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Favole in viaggio. “Io Capitano” tra racconto e politica

locandina-dell-film-io-capitano-_-foto-ufficio-stampa-cinema-pindemonte-fiume-diamante-kappaduedi Giovanni Cordova

Mentre metto in ordine i pensieri per annotare considerazioni ispirate dalla visione del film Io Capitano di Matteo Garrone, non riesco a isolare la mente da due eventi che hanno catturato l’interesse di tante e di tanti negli ultimi giorni. In realtà non si tratta di due episodi improvvisi o imprevisti, ma rientranti l’uno in una tetra articolazione di longue durée mediterranea e medio-orientale; l’altro in una stagionalità politica che ha letteralmente messo a processo la solidarietà.

Il primo è la ripresa di elevata intensità del conflitto israelo-palestinese, al punto che si parla di una nuova guerra che presenta uno spiccato rischio di allargamento ad altri fronti (ben oltre gli scenari regionali). Atrocità, massacri, violenza che genera violenza, stratificazioni dell’orrore innestato su scenari coloniali e che richiederebbero una comprensione più approfondita dei fatti sanguinosi di cui i media riportano immagini e notizie. Una comprensione ostacolata da interessi strumentali, mancata diffusione di adeguate coordinate storico-politiche, pigrizia e ignavia intellettuale e incapacità di muovere ragionamenti che oltrepassino la pur necessaria soglia dello shock emotivo e del teatro delle emozioni. La pace è lontana.

Mimmo Lucano

Mimmo Lucano

Il secondo è la positiva risoluzione del processo intentato contro Mimmo Lucano e il modello di accoglienza immaginato e realizzato nel paese calabrese di Riace. Il teorema accusatorio che aveva individuato una panoplia di reati, commessi da Lucano e altri 17 imputati, tali da determinare una sentenza di primo grado di portata abnorme è stato pressoché interamente smantellato. Al di là delle considerazioni di carattere giudiziario, che pur andrebbero sollevate, lo stato d’accusa contro Lucano e Riace ha rappresentato il frutto avvelenato di una stagione politica in cui la pornografia della violenza contro i migranti – una violenza brandita con sciatta noncuranza, delittuoso candore e compiaciuto esibizionismo – iniziava a farsi diktat di governo oltre la soglia del pudore con cui da decenni il governo delle migrazioni si compie e continua a compiersi attraverso l’esternalizzazione delle frontiere, l’appalto della sicurezza ad agenzie e integrati sistemi di governance transnazionale, le necropolitiche, il razzismo istituzionale e la sospensione del diritto internazionale. Ma la sentenza emessa dal Tribunale di Reggio Calabria è senz’altro una buona notizia.

Lo scenario mediorientale e la solidarietà rappresentano tasselli di un mosaico certamente più complesso ed esteso – al quale andrebbero aggiunte ulteriori componenti – del quale partecipa la trama storica, geopolitica, sociale e culturale che il film di Matteo Garrone prova a cogliere e a raccontare nella sua visione del Mediterraneo “allargato” contemporaneo.

71vbybqjy6l-_ac_uf10001000_ql80_Questi svariati tasselli non hanno in comune solo la messa in forma di consequenzialità e nessi causali piuttosto facili da individuare (ad esempio la definizione di flussi migratori in seguito a conflitti e potenti mutamenti geo-politici), ma condividono soprattutto registri politici e morali per i quali si snodano la vita sociale e i repertori affettivi delle società in cui la mobilità si articola. L’odio, l’indifferenza, l’esclusione, l’ostilità. Siamo davvero sprofondati nella società dell’inimicizia, in cui il rigetto dell’Altro e la fascinazione paranoica procurata dalla permanente minaccia di insicurezza che il non-familiare ci procura generano la negazione di ogni possibilità di relazione e l’estensione indiscriminata della guerra come “fine” e “necessità”, seguendo la lugubre ma realistica analisi sviluppata da Achille Mbembe (2019)?

