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Si può ancora festeggiare il compleanno della nostra Costituzione?

Enrico De Nicola firma la Costituzione

Enrico De Nicola firma la Costituzione, 27 dicembre 1947

di Roberto Settembre

Introduzione

Questa non è una domanda pleonastica, poiché festeggiare un compleanno comporta l’attivazione di due meccanismi cognitivi: la memoria e la coscienza. La memoria, in occasione di una ricorrenza importante, ricapitola il tempo trascorso, e riporta alla mente i fatti che precedono il momento della celebrazione. Ha quindi una funzione conoscitiva o per meglio dire “riconoscitiva”, riportando alla coscienza fatti, eventi e informazioni del passato in quanto tutt’ora presenti e vivi in noi.

Ma la coscienza ha un altro compito, poiché la sua funzione attiene alla costruzione di significato: quanto entra e vive nella coscienza, vive in funzione del suo senso. La coscienza costruisce il significato di quel che la memoria ha ricondotto all’attenzione in termini di attualità. Così, poiché la nostra Costituzione va per il suo 75 mo anno, per alcuni non è più una giovinetta. Ma noi siamo persuasi che questo giudizio sia il frutto di una superficiale ingenuità, spesso pilotata, nel migliore dei casi, o gaglioffa, cioè pronunciata per fini non commendevoli, negli altri.

Tuttavia, prima di argomentare sul punto riteniamo sia necessaria una digressione, che attiene al significato della conoscenza, anzi, più esattamente, a quale senso attribuire all’aumento della conoscenza, poiché tutti, allocchi e gaglioffi compresi, formulano i loro giudizi sulla scorta di una quantità di conoscenza acquisita. Ma ci sono fondamentali differenze sulle modalità di questo accumulo, e sui suoi effetti.

Ogni essere umano, nel corso della vita, si imbatte nella necessità di affrontare ostacoli di varia natura, è cosa banalmente nota. Ebbene, tutti i muri, tutte le porte chiuse, tutti i baratri e tutti gli oceani che si ergono in estensione, in altezza e in inesplicabilità davanti all’avanzare della vita, hanno bisogno di strumenti idonei per essere superati. O ad opera di altri, o per mano del medesimo soggetto afflitto dall’esigenza di avanzare. Nel primo caso l’individuo ricorre a persona esperta e possibilmente di fiducia. E in questo agiscono le élite riconosciute per esperienza e conoscenza, dal meccanico all’idraulico, al medico, all’avvocato, e via dicendo. Nel secondo caso il nostro soggetto impara a risolvere il problema, acquisendo conoscenza.

Questo è il punto che ci interessa: dobbiamo vedere cosa accade al soggetto che impara, poiché diversi sono gli effetti di questa acquisizione, in quanto ognuno di noi può scegliere di accrescere il proprio bagaglio cognitivo, così come si acquistano peso ed energia ingerendo cibo, facendo ginnastica, praticando il culturismo o un qualsiasi sport, e rimanendo la stessa persona di prima, solo infinitamente più forte e prestante. Oppure può scegliere di aumentare la sua conoscenza lasciando libero campo alle energie immateriali presenti nell’oggetto della sua acquisizione, talché l’effetto sarà dirompente: lo stesso tessuto cognitivo ne verrà contaminato, la crescita della conoscenza non sarà solo quantitativa, ma qualitativa, e il soggetto in questione non sarà più qualitativamente uguale a prima. Allora quei muri, quegli ostacoli, quei baratri e quei deserti d’acqua o di sabbia saranno affrontati con strumenti che il nostro soggetto non sospettava di avere, appunto perché non li possedeva. Da lì in poi diventerà un’altra persona, e gli sembrerà quasi impossibile riconoscersi nella persona di un tempo. Soprattutto perché si renderà conto di essere una persona in divenire, a fronte di chi rimane immobile ingrassando o ingrossando il proprio corpo, incapace di percepire che la vera ricchezza non è quantitativa, ma qualitativa.

Le firme in calce alla Costituzione

Le firme in calce alla Costituzione

Ma, a questo punto, è opportuno cercare di spiegare cosa significa rimanere uguali a prima. Vogliamo dire che, nonostante l’aver ingurgitato grandi quantità di prelibatezze culturali, la struttura personologica edificata sulle credenze, sulle ideologie, sui pregiudizi, sulle appartenenze a religioni, movimenti politici, interessi economici, di casta, di famiglia, sulle modalità esistenziali, sui progetti di carriera e di successo, sulle idee di piacere o di sofferenza, sui riti, sugli affetti, sulle inimicizie, sulle antipatie e sulle simpatie, financo sulla qualità dei rapporti umani, sulla memoria condivisa, su quella privata e su quella pubblica, non verranno scalfite da quell’acquisizione quantitativa di conoscenza.

Ecco perché capita che ci si domandi come fosse possibile che gli aguzzini di Auschwitz e di simili campi, dopo una giornata di orrori inflitti o contemplati, erano capaci di tornare a casa dalla moglie e dai figli, mostrare affetto paterno e coniugale, e dedicarsi alla lettura di Goethe o di Schiller o all’ascolto dei Lied di Schubert: si trattava di una mera acquisizione quantitativa di conoscenza.

Ma non solo: accade che la struttura personologica sia così solida e impermeabile all’energia che si sprigiona dai luoghi della conoscenza, che quella stessa energia sarà trasformata in una sostanza utile a rinforzare quella struttura. Le credenze edificate sulle fedi, inattaccabili dalle forze esterne, useranno sé stesse per modificare la sostanza di quelle forze, facendole diventare altro da sé. È questo il motivo per cui ci sono persone, pur inorridite dallo stupro di una giovane, che ricavano dalle informazioni sul delitto motivi per radicarsi nelle loro credenze: l’evento è visto e giudicato sulla scorta del pregiudizio di genere. Il “Se l’è cercata” è una delle locuzioni usate da queste persone, capaci di argomentare con abbondanza di particolari e di riferimenti storici, psicologici, giuridici, di costume, ma tutti orientati da quel prima personologico inossidabile alla qualità dell’informazione.

Tutto questo avviene in relazione con gli eventi della vita privata e di quella esterna a noi, poiché nessun parametro necessario per formulare qualsiasi giudizio prescinde da un giudizio preliminare su quel parametro. E pensiamo per un momento agli accadimenti giganteschi che stanno modificando la realtà attorno a noi, ormai assuefatti dal bombardamento informatico a introiettare una mole enorme di notizie. Per tutte e per ciascuna di esse la memoria utilizza i parametri del giudizio distillati dalla coscienza. Ebbene, noi riteniamo che a questi parametri di giudizio non debba restare estraneo il compleanno della nostra Costituzione, che oggi, soprattutto oggi, assume uno speciale significato.

Se nel 2009, anno in cui chi scrive tenne all’Università di Stoccarda la conferenza che seguirà queste parole, la Costituzione italiana e quella tedesca, le cui ricorrenze sostanzialmente coincidevano, avevano per entrambi i Paesi analoghe valenze, talché i loro contenuti potevano venir esaminati con spirito paritario, all’epoca diverse erano le attese verso il futuro istituzionale dell’Italia e della Germania rispetto a quelle attuali del nostro Paese.

Vogliamo dire che all’epoca le due Costituzioni sembravano solidi baluardi contro i loro nemici, e che dalle persone cresciute spiritualmente alla loro luce non veniva percepita la messa in questione, non tanto della loro tenuta, ma soprattutto del loro significato, intendendosi per significato il senso della loro esistenza, essendo le Costituzioni né un mero pezzo di carta da superarsi attraverso il loro stravolgimento, o la loro disapplicazione dolosa, né un retaggio di un’epoca passata e superata dal presente tecnologico, mediatico e populistico.

Intendiamoci: nessun evento politico storico sfugge al cambiamento degli esseri umani che via via sostituiscono quelli che li hanno preceduti, la cui morte, tuttavia, non trasforma in cenere le loro opinioni (cioè i giudizi che accompagnavano le azioni di costoro) e le loro idee (cioè il frutto dell’elaborazione concettuale dei rapporti tra il passato e il presente visti nel confronto di come gli interessi in gioco avevano distillato le proprie ragioni, e non solo economiche) come vuole la legge dell’entropia. Ne consegue che nuove opinioni e nuove idee, scomparsi quelli, sorgono nel pensiero dei loro successori sul pianeta, ma non possono esimersi da quelle che le hanno precedute, poiché la memoria e la Storia si trasmettono di generazione in generazione in modo abbastanza efficace da quando è stata inventata la scrittura, fake news permettendo. Il punto, viceversa, attiene al perché opinioni e idee si sviluppino in un confronto armonico o in radicale contrasto con quelle precedenti.

