendrickson, C. (2008) Visual Field Notes: Drawing Insights in the Yucatan. Visual Anthropology, 24:117-132.
Leon-Quijano, C. (2022) Why Do “Good” Pictures Matter in Anthropology. Cultural Anthropology, 37:572-598.
Luvaas, B. (2019) The Camera and the Anthropologist: Reflections on Photographic Agency. Visual Anthropology, 32:76-96.
Mead, M. (1980) L’antropologia visiva in una disciplina di parole. La Ricerca Folklorica, 2: 95-98.
Miller, D. & Slater, D. (2000) The Internet: An Ethnographic Approach. Bloomsbury Academic, London.
Miller, D. (2011) Tales From facebook. Polity Press, Cambridge.
Miller, D. (2016) Social Media in an English Village. UCL Press, London.
Mitchell, W.J.T. (2017) Pictorial Turn. Saggi di cultura visuale. Cortina, Milano.
Mitchell, W. J. T. (1995). Picture Theory: Essays on Verbal and Visual Representation. University of Chicago Press, Chicago.
Pink, S. (2006) The Future of Visual Anthropology. Engaging the Senses. Routledge, London.
Pink, S. (2009) Doing Sensory Ethnography. Sage, London.
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Young, D.J.B. (2022) What Do Museum Objects Want? Re-Thinking Photographic Conventions In Ethnographic Museums. Visual Anthropology Review, 38: 60-84. 
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Pietro Meloni, PhD Università di Siena 2010, insegna Antropologia culturale presso l’Università degli Studi di Perugia. Ha svolto attività didattiche presso le Università di Siena, di Firenze, di Milano Bicocca, dell’Accademia di Belle Arti di Firenze. I suoi interessi di ricerca riguardano i seguenti ambiti: la cultura visiva, popolare, materiale e digitale; l’alimentazione; la sostenibilità; il patrimonio; il tempo; l’abitare; il design. Ha condotto etnografie sul consumo, sulle pratiche di distinzione sociale, sulle culture domestiche, sul neoruralismo, sulla nostalgia e sull’ambiente. Ha condotto ricerche etnografiche e di archivio in Italia e in Francia. Nelle sue ricerche coniuga i metodi classici dell’etnografia e dell’antropologia visiva.  Tra le sue pubblicazioni Antropologia del consumo. Doni, merci, simboli (2018), Nostalgia rurale. Antropologia visiva di un immaginario contemporaneo (2023) e Cultura visiva e antropologia (2023).

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