di Sergio Ciappina
Narrazioni diverse
Città del Vaticano – Le guerre di religione. Gli scismi. Le persecuzioni contro gli ebrei. Il sostegno al colonialismo, alla discriminazione etnica e sessuale, la quiescenza contro le ingiustizie sociali. Per tutti questi “peccati” il Papa chiederà pubblicamente perdono domenica 12 marzo. Sarà il più grande “mea culpa” della Chiesa per i suoi errori. Il Pontefice, per una delle cerimonie più importanti del Giubileo, passerà al setaccio 2000 anni di cristianità. E chiederà scusa per gli sbagli dei suoi predecessori. Giovanni Paolo II ha voluto la “giornata del perdono e della riconciliazione” con caparbietà. Sfidando persino le resistenze di alcuni ambienti del Vaticano. E salirà sull’altare della Croce della basilica di San Pietro, accompagnato dai cardinali, per ricordare le colpe dei cristiani. Bacerà il Crocifisso e poi esorterà la Chiesa alla “purificazione della memoria”, e all’impegno per “un cambiamento di vita”.
Il contenuto spirituale della cerimonia ha anche un suo riferimento scritto. Si tratta del documento “Memoria e riconciliazione: la Chiesa e gli errori del passato”, presentato oggi in Vaticano, ma reso noto già una settimana fa a Parigi. «Scopo del testo – vi si legge – non è quello di prendere in esame casi storici particolari, ma di chiarire i presupposti che rendono fondato il pentimento relativo a colpe passate». Ma quali sono gli errori di cui la Chiesa sente di doversi pentire? Nel documento ce ne sono di sei tipi. I primi sono i peccati commessi nel cosiddetto “servizio della verità”: l’intolleranza alle violenze, l’Inquisizione, le Crociate. Poi gli errori che hanno minato l’unità dei cristiani: le scomuniche, le persecuzioni religiose e i numerosi scismi di questi due millenni. L’altra grande questione è quella dell’antisemitismo. Già nel marzo del 1998 il Papa si era chiesto se la Shoah non fosse stata «facilitata dai pregiudizi antigiudaici presenti in certi settori cristiani» [1].
Domanda singolare per un papa, di nazionalità polacca (al secolo Karol Wojtyła) [2], nato e cresciuto in una Polonia certamente occupata dalle armate naziste prima e da quelle sovietiche dopo, ma che ha fatto dell’antisemitismo, dal Trattato di Versailles in poi, il collante ideologico di tutti i governi polacchi succedutesi fino alla dittatura relativamente tollerante di Piłsudski.
Una Polonia in cui «La maggioranza del popolo polacco non aveva bisogno di affibbiare agli ebrei una stella di David […] l’80% di essi era riconoscibile anche senza» [3]; un papa cresciuto dottrinalmente nello stesso ambiente ecclesiastico del cardinale Hlond [4] che nella sua lettera pastorale, al culmine del sostegno dato dalla Chiesa polacca all’antisemitismo governativo, mediante prediche e pubblicazioni, dando la propria benedizione alle campagne antisemite in ambito economico e culturale, scrive: «Gli ebrei combattono la Chiesa cattolica e rappresentano l’avanguardia dell’ateismo e del bolscevismo. […] L’influenza degli ebrei sulla morale è fatale, poiché ingannano, praticano l’usura e commerciano schiavi bianchi. […] È bene evitare botteghe e mercati ebrei» [5].
Quella stessa Polonia che oggi condanna penalmente chiunque affermi un qualsiasi coinvolgimento polacco, morale o materiale, in quella che è stata definita, anche storicamente, la soluzione finale. Questo nonostante il pogrom di Kielce, di Jedwabne, Wasosz e Bzury raccontati da Gross [6] nel suo libro [7] , il primo dei quali avvenuto all’indomani stesso della Shoah [8].
L’oggetto dell’articolo citato all’inizio del presente capitolo è l’atto finale di un lungo percorso iniziato undici anni prima dalla “Commissione per i rapporti religiosi con l’Ebraismo”, voluta dallo stesso Karol Wojtyla esattamente dieci anni dopo la sua elezione al soglio pontificio, che concluderà il suo lavoro con un documento di undici pagine [9], intitolato “Noi ricordiamo: Una riflessione sulla Shoah”, andando a costituire così il più importante fondamento ideologico scritto per la celebrazione del giubileo dell’anno 2000.
Il dubbio che sorge circa l’effettiva consapevolezza della massima autorità della Chiesa cattolica, riguardo le accertate responsabilità di quest’ultima, a carico di alcuni dei suoi componenti più illustri, nella secolare vicenda della persecuzione antiebraica, finisce per costituire un vero e proprio problema storiografico insito nella narrazione esposta dal documento citato. Ciò che però risulta avere effettiva valenza, da un punto di vista storico, è l’importanza che tale evento riveste ai fini di un sostanziale ripensamento dottrinale, all’interno del mondo cattolico e non solo [10].
Quasi vent’anni sono passati dalla redazione di quel documento e da quel giubileo; eccoci di nuovo alle soglie di una nuova epocale celebrazione che viene caricata, come vedremo, di altrettante istanze di ripensamento, pentimento e rinnovamento. La principale antagonista della Chiesa di Roma vive, ormai da più di dieci anni, quella che è stata definita “la decade di Lutero” [11]. Dieci anni di studi, iniziative, conferenze e documenti ideologici che fanno da base epistemologica ad un sostanziale “mea culpa”, simile, ma non uguale nella sostanza, a quanto più sopra delineato per la Chiesa di Roma.
«Lutero e gli altri riformatori non possono essere citati per il loro atteggiamento di tolleranza. Lutero ha inveito contro ebrei, turchi e papisti in un modo per noi oggi insopportabile. Ma la Chiesa della Riforma deve continuare a riformarsi. Oggi le chiese hanno capito, “che una forte ostinazione non porta alla pace”» [12]. A parlare è Margot Käßmann, per dieci anni vescova di Hannover ed eletta nel 2009 presidente del consiglio dei vescovi della EKD (Evangelische Kirche in Deutschland). Anche qui ci si trova a fare i conti con un passato che ha visto spesso, ma non sempre, la posizione delle Chiese evangeliche tedesche in aperto appoggio alle politiche persecutorie antiebraiche naziste, in forza delle parole di Lutero [13].
Sarebbe ozioso perdersi, come purtroppo avviene a volte nella dialettica interreligiosa, in considerazioni relative a chi o a quale delle diverse istituzioni religiose cristiane del continente europeo – esclusa l’Inghilterra che non ha più una vera e propria “questione ebraica” a partire dal dall’editto di espulsione degli ebrei nel 1290 ad opera di Edoardo I e ad oggi mai formalmente revocato e pertanto valido per il sistema legislativo britannico – spetti il primato dell’inizio di un processo di ripensamento della propria condotta antisemita, antiebraica o antigiudaica: ciò che, alla prova dei fatti, ha dato inequivocabilmente apporto e spinta ideale a questo processo, è stato, questa volta, l’utilizzo del metodo storico.
L’evento storico definito Shoah ha posto un sostanziale e non più eludibile problema di aporia tra la professione di tolleranza di dette istituzioni religiose e gli scritti e le predicazioni dei principali attori delle stesse riferite al popolo ebraico, nel corso dei secoli precedenti al XXI. Pertanto diventa indispensabile, anche nel caso della deriva antiebraica della Chiesa luterana, comprendere [14], storicizzandole, tali espressioni d’odio, riferendole ai contesti di appartenenza e provando a definire i patrimoni simbolici di quest’ultimi. In altre parole, parafrasando l’antropologo culturale Clifford Geertz [15], guardare non solo a «cosa pensavano ma a come Martin Luther e i suoi contemporanei pensavano», interpretando il mondo, dandogli un senso e conferendogli un significato emotivo.
Ashkenaz! Ashkenaz!
Viaggio incredibilmente lungo e irto di pericoli dev’essere stato quello dalla Palestina, ormai completamente assoggettata ad Abū l-‛Abbās [16] e ai suoi discendenti, fino alle terre imperiali della Renania e del Palatinato: terre ricche e, soprattutto, lavorabili, a differenza di quelle dei padri, abbandonate a causa dell’editto del Califfo che vietava loro qualsiasi coltivazione.
Le popolazioni ebraiche, che a partire dalla fine del VII fino a tutto il IX secolo, si spostarono dalla Palestina prima e dall’Italia meridionale successivamente [17], fino a raggiungere il suolo franco-tedesco – ashkenaz in lingua ebraica medievale – finirono così per ricongiungersi a quelle che vivevano, ormai da qualche secolo, nelle regioni orientali slave della Polonia, della Moscovia e della Livonia. A partire dal IX secolo tutta la letteratura rabbinica finì per identificare le comunità formatesi da quell’unione con il termine ashkenaziti: tedeschi [18]. E i tedeschi cristiani? Il rapporto di quest’ultimi con i nuovi arrivati venne generalmente caratterizzato da quell’atteggiamento schizofrenico che oscilla da una paternalistica benevolenza condizionale ad una violenza punteggiata da eccessi di crudeltà, identica a quella che affligge i popoli cristiani nei confronti di quello ebreo da Giovanni Crisostomo in poi, passando per Gregorio Magno.
A periodi relativamente tranquilli, vale a dire con poche violenze e pochi soprusi, si alternano, fino al 1347, massacri di intere comunità ed espulsioni di massa dalle principali città. Il 1347, l’anno della Peste Nera, segna la cesura: da almeno un secolo i predicatori degli ordini mendicanti vanno ammonendo i buoni cristiani che la punizione divina per chi pratica e fa affari con gli ebrei deicidi è la peste; va da sé che una grande peste porterà inevitabilmente ad un grande massacro delle popolazioni ebraiche nei territori dell’Europa centrale. Le comunità di Augusta, Ulm, Norimberga, Mainz, Worms vengono letteralmente annientate dai pogrom [19] compiuti dalle popolazioni cristiane con il benestare, se non addirittura, con l’incitamento e la partecipazione diretta dei potentati politici ed ecclesiastici locali.