In vari studi di taglio storico-antropologico dedicati alla comprensione della politica e delle sue matrici simboliche, indipendentemente dalla specificità del focus prescelto da studiosi e studiose, è possibile prendere atto di una critica della retorica modernista e modernizzatrice che tende a eleggere l’avvento dell’ordine nazionale/nazionalista e del suo correlato ontologico – la razionalità burocratica – nel corso del XX secolo, entro un inarrestabile movimento che da un centro europeo si irradia invincibile nel mondo (Chakrabarty 2004). Piuttosto che il raggiungimento di magnifiche sorti e progressive che questo tipo di retorica non cessa tutt’oggi di indicare, abbiamo assistito semmai alla proliferazione dei confini sociali e alla loro trasfigurazione in confini morali, assai più rigidamente sensibili agli sconfinamenti; alla moltiplicazione degli idiomi locali che foggiano il senso identitario proprio e altrui all’insegna del ripiego e della chiusura; nonché alla riduzione confessionalistica dello spettro delle soggettività, delle definizioni del Sé e delle posizioni che individui e gruppi ricoprono nello scacchiere sociale (Herzfeld 2022).

61xph4ohh8l-_ac_uf10001000_ql80_Ampiamente strumentalizzati dagli imprenditori dell’odio, da coloro cioè che speculano e promuovono la propria carriera politica – se non esplicitamente i propri interessi economici – soffiando sul fuoco del risentimento conseguente alla decomposizione ad opera della fase neoliberista della globalizzazione capitalistica dei quadri sociali, degli schemi di significazione e degli idiomi culturali “tradizionali” che mediavano la differenza e le gerarchie instillando dosi e prospettive di giustizia sociale a beneficio delle classi popolari (Holmes 2020), questo condensato di sentimenti, disposizioni e rappresentazioni che si fanno strada nel discorso pubblico e nell’interiorità delle persone agisce e viene manipolato in ambiti svariati. Esso muove la proclamazione di nuove crociate – è questo l’orizzonte culturale che permea le parole con cui un noto giornalista italiano può affermare in prima serata, ospite di una delle principali emittenti televisive nostrane, che Israele ha tutto il diritto di distruggere Gaza e i suoi abitanti, stante la violenza perpetrata da Hamas, per evitare la “caduta di Gerusalemme”. Ed è ampiamente rinvenibile nelle retoriche, nelle pratiche e nelle politiche che hanno caratterizzato l’accoglienza e il rifiuto di esseri umani negli ultimi anni, tema che abbiamo sviscerato più volte nelle pagine di Dialoghi Mediterranei (Cordova 2023). 

da "Io Capitano" di Garrone

da “Io Capitano” di Garrone

Conoscere per intervenire

Il film di Matteo Garrone non si colloca direttamente ed esplicitamente all’interno di questa cornice, se non in alcune scene nelle quali viene riportata l’indifferenza degli organismi statuali europei di soccorso che si rimpallano tra loro le responsabilità di intervento nelle acque in cui i migranti stanno per divenire naufraghi, condannandoli a morire di stenti e di fatica prima ancora di affondare negli abissi. Eppure partecipa di uno “spirito dei tempi” rispetto al quale sollecita un’interrogazione sincera e amara, rivolta tanto al potere quanto alle persone comuni, e che a mio avviso costituisce la cifra più intimamente politica del film: cosa abbiamo fatto e cosa stiamo facendo di fronte a fatti dei quali non possiamo più negare di essere a conoscenza? Se fino a un decennio fa la conoscenza dettagliata delle dinamiche e dei processi che compongono il fenomeno migratorio in area mediterranea era esclusivo appannaggio di competenze specialistiche, ciò che accade tra contesti di origine ed Europa è oggi molto più diffuso e addirittura fruibile a un’ampia platea, che può prendere visione di filmati, molti dei quali prodotti dagli stessi migranti, testimonianze, immagini, reportage di pregevole fattura giornalistica.

Le considerazioni che propongo in queste pagine non compongono una recensione, né il delineamento sistematico dell’intreccio narrativo entro il quale prende forma Io Capitano. Allo stesso modo, non propongo in alcun modo un commentario estetico o una critica cinematografica, per elaborare i quali sono necessarie competenze, qualità e passioni di cui non dispongo. Mi limito invece ad annodare delle riflessioni che la visione del film mi ha suscitato, entrando in connessione con saperi, sensazioni e conoscenze che si sono sedimentate in alcuni anni di pratica (da osservatore, attivista e operatore sul campo) e approccio scientifico alla questione migratoria. 