Ci riferiamo cioè al potere delle ideologie, che riteniamo un vero cancro della ragione, poiché, essendo ad esse intrinseco un duro nocciolo manicheo, spingono i loro fautori a cancellare le istituzioni pluralistiche edificate sul significato della Storia in termini di razionalità morale. Ecco perché, nel 2009, quando forze politiche come AFD in Germania, o F.d’I. nel nostro Paese erano minoranze ininfluenti, erano lontani e poco plausibili i progetti di stravolgimento degli assetti istituzionali delle democrazie pluralistiche. Viceversa, oggi, essendo le Costituzioni democratiche le strutture portanti delle democrazie pluralistiche, queste forze hanno bisogno di modificarne la portata, coi loro progetti di modifica strutturale in termini di rappresentanza, di controllo e di significato.

Corte Costituzionale

Corte Costituzionale

Pertanto crediamo sia necessario, ancor prima di procedere alla riproposizione di quella celebrazione, comprendere sia di cosa si parla quando si parla della Costituzione, sia cosa accade nella mente di una immane pluralità di destinatari della nostra legge fondamentale, quando non solo una gran parte dei cittadini del nostro Paese neppure sa precisamente in cosa consista l’oggetto in esame quando ci si riferisce alla Costituzione e/o al giudice delle leggi (La Corte Costituzionale), ma o non conosce il senso profondo della Legge Fondamentale (fondamentale perché costituisce il fondamento della Repubblica), o, disabituata a ogni forma di lettura profonda, non è in grado di comprendere il significato di argomentazioni necessariamente complesse e articolate nella serie dei rimandi concettuali tra i princìpi, i valori e le prescrizioni attraverso le quali è stata edificata la nostra Repubblica, dopo gli orrori del totalitarismo.

Tutto questo, sia chiaro, non comporta una mera dissertazione apologetica della Costituzione come oggetto sacro in sé. Anzi, la nostra Costituzione ben avrebbe potuto venir elaborata in vista di una scrittura più efficace e difendibile dai suoi nemici, in una forma che non ebbe attuazione e che ne avrebbe plasmato in altro modo il contenuto e la forza. E si sarebbe trattato di una forma opposta a quella che i suoi nemici vorrebbero (o vogliono?) imporre coi loro progetti di riforma, callidi ed eversivi. Di riforma, precisiamo, non di revisione.

Ma per comprendere questo assunto è altresì necessario affrontare sia l’ostacolo delle capacità cognitive dei destinatari della Legge Fondamentale, sia la loro permeabilità (e il motivo di questa permeabilità) alle letture che i nemici della Costituzione ammanniscono loro. Allora riteniamo che sia imprescindibile un punto fermo, cioè l’oggetto in esame, che, prima ancora di essere percepito come la Legge Fondamentale, il parametro giuridico necessario per comprendere l’esistenza e il funzionamento della Repubblica, intesa come Stato Nazione, dev’essere percepito come parte del tessuto cognitivo, frutto di un esame così profondo da aver determinato la struttura personologica del soggetto interessato in termini qualitativi.

Noi siamo persuasi che la conoscenza della Costituzione dello Stato Nazione nel quale le nostre esistenze agiscono (ma non sono agite, e questo ha un significato preciso, come vedremo), sia opportuno che venga introiettata come uno dei mezzi conoscitivi della realtà e come parametro imprescindibile (non unico!) di giudizio degli eventi e della progettualità esistenziale collettiva. Tuttavia, affinché questo accada, è necessaria un’operazione non di indottrinamento, ma di approfondimento dei contenuti e dei valori in gioco, con la conseguenza che l’analisi di questo pezzo di realtà (non di questo pezzo di carta) proceda attraverso i meccanismi della razionalità morale, attraverso il filtro di un ragionevole scetticismo, totalmente estraneo alle modalità con cui la trasmissione della conoscenza avviene in modo superficiale, immediato ed emotivo.

157f6becover29993È questo l’esatto opposto di un approccio ideologico tale per cui accostarsi alla conoscenza della Costituzione non significa introiettarne i comandamenti così come accade per il c.d pensiero pensato, veicolo primario dell’ideologia che, affermando la propria verità impastata di emozione e di passione, cerca un avversario da criticare e, diventando esigenza identitaria, mira a scacciare quella opposta, o inglobandola o respingendola ai margini del potere, vero obbiettivo dei seguaci dell’ideologia (Galli, Ideologia, Il Mulino, 2022).

Quanto intendiamo proporre, viceversa, è una conoscenza intessuta di consapevolezza della natura relazionale del pensiero, tanto più essenziale quanto più, oggi, la Costituzione è percepita o come un feticcio da adorare o da demolire, o come un dato irrilevante. È l’azione del pensiero pensante. Vogliamo dire che i decenni successivi alla nascita della Repubblica Italiana, avendo visto succedersi una serie di narrazioni descrittive del presente e del suo farsi futuro, hanno lasciato sullo sfondo il senso della Costituzione, o relegandola nello spazio di un ferro morto, inutilizzabile per gli scopi politici ed economici di chi governava il Paese politicamente, economicamente e culturalmente, o vedendovi un ostacolo analogo a una legge superata, da cambiarsi perché non adatta per perseguire gli obiettivi prescelti.

Detto questo, proponiamo le argomentazioni contenute nella conferenza celebrativa del 60mo compleanno della nostra Costituzione, e di quella tedesca, che ha molti punti di contatto con la nostra. Questo sia perché entrambe rispondono all’esigenza di abbracciare la democrazia dopo gli orrori del nazifascismo, sia perché contengono, nei loro princìpi costitutivi, altissimi spunti di riflessione, che, soprattutto oggi, in Italia, devono venir posti all’attenzione del lettore.

solimineVogliamo cioè sottolineare che la celebrazione della ricorrenza vale solo se la conoscenza di questo testo eccezionale (eccezionale perché si pone come evento storico eccezionale rispetto ai tempi che lo precedono) si accompagna a un processo di apprendimento non passivo, ma tale da sfruttare «la straordinaria capacità del cervello umano di stabilire nuovi collegamenti tra le sue strutture preesistenti: un procedimento reso possibile dalla sua capacità di essere modellato dall’esperienza» (Solimine, Cervelli anfibi, orecchie e digitale, Aras ed., 2023).

Quel che cercheremo di fare, allora, sarà di intervallare la riproposizione di quella conferenza offrendo spunti di riflessione critica. 

Conferenza tenuta all’Università di Stoccarda nel maggio 2009

Siamo qui per parlare di Costituzione: l’anno scorso quella italiana ha compiuto 60 anni, essendo stata approvata dall’Assemblea Costituente il 22.12.47 e promulgata il 27.12.47, entrando in vigore il I gennaio 1948. Si avvicina anche il 60° compleanno di quella tedesca, pubblicata nella prima versione il 23 maggio 1949.

Molto ci sarebbe da dire sulle ragioni e sulle modalità con cui venne nominata l’Assemblea Costituente, la cui natura è antitetica a una visione ideologica della realtà politica del Paese nel quale viene ad essere. Sul punto si noti come l’Assemblea Costituente è del tutto lontana da una concezione ideologica del potere politico, essendo incompatibile con la nascita delle Costituzioni date dai Sovrani al loro popolo, ed essendo stata sanguinosamente contrastata dal potere bolscevico nel 1918 e del tutto sconosciuta alla nascita delle Costituzioni nei Paesi non democratici.

Fornirò alcuni cenni per chiarire alcuni concetti e dare qualche informazione: 

  • Lo Stato Italiano nasce il 17.3.1861 quando il Re di Sardegna Vittorio Emanuele II si attribuisce il titolo di Re d’Italia;
  • Nel 1848 Carlo Alberto di Savoia aveva concesso lo Statuto, trasformando l’Italia (ancora limitata a Piemonte Liguria e Sardegna) in una monarchia costituzionale su base rappresentativa;
  • Il suffragio elettorale era del 2 % della popolazione maschile;
  • Lo Statuto era una Costituzione Flessibile: poteva cioè essere modificato con legge ordinaria.