Ma vi sono anche altri elementi di continuità con questo passato caratterizzato da tale schizofrenia, come ad esempio molti aspetti della politica degli imperatori verso gli Ebrei; politica che riflette l’antico rapporto che dal Medioevo legava quest’ultimi ai sovrani: non solo protezione in cambio di sovvenzioni economiche, specialmente per le guerre, ma anche servigi di diplomazia, di cura medica e di istruzione. Successivamente, sul finire del XV secolo, l’introduzione del diritto romano in Germania che viene a prendere gradualmente il posto della Lex salica e di altre legislazioni che originano dalle tribù germaniche, offrirà una più stabile giustificazione giuridica al mantenimento della presenza ebraica.
Presenza ebraica che, tra massacri e soprattutto espulsioni, è, quantitativamente, ben poca cosa rispetto a quella narrazione pubblica che parla di una presenza pericolosamente ingombrante; narrazione fatta, con evidente intenzione antagonista, da chi vede nel popolo ebraico una minaccia alla “pacifica” esistenza del mondo cristiano.
«Tra la fine del Quattrocento e il primo decennio del Cinquecento che la spinta all’espulsione si estende, portando alla cacciata degli ebrei da gran parte della Germania e della Svizzera: da Ginevra nel 1490, dal Meclemburgo e dalla Pomerania nel 1492, da Halle e Magdeburgo nel 1493, dalla Bassa Austria, Stiria e Carinzia nel 1496, dal Württemberg e da Salisburgo nel 1498 e da Norimberga e Ulm – città libere imperiali – nel 1499. Ancora, dopo gravi tumulti avvenuti a Berlino nel 1500, gli ebrei furono scacciati dal Brandeburgo nel 1510, da Colmar, Mulhouse e Obernai nel 1512, da Ratisbona nel 1519» [20].
La spinta alle espulsioni origina essenzialmente da tre realtà: quella mercantile dei centri urbani che designa gli ebrei come concorrenti sleali; quella del basso clero che li ritiene un pericoloso modello per il popolo, stante la loro rigida osservanza di una precettistica aniconica; infine dai francescani, e in genere da tutti gli ordini mendicanti, che li descrive simili a vampiri che succhiano – economicamente e fisicamente – il sangue ai poveri cristiani. La controspinta a questa tendenza viene però dal ruolo dei principi, che perdura, ove più ove meno, in una pratica di freno e di mantenimento della tradizionale politica di accoglienza, fors’anche perché funzionale agli interessi economici delle proprie casse.
Singolare il caso dell’Elettore del Brandeburgo che, a seguito di un massacro e dell’espulsione degli ebrei superstiti, accusati di profanazione dell’ostia – una delle accuse più ricorrenti insieme a quelle di sacrifici umani rituali [21] – imputazione dimostratasi poi falsa, li richiamò in gran parte delle città del suo territorio. Mentre a Colonia e Mainz, il principe-vescovo permise agli ebrei cacciati dalle città di restare nelle campagne o nelle città più piccole. Inoltre la protezione imperiale, un insieme di misure giuridiche volte a garantire la salvaguardia del diritto di residenza e della sicurezza personale all’interno dei domini dell’Impero, continua mediamente ad essere tenuta in considerazione dalle autorità, nelle alterne vicende della popolazione ebraica per tutto il periodo tra la fine del XV e l’inizio del XVI.
Il fondamento giuridico di tale protezione rivolta alle popolazioni ebraiche è, a partire dal periodo medievale, essenzialmente legato al loro stato di servitù perpetua (servitus judæorum perpetua) a causa della colpa incancellabile della morte di Gesù. Questa condizione si trasformerà, nei territori tedeschi del Sacro Romano Impero, nell’istituto giuridico della “servitù camerale” che legherà un diritto di esistenza degli ebrei alla tesoreria imperiale. Solo quest’ultima aveva il diritto di riscuotere tasse da essi. Uccidere un ebreo o scacciarlo dai territori dell’Impero significava di massima privare l’imperatore di un’entrata finanziaria: ecco che la condizione di servitù si trasforma quindi qualitativamente nel diritto degli ebrei ad essere protetti. Da notare che l’istituto giuridico appena descritto costituisce di per sé una cosiddetta “regalia fruttifera” che pertanto può essere trasferita – con il nome di regalia ebraica – all’interno dell’Impero stesso, ad altri regnanti: sovrani, magistrati e finanche vescovi legati al trono imperiale, i cosiddetti principi-vescovi.
Nel 1503 l’imperatore Massimiliano I concepisce la necessità di creare una figura di raccordo tra la politica imperiale e i sudditi ebrei: sceglie lo Schtadlan [22] Josef ben Gershon di Roshaim – noto anche come Josel von Roshaim – che manterrà questa posizione anche sotto il successore Carlo V. È attraverso le memorie di Josel che si può venire a conoscenza, attraverso il punto di vista ebraico, degli eventi luttuosi che hanno afflitto la sua gente. Le minacce di espulsioni a cui egli ha dovuto far fronte, le espulsioni vere e proprie, le condanne e i roghi – non ultimi quelli di tre suoi zii a Endingen, mentre il padre di Josel si è salvato con la fuga – le accuse di omicidio rituale e di sacrifici umani, assumono negli scritti di Josel una caratterizzazione quasi ordinaria, una sorta di stoica accettazione del volere dei tempi [23].L’attività di Josel si farà però più frenetica con il propagarsi delle idee di Martin Luther; [24] durante la lotta tra riformati e cattolici. Gli ebrei «vivevano una situazione assai difficile, in cui la protezione imperiale rappresentava naturalmente una garanzia assai superiore a quella offerta dagli Stati luterani» [25]. Infatti nei territori in cui i principi avevano aderito alla riforma, .in tempi diversi, furono quasi ovunque espulsi, mentre non lo furono negli Stati ecclesiastici, in molte città imperiali e in gran parte dei possedimenti asburgici. Spesso erano i bottegai e gli artigiani a chiedere insistentemente che fossero cacciati per liberarsi così di concorrenti; in alcune città, nonostante la protezione imperiale, il conflitto con le borghesie mercantili e artigianali degenerò in violenti attacchi contro i quartieri ebraici. Solo negli ultimi decenni del XVI secolo, a fronte di un progressivo ristabilirsi di un nuovo, anche se precario, equilibrio di forze tra Stati protestanti e Stati ecclesiastici, le espulsioni rallentarono; in alcune città, dalle quali erano stati cacciati, fu permesso agli ebrei di ritornare, senza peraltro poter ritrovare intatte le proprietà che vi avevano lasciato.
Massacri ed espulsioni hanno dunque ridotto drasticamente la popolazione ebraica in terra germanica: nel periodo tra la seconda metà del XIV fino a più della metà del XVI, essa si è vista dimezzare di decennio in decennio il proprio effettivo. Per avere un’idea di quanti fossero gli ebrei in terra tedesca a seguito delle vicende narrate, basti pensare che al tempo in cui Martin Luther si accingeva a comporre il suo scritto su Gli ebrei e le loro menzogne (1543), Francoforte – città imperiale – che, come detto prima, vantava la più numerosa tra le comunità ebraiche tedesche, non contava al suo interno che poche centinaia di persone. Bisognerà attendere il 1613 per raggiungere le tremila unità, circa il quindici percento sul totale della popolazione cittadina di Francoforte; questo grazie anche all’allargamento della sfera di attività consentite agli ebrei, in particolare nel campo commerciale.
Lingue, Scritti e Scritture Ebraiche al Tempo di Massimiliano I
Per poter affrontare in seguito un piccolo esame delle pratiche discorsive all’interno della disputa su ebrei, ebraismo e relativa letteratura teologica, è necessario delineare un quadro sintetico di quelli che sono gli studi ebraico-rabbinici e quelli sull’ebraismo condotti da gentili [26] al sorgere del XVI. Ma prima di passare a ciò, è necessario dare uno sguardo ad un problema di lingua, anzi di lingue.
Come si è detto il termine ashkenaz appartiene alla lingua ebraica medievale, che non è una lingua parlata ma soltanto letta, e letta soltanto durante le funzioni religiose. Nella vita quotidiana gli ebrei si esprimevano nelle lingue locali o, all’interno delle comunità chiuse createsi a partire dal 1215 [27], in altre lingue create per contaminazione tra espressioni in alfabeto ebraico e lingue europee. Nel caso dei territori centrali e centro-orientali dell’Europa il prodotto di questa fusione è lo yiddish. Abbiamo quindi, nel caso degli ebrei, un popolo con due lingue madri: una riconosciuta e capita dalla parte laica e religiosa di genere maschile – alle donne era destinato uno spazio marginale nella vita religiosa – ed una di uso corrente che fonde però due patrimoni simbolici dalla genesi profondamente diversa.
Nel XVI secolo l’ebraico non è quindi una lingua parlata, ma resta comunque la lingua scritta delle popolazioni ebraiche nella stesura dei testi d’interpretazione delle Sacre Scritture: Talmud [28] e Qabbaláh,[29] ed anche in questioni di natura religiosa come la stesura dei documenti dei tribunali religiosi, le raccolte di leggi talmudiche, i commenti ai testi sacri ecc. Anche la redazione di lettere e contratti tra ebrei veniva spesso effettuata in ebraico. Solo nel caso delle donne, che non leggevano spesso l’ebraico e quindi non lo comprendevano appieno, la letteratura religiosa ed esegetica loro destinata, nelle comunità ashkenazite, veniva scritta in yiddish. A queste due lingue ne va aggiunta una terza che serve a rapportarsi correttamente a quella parte di popolazione non ebrea con cui si è a contatto, e con la quale magari si vorrebbe convivere pacificamente; nel caso delle popolazioni che vivono nei territori dell’Impero, il tedesco.