Inizio da una considerazione che potrà apparire banale ma che influenza la ricezione e il commento del film. Io Capitano non rivela nulla di particolarmente nuovo o di originale a chi, anche solo negli ultimi anni, ha maturato una discreta conoscenza del fenomeno o si è direttamente confrontato con coloro che hanno attraversato il Mediterraneo, ascoltandone le testimonianze, i silenzi, le allusioni. Del resto, non credo fosse questo l’obiettivo di Garrone, più interessato – coerentemente con altri suoi lavori – alla strutturazione di un racconto e alla sua trasposizione cinematografica. Come narrare l’orrore? Come produrre la resa estetica del dolore? Non sono mai questioni banali, con cui il cinema – ma anche le altre declinazioni dell’arte e, per quanto mi riguarda, anche l’etnografia – è chiamato di volta in volta a confrontarsi, producendo risposte sempre diverse. In questo senso, Garrone lascia parlare le storie dei personaggi “in partenza” ai quali ci leghiamo sin dai primi frame; fa in modo che risaltino il potere evocativo e immaginifico dei luoghi, della sofferenza, dell’addio e della speranza, senza introdurre commentari dal taglio espressamente politico che avrebbero avuto una qualche ragion d’essere ma che avrebbero comportato una inevitabile deviazione dalla cifra stilistica dell’autore. Il marchio dell’autorialità è comunque evidente.

Matteo Garrone e Seydou premiati al Festival di Venezia

Matteo Garrone e Seydou premiati al Festival di Venezia

 Io Capitano non è un documentario. Dal punto di vista dell’artigianalità, i suoni, le luci e i colori che danno forma alle drammatiche sequenze nel deserto del Sahara e in Libia possiedono una potenza estetica ed evocativa da cui non è facile non lasciarsi impressionare. Inoltre, la creatività intellettuale e narrativa dell’autore si affermano nitidamente nella commistione di fabula e di crudo realismo – tema su cui tornerò oltre – che accompagna l’intero film, dal principio alla sua conclusione. Ecco, lo ribadisco: è difficile astrarre un film sulle migrazioni dai contenuti sociali e politici che accompagnano il fenomeno, declinandolo molto spesso nella direzione della violenza, dell’esclusione, del razzismo. Non che Io Capitano sia un film avulso da qualsivoglia connotazione politica. Il solo parlare di ciò che accade nel Mediterraneo è un fatto politico – qualità del resto esplicitata dallo stesso Garrone nelle parole pronunciate al momento della premiazione con il Leone d’argento al Festival del cinema di Venezia. Anche lo sguardo indulgente e clemente – ma come potrebbe essere altrimenti? – con cui si dà voce e corpo ai protagonisti del viaggio riflette una postura politica molto chiara che orienta e non poco il nostro sguardo alle vicende – e anche alle incertezze e agli umani errori di valutazione – che orbitano intorno ai giovani senegalesi Seydou e Moussa. Ma le qualità da apprezzare in Io Capitano sono altre. Il regista ha scelto di ricostruire, seguire e accompagnare la tragica epicità che questi viaggi già condensano “naturalmente” in sé. Lo ha fatto attribuendo una voce, una corporeità e delle azioni concrete a processi troppo spesso descritti – supportati o contestati – in termini di teoremi disincarnati e astratti, di equazioni geopolitiche “buone da pensare” ma slegate dai soggetti e dalla carne. Il film è vivo, come lo sono i personaggi attraverso la loro stessa storia. Vivi alla stessa stregua della morte e del dolore che affliggono un’umanità mai rassegnata, anche e soprattutto fuori dal raggio visivo delle camere da presa.  

Migranti reclusi in un capo di detenzione in Libia

Migranti reclusi in un capo di detenzione in Libia

Da dove si parte

Le scene del film che descrivono, raccontano e illustrano le fasi che precedono il viaggio nel Mediterraneo sono particolarmente interessanti, perché provano a rendere conto di contesti sociali – quelli dei Paesi da cui i migranti provengono – che sono spesso oggetto di riduzionismo, destorificazione, banalizzazione. Anche nei villaggi dell’Africa occidentale si scherza, si gioca, si fa musica, si delineano aggregati di sentimenti, affetti e complicità all’interno dei gruppi domestici, nei gruppi di pari – e nelle classi d’età – e nelle affiliazioni di carattere volontario. Al punto che le “cause” che spingono i protagonisti alla partenza possono sembrare persino irrisorie rispetto alla drammaticità che il viaggio sovente porta in conto. È legittimo partire anche se non si muore di fame? Come rapportarsi al desiderio dell’altrove quando non emerge da un potente fattore espulsivo di tipo materiale? Eppure quanta insostenibile superficialità e quanta iniquità nel derubricare a irrilevanti i mondi che esplodono nella soggettività degli esseri umani – terreno d’incontro tra idiosincrasie e rappresentazioni collettive?