Sul punto è utile osservare che la nostra Costituzione non è assimilabile a una legge, che provenga dalla volontà di chi detiene il potere politico. E infatti l’Assemblea Costituente precede le elezioni politiche. La Costituzione è quanto di più realisticamente possibile sia la trasformazione del diritto, cioè degli ideali di giustizia, in norma collettiva, ed è per questo motivo che non può e non deve essere possibile modificarla con legge ordinaria.

  • Poco dopo il 1848 la monarchia divenne Parlamentare come in Inghilterra, ma il potere esecutivo era detenuto dal Re;
  • Nel 1882 il diritto di voto venne portato al 7%;
  • Nel 1912 – 18 si stabilì il suffragio universale maschile;
  • Col Fascismo, in mancanza di Rigidità dello Statuto, le forme di libertà pubblica furono stravolte, le opposizioni bloccate ed eliminate, la Camera dei Deputati (l’analoga del vostro Reichstag) abolita e sostituita con la Camera dei Fasci e delle Corporazioni; vennero abolite pure la libertà di riunione e quella di stampa;
  • Il Partito Fascista non funzionò come Strumento di Partecipazione ma come strumento di intruppamento della società civile e di mobilitazione politica pilotata dall’alto;

Ecco uno degli aspetti del pensiero pensato.

  • Il Cattolicesimo, che era Religione di Stato viveva dal 1870 (presa di Roma) in una mancanza di rapporti con lo Stato, ma nel 1929, coi Patti Lateranensi si ristabilirono le relazioni Vaticano/ Stato Italiano;
  • Caduto il fascismo nel 1946 vennero indetti il Referendum che decise per la forma repubblicana anziché per quella monarchica con una differenza di circa 2 milioni di voti;
  • Venne eletta l’Assemblea Costituente, nella quale erano rappresentati tutti i partiti (votò l’89% dei cittadini) e dopo 2 anni di lavori venne approvata la Costituzione. Essa è composta di 139 articoli ed è divisa in due parti: la prima indica i principi fondamentali e va dall’art. 1 all’art. 54;
  • La seconda disciplina l’Ordinamento della Repubblica.

Ma cos’è una Costituzione? Esiste un concetto che la identifichi, al di là di quello strettamente tecnico giuridico che la definisce come Legge Fondamentale? Potremmo dire che la Costituzione è più cose contemporaneamente, e definendola in cinque modi, che poi cercheremo di illustrare: 

1)      Lo schema di riferimento culturale di una società;

2)      Lo strumento del funzionamento di uno Stato organizzato;

3)      Il paradigma di raffronto di tutti i sistemi normativi;

4)      Il limite della libertà del potere;

5)      Il luogo dove vive una pluralità di soggettività, di individui, di gruppi, di territori, di idealità.

statuto-abertino-e-costituzione-italianaE altro ancora. Ma vorrei, a un gruppo di giovani che sono già entrati in una condizione di maturità che li rende cittadini consapevoli, aggiungere che la Costituzione è il frutto di quel laboratorio della Storia nel quale i fatti e le parole danno origine a nuovi fatti e a nuove parole, parole che diventano esse stesse fatti, così come sono appunto le nostre Costituzioni, costruite di parole. Si tratta di un processo molto interessante, che ha a che vedere con il concetto di Storia, ma soprattutto con il modo con il quale i giovani vi entrano in contatto.

Mi spiego meglio: fino a un certo momento della vita di ciascuno, esiste una specie di separazione netta tra le parole e i fatti, svolgendo le prime una funzione ancillare, descrittiva dei fatti. La scoperta della cultura trasforma i pensieri in parole e le parole in entità concrete. Le Costituzioni sono importanti entità concrete, che hanno una peculiare origine. Cioè a dire: ogni tempo, per via dei suoi accadimenti, e nel processo di comprensione e di progetto, tende a definirsi, a dare di sé un’idea.

E il 900, che si pone sull’incrocio tra il secolo totalitario, il secolo sovietico e quello liberale, è un secolo che è stato come ossessionato dall’idea di cambiare l’uomo, di crearne uno nuovo (Mussolini, Hitler, Stalin, Mao, Pol Pot…) distruggendo quello antico. Naturalmente e per fortuna non ci è riuscito, nonostante i suoi orrori. Le nostre costituzioni ne sono la prova, essendo esse il riconoscimento che l’unico modo per uscire dall’orrore di quel progetto sta appunto nel riconoscersi in un’idea di raffronto, che ammette l’impossibilità di una legge suprema come catarsi salvifica, ma fonda il suo progetto di pace su quelle 5 definizioni e qualcos’altro che dia ad esse una garanzia di continuità. Questo perché ogni epoca è attraversata da periodi di certezze e da periodi di incertezze. I primi sono brevi e si dividono nelle certezze d’essere immobili, in quelle della restaurazione e in quelle del cambiamento. Il resto del tempo è vissuto nel timore, che è la forma più grande di incertezza.

Oggi attraversiamo un tempo dominato dal timore. Temiamo per la nostra identità, per il presente e per il futuro. Ma dovremmo temere soprattutto per il passato, per la parte di passato che dovrebbe rassicurarci con alcune certezze di riferimento, e che invece non incombe più su di noi, ma si allontana, e allontanandosi ci impedisce di vedere noi stessi, come una luce che si allontana da uno specchio. Noi cittadini delle società democratiche, tanto che abbiamo difficoltà a identificare i 3 concetti: quello di cittadino; quello di Società; quello di democratico.

Apparentemente queste parole evocano dati acquisiti, modi di dire, quasi banalità, soprattutto per voi giovani che siete nati e cresciuti, finora, dentro un mondo costituito da questi fatti parole. Eppure non è così, perché altri giovani, in altre epoche, in altri tempi, cioè altri esseri umani come me e come voi, hanno dovuto e voluto confrontarsi proprio con queste parole/fatti, e altri giovani le hanno concepite, trasformandole da pensieri, a parole, a fatti.

Ecco, vorrei dirvi che è necessario, quando ci si confronta con queste parole/fatti, ricordarsi che è necessario, ma è anche possibile, mettere in atto un meccanismo di collegamento con gli esseri umani che hanno concepito le parole dalle quali si è innescato un processo conclusosi poi nel testo che oggi leggiamo, così come quando leggiamo un libro che ci affascina, lo sentiamo pervaso dallo spirito del suo autore. Così Cittadino, Società, democrazia, in questo presente incerto, necessitano di una precisazione, perché sono le precisazioni a dare certezze, e le certezze sono i punti di partenza del fare, e l’azione sconfigge il timore. È evidente che non parliamo di certezza individuale, ma di certezza collettiva, così come il concetto di cittadino non può prescindere da quello della Comunità a cui appartiene. Ma di per sé questo non significa ancora nulla, finché non lo si pone in relazione dinamica: l’individuo che si muove nella Comunità.

E questa Comunità non è altro che il luogo dove si svolge la civiltà di appartenenza, cioè, richiamando la definizione n.5 di cui sopra: «Il luogo dove vive una pluralità di soggettività, di individui, di gruppi, di territori, di idealità». Ecco: il concetto di appartenenza è determinante, ma di esso deve farsi un uso limitato e discreto, in quanto prescinde dalle scelte consapevoli, sempre che si voglia escludere dal campo di indagine il tifo calcistico e la fede religiosa, essendo le scelte consapevoli il veicolo della partecipazione razionale, ma questo è discorso che ci porta al di là e che non possiamo fare in questa sede.

Si parlava dunque di “Civiltà di appartenenza”. Ebbene, ogni civiltà di appartenenza si esprime nelle sue “Regole di funzionamento”. Queste regole di funzionamento si conoscono, vengono in luce nella sua cultura giuridica. Quando diciamo “Non uccidere” concretizziamo in concetto un “senso” di civiltà: cioè una ragione e una direzione in cui si muove la comunità che è passata dalla regola assoluta, per cui l’istinto di conservazione individuale, che ha generato il dovere dell’autoconservazione, e quindi il suo “Stato di natura”, ha spinto gli individui che la componevano verso condizionamenti sociali e collettivi. Entrano quindi in gioco la prima e la seconda definizione di Costituzione: 1) Lo schema di riferimento culturale di una società; 2) Lo strumento del funzionamento di uno Stato organizzato.