Si può provare adesso ad immaginare l’effetto prodotto nella maggioranza della popolazione tedesca di religione cristiana da questa particolare combinazione poliglotta; avere a che fare con il popolo definito deicida dalla martellante predicazione fratesca [30], portatore di una propria letteratura fatta da segni oscuri e sconosciuti e che al suo interno fa risuonare una lingua simile alla propria per suono ma del tutto incomprensibile per contenuti, non aiuta certo il mantenimento di relazioni amichevoli e di mutuo soccorso. Inoltre, come si è visto nel capitolo precedente, la presenza ebraica estremamente rarefatta nei territori del “Sacro Romano Impero della Nazione Tedesca” [31] al sorgere del XVI, ne determina una sorta di leggendarietà negativa alimentata più dai racconti che da un’oggettiva esperienza d’incontro: un popolo oscuro [32] e maligno.
È nel pieno di questa rappresentazione pubblica di un popolo, quello ebraico, che appare al mattino e, al calar del sole scompare nella notte [33], che si dipana la vicenda culturale di un ebreo convertito al cristianesimo: Johannes Pfefferkorn [34]. La storiografia ufficiale ha spesso descritto quest’ultimo come “uomo di paglia” dei dottori di teologia domenicani di Colonia: una sorta di fantoccio letterario alla cui penna, resa autorevole dalla sua conversione e quindi dal riconoscimento della vera fede, veniva affidata una pubblicistica, destinata all’imperatore Massimiliano I. In questa si sosteneva l’urgenza della distruzione del Talmud e di tutte le opere ad esso collegate, scorgendo in esse l’ostacolo ideologico alla definitiva conversione degli ebrei al cristianesimo.
La vicenda di per sé potrebbe apparire banale al pari di tante altre che si sono consumate in una polemica dialettica-teologica tra i sostenitori delle due religioni. Ma mentre le altre battaglie dialettiche, condotte a colpi di tesi teologiche, di cui si ha notizia, si svolgevano nel contesto storico antecedente all’espulsione coatta di tutti gli ebrei dal regno di Spagna; questa in terra tedesca diventa paradigmatica per il delinearsi del crinale culturale tra il Medioevo della Scolastica ed il Rinascimento dell’Umanesimo civile. All’interno di questo quadro, bisogna sottolineare l’interesse di molti umanisti degli ultimi decenni del XV e dei primi del XVI per lo studio della lingua ebraica; una pratica questa volta alla comprensione filologica delle sacre scritture e, per estensione, della letteratura talmudica e cabalistica. Definito sapienziale, il recupero e lo studio di questo dono letterario dell’ebraismo, era stimato essere di fondamentale importanza, da umanisti come Pico della Mirandola [35] e Johannes Reuchlin [36] per la decifrazione del «mistero del mondo, nel quale Dio appare oscuro, in quanto apparentemente irraggiungibile dalla ragione; ma dalla quale l’uomo può ricavare la massima luce da tale oscurità» [37]
In questo contesto di convergenza, per molti versi ancora oggi da esplorare [38], tra esegesi biblica e studi sapienziali talmudici e cabalistici, vanno inseriti gli apporti provenienti dal mondo ebraico stesso: nel caso dei territori imperiali, il già ricordato Josel von Roshaim, che oltre ad essere discendente di Jacob ben Jehiel Loans, insegnante di ebraico e ispiratore degli interessi letterari dell’umanista Reuchlin oltre che medico personale dell’imperatore Federico III, è autore egli stesso di preziosi studi cabalistici oggetto a loro volta di interesse da parte degli umanisti cristiani, sia cattolici che protestanti (tra questi Ulrich von Hutten) [39]. Il riflesso politico e culturale del dibattito fra quest’ultimi e i difensori dell’idea che sola Scriptura [40] è fonte unica di salvezza, storiograficamente ripercorso col metodo dell’etichetta e della colla [41], oltre a fornire pretesti per ulteriori vessazioni delle popolazioni ebraiche, farà da sfondo al rapporto che Martin Luther avrà con gli ebrei e l’universo culturale ebraico.
Luther l’Ebreo
«Le utopie consolano; se infatti non hanno luogo reale si schiudono tuttavia in uno spazio meraviglioso e liscio; aprono città dai vasti viali, giardini ben piantati, paesi facili anche se il loro accesso è chimerico» [42].
A lungo della sua vita Martin Luther disquisirà molto di ebrei delineandone nettamente caratteri, attitudini e peculiarità: a questo proposito però è necessario fare alcune precisazioni. La prima: la vita del Riformatore si svolse essenzialmente nelle città di Eisleben, Mansfeld, Magdeburgo e Wittenberg, appartenenti all’odierno land di Sassonia-Anhalt e a Eisenach ed Erfurt situate nel land della Turingia. In queste ultime due, al tempo sedi rispettivamente di istituzioni pre-universitarie e universitarie, egli compì i suoi studi; l’ultima, Erfurt, lo vide ospite del convento dei monaci regolari osservanti agostiniani dove entrò a ventidue anni. In tutti questi luoghi la popolazione ebraica era tollerata soltanto nei primi due, anche se a Mansfeld, dove la famiglia di Luther risiedeva da generazioni, non v’è traccia documentata di famiglie ebraiche residenti dal 1434; così pure a Erfurt ove gli ebrei potevano solo commerciare ma non risiedere [43].
La seconda: sono rari, ed alcuni lacunosamente documentati, gli incontri reali avuti da Martin Luther con esponenti della comunità ebraica del tempo. Altri, raccontati da terzi, risultano estremamente dubbi in quanto tendenti a dimostrare quelle qualità negative imputate comunemente agli ebrei come la ridicola stoltezza e lo zelo autodistruttivo [44]. Infine: durante gli studi universitari a Erfurt, Luther entrò in contatto con l’ambiente umanista del tempo, venendone influenzato senza peraltro sentirsi in contraddizione con la propria formazione Scolastica [45]. Ciò perché come tutti i crinali, anche quello storiograficamente individuato fra il Medioevo della Scolastica ed il Rinascimento dell’Umanesimo non può presentare confini e linee di demarcazione nettamente distinte, specialmente per chi quel crinale lo attraversa con la propria esistenza.
Gli schemi interpretativi, che per loro natura sono sempre successivi agli eventi, devono restare flessibili così da restituire agli attori quella dinamicità che gli è propria. Uno dei tratti fondamentali – se non il principale – del Riformatore è la capacità di focalizzare immediatamente la o le contraddizioni sottese alla dialettica religiosa del suo tempo: una volta analizzate e documentate queste contraddizioni, egli vi si scaglia contro con una violenza retorica inaudita. Negli anni venti del XVI secolo Luther comincia a costruire la base epistemologica della sua visione del rapporto con il divino; in questa costruzione la contraddizione tra il pensare e l’agire di coloro che di volta in volta incarnano il bersaglio del proprio attacco, è uno dei fondamenti su cui poggia la dimostrazione dei suoi assunti.
Al tempo in cui Martin Luther fu il soggetto imputato della bolla Exsurge Domine [46] la sua sensibilità religiosa era profondamente orientata verso i peccati e le sostanziali manchevolezze della cristianità. È in questo contesto che egli identifica gli ebrei, e per certi versi si identifica con essi, come vittime sacrificali di quella disumanità travestita da giustizia che lui stesso attribuisce alla Chiesa di Roma. In particolare la questione è posta sulla giustizia divina – per Luther inconoscibile – contrapposta a quella umana che si reputa di attribuire al divino: l’essere umano non può, dice Luther, applicare il suo metro di giudizio, spacciandolo per esser quello della divinità. Perseguitare, condannare e massacrare gli ebrei a causa della loro ostinazione miope nel non aver saputo riconoscere l’avvento del tempo messianico, significa peccare a propria volta di presunzione, sovrapponendo la propria volontà di giustizia a quella divina. E ancora: non tenere conto della Scriptura, che profetizza che gli ebrei bestemmieranno e insulteranno la divinità, e cercare d’impedire, con l’eliminazione dell’ebraismo dal mondo, che si compia il verbo divino [47], comporterebbe per il cristiano, secondo Luther, una blasfemia cento volte maggiore.
In ciò non si può non scorgere l’influenza degli ambienti umanisti e delle dispute di Reuchlin con la piazzaforte Scolastica dei domenicani di Colonia. Chiamato ad esprimersi sull’accusa di eresia, lanciata da quest’ultimi, nei confronti dell’umanista ed ebraista di Pforzheim, Luther respinse decisamente tale accusa. Anche in questo frangente le sue argomentazioni perseguono la tesi dello zelo miope dei teologi scolastici che si ostina, al pari degli ebrei, a voler sostituire le proprie elucubrazioni all’inconoscibilità del pensiero divino. La questione sottesa a tutto ciò è: proclamarsi o meno esecutori delle profezie contenute nella Scriptura, e di fatto eredi della stessa, prendendo il posto di un popolo dichiarato perduto – cioè destinato alla perdizione – nella Scriptura stessa?
Negli anni che vanno dal 1518 al 1521, Luther si schiererà pubblicamente, con i suoi scritti [48], in modo chiaro e deciso verso un comportamento di amichevole tolleranza nei confronti dei, pur colpevoli, ebrei, in netta contrapposizione con la tradizione persecutoria proveniente dagli ambienti scolastici e da quelli degli ordini francescani e domenicani. Il tenore di questi scritti può essere così riassunto: gli ebrei non devono essere perseguitati, ma portati mediante i buoni esempi dei cristiani a convertirsi. Inoltre, i cristiani dovrebbero smetterla di propagandare assurde storie che denigrano gratuitamente gli ebrei; la legge degli uomini dovrebbe decidersi a riconoscere loro il diritto di accedere a qualunque professione. Se vengono lasciate agli ebrei solo l’attività finanziaria e quella commerciale, perché stupirsi del fatto che essi pratichino il prestito?