Da questo punto di vista, lo spettatore che non possiede particolari competenze areali o che non ha avuto la possibilità di conoscere e imbastire relazioni con persone provenienti da quei contesti può avere la possibilità di pervenire a un quadro verosimile e sincero, pur condensato in rapidi e semplici frame filmici, dell’andamento della vita quotidiana in quei territori.

Mancano all’appello la violenza, lo sfruttamento, l’eredità del colonialismo sostanziato in conseguenze tangibili nella vita di fasce molto ampie della popolazione, certo. E la grammatica dei sentimenti – come una ormai lunga e assai stimolante tradizione di ricerca antropologica testimonia – segue sentieri non uniformi. Ma restituire un livello di analisi che rifiuta la mono-causalità è senz’altro un merito della pellicola, pur alimentando il rischio correlato di obliare la crucialità di fattori economici e politici che incidono sul sottosviluppo, sull’extra-versione dei processi commerciali, industriali ed economici, sulla miseria da cui ogni individuo ha il diritto di evadere. Eppure, di fronte al venir meno di quella capacità di risonanza e di immedesimazione empatica nell’altro cui abbiamo assistito negli ultimi anni – la disumanizzazione di cui i migranti sono stati oggetto, la stessa di cui sono investiti i palestinesi – riconoscere la condivisione di sentimenti e disposizioni affettive con persone e luoghi “lontani” non è qualcosa di secondario o superficiale. Si tratta invece del preludio al riconoscimento di una piena e irriducibile umanità, che la negazione della capacità altrui di provare sentimenti – evidente in epiteti animalizzanti rivolti ai e alle rappresentanti dell’alterità – prova sempre a smentire.

Inoltre, anche la parte del film che racconta l’inglobamento dei protagonisti nelle reti sociali che dal Sahel si spingono fino al mar Mediterraneo merita una valutazione positiva. Ancora una volta, nulla di inedito per chi abbia prestato ascolto alle testimonianze e alle voci dei migranti in questi anni. Ma grazie a Io Capitano adesso anche il grande pubblico raggiunto dal film può avere coscienza della complessità che il fenomeno migratorio reca con sé; una rappresentazione ben lontana dalla corrente semplificazione per cui la mobilità altro non sarebbe che un cataclisma il cui impatto investe esclusivamente i Paesi di arrivo. Le culture della migrazione, invece, attraversano trasversalmente luoghi e gruppi sociali, generando solidarietà, ostilità e anche capacità di manipolazione dei flussi di persone per generare profitto. Le scene in cui gli aspiranti migranti vengono ricercati e inclusi nelle reti del viaggio come accadrebbe a un turista coinvolto nella visita a un luogo attrattivo (con ben altre conseguenze, si intende), attraverso il deserto (prima) e il mare (dopo), contribuiscono a scalfire la retorica statica che attribuisce al “trafficante di esseri umani” la responsabilità se non l’invenzione delle migrazioni.

Deportazione di migranti dalla Tunisia nel deserto libico

Deportazione di migranti dalla Tunisia nel deserto libico

La pluralizzazione delle figure che si contendono la gestione, se non il governo, della mobilità è una dinamica ben nota a studiosi e studiose. Questi circuiti ereditano, mutandone finalità, personale e talvolta struttura, le grandi reti sociali che hanno gestito la mobilità delle persone e delle merci, funzionando anche da infrastruttura per i sistemi di idee, in vaste aree in cui lo Stato esiste ma assume forme e configurazioni diverse da quelle centralizzate e iper-razionali che la tradizione weberiana ha contribuito illusoriamente a ipostatizzare. Pur senza intaccare il potere e l’efficacia degli organismi politici e burocratici che definiscono le prassi e le politiche, tanti altri attori – con diverse mansioni e responsabilità e con vari gradi di sfumature nei margini di guadagno e nel collegamento alle grandi organizzazioni “criminali” o parallele all’azione quotidiana degli Stati –  orbitano intorno a un fenomeno dalle dimensioni non trascurabili, nei grandi mercati saheliani così come nelle piazze delle grandi e piccole città del Maghreb. Anche l’evocazione di questa complessità sociologica del fenomeno migratorio contribuisce a dotare di lenti nuove la visione sulla mobilità che, ribadisco, rischia di essere ridotta a polarizzazioni geografiche e identitarie. Sempre da questo punto di vista, le scene girate in Libia meritano quanto meno un cenno.