Ma, per tornare al concetto di condizionamento, dobbiamo evidenziare che il primo massimo grado di condizionamento sociale e collettivo si riferisce ai concetti di “Libertà” e di “Proprietà’”, che sono i luoghi del pensiero nei quali la natura umana coniuga le sue potenzialità dinamiche e statiche: cioè l’azione e l’immobilità. Così rispetto ad esse l’azione diventa o restaurazione di qualcosa che si ritiene perduto, o cambiamento verso qualcosa che si ritiene doveroso da raggiungere, e l’immobilità, certezza d’essere in uno stato che deve rimanere tale.

La Storia d’Europa, che oggi sembra nelle sue Costituzioni giunta a una svolta capitale, poiché le sue Costituzioni confrontano la loro ragion d’essere con quell’altra entità, l’Unione Europea, che in esse trova il suo fondamento e tende a trascenderle, ha visto un antecedente gigantesco delle sue costituzioni in una dicotomia che oggi riaffiora in modo minaccioso e sotto altre vesti. Parlo della legge e del diritto: la legge che viene dal potere, nei secoli lontani dal Re, e il diritto, la consuetudine, la regola non scritta che la società si era data in forza del suo senso di giustizia.

Un rapporto tra “Forma” e “Sostanza”, che oggi appare nel confronto tra Costituzione formale e Costituzione materiale, che oggi deve risolversi nella ricerca di un equilibrio tra le due, tanto più risolutivo, quanto più necessario alla stabilità della democrazia. Questa dicotomia, tra la legge formale, da un lato, e il diritto, lo Jus, che la collettività sente assai più vicino allo “Stato naturale”, ha dominato l’Europa in un gioco dialettico tra due sistemi normativi, uno scritto e uno no, entrambi con il loro fondamento oggettivo, per cui uno veniva dal Re o dall’Imperatore, che la emanava in vista dei propri interessi, e l’altro dalla società, che regolava i suoi affari. Mancava un’entità che fosse «Il paradigma di raffronto di tutti i sistemi normativi». Cioè la definizione n. 3 che abbiamo fornito poco sopra.

26849-t-w630-h354-m4Questa società antica era però una società di individui in cerca di un territorio ideale dove non venir disturbati nelle loro libertà dagli arbitri del potere. Questa è la ragione della nascita delle prime “Carte dei Diritti” che cercano di trasformare quelle regole non scritte in principi scritti da opporsi alla legge che viene dal potere. In un certo senso il Bill of Rights del 13.2.1689 che seguì la cacciata del Sovrano assolutista Giacomo II Stuart, che non aveva comunque la forma di dichiarazione dei diritti, bensì di un patto tra il Parlamento vittorioso e la nuova dinastia di Guglielmo e Maria D’Orange, che consacrava la Glorious Revolution, è la prima risposta normativa a quell’esigenza. In esso, comunque, già affioravano alcuni diritti e libertà individuali come quello di petizione (presente nell’art. 23 della Legge Fondamentale tedesca e nell’art. art. 50 della Costituzione italiana) e di libera espressione parlamentare. Questo fatto è importante perché si tratta del primo antecedente del Costituzionalismo moderno, mentre cerca di fissare alcune situazioni soggettive dei sudditi, costruendo come una barriera a protezione di situazioni fondamentali dell’individuo.

A questo punto è necessario evidenziare come questa necessità abbia dato origine ai presidi giuridici internazionali posti a tutela dei diritti fondamentali, così come abbiamo accennato nel nostro precedente lavoro su “Diritti umani e lotta di classe, fra astrattezza e concretezza” (Dialoghi Mediterranei, n. 63, settembre 2023).

 Detto questo richiamiamo la definizione n. 4: “Il limite della libertà del potere”. E su questo aspetto va appuntata la nostra attenzione, poiché elemento fondante del diritto costituzionale è la nascita di un concetto di diritto in senso soggettivo, distinto da quello oggettivo che viene dalla legge e che spetta a un’entità diversa dal soggetto, come lo Stato o il Sovrano e da lì scende sui sudditi. Infatti il diritto soggettivo spetta invece al “soggetto”. Naturalmente, nell’epoca, parliamo di un soggetto particolare, quello che esercita la libertà e detiene la proprietà. Insomma, il soggetto che farà la Rivoluzione Francese e che stabilirà che la proprietà individuale è il contributo più possente della sua individualità.

Siamo molto lontani dall’art. 14 comma 2 della Legge Fondamentale tedesca.: «La proprietà comporta degli obblighi. Il suo uso deve servire nel contempo al benessere della collettività», e altrettanto lontani dall’art. 42 della Costituzione italiana: «La proprietà privata è riconosciuta e garantita dalla legge che ne determina i modi di acquisto, di godimento e i limiti allo scopo di assicurare la funzione sociale e di renderla accessibile a tutti».

Ma facciamo ancora un passo indietro, per vedere il diritto europeo occidentale trasformarsi da diritto oggettivo al complesso dei diritti, come accadrà con la Declaration des droits de l’homme e citayen del 1789, e dove appare la fondamentale differenza tra il costituzionalismo antico e quello moderno.

Dichiarazione dei diritti dell'uomo

Dichiarazione dei diritti dell’uomo, 1789

Cosa era successo? La millenaria monarchia di diritto divino si fondava su una legge formale, oggettiva, che traeva la sua legittimità da un principio altrettanto oggettivo di diritto sostanziale, cioè appunto il diritto divino. A ciò veniva sostituita un’associazione politica basata sulla ragione e sui diritti, ma, in forza di quella dicotomia, di cui abbiamo già parlato, era necessaria una giustificazione altrettanto enorme, per cui solo la dichiarazione dei diritti dell’umanità intera sembrava all’altezza del compito. Era un tipo di Costituzione senza valore giuridico, non esprimeva regole immediatamente applicabili dai giudici, bensì solo principi attuabili dal legislatore, e comunque frutto di quello scontro tra una legge formale e una legge materiale, che si era incarnata in una nuova legge formale. È un fenomeno strano, questo percorso dei diritti soggettivi, attraverso l’Europa occidentale e l’America, interessando la Francia, l’Inghilterra e l’America, in una sorta di gioco di relazione tra istanze filosofiche, destinate a esprimersi nelle Dichiarazioni, che riguardano comunque e sempre il rapporto dell’individuo con i propri diritti.

Sul punto riteniamo sia utile invitare il lettore a soffermarsi sul significato delle parole che richiamano il rapporto dell’individuo coi propri diritti, perché questo tipo di rapporto non è pacifico, e purtroppo non è stabile, sol che si pensi al diritto alla salute, al diritto a vivere in un ambiente non contaminato, ai modi con i quali i soggetti possono esigerne la tutela.

 A questo rapporto si accompagna un processo di indagine dottrinaria, tipicamente tedesca, che a un certo momento sposterà il fuoco dell’indagine dall’idea che tali diritti riguardino il privato cittadino, che quindi siano privati, all’idea di un sistema di diritti pubblici soggettivi (Jellinek). Assistiamo a una metamorfosi dei diritti:

  • si passa dai Rights inglesi, a diritti pubblici soggettivi;
  • dai diritti di libertà a quelli sociali;
  • La tradizione germanica formula in concetto il fenomeno associativo (Genossenschaft);
  • Nasce un’idea nuova, lo Stato, che era “Stato Persona”, l’incarnazione della sovranità, diventa, nella dottrina tedesca, “Stato Comunità”;
  • Il sociologo Albert Eberard Freidrich Schaffle (1831-1903) disegna la società come organizzazione complessa, e ivi è rilevante l’individuo sociale;
  • Anche la Chiesa affronta il problema dei rapporti tra la questione operaia e il cristianesimo. 
Costituzione di Weimar

Costituzione di Weimar

Con la Prima Guerra mondiale lo sconquasso è generale, e viene emanata la legislazione di guerra, con la quale sorgono nuove figure, come il ruolo giuridico della donna e, per la prima volta nella storia, il proprietario subisce delle limitazioni alla sua proprietà. Infatti, per esempio, i debitori sono esonerati dall’adempimento quando la prestazione è difficile; si prorogano le locazioni degli immobili… E nel 1919, nasce la Repubblica di Weimar.