Anche se Luther aveva più volte stigmatizzato l’usura come uno dei peccati più odiosi e dei vizi più turpi della società al pari dei più famosi predicatori francescani [49], a differenza di quest’ultimi egli non fece sua, in questo periodo, l’equazione ebreo uguale usura [50]. Senza abbandonare le proprie convinzioni, maturate proprio in quell’ambiente scolastico ch’egli stesso avversava, riguardo agli ebrei e la loro colpevole posizione nei confronti della divinità, Luther si mostrerà solidale, già a partire dal 1514, con quel Reuchlin [51], ebraista e patrono dei diritti degli ebrei, paragonando la posizione di vittima della Chiesa di Roma di quest’ultimo alla propria.
Il momento più significativo dell’espressione di paternalistica benevolenza di Luther nei confronti dell’ebraismo, lo troviamo nel Commento al Magnificat ch’egli dona al suo protettore il duca Federico di Sassonia nel 1521:
«Non dobbiamo trattare duramente i giudei, perché fra di loro ve ne sono ancora di quelli che nel futuro diverranno cristiani e che lo divengono ogni giorno […] Chi mai vorrà diventare cristiano, se vede i cristiani trattare gli uomini tanto poco cristianamente? […] Si dica loro la verità con benevolenza: se poi non vogliono accettare li si lasci andare. Quanti sono i cristiani che non rispettano Cristo, che non ascoltano le sue parole, fanno peggio dei pagani e dei giudei, eppure li lasciamo in pace?».
L’altro testo, più volte citato dalla storiografia, che parrebbe testimoniare una posizione di tolleranza da parte di Luther ponendolo quasi come avvocato difensore degli ebrei – Iudæorum patronum – è Gesù Cristo è nato ebreo (1523). Ricordato come la prova evidente di una simpatia dell’autore nei confronti degli ebrei e del loro universo, in realtà non ha niente a che vedere con tale affermazione. Si tratta di uno scritto che presenta molteplici piani di lettura, dovuti anche e soprattutto al periodo in cui è stato concepito: il primo di questi è l’argomentazione che l’autore oppone alle accuse di aver insegnato l’origine umana – nato da giovane donna ebraica – del figlio della divinità negandone di fatto la natura divina, adottando pertanto la stessa posizione degli ebrei rispetto a tale natura. Contemporaneamente però espone le ragioni di tale dichiarazione: stimolare una conversione delle popolazioni ebraiche che avrebbero, in forza di tale riflessione, considerato Gesù Cristo come uno di loro [52].
Un’altra considerazione pertiene il periodo di stesura dell’opera che coincide con il momento di intensa battaglia retorica che vede opposto l’autore alle roccaforti della Scolastica e alla Chiesa di Roma. Gli ebrei e le loro disgrazie fungono spesso, a lungo nel testo, da figure retoriche che sottolineano efficacemente la disumanità miope della cristianità che li ha perseguitati in ogni possibile modo. Mostrandosi comprensivo verso di essi, aggiunge ancora un’altra grave accusa in capo ai seguaci del papa: quella di non aver saputo ricondurre benevolmente gli ebrei al riconoscimento del vero messia, ma anzi, trattandoli come animali, averne ingenerato ostilità e perfino odio verso la cristianità. Inoltre, come in ogni utopia, ove gli interlocutori, in questo caso gli ebrei, sono prima figure retoriche, l’autore arriva ad ipotizzare gli sviluppi tangibili di una siffatta politica di benevolenza; al fine di poter dimostrare la propria umanità contrapposta alla ferocia della Chiesa di Roma, l’autore afferma che gli ebrei, trattati amichevolmente e condotti amorevolmente all’istruzione biblica nella sua interpretazione cristiana, sarebbero in larga maggioranza pervenuti ad una sincera conversione.
Infine Luther si spingerà, sul finire dell’opera, sino ad una ideale identificazione con il popolo ebraico: citando la Lettera ai Romani di Paolo di Tarso, egli rivendica come la salvezza abbia le sue radici più profonde nella promessa fatta dalla divinità al popolo d’Israele [53]. L’autore arriverà pertanto a invitare i suoi avversari papisti [54] a considerarlo ebreo. È interessante vedere come questa identificazione – anche se funzionale alla polemica con la Chiesa di Roma – coesiste tranquillamente con la visione che Luther ha degli altri ebrei: quelli da lui identificati e caratterizzati negativamente nelle scritture sacre. Racconta Thomas Kaufmann [55] che, nel primo corso sui Salmi (1513-1514), colui ch’egli chiama l’eremita agostiniano di Wittemberg torna più volte a citare gli ebrei: essi sono coloro che offendono il Cristo mediatore, che ignorano volendola ignorare la grazia e la misericordia divina e, pertanto, pretendono di realizzare giustizia con le sole proprie opere; ostinati, essi ignorano la portata dell’evento messianico rappresentato dal Cristo. Infine il Talmud li ha definitivamente sviati dal retto cammino nella fede della sola Scriptura, facendoli insuperbire nell’idea di essere loro il popolo eletto.
E, sempre in tema di apparente contraddizione, bisogna sottolineare che anche per Reuchlin le Scritture nella loro lingua originaria – l’ebraico appunto – sono un fondamentale oggetto di studio attraverso il quale raggiungere una pluralità di accesso alla verità. Mentre gli ebrei – quelli descritti dalle scritture e per questo identificati con le popolazioni ebraiche contemporanee – sono per l’umanista rei di aver ucciso la divinità. E ancor peggio, non riconoscendo il nuovo verbo, impediscono di fatto quel raggiungimento di verità superiore con confluisca finalmente in un’unica fede. La posizione di difesa assunta da Martin Luther nei confronti di Reuchlin, si appoggia essenzialmente su tale identità di concezione dello iato esistente tra la ricezione della lingua – e quindi lo studio di essa – comprese le scritture esplicate attraverso la lingua stessa e il cattivo uso fattone dagli ebrei. Si può ben riassumere ciò da questa frase che Luther soleva ripetere ai suoi studenti di teologia: «… gli ebrei bevono l’acqua della sorgente, i greci attingono all’acquedotto, i latini bevono dalle pozzanghere» [56].
Ma è proprio l’inquinamento delle fonti dottrinali, con la conseguente deformazione del verbo divino, il vero abominio che accomuna ebrei e papisti. Ecco che diventano tanto più forti l’avversione e l’odio verso coloro i quali, avendo ricevuto un siffatto dono divino, ne sviliscono il contenuto male interpretandolo; soprattutto sono essi stessi fatti della stessa sostanza del male, avendo crocifisso la divinità annunciata da quelle scritture e, cosa ancor più grave, ostinandosi nell’errore: «[…] Quel tristo omiciatto – il Diavolo – vuol disputare con uno – Luther‑ sulla giustizia ed è lui stesso un briccone, perché ha cacciato dal cielo Dio, ed ha crocifisso suo figlio» [57].
Si può ben dire che Martin Luther fosse un uomo del suo tempo, a dispetto di quanti successivamente hanno visto in lui i tratti dell’uomo moderno [58] inquadrandolo perciò con le categorie stesse della modernità. L’indignazione per il comportamento blasfemo e ostinato del popolo d’Israele che egli ravvisa nella Scriptura diventa per lui, in accordo al contesto del tempo, avversione carnale verso i pochi ebrei incontrati nella realtà effettuale e i molti di cui ha sentito narrare. In pieno accordo con la tradizione Scolastica nella quale si è formato e vive.
Io non ho colpa: la Persecuzione Immaginata
«Le eterotopie inquietano […] inaridiscono il discorso, bloccano le parole su sé stesse, contestano, fin dalla sua radice, ogni possibilità di grammatica, dipanano i miti e rendono sterile il lirismo delle frasi» [59].
Esatto contrario dell’utopia, l’eterotopia getta lo sguardo su spazi che introducono a loro volta altri spazi, altre possibilità, infinite declinazioni di un pensiero, di un’illuminazione iniziale; ma il più delle volte ingenerano angoscia e vertigine in chi vede materializzarsi nella realtà gli effetti dirompenti e spesso contradditori di un’unica, propria, illuminazione originale. Soltanto una ἐποχή può annullare i lasciti negativi di un’eterotopia. Questa fu peraltro la posizione, anche se solo all’inizio, di Martin Luther circa i disordini e le intemperanze scaturite dall’attualizzazione delle riforme indicate dai suoi scritti, nella città di Wittemberg: egli raccomanda una sospensione del giudizio riguardo tali avvenimenti [60].
Paolo di Tarso ha prodotto, letterariamente, un’illuminazione, un cambiamento radicale operato attraverso la figura del Cristo: questa conversione ha potuto dare soluzione all’odio di sé che si ribaltava crudelmente nella persecuzione degli appartenenti alla nascente setta messianica [61]. Paolo ha poi passato il resto dei suoi giorni a sistematizzare l’illuminazione stessa, fornendole una struttura dottrinale per difenderla dalle cattive interpretazioni e obbligandosi a continue correzioni di tiro. Le contraddizioni logiche [62] che spesso si riscontrano nel suo insegnamento potrebbero essere il riflesso dell’eterotopia. Quest’ultima appare essere congenita ad ogni rivoluzione.