Non penso soltanto alla violenza che va in scena nei lager in cui, con la complicità dell’Occidente, vengono reclusi, torturati e ricattati i migranti appena giunti nel Paese nordafricano, ma a quelle che raccontano le lunghe (in molti casi) fasi che precedono il viaggio in mare. Temporalità in cui i migranti possono in alcuni casi inserirsi nelle maglie di un’economia nazionale ristagnante, abitare i quartieri periferici di grandi città della Tripolitania dando vita a molteplici e imponenti ghetti uniformi dalla matrice etno-nazionale, rendere più duraturo il transito in Libia fino alla maturazione del capitale necessario alla partenza. Lo stesso andrebbe detto per i dettagli proposti in merito alle relazioni che legano i “candidati” alla partenza per mare e lo stuolo di intermediari che ne controlla con tecniche violentemente efficaci il possesso di denaro o di capitale sociale da (s)fruttare. Garrone trasferisce su pellicola un patrimonio di dati e informazioni di cui siamo venuti in possesso negli ultimi anni. Anche queste sequenze di Io Capitano aggiungono complessità, dati, suggestioni per una percezione – se non una comprensione – più sfaccettata del fenomeno migratorio. Un contributo necessario, dato che la presenza del tema nel discorso di senso comune così come nei media e nella retorica politica è inversamente proporzionale all’approfondimento che gli viene garantito. E dunque al progetto di Garrone può essere facilmente attribuito, al di là del suo innegabile pregio estetico e artistico, valenza di servizio pubblico.

da "Io Capitano" di Garrone

da “Io Capitano” di Garrone

Il magico. Struttura e sovrastruttura

Alcuni commenti critici nei confronti del film sono stati indirizzati alla presenza di figure, linguaggi ed espressioni ricadenti tanto nelle proiezioni oniriche e allucinatorie dei protagonisti della vicenda (e del regista, che le fa sue condividendole con spettatori e spettatrici) quanto nel patrimonio culturale condiviso all’interno dei contesti sociali. Tralasciando gli aspetti più propriamente “fiabeschi” della narrazione – intendendo con ciò quegli elementi rispondenti perlopiù a una decisione stilistica e personale del regista piuttosto che quelli più esplicitamente ancorati a una condivisa matrice socio-culturale – in non pochi hanno storto il naso rispetto alla presenza di una incoerente coloritura magico-religiosa nelle pieghe dello sviluppo del film. Affermare l’incongruenza o la superfluità del tema ‘magico’ in un film che racconta, da una prospettiva che si vuole autentica, sincera, documentata, l’epica del viaggio ripropone la contrapposizione dialettica tra struttura e sovrastruttura.

È davvero necessario attingere al serbatoio incantatorio e velenoso del “folklore” se l’obiettivo è raccontare il dolore e la sofferenza e riflettere sulle cause strutturali del fenomeno migratorio? Cosa aggiungono al racconto del viaggio e alla sua ricezione presso il vasto pubblico la menzione delle occorrenze festive senegalesi, la visione/rimozione di una donna che muore di stenti nel deserto, l’evocazione di figure che ammiccano a ibridazioni dinamiche tra monoteismi e religioni “tradizionali” – mi si perdoni la sintesi piuttosto brutale e imprecisa – così come gli scenari oracolistici che possono incoraggiare o scoraggiare l’impresa migratoria?

Tali domande sono fuori luogo e pongono un falso problema. Immaginiamo davvero che queste dimensioni, cruciali nell’espressione individuale e collettiva del Sé, manchino di attraversare fasi determinanti nella vita personale – come il viaggio, lo sconfinamento, il passaggio? E quali momenti dell’esistenza dovrebbero accompagnare se non quelli che più di altri sono caratterizzati dall’incertezza, dalla precarietà, dal pericolo? Una vasta letteratura ormai certifica come in ogni dove (dall’Africa all’Europa “secolare”) i fatti religiosi presentano connessioni impossibili da trascurare con quelli politici, al punto che i primi possono rappresentare la cornice simbolica e configurare le infrastrutture sociali nell’ambito delle quali il mutamento politico si manifesta. L’affidamento ai “dottori” e alle varie espressioni dei saperi locali per propiziare la partenza può apparire fuorviante e incoerente a primo acchito, ma chi non è in cerca di conferme quando si approssima al cambiamento e al disorientamento?