Ora, non sono qui per fare la storia del vostro Paese, che conoscete certo meglio di me, ma gli eventi che condussero alla nascita di questa Repubblica, e quello che significa la Costituzione di Weimar, sono di importanza capitale, perché quello fu uno dei momenti cardine della storia costituzionale del ‘900 e di riflesso, anche della nostra. Per la prima volta, dopo la legislazione di guerra, tra riesumare uno stato di diritto di stampo liberale e il problema di evitare la dittatura del proletariato, nella Costituzione entra un concetto pluralistico dello Stato come “Comunità”, ed entra in gioco la definizione N. 5 indicata sopra, cioè «Costituzione come il luogo dove vive una pluralità di soggettività, di individui, di gruppi, di territori, di idealità».

Questa Costituzione nasce come “Instrumentum Pacis” tra le forze in conflitto: quelle capitaliste e quelle lavoratrici, ma aveva dentro di sé un germe maligno, il germe velenoso di tutto il secolo, nel corso del quale brevissimo fu il tempo della certezza dell’immobilità, preceduto da un istante di certezza di cambiamento, cioè il sogno insito nella Costituzione di Weimar e di altre europee, come quella Austriaca del 1920. Questo germe, per dirla con Alain Badiou, si incarna nella questione del 2, nella scissione antagonistica. Due soggettività organizzate su scala planetaria in un combattimento mortale nel quale il secolo è la scena: comunismo e fascismo, lotta di classe nel campo della filosofia e pure del diritto e con un’ansia di risoluzione monistica, cioè ad 1, rispetto alla quale la Costituzione di Weimar sancisce una tregua per il “Volk”.  Il Volk, che non era una massa anonima di cittadini tutti uguali, ma una Comunità di uomini socializzati, già uniti in gruppi, che perseguivano ulteriori e più vaste finalità. È’ il primo tentativo di far nascere una Democrazia Collettiva, in cui lo Stato interviene, come soggetto, per agire nei meccanismi della produzione.

Insomma, da un lato lo Stato di Natura, il Diritto che da esso promana, rispetto al quale gli individui chiedono il riconoscimento della loro libertà, e dall’altro la Storia, cioè il gioco perenne delle forze storiche che danno vita alla Comunità umana, cioè lo Stato e le sue Comunità intermedie. Campeggia nella Costituzione un’idea di libertà sociale, nel rapporto tra le Comunità particolari e quella generale.  Il perno della società non è più la proprietà, il soggetto proprietario, ma il lavoro, la famiglia, il sindacato, i consigli di azienda. Nasce uno Stato Pluriclasse, e la Costituzione di Weimar, nella sua IIa parte, indica i diritti e i doveri fondamentali dei Tedeschi, dove si parlerà dell’individuo, della vita collettiva, di religione e associazioni religiose, di educazione e istruzione, e della vita economica, con un grande limite, però: quella era una Costituzione Dualista, che lasciava irrisolta la questione del predominio, apriva una competizione che avrebbe dovuto trovare la soluzione nello scontro politico sociale.

Si tratta cioè di una delicatissima questione relativa alla forza dell’ideologia, come abbiamo detto nella parte introduttiva, o nel suo rifiuto. In verità questo rifiuto ha una portata molto maggiore della sua mera formulazione letterale, poiché taglia le gambe alle forze subdole che minano l’essenza stessa della Costituzione liberale plurisoggettiva. E sul punto richiamiamo le nostre argomentazioni svolte nel testo edito nel numero 58 di Dialoghi Mediterranei (novembre 2022): “Quando vincono i nemici del diritto”.

In quella Costituzione non era prevista una clausola tacita che dicesse: «Questa è l’immagine della situazione politico sociale nella quale si riconosce la totalità dei cittadini». Ma questa può diventare la definizione n. 6 da aggiungersi alle cinque sopra elencate.

Infatti le norme che toccavano il cuore dei rapporti sociali, sul diritto di proprietà, d’iniziativa economica, di intervento statale nei rapporti economici, non contenevano una decisione sulla struttura economico sociale dello Stato, cioè la definizione n. 6 appena formulata, «Questa è l’immagine della situazione politico sociale nella quale si riconosce la totalità dei cittadini», che va posta in stretta relazione con quella n. 5: «Il luogo dove vive una pluralità di soggettività, di individui, di gruppi, di territori, di idealità». Ne conseguiva che ciascuna delle forze che la componevano avrebbero atteso il momento opportuno per agire.

E nella stessa Costituzione l’art. 48 apriva la strada a quel germe velenoso, contemplava quella possibilità di azione, proprio come accadde con la legge d’emergenza per la difesa del popolo e del Reich il 24.3.33, che attuò il precedente decreto d’urgenza. Ma era assente, altresì, la previsione di un potere decisivo a disposizione per i casi di crisi costituzionale, cioè non era prevista una vera Sovranità della Costituzione, ovvero la Costituzionalizzazione delle Potenze Costituzionali talché, se contro o fuori della Costituzione, sarebbero inesistenti. E possiamo a questo punto formulare la definizione n. 8 (ma non quella n 7, e vedremo presto perché): «È l’Ente Sovrano tale per cui ogni potere che se ne ponga al di fuori non esiste».

Richiamiamo sul punto l’attenzione a quanto detto nell’introduzione di questo breve lavoro, e cioè la ragione per cui le forze nemiche della Costituzione, per affermare la loro ideologia, hanno bisogno di modificarne la struttura e quindi il significato.

Ciò che accadde e ciò che non sarebbe potuto accadere, può esemplificarsi in due brocardi latini. Accadde che: Rex facit Legem. Non accadde quel che secondo le nostre costituzioni deve accadere: Lex facit Regem. Entra ancora in gioco la definizione n. 4: “Il limite della libertà del Potere”

Così in Italia, le forze che avrebbero dovuto impedire il fascismo (il blocco Giolittiano) non funzionarono e ci fu Mussolini. In Germania il partito cattolico (Zentrum), il social democratico, lo stesso Hinderburg non agirono, e ci fu Hitler.  Come finì la storia dei due malfattori lo sapete anche voi, ma da questa storia nacque l’oggetto di questo compleanno, con una precisazione: la Costituzione Italiana è frutto della Resistenza e degli ideali democratici occidentali, che lottarono contro il nazifascismo, e che non furono neppure assenti nel vostro Paese (Bonhofer, la Rosa Bianca e altri insegnano), con la differenza che il nazismo fu così efficiente e feroce da scardinare ogni possibilità di opposizione organizzata.

Ma la Costituzione è anche il frutto di un evento particolare, cioè che lo Stato, come involucro formale del potere dal quale discendeva la sovranità degli organi che la esercitavano, si dissolve come tale e, finalmente, le forze che lottarono contro il nazifascismo mantennero il loro connotato pluralistico. Si tratta dunque dell’operatività e del significato delle definizioni n. 1: Lo schema di riferimento culturale di una società, e n. 5: Il luogo dove vive una pluralità di soggettività, di individui, di gruppi, di territori, di idealità. Furono socialisti, comunisti, liberali, e cattolici, nel crescere spontaneo di forze sociali, partiti, sindacati, associazioni, gruppi di pressione, chiese, autonome rispetto allo Stato, a costituire la fonte della Costituzione. Ed è questa la gran differenza rispetto alle Costituzioni dell’800, che venivano concesse dal Re, come lo Statuto Albertino.  Vedete: ancora Rex facit Legem oppure Lex facit Regem.  Ma qual è il punto di forza? La ragione della sua possibilità di durata?

9788869925412_0_536_0_75Fatti salvi i due mortali pericoli oggi in agguato, di cui parleremo più tardi, il punto di forza sta nel fatto che essa sia una Costituzione pluralistica per cui: a) Non c’è un sovrano effettivo; b) Non c’è nemmeno una lotta per la sovranità; c) È cioè venuta meno la questione del 2 di cui parla Badieu. Ciononostante la Costituzione attuale, pur conflittuale in modo capillare, è il frutto di accordi tra numerosi soggetti particolari che in essa cercano di proteggere la loro identità politica. La sua caratteristica è di esprimere lo sforzo comune e di dettare, attraverso un compromesso, un disegno sociale e politico generale.

 E così giungiamo alla definizione n. 7 «La Costituzione esprime lo sforzo comune di dettare, attraverso un compromesso, un disegno sociale e politico generale», che completa quella n. 6 «l’immagine della situazione politico sociale nella quale si riconosce la totalità dei cittadini». Ci sono in essa norme di principio che esprimono ideali etici, come libertà, uguaglianza, giustizia, dignità, sicurezza, autonomia. Solidarietà, garanzia della vita e altro ancora, disegnando così nuovi assetti sociali e politici. Questo programma, ovviamente, per essere perseguito, ha bisogno di soggetti che agiscano, ma agendo attraverso la micro conflittualità o per via di alleanze. Non devono violare quegli ideali etici sui quali è sorta la Costituzione. 