Già nel 1522, al suo ritorno dalla Wartburg, Martin Luther si trova a dover fare i conti con le perturbazioni prodotte dalle idee e dalle prese di posizione contenute nei suoi scritti [63]. Il principio della sola Scriptura agito da Luther, si comportava come un vero e proprio rasoio di Ockham [64] nei confronti di un’infinità di istituzioni e consuetudini del mondo cristiano; in una sola parola separava le sacre scritture dalla Tradizione della Chiesa di Roma, pozzo, secondo il punto di vista del Riformatore, di postulazioni di entità inutili, profondamente dannose alla vita del vero cristiano ed alla sua salvezza. Come ricorda Adriano Prosperi [65] nella sua introduzione al più violento degli scritti di Luther riguardo gli ebrei, il rinvigorito letteralismo biblico che si deve a quest’ultimo, portò invariabilmente, nel mondo germanico prima e in tutta Europa successivamente, alla critica – e quindi alla rielaborazione – di tutte le dottrine fondamentali del cristianesimo romano. Lo spagnolo Servet [66], applicando lo stesso principio di ricerca della reale rispondenza nelle sacre scritture – sola Scriptura – dei fondamenti delle istituzioni dottrinali della Chiesa di Roma, arriva a proporre una critica radicale [67] della natura trina della divinità. A questa finiva per unirsi la negazione del battesimo dei nascituri, il cosiddetto anabattismo, mentre l’attesa del Messia e del suo regno in terra, più volte ricordata nei libri veterotestamentari, finì per trovare applicazione nella costituzione di comunità ispirate ad una interpretazione letteralista e violentemente radicale delle sacre scritture. Questa sorta di fondamentalismo biblico, ulteriore declinazione della strada tracciata da Martin Luther, finiva paradossalmente per risultare affine alla rigida osservanza rabbinica della legge divina contenuta nell’Antico Testamento, più volte contestata dal Riformatore come sterile precettistica.
Adottando, in aggiunta a quanto detto, la visione che il mondo ebraico contemporaneo a Luther ha, riguardo agli effetti operati dalla Riforma nei rapporti ebraico-cristiani, si potrebbe addirittura scorgere un sostanziale addolcimento dell’azione persecutoria che un tempo era la cifra di un mondo cristiano compattato intorno alla lotta al popolo deicida. Sempre Adriano Prosperi ricorda che:
«Non solo non si era realizzata la speranza di una conversione degli ebrei per effetto del nuovo annuncio del Vangelo, ma al contrario si era diffusa un’attesa parallela e contraria, di una crisi interna del cristianesimo e di un grande e trionfale successo dell’ebraismo. L’immagine della Riforma vista attraverso le fonti ebraiche non lascia luogo a dubbi. Gli aspetti antigerarchici ed antimonastici del movimento riformatore erano apparsi segni promettenti: la polemica contro il culto delle immagini e il ritorno non solo testuale ai fondamenti biblici del cristianesimo erano stati giudicati come il ripristino delle fondamenta ebraiche del cristianesimo. […] La preghiera liturgica trovava nei Salmi la sua fonte prediletta. La stessa pratica di della scelta dei nomi cristiani vedeva sorgere un’impetuosa tendenza all’uso esclusivo dei nomi biblici» [68].
L’idea avanzata dalla setta cristiana anabattista dei cosiddetti Sabbatarii, di restaurare lo Shabbat biblico al posto della cristiana Domenica del Signore, può essere considerato esemplare del formidabile cortocircuito teologico generato nel mondo cristiano dalle posizioni di sola Scriptura presiedute da Martin Luther. Lo scritto del 1538 contro tale setta fu la sua risposta. Prosperi attribuisce a questo episodio la convinzione da parte di Luther di dover difendere la fede cristiana dagli ebrei e non più solamente dalla interpretazione che quest’ultimi danno della Scriptura con le loro opere sapienziali. Con lo scritto Degli ebrei e delle loro menzogne del 1543 avverrà una sostituzione fondamentale: se in Gesù Cristo è nato ebreo la battaglia era contro la Chiesa di Roma e il mondo ebraico – con le persecuzioni contro di esso – fungeva da interlocutore, con lo scritto del 1543 il nemico è l’ebraismo. Tutto il testo può essere interpretato come una sorta di manuale contenente istruzioni su come il cristiano possa e debba difendersi, allontanandosi fisicamente dall’ebraismo e dai suoi seguaci.
Ecco è questo il punto: si dovrebbe affiancare questo scritto a tutti gli altri – contro i papisti, gli spiritualisti, i radicali, gli anabattisti, i contadini ribelli, i sacramentari – concepiti unicamente per difendere e far difendere da ogni deformazione la strada ritrovata. Gli insulti e le analogie ributtanti contenute nel testo contro gli ebrei, così come negli altri scritti polemici contro, fanno parte dell’armamentario retorico volgare del tempo: un armamentario che fonda nel riferimento al mondo animale – il cattivo odore, i tratti animaleschi se non addirittura fantastici, il rapporto con i suini, il sangue del macello – lo stigma della diversità, dell’altro da sé. In nessun passaggio del testo appare l’invito all’eliminazione fisica dell’avversario. L’intera costruzione retorica punta essenzialmente alla separazione – e mai all’eliminazione fisica [69] anche se i toni e le espressioni sono quelle descritte sopra – del cristiano dall’empio ebreo.
Nel caso specifico della crociata contro l’ebraismo, la retorica di Luther, come lui stesso ricorda più volte, attinge immancabilmente al patrimonio simbolico antiebraico accumulatosi nel mondo cristiano per più di quattordici secoli [70]: la prima delle misure ch’egli raccomanda ai cristiani d’adottare [71] è quella della distruzione completa con il fuoco delle sinagoghe e delle scuole ebraiche. Non è un’idea originale: risale al 388 e.v. una delle prime attestazioni della distruzione mediante incendio di una sinagoga; a raccontarcelo è lo stesso vescovo di Milano Aurelio Ambrogio [72] che impose all’imperatore Teodosio I di revocare, sotto minaccia di sanzioni spirituali – scomunica – l’ordine dato al vescovo di Callinico, in Mesopotamia, di ricostruire a sue spese la sinagoga della città, incendiata su istigazione di quest’ultimo. Così Aurelio Ambrogio:
«[…] la sinagoga è luogo di perfidia, casa dell’empietà, ricettacolo della stoltezza condannato da Dio […] Come può Cristo aiutarci se noi vendichiamo i giudei? […] Vuol forse l’imperatore far celebrare questo trionfo ai giudei?» [73]
L’immagine che il vescovo di Milano dà della sinagoga, luogo centrale del culto ebraico, è quella del negativo della Chiesa, luogo cardine del culto cristiano; ecco che l’ebraismo stesso assurge, nelle parole e nel pensiero di uno dei padri dottrinali dei cristiani, a riflesso speculare negativo del cristianesimo. Ad Aurelio Ambrogio fanno eco le otto omelie contro i giudei e i giudaizzanti di Giovanni Crisostomo [74] e il trattato contro i giudei di Agostino d’Ippona [75]: due vescovi del IV secolo, anche quest’ultimi, annoverati tra i padri e i dottori della Chiesa cristiana. Da queste e da altre fonti simili, Luther trae spunto e ispirazione per costruire la base epistemologica delle sue asserzioni circa l’ebraismo: ma in tutti i suoi testi, come già detto, non compare un solo invito a danneggiare fisicamente gli ebrei. Il suo obiettivo resta pur sempre la separazione dalla loro comunità con ogni mezzo:
«E voi, miei cari signori e amici, che siete pastori e predicatori: io voglio avervi qui ricordato, del tutto sinceramente, il vostro compito cosicché anche voi mettiate in guardia – come sapete fare bene – i vostri parrocchiani dalla loro eterna rovina: che cioè si guardino dagli ebrei, e li evitino, quando possono. Non che essi debbano maledirli o fare del male alle loro persone, perché quelli hanno già dannato e offeso sé stessi fin troppo gravemente […]» [76].
Decontestualizzare gli scritti polemici di Luther sugli ebrei, isolandone il testo delle azioni suggerite dal contesto dello scopo – l’allontanamento degli ebrei – e dalle motivazioni che ad esso conducono, porta invariabilmente all’anacronismo e, in qualche caso, a immani tragedie.
Nei ventisei anni che separano le 95 tesi di Luther dallo scritto contro gli ebrei del 1543, i fossati che il Riformatore ha scavato tra sé e la Chiesa di Roma sono divenuti di fatto incolmabili e la sua produzione teologica, in questo intervallo di tempo, è maturata al punto da costituire una vera e propria dottrina fondamentalmente antagonista di quella cattolica. La quarta di quelle tesi recita così: «Perciò la pena dura finché dura l’odio di sé (che è la vera penitenza interiore), cioè fino all’entrata nel regno dei cieli» [77].
In Luther, nel 1543, quell’odio di sé è ormai cessato: grazie all’abbandono completo alla sola fede nel Cristo, ch’egli ha scoperto essere possibile solo distruggendo ogni costruzione dogmatica imposta dalla Chiesa di Roma. Quella stessa Chiesa che aveva nella sinagoga, come ricordato da Aurelio Ambrogio, la sua parte ombra, da stigmatizzare in eterno per poter così affermare la propria identità; con il completo disgregarsi della Chiesa dei papisti in Germania, la lotta all’ebraismo non è più funzionale alla nuova identità ecclesiale tedesca. Bisogna pertanto distruggere le vestigia ebraiche e allontanarne la popolazione:
«[…] Essi davvero non sanno quello che fanno, e in più, come le persone possedute [dal demonio], non vogliono sapere, né ascoltare, né imparare. Perciò con loro non si può usare misericordia, per non rafforzare nella loro condotta. Se questo non dovesse servire allora dovremmo cacciarli come cani rabbiosi, per non essere partecipi delle loro orribili empietà e di tutti i loro vizi, e per non meritare, insieme a loro, l’ira di Dio e la dannazione. Io ho fatto il mio dovere: qualcun altro, ora, veda di fare il suo! Io non ho colpa!» [78].
Una Riforma capace di riformarsi
Non è questa la sede adatta a considerazioni ideologiche circa i contenuti e le metodologie di analisi storiografica presenti nei due documenti citati nel primo capitolo del presente elaborato: se non altro perché tra i due documenti corre un ventennio denso di cambiamenti socio politici, non ultima la successione di ulteriori due pontefici. Ciò che interessa qui è riuscire a cogliere le sostanziali differenze di narrazione, rivelatrici di una diversa percezione delle responsabilità e di operato delle rispettive istituzioni religiose, Chiesa cattolica e Chiesa evangelica, nella persecuzione anti-ebraica. La comparazione in questo caso è resa possibile dal fatto che non risulta che nessun altro documento, di analogo tenore, sia stato prodotto dalla Chiesa Cattolica Romana, a partire dal 1998 fino al 2016, data del documento emesso dal XII Sinodo della Chiesa Evangelica in Germania.