In un testo volto a indagare la genealogia intellettuale dei concetti di matrice illuminista che hanno plasmato la modernità politica al di fuori del contesto europeo – e in Asia meridionale in particolare – lo studioso indiano Dipesh Chakrabarty invita a non applicare una lente eccessivamente durkheimiana alla condivisione dei mondi sociali tra esseri umani, divinità e spiriti, laddove questi ultimi vengono troppo facilmente sussunti all’interno di “fatti sociali” che li precedono e determinano. In un passaggio molto conosciuto, egli scrive che

«non esiste alcuna società conosciuta in cui gli esseri umani non siano vissuti in compagnia di spiriti e divinità. Benché il Dio del monoteismo abbia subìto qualche colpo – se non è addirittura “morto” – nella storia europea ottocentesca del “disincanto del mondo”, in altri luoghi le divinità e gli altri agenti che intervengono nelle pratiche della cosiddetta “superstizione” non sono mai morti. Io credo invece che gli dèi e gli spiriti esistano fianco a fianco agli esseri umani e parto dal presupposto che essere uomini comprenda la questione della nostra relazione con le divinità e gli spiriti» (2004: 33).

E ancora:

«[C]ome noi scienziati sociali dimentichiamo spesso, l’esistenza di dèi e spiriti non dipende dalle credenze degli esseri umani; ciò che li porta all’essere sono le nostre pratiche. Sono parte delle diverse modalità dell’essere con cui rendiamo il presente multiforme; sono proprio le disgiunzioni del presente che ci permettono di stare con loro» (Ivi: 153).

Benché Chakrabarty avesse in mente un contesto specifico (il sub-continente indiano) credo sia possibile estendere la portata delle sue considerazioni. Le relazioni con la dimensione meta-umana non sono solo simbolo di una realtà sociale il cui radicamento nel “qui” e “ora” sfugge a coloro che sono intrappolati in un’arcaicità irrimediabile o in evoluzione. La Terra può essere mondeggiata secondo principi altri da quello del “disincanto” (ibidem). La storia, anzi le storie percorrono ugualmente, intrecciandosi, gli itinerari del presente, generando movimenti diastolici che irradiano la multiformità dei mondi sociali e dei rapporti di potere.

61sj1twf8tl-_sl1489_Conclusioni. Lo spazio della politica?

Al netto degli elementi che mi portano dunque a valutare positivamente il film di Garrone, è tuttavia innegabile intravederne e sottolinearne alcuni rischi. La storia di Seydou e Moussa volge a un lieto fine. Entrambi, pur tra mille difficoltà e rischiando più volte la pelle, riescono ad arrivare in Italia. Da qui inizia un percorso irto di complicazioni nelle maglie dell’accoglienza, in cui il respingimento – sociale, economico e politico – cui tante e tanti migranti vanno incontro non è meno violento di quello che la guardia costiera maltese, ad esempio, mette in atto quando non presta le necessarie operazioni di soccorso.

Seydou e Moussa, dicevamo, ce la fanno. Due giovanissimi uomini che sognavano di far coincidere la piena maturità sociale con la concretizzazione dell’esperienza dell’altrove riescono a superare indenni il mare di morte che si frappone tra essi e la realizzazione dei loro obiettivi esistenziali. Il rischio di una introiezione autoconsolatoria dei significati e delle configurazioni sociali della mobilità è reale. Di fronte alla complicità con cui la fortezza-Europa abdica alla solidarietà ed esternalizza sempre più il presidio delle sue frontiere, l’avvincente epica del viaggio raccontata da Garrone ci assolve. Alla fine del film, poi, sono le imbarcazioni battenti bandiera italiana a salvare i migranti. E le tracce del colonialismo, nelle sue tangibili conseguenze e nei suoi perduranti effetti anche laddove cripticamente evoluti nel governo finanziario di vaste regioni dell’Africa occidentale, non sembrano pervenire.