Ora ci sentiamo di richiamare il concetto con cui nell’introduzione si è affermata la differenza tra soggetti agenti e non agiti.

Per questo motivo è necessario un Organo Imparziale con il compito di far vivere e rispettare la Costituzione. Questo organo è la Corte Costituzionale, conosciuta anche come il “Giudice delle leggi”, che ha il fine di garantire che le leggi, frutto di quella conflittualità, frutto degli interessi di ciascuna delle forze in campo, non ledano tali principi. Questo organo userà la Costituzione secondo la definizione n. 3: “Il paradigma di raffronto di tutti i sistemi normativi”. A questo punto potete vedere in concreto quel che è stato detto poco fa: cioè che non è più lo Stato la fonte della Sovranità, perché nemmeno il potere del Parlamento, nel quale lo Stato fa valere la sua volontà, è insindacabile.

downloadSi può dire, allora, che, esemplificando, vediamo nel numero 1 l’assolutismo del potere e nel 2 lo scontro dualistico tra le due forze in campo, tornando a citare Badeau. Viceversa la Costituzione può assimilarsi al numero 3 o a numeri ulteriori, cioè una sorta di equilibrio dinamico che dovrebbe garantire la sopravvivenza del sistema democratico, quindi le definizioni 5 (Il luogo dove vive una pluralità di soggettività, di individui, di gruppi, di territori, di idealità), 6 (l’immagine della situazione politico sociale nella quale si riconosce la totalità dei cittadini) e 7 (La Costituzione esprime lo sforzo comune di dettare, attraverso un compromesso, un disegno sociale e politico generale), in rapporto funzionale con quelle 3 e 4 che qui richiamiamo integralmente: “Il paradigma di raffronto di tutti i sistemi normativi” e “Il limite della libertà del potere”.

Dovrebbe, ma ci sono dei pericoli in agguato e il pensiero torna a Weimar e a un libro scritto da un tedesco, Sebastian Haffner, cioè la storia di un ragazzo contro Hitler dalla Repubblica di Weimar all’avvento del III Reich. Il libro è certamente ben conosciuto anche da voi, e non intendo ripercorrerlo, se non per ricordare lo stupore dell’autore, uomo assolutamente moderno, attuale, di sentimenti democratici identici ai nostri, di fronte alla capitolazione del suo Paese davanti alla barbarie. Quel che mi ha colpito, però, non è tanto l’assenza di un forte riferimento al valore portante della sua Costituzione (sebbene Haffner fosse un giurista, un uditore che stava per diventare giudice!), di quella Costituzione, però, che crollò anche grazie al suo art. 48. No, qui non si tratta di criticare alcunché, ma di mettere in risalto un fatto: che anche un uomo illuminato come Haffner non era in grado di mettere in relazione il fondamento filosofico dei diritti umani presenti in quella Costituzione con una doverosità che si concretizza in legge. Cioè col fatto che questo fondamento filosofico ha bisogno non solo di una legge che lo richiami, ma che lo richiami come un dovere che deve vivere di per sé, in modo inalienabile.

s-l500E torniamo quindi al discorso della sovranità e delle certezze, per cui solo in presenza di questa consapevolezza s’impone ed è possibile l’azione. Jeanne Hersch, che insegnò per 20 anni filosofia all’Università di Ginevra e diresse la divisione di filosofia dell’Unesco disse di aver fatto un esperimento: aveva chiesto a tutti i Paesi membri dell’ONU,  quelli che in Assemblea Generale nel 1948 proclamarono la Dichiarazione Universale dei Diritti dell’Uomo, di inviarle dei testi di qualsiasi epoca, ma anteriori al 1948, in cui si manifestasse in qualsiasi modo un senso per i diritti degli esseri umani, e aveva detto che erano arrivati testi che partivano dal III millennio fino al 1948. Ebbene: era emerso che il concetto di diritti umani non era un concetto universale, ma quel che si percepiva ovunque, invece, diceva la Hersch, era che ogni uomo, nei confronti della violenza, della privazione, della costrizione, della menzogna, dell’ingiustizia, voleva “essere uomo”, cioè voleva essere riconosciuto come tale, e, impedito, poteva soffrire fino al punto di morirne. Pensate ai bonzi che si davano fuoco in Vietnam o a Ian Palach a Praga nel 1967.

Secondo aspetto determinante è che gli uomini, di fatto, non nascono né liberi né uguali, mentre la libertà e l’uguaglianza non sono un dato di fatto ma un ideale da perseguire, non un’esistenza, ma un valore, non un essere ma un dovere. Cosa significa tutto ciò e perché ne parlo rispetto a Haffner? Perché l’art. 1 della D.U. dei Diritti dell’Uomo recita: «Tutti gli esseri umani nascono liberi e uguali in dignità e coscienza e “Devono Agire” gli uni verso gli altri in spirito di fratellanza». Viene in luce il fatto che l’uguaglianza in dignità e diritti, non quindi di natura empirica, comporta il diritto e il dovere di pretendere l’azione. Nel libro di Haffner manca la correlazione tra il fatto e il dovere, tra il dato dell’ineguaglianza e dell’ingiustizia orrende a cui è costretto ad assistere, e il compito infinito che i diritti umani assegnano all’uomo dotato di ragione e coscienza. Haffner, che assistette alla fine dei suoi brevi periodi di certezze, tra l’entrata in vigore della sua Costituzione, il tempo magico di Walter Rathenau e di Streseman, e l’avvento della barbarie, racconta di aver dubitato dell’esistenza di un tale dovere, e di aver preferito la fuga.

Il Dovere, appunto. Ma quale e quali? La risposta sta nella definizione n. 1: «Lo schema di riferimento culturale di una società», cioè della società democratica espressa nella sua Legge Fondamentale. Ne consegue che i doveri, appunto, devono venir identificati secondo questo schema.  A titolo esemplificativo ne richiamiamo alcuni prescritti nella Ia parte della Costituzione Italiana:

art. 2: «La Repubblica riconosce e garantisce i diritti inviolabili dell’uomo, sia come singolo, sia nelle formazioni sociali ove si svolge la sua personalità, e richiede l’adempimento dei Doveri inderogabili di solidarietà politica economica e sociale». Cioè a dire: i diritti dell’uomo sono inviolabili e riconosciuti e garantiti, ma i doveri imposti non hanno corrispettivo, sono cioè doveri morali, sono la morale del cittadino.

L’art. 4 che riconosce il diritto di lavorare e prescrive il Dovere di svolgere, secondo le possibilità e le scelte, una funzione che concerne il progresso materiale e spirituale della società.

L’art. 30 che impone il Dovere dei genitori verso i figli;

L’art. 53 che impone il Dovere di concorrere alla spesa pubblica in ragione della capacità contributiva;

L’art. 48 che prescrive il Dovere civico di votare;

L’art. 52 che prescrive “il sacro Dovere di difesa della patria”. Ma poiché questo dovere è stato tanto oggetto di abuso nel passato, è solo riferendosi al concetto di patria che identifica la Società che ha espresso la Costituzione (Definizione n. 1), che è possibile capire di quale patria si tratti. Infatti si tratta di una radice culturale di un’idea di patria come madre comune che non ammette privilegi e discriminazioni, che garantisce a tutti e a ciascuno la dignità che viene dai diritti di cittadinanza. E poiché la Costituzione italiana è ispirata al principio antifascista della libertà dei popoli, ed è europeista, come diceva Carlo Rosselli: «la nostra patria non si misura a frontiere e a cannoni, ma coincide col nostro mondo morale e con la patria di tutti gli uomini liberi».

Così l’idea di patria, nel suo significato repubblicano, coincide con gli obblighi nei confronti dell’umanità in generale, e con l’idea di fare l’Europa in nome di un nuovo umanesimo. Non è quindi, certo, un dovere aggressivo, così come l’art. 11 che afferma: «L’Italia ripudia la guerra come strumento di offesa alla libertà degli altri popoli». Non diversamente la L.F. tedesca al suo art. 26, circa il divieto di preparare una guerra offensiva, e l’art. 23 che prevede la realizzazione dell’Europa Unita in armonia coi diritti fondamentali.