Il documento Vaticano
In primo luogo è importante sottolineare che il documento in analisi non è un documento ufficiale del Magistero della Chiesa cattolica, bensì un documento di studio e riflessione della Commissione per i Rapporti Religiosi con l’Ebraismo, anche se viene citato dal pontefice Giovanni Paolo II come possibile medicamento per le ferite delle incomprensioni e le ingiustizie del passato. Sin dalle prima battute si può notare come nella narrazione che pertiene al documento in esame [79], la Chiesa cattolica, in seguito denominata Chiesa, sia un’entità distinta dalla comunità dei suoi adepti, configurandosi in un rapporto madre-figli e non, come in altre occasioni, assemblea dei credenti o ecclesia. In questa ottica la Chiesa si fa carico delle responsabilità dei suoi figli, suddividendole, più oltre, in atteggiamenti positivi e negativi nei confronti degli ebrei. Quelli negativi sono delineati, all’inizio del terzo capitolo, mediante un sintetico racconto delle origini, che contrappone la persecuzione dei cristiani da parte degli imperatori pagani a quella degli ebrei ad opera di alcuni gruppi esagitati di cristiani, resi tali da erronee interpretazioni del Nuovo Testamento.
La mentalità prevalente, i sentimenti di anti-giudaismo di alcuni ambienti cristiani e le divergenze tra Chiesa e popolo ebraico, saranno nei secoli successivi, secondo il testo, i diretti responsabili di espulsioni e conversioni forzate. La fedeltà alle proprie tradizioni religiose degli ebrei, descritta come minoranza, viene di seguito identificata come causa del sospetto e della diffidenza da parte – non viene indicata nel testo e quindi, visto che ci si trova in ambiente europeo si deve supporre – “della maggioranza cristiana”. Diffidenza che, a sua volta, sfocia, in diretto rapporto causale con la presenza di carestie, guerre e pestilenze, in violenze, saccheggi e persino massacri. Il testo narra poi, senza dare indicazioni circa le cause, che nel breve periodo tra XVIII e XIX gli ebrei raggiunsero una posizione di uguaglianza giungendo a ricoprire non bene identificati ruoli influenti nella società. Ma subito dopo però, in virtù di un nazionalismo esasperato e falso l’antigiudaismo cambia segno passando da religioso a sociopolitico; terminerebbero qui pertanto il ruolo e le eventuali responsabilità della cristianità, o, sempre secondo il documento, di parte di essa, nella vicenda della persecuzione anti-giudaica. Si giunge così infine al nazionalsocialismo tedesco che, facendo proprie le teorie razziste dell’inizio del XX secolo, fonda una pretesa superiorità tra razze nordico-ariane e presunte – anche qui non identificate – razze inferiori; tutto ciò è stato reso possibile – secondo il racconto – dalle condizioni umilianti imposte alla Germania dai vincitori della guerra del 1918. Sono del tutto assenti nella narrazione evenienze attestate storicamente tra cui sinteticamente:
- i riferimenti alle posizioni nettamente antigiudaiche di molti dei cosiddetti padri dottrinali della Chiesa che attraverso i loro scritti hanno di fatto contribuito a fondare la tradizionale avversione cristiana per gli ebrei;
- le predicazioni degli appartenenti agli ordini mendicanti contra Judæos;
- i vari Concili Lateranensi, in particolare il quarto, che disponevano la segregazione delle popolazioni ebraiche e diverse altre azioni persecutorie;
- vari passaggi della liturgia cattolica espressamente avversi agli ebrei gli accordi e l’integrazione operativa della Chiesa con il regime fascista in Italia dai Patti Lateranensi fino alla promulgazione delle leggi razziste del 1938 [80].
Gli atteggiamenti positivi nei confronti degli ebrei sono, nel testo, rappresentati dalle risposte di condanna al razzismo in generale, che la Chiesa in Germania ha dato attraverso alcuni dei suoi rappresentanti che ebbero espressioni di chiaro ripudio della propaganda nazista antisemitica. Sempre in tema di atteggiamenti positivi verso gli ebrei, il documento annovera l’enciclica di papa Pio XI “Mit brennender Sorge” – 1937 – che condannava il razzismo attuato dal regime nazista in Germania e quella di papa Pio XII – 1939 – che metteva in guardia contro le teorie che negavano l’unità della razza umana.
Il quarto capitolo del documento colloca spazialmente la riflessione interamente nella Germania al tempo del nazismo. La dialettica che si rileva si può agevolmente sintetizzare in una contrapposizione di ideali umanitari – la Chiesa – e ideali antiumanitari – il regime nazista – sullo sfondo di una incipiente catastrofe ebraica: la Shoah. Il capitolo prosegue stigmatizzando poi il comportamento dei cristiani che nulla fecero per prevenire tale disastro né tantomeno opporvisi con azioni di protesta: tale comportamento rappresenta per gli altri cristiani un grave peso di coscienza. Non v’è alcun riferimento ad eventuali responsabilità dirette né nell’appoggio della Chiesa al regime nazista e al suo programma di soluzione finale. Si ricordano infine quanti, tra vescovi, preti, religiosi e laici hanno invece contribuito a salvare la vita di centinaia di migliaia di ebrei ottenendone in seguito onori dallo Stato di Israele, includendo tra questi benefattori lo stesso pontefice Pio XII [81]. Il capitolo si chiude con il ricordo dei milioni di perseguitati e vittime dei regimi totalitari nell’Unione Sovietica, in Cina, in Cambogia e altrove. Il documento termina con un quinto capitolo che, sinteticamente parlando, richiama di fatto i cattolici «a rinnovare la consapevolezza delle radici ebraiche della loro fede »e con una Chiesa che «esprime il suo profondo rammarico per le mancanze dei suoi figli e delle sue figlie in ogni epoca». Soltanto adesso arriva l’invito al pentimento fatto dalla Chiesa ai suoi figli e che condivide con essi sia i peccati che i meriti.
L’invito alla riflessione sul significato della Shoah conclude il documento della Commissione per i Rapporti Religiosi con l’Ebraismo. Si segnala il fatto che l’impianto di note a corredo del testo ricorre esclusivamente a fonti interne alla stessa Chiesa, come la testata giornalistica l’Osservatore Romano, le pubblicazioni di editoria cattolica e lo stesso pontefice Giovanni Paolo II. Ci troviamo pertanto, come già evidenziato nel primo capitolo del presente elaborato, di fronte ad una fonte che interpreta sé stessa [82].
Il documento del XII Sinodo della Chiesa Evangelica Tedesca
Di tutt’altro tenore, sia nei contenuti che nella forma, il documento tedesco che redige all’inizio due prese di coscienza, supportate ciascuna da quattro considerazioni, incontrovertibilmente basate su fonti storiografiche primarie come gli scritti di Martin Luther, sul drammatico rapporto tra Chiesa Evangelica ed ebraismo dalla prima età moderna fino al secondo dopoguerra, passando per l’esperienza della Shoah. Conclude il documento un vero e proprio manifesto d’intenti supportato anch’esso da considerazioni pro-attive.
Preoccupanti percezioni – la prima presa di coscienza – sono quelle che il Sinodo rileva nella continuità di un pensiero anti-giudaico che la Riforma ha mantenuto in accordo ad una tradizione che risale alla Chiesa primitiva, nonostante il suo intento di voler riformare col potere del Vangelo. A ciò fa seguito un preciso impegno a sconfessare l’atteggiamento anti-giudaico seguito alle dichiarazioni pronunciate durante il periodo della Riforma. Si prende atto di come il fondatore della Riforma «abbia legato le intuizioni centrali della sua teologia con modelli di pensiero anti-giudaici» e di come non sia possibile «eludere questa storia di colpa» anche a fronte del fatto che, seppur palesemente strumentalizzate, «le raccomandazioni anti-giudaiche di Lutero nella storia successiva siano state una fonte dell’antisemitismo nazista».
Un’angosciante eredità – la seconda presa di coscienza – è quella rappresentata dalla continuità del giudizio teologico di Martin Luther, dalle prime dichiarazioni agli scritti successivi al 1538, nei confronti di una religione, l’ebraismo, reputata fallita. Giudizio strettamente «legato alla tradizione occidentale di ostilità verso gli ebrei» che fonda la sua autorevolezza su «stereotipi obsoleti ed è rimasto accecato da paure e risentimenti irrazionali». La superstizione della credenza di tradizione anti-giudaica «che tollerare la religione ebraica avrebbe attirato l’ira di Dio sulla comunità cristiana» lo ha indotto a invitare il potere temporale a perseguitare la popolazione ebraica con privazioni ed espulsioni. Come tristemente si sa tale invito è stato raccolto e perfezionato nel XX secolo. Martin Luther è stato ispiratore per secoli di un sentimento ambivalente di tolleranza e persecuzione nei confronti degli ebrei, fino a diventare, nel XIX e XX secolo, «un punto di riferimento per l’antigiudaismo teologico ed ecclesiale, come per l’antisemitismo politico».
Un rinnovamento delle relazioni – il manifesto d’intenti – a fronte del completo riconoscimento di quanto detto sopra, è l’obiettivo del cammino, intrapreso a partire dal secondo dopoguerra dalla Chiesa Evangelica, che mira a ridefinire «il suo rapporto con l’ebraismo in termini teologici, rifiutando ogni forma di ostilità verso gli ebrei e sollecitando l’incontro con l’ebraismo». La contraddizione dell’antigiudaismo e dell’invettiva contro gli ebrei di Martin Luther con la sua fede nella divinità, viene dichiarata essere non rispondente alla Scriptura specialmente in corrispondenza delle «dichiarazioni bibliche sul patto di fedeltà di Dio verso il suo popolo e sulla continuità dell’elezione di Israele». Viene accettata la sfida di ripensare, senza indugiare negli stereotipi anti-giudaici, «alle distinzioni “Legge e Vangelo’ ‘promessa e compimento’, ‘fede e opere’ e ‘antica e nuova alleanza’».