La mancanza più grave, dal punto di vista di chi scrive, riguarda l’assenza di un minimo riferimento all’annosa ed emblematica questione del rilascio dei visti e, più in generale, dei documenti. I migranti sono costretti ad affidarsi a reti di intermediazione dalla matrice spesso criminale e comunque estorsiva perché non hanno altri modi di giungere in Europa. Anche le persone più titolate e in possesso di adeguate garanzie finanziarie sono costrette ad addentrarsi nella roulette russa delle ambasciate e delle reti consolari dei Paesi europei, che elargiscono i visti applicando in modo arbitrario e discrezionale norme e regolamenti già estremamente rigidi e che limitano all’inverosimile le possibilità di percorrere vie ‘legali’ per la mobilità, come testimonianze, inchieste e ricerche etnografiche ormai dimostrano ampiamente.

da "Io Capitano" di Garrone

da “Io Capitano” di Garrone

Salire su un barcone non è una scelta ma una necessità. I tanto famigerati scafisti sono la creazione collaterale di un governo paranoico della mobilità umana che rende legittimo l’ingresso nello spazio europeo solo attraverso modalità che accrescono la vulnerabilità di soggetti costretti a vagare per il deserto, sottomettendosi alle grinfie di gente senza scrupoli. Ecco, forse sarebbe stato sufficiente inserire anche un solo frame che evocasse l’impossibilità di ottenere un qualsiasi tipo di documento per avviare un movimento “regolare” e protetto nelle ampie sequenze in cui i due protagonisti sono alle prese con la produzione di documenti (falsi) e nuove identità che permettano loro di spostarsi nel Sahel e poi in Africa del nord. In pochi secondi, probabilmente, anche lo spettatore meno informato avrebbe potuto quanto meno sospettare dell’esistenza di una falla rilevante nella gestione della mobilità internazionale diretta in Europa.

Tuttavia, ogni racconto implica una selezione. E ogni scelta comporta rinunce. Garrone fa risuonare la “fabula”, la cui presa emozionale e sensoriale può incidere con maggior vigore su platee non aduse al linguaggio documentaristico o all’approfondimento. Allo stesso tempo, però, rileva, fissa (e documenta) informazioni, strutture e processi che nessuno potrà più dire non conoscere. Senza rinunciare a criteri e scelte dalla fattura estetica ragguardevole (oltre che gradevole), Io capitano popolarizza il discorso “informato” sulle migrazioni. Uno sguardo sulla società dell’inimicizia che sceglie di incrociare ricezioni trasversali che, ci auguriamo, potranno influire su percezioni, rappresentazioni e politiche del confine. 

Dialoghi Mediterranei, n. 64, novembre 2023
Riferimenti bibliografici
Chakrabarty D., 2004 (2000), Provincializzare l’Europa, Roma, Meltemi.
Cordova G., 2023, Il riflesso della solidarietà tra accoglienza, etica e politica, in “Dialoghi Mediterranei”, n. 60, https://www.istitutoeuroarabo.it/DM/il-riflesso-della-solidarieta-tra-accoglienza-etica-e-politica/.
Herzfeld M., 2022 (1992), La produzione sociale dell’indifferenza. Esplorando le radici simboliche della burocrazia occidentale, Milano, FrancoAngeli.
Holmes D., 2020 (2000), Integralismi europei. Capitalismo veloce, multiculturalismo, neofascismo, Milano, Meltemi.
Mbembe A., 2019, Nanorazzismo. Il corpo notturno della democrazia, Roma-Bari, Laterza.

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Giovanni Cordova, ha conseguito il dottorato di ricerca in Storia, Antropologia, Religioni (curriculum etno-antropologico) presso l’Università ‘Sapienza’ di Roma. Ha preso parte a progetti di ricerca inerenti al Nord Africa (Tunisia, Libia) e alle migrazioni internazionali. Attualmente è docente a contratto di antropologia culturale presso l’Università Federico II di Napoli e assegnista di ricerca presso il Dipartimento di Scienze Politiche e Sociali dell’Università degli Studi di Catania, dove conduce uno studio sulla ritualità religiosa delle comunità di origine asiatica residenti in Sicilia. Ha recentemente pubblicato per le edizioni Rosenberg&Sellier il volume Karim e gli altri. La gioventù tunisina dopo la Primavera.

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