Ma torniamo indietro alla questione dei doveri, e alla posizione di Haffner, che non era sostenuto dalla sua Costituzione, come viceversa, siamo sostenuti noi, dalle nostre attuali. C’è infatti, in quella italiana e in quella tedesca un riferimento esplicito a un dovere dello Stato e dei suoi organismi, tale per cui entra in gioco la definizione n. 4), Costituzione come “Limite della libertà del Potere”. L’art. 98 di quella italiana recita:

«I pubblici impiegati sono al servizio esclusivo della Nazione»

e l’art. 54 dice:

«I cittadini cui sono affidate funzioni pubbliche hanno il Dovere di adempierle con disciplina e onore, prestando giuramento nei casi stabiliti dalla legge». Ciò significa che, se da un lato la Costituzione chiede ai suoi cittadini fedeltà e obbedienza, a chi adempie funzioni pubbliche la Costituzione chiede anche onore e disciplina, cioè, per onore, l’onestà nello svolgimento del compito, e per disciplina la capacità di sottoporsi alle regole e allo sforzo ordinato per raggiungere il fine capito e voluto dal funzionario. C’è quindi sostanzialmente, il “Dovere della virtù civica”.

D’altro canto la violazione di questi doveri è un vero e proprio tradimento, a causa del quale il traditore stravolge il giusto Funzionamento dello Stato organizzato” (definizione n. 2) uscendo dal “Paradigma di raffronto dei sistemi normativi” (definizione n. 3) attentando al “Luogo dove vive una pluralità di soggettività, di individui, di gruppi, di territori, di idealità” (definizione n. 5), e offuscando o cercando di cancellare “l’immagine della situazione politico sociale nella quale si riconosce la totalità dei cittadini” (definizione n. 6).  E allora, dite voi, che fare?

L’art. 50 del Progetto della Costituzione italiana, che non fu approvato, affermava: «Quando i poteri pubblici violino le libertà fondamentali e i diritti garantiti dalla Costituzione, la resistenza all’aggressione è diritto e dovere dei cittadini». Tale articolo avrebbe posto come fondamento della libertà repubblicana il dovere di resistenza, e il dovere di lealtà verso la Costituzione. I pubblici poteri, in presenza di un vigile senso di difesa dei propri diritti da parte del popolo, sarebbero stati convinti che la loro sedizione, la loro offesa contro la legge non sarebbe stata tollerata. La norma non venne approvata perché, si disse, se per rientrare nel diritto si legalizzava la resistenza, si sarebbe legalizzata l’illegalità, mentre la Costituzione viveva ed era garantita da se stessa, attraverso il sistema di contrappesi e di bilanciamenti dei poteri, fino al massimo grado di imparzialità e di giustizia impersonato dal Giudice delle Leggi, che avrebbe giudicato i massimi gradi dello Stato per alto tradimento e attentato alla Costituzione.

Non so quanto ciò sia stato un bene, e quanto sia entrato nella coscienza dei poteri di controllo e di giudizio che il delitto più grande che possa essere commesso dal pubblico funzionario al quale siano affidate la custodia e la salvaguardia dei diritti fondamentali, commetta il tradimento di cui abbiamo parlato.

Diritto di resistenza. Come fare la rivoluzione attraverso il dirittoIl dibattito in Italia è stato ampio in sede di Assemblea Costituente, e sul punto vogliamo citare un testo illuminante di Michele Marchesiello, che ha affrontato la questione non solo in termini storici e filosofici, ma anche penetrando nelle dialettiche parlamentari dell’epoca, e raffrontando la necessità di questa previsione nelle Costituzioni occidentali (cfr. Marchesiello, Diritto di resistenza, edizioni Gruppo Abele, 2013)

Certo che l’art. 20 della L.F. tedesca recita: «Tutti i tedeschi hanno il diritto di opporre resistenza contro chiunque tenti di sovvertire questo ordinamento vigente, ove altri rimedi non siano possibili» e ne prevede la perdita per chi abusi dei diritti fondamentali per tale fine. Forse, se Haffner avesse avuto per sé e per chi gli stava accanto un analogo articolo 20, non sarebbe fuggito. Ma ora, per quanto un pericolo simile a quello corso da Haffner sia improponibile, quanto meno in Germania, ci sono due rischi a cui sono aperte le società democratiche, che trovano la loro ragion d’essere nei principi espressi nelle definizioni n. 5 «Il luogo dove vive una pluralità di soggettività, di individui, di gruppi, di territori, di idealità» e quella n. 7: «La Costituzione esprime lo sforzo comune di dettare, attraverso un compromesso, un disegno sociale e politico generale». È a rischio cioè il principio pluralista espresso nelle Formazioni sociali (art. 2), negli Enti politici democratici (art. 5), nelle minoranze linguistiche, (art. 6) nelle confessioni religiose. (art. 8), le associazioni (art. 118), le idee ed espressioni (art. 21), le culture (art… 33), la scuola (art. 33), le istituzioni universitarie di alta cultura (art. 33), i sindacati (art. 39), i partiti politici (art. 49).

Cioè lo Stato Laico, che vive in nome del relativismo, che non significa indifferenza per ogni concezione della realtà, ma il riconoscimento che ciascuna di esse ha una precisa funzione per attuare quel programma, e che nessuno è privilegiato. Sembra, viceversa, che siano scese in campo forze che hanno la pretesa di imporre una verità, per cui, ad esempio, il Comune di Milano, nel 2007, ha escluso dall’ammissione alla scuola materna i figli di immigrati senza permesso di soggiorno, in violazione dell’art. 3 e del nucleo dei diritti fondamentali che appartengono a ciascuno in quanto persona. E per fare qualche altro esempio si può parlare dei tentativi di limitare i diritto di ricerca in bioetica, l’opposizione al riconoscimento delle unioni di fatto, la raccomandazione della Pontificia Accademia del 13.3.07 a medici, infermieri, farmacisti, personale amministrativo, giudici e parlamentari e altre figure professionali coinvolte nella tutela della vita umana individuale, a non accettare le decisioni della Repubblica quando configgano con i valori non negoziabili riconosciuti come tali dalla Chiesa.

Ecco il problema: viene affermato che quei valori fanno parte di un Diritto Naturale che non può essere scalfito dal legislatore, in barba al fatto che natura è uno dei termini più ambigui in cui ci si imbatte nella storia della filosofia. E allora la pretesa di avere il monopolio di questa materia, rivela un progetto autoritario incompatibile col sistema democratico, tale per cui, portare la Costituzione su tale terreno di scontro, cioè proprio le Costituzioni a cui si è affidata la determinazione in forma democratica dei valori comuni di riferimento (definizioni 1 e 3), significa ricondurla a una forma pericolosissima di dualismo, in una lotta tra relativismo costituzionale e fondamentalismo religioso.

L’altro grande pericolo è il populismo, che discende da una concezione alternativa del rapporto tra democrazia e territorio, cioè:

1) da un lato l’idea di un popolo, unificato dall’uso del voto, con il quale attribuire alle istituzioni nazionali, la titolarità esclusiva della sovranità e della legittimità;

2) dall’altro un approccio pluralista e meno dogmatico della nazione e del potere. 

Cosa significa?  Che l’idea sub 1) comporta, attraverso il processo di totale legittimazione dell’eletto, uno svincolamento dai poteri di controllo sul suo operato che sono insiti e previsti nei sistemi costituzionali. Tipica la funzione della Corte Costituzionale e delle sue regole di ingaggio; L’idea sub 2) limita l’uso del potere, riconoscendo alla pluralità delle soggettività, la possibilità di bloccare anche leggi varate in nome di valori morali, ma non attente al complesso dei diritti in gioco (definizione n. 7).

Il vero pericolo è dunque il populismo per il suo fondamentale manicheismo, per la sua semplificazione in bianco e nero, in buono e cattivo, in un rapporto di fiducia e di trasferimento di potere a chi incarna tale concezione manichea. Ma non solo: Sebbene non abbiamo esaminato la struttura dello Stato e la Costituzione come nella definizione n. 2: “Strumento di funzionamento dello Stato Organizzato”, le nostre società costituzionali sono caratterizzate da un sistema rappresentativo molto sofisticato, le cui caratteristiche e il cui fine è quello di impedire la nascita di sistemi di potere esposti alle tentazioni orrende del 900. È ovvio che questi sistemi sofisticati corrono il rischio di funzionare male e di incepparsi. Si pensi alla c.d. ingovernabilità, alle lacune di decisioni, alla lentezza decisionale, all’eccessiva prolificità legislativa ecc.