A differenza di Martin Luther e della sua condanna dei testi sacri ebraici si prende atto che «l’esegesi ebraica delle Sacre Scritture di Israele [Tanàkh] contiene una prospettiva che è non solo legittima, ma anche necessaria per l’interpretazione cristiana» (Chiesa e Israele, Leuenberg Documenti 6, II, 227) riconoscendo pertanto l’apporto essenziale dato dall’interpretazione ebraica dei testi sacri. La vergogna e l’orrore di fronte alle aberrazioni storiche e teologiche seguite alle affermazioni e agli insegnamenti del fondatore della Riforma riguardo gli ebrei e la loro religione, portano alla consapevolezza della parte di colpa imputabile senza appello alla chiesa Evangelica. Ma – ed è questo il fulcro del documento – citando l’invito del Riformatore al pentimento e in pieno accordo con lo spirito della Riforma, la chiesa Evangelica riconoscendo lo sbaglio del suo fondatore e il proprio, nell’avervi prestato ascolto, compie ancora Riforma e rinnovamento.
Non si può non riconoscere il profondo dramma esistenziale sotteso al breve ma efficace documento del Sinodo della Chiesa Evangelica tedesca e di come esso sia perfettamente aderente alla tragedia dell’esistenza umana che sta alla radice dell’intera cultura occidentale: l’Edipo re di Sofocle. La fragilità dell’esperienza umana, la volontà divina e la responsabilità individuale unita alla tragicità del conoscere, fanno da sfondo al lungo cammino intrapreso dalla chiesa Evangelica che, senza deviare dalla via tracciata dal suo fondatore, ma anzi traendo spunto da questa, vuole riscattare la disperazione di Edipo con la comprensione, l’accettazione e la rinascita.
«Perché l’uomo non vive da solo nel suo proprio corpo, ma in mezzo ad altri uomini sulla terra. Per la qual cosa egli non può vivere senza agire verso gli altri […] Pertanto la sua intenzione in tutte le opere dev’essere libera e solo indirizzata a servire gli altri e a rendersi utile al prossimo […]» [83].
Dialoghi Mediterranei, n. 64, novembre 2023
Note
[1] Fonte: la Repubblica.it – Mondo (http://www.repubblica.it/online/mondo/chiesa/chiesa/chiesa.html)
[2] Karol Józef Wojtyła (Wadowice, 18 maggio 1920 – Città del Vaticano, 2 aprile 2005) è stato il 264º papa della Chiesa cattolica e vescovo di Roma, 6º sovrano dello Stato della Città del Vaticano, accanto agli altri titoli connessi al suo ufficio.
[3] Celia Stopnicka Heller, On the Edge of Destruction: Jews of Poland between the Two World Wars, New York, Wayne State University Press, 1980: 69 e seguenti
[4] August Hlond (Mysłowice, 5 luglio 1881 – Varsavia, 22 ottobre 1948) è stato un cardinale e arcivescovo cattolico polacco.
[5] Celia Stopnicka Heller, ibid.: 113
[6] Jan Tomasz Gross (Varsavia 1947) è uno storico e sociologo naturalizzato americano di origine polacca. È Norman B. Tomlinson Professor of War and Society e docente di Storia presso l’Università di Princeton
[7] Jan Tomasz Gross, I carnefici della porta accanto. 1941: il massacro della comunità ebraica di Jedwabne in Polonia, Milano, Mondadori, 2003
[8] Jan Tomasz Gross, I carnefici della …, cit., “ci si riferisce agli eventi avvenuti il 4 luglio 1946 nella città polacca di Kielce, dove 40 ebrei polacchi furono massacrati e 80 furono feriti. Pur non essendo, in termini di vittime, il pogrom più grave della storia, è un episodio estremamente significativo, poiché ebbe luogo oltre un anno dopo la fine della Seconda guerra mondiale e dopo la sconfitta del nazismo; la popolazione ebraica della cittadina era composta da circa 200 sopravvissuti alla Shoah. Il 4 luglio 1946 si era sparsa la voce che alcuni ebrei avevano rapito un bambino per usarne il sangue. La popolazione della cittadina si riunì nei pressi degli edifici abitati da ebrei e, nell’indifferenza delle forze dell’ordine, linciò i residenti; gli ebrei presenti nei treni di passaggio nella locale stazione ferroviaria furono prelevati e uccisi.
[9] fonte: la Repubblica.it – Fatti
http://www.repubblica.it/online/fatti/corredopapa/corredopapa/corredopapa.html)
[10] È del 20 luglio del 2000 la legge n° 211 che istituisce in Italia il “Giorno della memoria”
[11] Si veda: https://www.luther2017.de/it/2017/la-decade-di-lutero/
[12] Questo ed altri passaggi in: http://www.chiesaluterana.it/2012/11/12/deutsch-lutherdekade-startet-ins-themenjahr-reformation-und-toleranz/
[13] Si veda in proposito l’intervista di Andrea Galli allo storico Stephan Linck apparsa sul quotidiano cattolico l’Avvenire (https://www.avvenire.it/agora/pagine/luterani-nazismo-mea-culpa-su-hitler-intervista-stephan-linck) e ripresa dal centro culturale gli Scritti (http://www.gliscritti.it/blog/entry/2431). Stephan Linck, nato nel 1964 ad Amburgo, ha studiato storia, letteratura e scienze politiche a Kiel. Ha conseguito il dottorato con una tesi sulla storia della polizia dopo il 1918. Come storico, ha supervisionato il progetto Chiesa, i cristiani, gli ebrei in Nordelbien 1933-1945. Dal 2008 è assistente di ricerca nel Landeskirchenamt Chiesa del Nord. I risultati della sua ricerca sulla collusione delle chiese nazionali evangeliche con il partito nazionalsocialista sono apparsi nel 2013 in un volume dal titolo “New Beginnings?”. Un secondo volume è in preparazione. Nel 2013 Linck è a capo del progetto Memorial sui campi di concentramento. A partire da agosto dello stesso anno, diventa direttore di studi dell’Accademia Evangelica di North Church responsabile per la cultura del ricordo e dei memoriali.
[14] Hannah Arendt, Origini del totalitarismo, Traduzione di A. Guadagnin, Torino, Einaudi, 2009: LXXX
[15] Clifford James Geertz, Interpretazione di culture, Bologna, Il Mulino, 1987
[16] Abū l-‛Abbās (al-Humayma, 722 – al-Anbar, 754), fu il primo Califfo della dinastia degli Abbasidi, che dal 750 al 1258 governò sulla maggior parte dei territori assoggettati alla religione e al governo dell’Islam tra cui la Palestina
[17] Anna Foa, Ebrei d’Europa – dalla peste nera all’emancipazione [EBOOK], Roma-Bari, Laterza, 2004
[18] Benedetto Ligorio, Sapere e denaro da Shabbatai Donnolo a Federico II, Taranto, Artebaria, 2010
[19] Anche se Pogrom è un termine storico di derivazione russa (погром, pronuncia: /pɐ’grom/), che significa letteralmente “devastazione”, esso viene oggi comunemente utilizzato, nella sua accezione letterale, in riferimento a tutti gli episodi di violenza, danno materiale e spesso strage, contro gli Ebrei a lungo della storia
[20] Anna Foa, Ebrei in …, cit: 444,3
[21] Si veda sul tema: Ariel Toaff, Pasque di sangue, Bologna, Il Mulino, 2007
[22] In ebraico: “colui che si sforza”. È una carica della massima importanza riconosciuta da tutte le comunità ebraiche dell’Europa imperiale. Si tratta essenzialmente di una figura che assomma compiti di avvocato difensore del proprio popolo a quelli di mediazione ordinaria e straordinaria. Va da sé che, stante la sua carica all’interno della comunità ebraica più numerosa del tempo, dopo quella di Francoforte, la scelta dell’imperatore sia caduta su Josel.
[23] Parte delle memorie di Josel di Rosheim, possono essere rintracciate nella Rivista di studi ebraici edita dall’Associazione per gli studi ebraici fondata a Parigi nel 1880 e tuttora prodotta semestralmente.
[24] Martin Luther (Eisleben, 10 novembre 1483 – Eisleben, 18 febbraio 1546) monaco agostiniano e teologo tedesco, iniziatore della Riforma protestante
[25] Anna Foa, Ebrei in …, ibid.: 444,3
[26] Termine italiano col quale si traduce la parola ebraica goym (o gojim) indicante chi non è ebreo
[27] Il Concilio Lateranense IV fu il dodicesimo concilio ecumenico della Chiesa, il quinto celebrato dopo lo scisma d’Oriente, a seguito del quale si decisero restrizioni di ogni genere contro gli ebrei, come la loro segregazione in apposite aree del territorio opportunamente delimitate al fine di garantire la netta separazione spaziale tra gli ebrei ed il resto della popolazione cristiana.
[28] Talmud, in ebraico talmūd, significa insegnamento, studio, discussione
[29] Qabbaláh, in ebraico, significa letteralmente ‘ricevuta’, ‘tradizione’. È l’insieme degli insegnamenti esoterici e mistici propri dell’ebraismo rabbinico.
[30] Martin Lutero, Degli ebrei e delle loro menzogne, introduzione di A. Prosperi, Milano, Einaudi, 2000: XXV
[31] Guido Dall’Olio, Martin Lutero, Roma, Carocci, 2017: 16
[32] Si veda la vicenda polemica ricordata come “obscuri viri” in Ulrich von Hutten e Altri, Lettere d’uomini oscuri, a cura di Cesare De Marchi, Milano, Il Saggiatore, 2014
[33] La quasi totalità dei decreti e degli editti delle municipalità dell’Impero imponeva agli ebrei di ritirarsi, all’approssimarsi del tramonto, nelle proprie abitazioni, situate all’interno di una porzione urbana appositamente delimitata.