9788858151402_0_536_0_75Ma il populismo, incarnando un’interpretazione molto personale delle dinamiche rappresentative, costituisce un pericolo per la sopravvivenza delle Costituzioni.

E sul punto, richiamato il nostro testo edito in Dialoghi Mediterranei nel numero 23 di luglio, “Il paradosso della Democrazia rappresentativa come finzione necessaria”, vogliamo sottolineare come la modifica sostanziale della rappresentanza non sia una revisione ma un vero attacco alla Costituzione repubblicana.

Accade cioè che il principio rappresentativo venga criticato, e accusato di essersi bloccato o deviato dall’azione colpevole dei rappresentanti designati, per cui si chiede che il popolo riprenda il controllo che spetta in base ai princìpi morali e politici che sono alla base del legame sociale e dell’organizzazione politica. Quest’idea di un controllo sempre più ampio sugli eletti, che hanno tradito il loro mandato, tende a scavalcarli, con un ricorso a mezzi di espressione diretta come i referendum, o ad altre iniziativi popolari.

Ma il populismo agendo nella persona di chi si fa interprete di queste istanze, affermando di essere il vero portavoce della volontà del popolo, agendo in suo nome e per lui, identificandosi in lui, si pone in posizione antitetica e conflittuale con il sistema costituzionale, perché la democrazia attuale, ereditata dalla tradizione liberale, non si esprime come potere del popolo, ma è il potere del rappresentante del popolo, senza vincolo di mandato, fatta salva la responsabilità politica che lo espone alla rinnovazione o alla perdita del mandato. Infatti il sistema costituzionale di cui le nostre Costituzioni sono un esempio, coi loro Checks and Balances, per quanto consentano un’apprezzabile dose di populismo, non possono farsene schiave pena il loro svuotamento.

s-l1600Giunti a questo punto, che risposta si può dare ai giovani cittadini che domandano: e allora? Qual è il nostro compito? O dobbiamo limitarci ad assistere al gioco, lasciandoci prendere dal torpore, o da altri interessi. Quel che posso dire, è che la democrazia non è uno stato, una condizione di immobilità, per cui, perseguita con l’approvazione della legge fondamentale, non ci se ne debba più occupare. La democrazia è un processo, un continuo movimento, le Costituzioni sono ben lontane da essere attuate, e sono esposte a un terzo rischio, quello dell’apatia. Sul punto, molto meglio di quanto possa fare io, ha già risposto un importante costituzionalista italiano, già presidente della Corte Costituzionale, Gustavo Zagrebelsky, che ha indicato un decalogo contro l’apatia politica.

1)  Bisogna avere fede nel relativismo della democrazia, e diffidare di chi proclama verità assolute e dogmi, che sono lo spirito delle autocrazie;

2)  La democrazia è fondata sugli individui, e non sulla massa, e che la massificazione è un pericolo mortale. La democrazia deve curare l’originalità di ciascuno, perché una democrazia senza qualità individuali si affida ai capi popolo che hanno bisogno di uomini massa. Voi, di fronte all’appiattimento di molti livelli dell’esistenza, di consumi e di cultura, potete svolgere un servizio prezioso, riconoscendo nell’individuo che non si adegua il merito d’essere un riferimento e una sentinella.

3)  La democrazia è discussione, ragionare insieme, socraticamente, filologia, per cui ogni volta che accertate la menzogna intenzionale, come strumento della vita pubblica, dovete gridare al tradimento, perché questo tipo di menzogna è un crimine contro la democrazia;

4)  La democrazia è basata sull’uguaglianza delle leggi, e vi ricordo il concetto di patria come madre comune senza privilegi, senza leggi ad personas, senza oligarchie, e soprattutto senza ammirazione di chi vive in questo modo. E forse un grande compito spetta ai giovani capaci di additare al disprezzo collettivo le persone che approfittano di tali privilegi, che hanno tali stili di vita. Forse questo compito può avere l’obiettivo di cambiare un costume e farne nascere un altro, congruo con lo spirito della Costituzione;

5)  La democrazia si esprime nelle identità diverse, che non devono solo venir tollerate (non è un merito della democrazia non perseguitare i diversi e tollerarli), ma farne forze vitali, sconfiggendo la tentazione dualistica che ha contagiato l’Occidente dopo l’11 settembre. Facendo scoprire che non c’è bisogno, per affermare la propria identità, di affermare l’esistenza dello scontro di civiltà, che la democrazia non è uno scontro tra fondamentalismi. Questo è se mai un problema dell’assolutismo, più o meno tollerante.

6)  Ogni decisione può essere rivista, rimeditata ed eventualmente modificata. Ecco perché le nostre Costituzioni sono contro la pena di morte e contro la guerra: sono contro le decisioni dagli effetti irreversibili, contro le verità assolute. Bisogna diffidare delle decisioni irrimediabili;

7)  Bisogna imparare quotidianamente dalle conseguenze dei propri atti: l’etica della responsabilità accanto a l’etica della convinzione, idee weberiane, per cui ogni progetto realizzato apre problemi che mettono in discussione il progetto. La scuola che si apre sull’esperienza.

COSTITUZIONE:DA PALCO ROMA,SIAMO 1 MILIONE IN PIAZZE ITALIA8) Nessuna deliberazione sia interpretata nel segno della ragione e del torto: in democrazia, quando prevale una maggioranza su una minoranza, la prima ha il dovere di dimostrare nel tempo la validità della sua decisione, e la minoranza di insistere su ragioni migliori. È una partita aperta, il terreno per la sfida di ritorno è sempre aperto;

9)  La democrazia mette a disposizione degli altri tempo, capacità, risorse materiali, cioè la cosa pubblica, la res publica a cui tutti possano attingere. Una visione altruistica di noi stessi. La lotta contro l’emarginazione, la lotta contro il darwinismo sociale. Voi potete impararlo dai vostri insegnanti;

10)  E infine l’arricchimento costante degli strumenti del dialogo, la ricchezza delle parole, poiché il numero delle parole conosciute e usate è proporzionale al grado di sviluppo della democrazia. Quando il linguaggio politico si fa povero, saremo pronti per i plebisciti, saremo di ridotti a gregge. Le parole siano oneste, precise e dirette, non ingannatrici, di basso tenore emotivo, con poche metafore, che dicano pane al pane, perché la Costituzione è espressione della democrazia e la democrazia è il frutto della politica, e la politica viene da Polis e Politeia, due concetti che indicano arte, scienza e attività dedicate alla convivenza. Non certo guerra, segregazione, espansione, colonialismo: la democrazia non si esporta con la guerra. L’inganno delle parole può servire a questo: usarle come scudo dietro al quale i potenti nascondono la loro prepotenza. 

Tuttavia, al termine della riscrittura di questa conferenza tenuta quattordici anni fa, crediamo sia opportuno sottolineare come questo decalogo, proposto da Gustavo Zagrebelsky, non sia una sorta di legge delle dodici tavole incisa nel bronzo destinata o ai giovani, o a tutti coloro desiderosi di introiettare la Costituzione come una legge morale, ma debba venir inteso come un Metodo di giudizio nell’uso della ragione, nell’accezione formulata da Edgar Morin.

Dialoghi Mediterranei, n. 64, novembre 2023

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Roberto Settembre, entrato in magistratura nel 1979, ne ha percorso tutta la carriera fino al collocamento a riposo nel 2012, dopo essere stato il giudice della Corte di Appello di Genova estensore della sentenza di secondo grado sui fatti della Caserma di Bolzaneto in occasione del G8 2001. Ha scritto per Einaudi Gridavano e piangevano, edito nel 2014. Si è sempre occupato di letteratura, pubblicando racconti, poesie, recensioni sulle riviste “Indizi”, “Resine”, “Nuova Prosa”, “La Rivista abruzzese” e il “Grande Vetro”. Con lo pseudonimo di Bruno Stebe ha pubblicato nel 1992 il romanzo Eufolo per Marietti di Genova e nel 1995 I racconti del doppio e dell’inganno per la Biblioteca del Vascello nonché la quadrilogia Pulizia etica per Robin edizioni e nel 2020 Virus e Cherie con la Rivista Abruzzese. Attualmente è collaboratore di “Altreconomia”.

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