[34] Johannes (Josef) Pfefferkorn (Norimberga? 1469 – Colonia? 1523) considerato teologo e scrittore cattolico convertitosi dall’ebraismo nel 1505 in seguito ad un periodo di detenzione per accusa di furto.
[35] Giovanni Pico dei conti della Mirandola e della Concordia, noto come Pico della Mirandola (Mirandola, 24 febbraio 1463 – Firenze, 17 novembre 1494), è stato un umanista e filosofo italiano.
[36] Johannes Reuchlin, detto anche Johann Reichlin o grecizzato in Kapnion, Capnio (Pforzheim, 29 gennaio 1455 – Stoccarda, 30 giugno 1522), è stato un filosofo, umanista e teologo tedesco
[37] François Secret, I cabbalisti cristiani del Rinascimento, Roma, Arkeios, 2002
[38] Si veda Giulio Busi, L’enigma dell’ebraico nel Rinascimento, Torino, Aragno Editore, 2007
[39] Ulrich von Hutten (Burg Steckelberg, 21 aprile 1488 – Isola di Ufenau, 29 agosto 1523) è stato un umanista e cavaliere tedesco, studiò teologia all’Università di Greifswald e lottò per il rinnovamento dell’Impero e la sua indipendenza dal Papato
[40] Guido Dall’Olio, Martin …, ibid.: 42
[41] Lucien Febvre, Au coeur religieux du XVIe siècle, Parigi, EHESS, 1995: 68
[42] Michel Foucault, Le parole e le cose – Un’archeologia delle scienze umane, Milano, Rizzoli, 2013:6
[43] Thomas Kaufmann, Gli ebrei di Lutero, Torino, Claudiana, 2016: 37
[44] Thomas Kaufmann, Gli ebrei …, ibid.:39-41
[45] Guido Dall’Olio, Martin …, ibid: 42
[46] Exsurge Domine è la bolla papale emessa da Leone X il 15 giugno 1520 in risposta sia alle 95 tesi sulle indulgenze del 1517 che agli scritti successivi del teologo tedesco Martin Luther.
[47] A questo proposito Luther cita Eccl. 1,15: “… ciò che è storto non può essere raddrizzato, ciò che manca non può esser contato.”
[48] In particolare in “Gesù Cristo è nato ebreo” del 1523
[49] Matteo Melchiorre, A un cenno del suo dito. Fra Bernardino da Feltre (1439-1494) e gli ebrei, Milano, Unicopli, 2012
[50] Martin Luther parla di usura come uno dei maggiori problemi di etica sociale ed economica del suo tempo in: Sermone sulle buone opere (1520); Alla nobiltà cristiana della nazione tedesca, a proposito della correzione e del miglioramento della società cristiana (1520); Il commercio e l’usura (1524)
[51] È del 1514 la lettera di Martin Luther, pubblicata dal suo allievo e segretario Joannes Aurifaber (Weimar 1519 – 18 novembre 1575) in Epistolae Lutheri, t. I: 6 – in appendice
[52] Thomas Kaufmann, Gli ebrei …, ibid.: 74
[53] Rom., IV,16
[54] Termine coniato da Luther stesso.
[55] Thomas Kaufmann, Gli ebrei …, ibid.: 55
[56] Martin Lutero, Degli ebrei e …, ibid.: XXX
[57] Martin Lutero, Discorsi a tavola, con un saggio di Delio Cantimori, Torino, Giulio Einaudi Editore, 1969:78
[58] Guido Dall’Olio, Martin …, ibid: 97
[59] Michel Foucault, Le parole e le …, ibid.: 7
[60] Guido Dall’Olio, Martin …, ibid.: 102
[61] Per Jung la vita di Paolo di Tarso “[…] offre un buon esempio di enantiodromia – letteralmente corsa nell’opposto – la sua conversione al cristianesimo corrispose all’accettazione del suo atteggiamento fino ad allora inconscio e alla rimozione delle sue opinioni anticristiane manifestate soprattutto con attacchi violenti”, in Carl Gustav Jung, Tipi psicologici, Roma, Newton Compton, 1979: 399
[62] Si pensi alla posizione di Paolo di Tarso nei confronti delle donne: da un lato egli dichiara la completa uguaglianza donna-uomo (Gal 3,28) stabilendo addirittura una rivoluzionaria equiparazione dei rispettivi ruoli socio-politici (1Cor 11,11-12), dall’altro nega recisamente quanto sopra per poter conciliare il suo insegnamento con canoni comportamentali del suo tempo (1Cor 11,5-7), (1Cor 14,34-35; 1Tim 2,11-15), (1Cor 11,3; Ef 5,22-24; 1Tim 2,13)
[63] Nell’ordine: Alla nobiltà cristiana della nazione tedesca, La cattività babilonese della Chiesa e Libertà del cristiano, quest’ultima preceduta da uno scritto dedicatorio a Leone X, sono considerati i “Grandi scritti della Riforma”
[64] Martin Lutero, Discorsi a …, ibid.: 47
[65] Martin Lutero, Degli ebrei e …, ibid: LVII
[66] Michel Servet (Villanueva de Sigena, 19 settembre 1511 – Ginevra, 27 ottobre 1553) è stato un teologo, umanista e medico spagnolo, condannato e arso vivo dai calvinisti a Ginevra per le sue posizioni teologiche antitrinitariste.
[67] De Trinatis erroribus libri VII, per Michael Servet, alias Reves, Haguenau Cesserius, 1531 e Dialogorum de Trinitate libri duo. De Iustitia regni Christi, capitula quatuor, per Michaelem Servet, alias Reves, ab Aragonia Hispanus, Haguenau, Cesserius, 1532
[68] Martin Lutero, Degli ebrei e …, ibid.: LVII
[69] Martin Lutero, Degli ebrei e …, ibid.: 198
[70] Martin Lutero, Degli ebrei e …, ibid.: 210
[71] Martin Lutero, Degli ebrei e …, ibid.: 188, 212
[72] Aurelio Ambrogio (Aurelius Ambrosius), (Treviri, incerto 339-340 – Milano, 397) è stato un vescovo, scrittore e teologo.
[73] Opera Omnia di sant’Ambrogio, Lettere fuori collezione – vol. 21 tomo 3 – epist. LXXIV(CSEL) o epist. XL (Maurini), § 14-18-20, Roma, Città Nuova Editrice, 1988: 97-99 – in appendice
[74] Giovanni Crisostomo, o Giovanni d’Antiochia (Antiochia, 344/354 – Comana Pontica, 14 settembre 407), è stato un arcivescovo e teologo bizantino.
[75] Aurelio Agostino d’Ippona (Aurelius Augustinus Hipponensis) (Tagaste, 13 novembre 354 – Ippona, 28 agosto 430) è stato un filosofo, vescovo e teologo.
[76] Martin Lutero, Degli ebrei e …, ibid.: 198
[77] Martin Lutero, Scritti religiosi, a cura di Valdo Vinay, Torino, Unione Tipografico-Editrice Torinese, 1967: 168
[78] Martin Lutero, Degli ebrei e …, ibid.: 222
[79] Come ricordato nel primo capitolo, il documento in questione fa da base, secondo il quotidiano italiano “la Repubblica”, al mea culpa della Chiesa cattolica circa le sue responsabilità nell’antisemitismo. Fonte: http://www.repubblica.it/online/fatti/papa/papa/papa.html
[80] Renzo De Felice, Storia degli ebrei italiani sotto il fascismo, Torino, Einaudi, 1988: 298
[81] Tale questione è ancora oggi dibattuta come dimostra l’articolo del quotidiano “la Repubblica” citando le reazioni di altrettante fonti israeliane: http://www.repubblica.it/online/fatti/papa/reazioni/reazioni.html
[82] Per un’approfondita risposta critica al documento: Stefano Levi Della Torre, Errare e perseverare – Ambiguità di un Giubileo, Roma, Donzelli, 2000
[83] Martin Lutero, Scritti politici, a cura di Giuseppina Panzieri Saija, Torino, Unione Tipografico-Editrice Torinese, 1949: 386-387.
Riferimenti bibliografici
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Matteo Melchiorre, A un cenno del suo dito. Fra Bernardino da Feltre (1439-1494) e gli ebrei, Milano, Unicopli, 2012
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Celia Stopnicka Heller, On the Edge of Destruction: Jews of Poland between the Two World Wars, New York, Wayne State University Press, 1980
Ariel Toaff, Pasque di sangue, Bologna, Il Mulino, 2007
Ulrich von Hutten e Altri, Lettere d’uomini oscuri, a cura di Cesare De Marchi, Milano, Il Saggiatore, 2014
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Sergio Ciappina, siciliano di nascita, toscano d’adozione; si occupa di ingegneria dei sistemi informatici e networking strutturale; ha conseguito un diploma di laurea in Storia presso l’Università degli Studi di Firenze con una tesi sulle «Radici e evoluzione del pregiudizio antiebraico: un’analisi storico-semantica» pubblicata dall’Osservatorio antisemitismo della Fondazione Centro di Documentazione Ebraica Contemporanea CDEC ETS; ha successivamente proseguito gli studi e la ricerca conseguendo il diploma di laurea magistrale in Scienze Storiche con una tesi sulla «Repressione del dissenso intellettuale sotto il fascismo: Giuseppe Rensi e Ernesto Rossi nelle carte della polizia». Fa parte della redazione del progetto di ricerca gestito dalla Firenze University Press Intellettuali in fuga dall’Italia fascista. Attualmente frequenta il secondo anno del corso di laurea magistrale in Intermediazione Culturale e Religiosa e sta ultimando il Corso di perfezionamento in didattica della Shoah, entrambi sempre presso l’Università degli Studi di Firenze.
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