di Vincenzo Maria Corseri
Circa due anni fa, il convegno organizzato dal Museo Diocesano di Mazara del Vallo (1), in occasione del restauro e dell’esposizione del prezioso Crocifisso ligneo quattrocentesco (fig. 1) che da secoli si conserva presso il Monastero benedettino di San Michele Arcangelo, favorì l’occasione per dibattere sull’importante tema del Crocifisso tra arte e teologia e di come, nella raffigurazione dei crocifissi, gli artisti, in epoca medievale, abbiano saputo riflettere sull’evolversi della teologia della Croce, ossia sulla possibilità di conciliare lo scandalo di un orribile supplizio con la salvifica figura di Cristo. Contemplare la Croce significa, d’altronde, cercare la “bellezza salvifica” del Crocifisso nella ricchezza di significati che questo esprime nel suo alto valore teologico (l’arte occidentale nasce dall’Incarnazione), nella connessione tra la dimensione verticale della trascendenza e quella orizzontale dell’essere.
L’incontro, che vide la partecipazione di alcuni autorevoli studiosi di teologia e arte cristiana, fu concluso da Heinrich Pfeiffer S.J. – studioso di fama mondiale e professore emerito di Iconologia e Storia dell’Arte Cristiana alla Pontificia Università Gregoriana – con una lectio magistralis dedicata al tema dell’iconografia del Crocifisso nel Medioevo, con un riferimento specifico al Crocifisso del Monastero di San Michele.
Nella presente nota(2) cercherò di inquadrare organicamente il discorso tenuto da padre Pfeiffer in quell’occasione, problematizzando alcuni aspetti centrali, a mio parere, del dibattito storico-artistico e teologico che ad esso riconducono.
Per una breve presentazione storica del Crocifisso ligneo del Monastero di San Michele Arcangelo, basti dire, anzitutto, che l’opera, da diversi secoli, si trova presso l’importante monastero benedettino femminile, fondato dai Normanni (per soddisfare le nuove esigenze politiche e militari della nascente contea), all’inizio del XII secolo, nel cuore della città di Mazara, fra la Sinagoga e il Ghetto. L’opera (m 2,10 x 2,30; medaglioni capicroce ø m 0,30), sicuramente di artista siciliano, è databile alla fine del XV secolo(3). Le coordinate artistiche e tipologiche che la caratterizzano, sono di indubbia originalità e richiamano chiaramente la tipologia del Christus dolens, peculiare dell’espressione tardogotica (4). La scultura del Crocifisso è in mistura (fig. 2) ed è stata applicata sulla superficie a tempera; l’anatomia del corpo, piuttosto che scolpita e incisa, è parzialmente delineata con la pittura.
La croce di supporto è dipinta e rappresenta, sugli eleganti capicroce circolari, alcuni personaggi che, nel racconto evangelico (5), erano presenti sul Golgota al momento della Crocifissione di Cristo: lateralmente, la Madonna (fig. 3) e san Giovanni Evangelista (fig. 4);
in basso, la Maddalena è rappresentata – con una penetrante devozione – in ginocchio con le mani giunte (fig. 5); nel capocroce in alto (fig. 6), è raffigurato il pellicano (“emblema di carità”) intento a nutrire i propri piccoli con il proprio sangue.
Secondo la cultura religiosa medievale, quest’animale si presta ad una duplice simbologia: è inteso sia come immagine di Cristo che si lascia crocifiggere e dona il suo sangue per redimere l’umanità, sia come immagine di Dio Padre che sacrifica suo Figlio facendolo risorgere dalla morte dopo tre giorni (6).
Nel corso della sua lezione mazarese, Pfeiffer analizza il crocifisso quattrocentesco sviluppando il proprio discorso su un duplice registro, iconografico e iconologico, oltre che teologico. Nell’economia di una lettura diacronica del Crocifisso che stiamo esaminando, il gesuita osserva che il supporto dipinto ha quattro cerchi dipinti (nei capicroce) che interpretano qualche cosa. I cerchi indicano con certezza l’origine rinascimentale dell’opera. Il Rinascimento, nella rappresentazione artistica delle proprie concezioni, cerca sempre la forma più perfetta. Il cerchio rappresenta il cielo; ma anche l’unità divina, l’eternità, l’infinito (7).
La storia dell’arte cristiana è, soprattutto, una complessa indagine dell’icona di Cristo, del suo mistero e del suo volto, che ne è l’essenza più profonda. Per la Chiesa orientale le icone sono delle vere e proprie immagini di Dio, delle finestre che si aprono dall’aldilà verso di noi. Noi le guardiamo, ma, allo stesso tempo, ci sentiamo guardati da loro: «In noi il velo del visibile, per un istante, si squarcia, e attraverso di esso, mentre ancora si avverte lo squarcio, ecco, invisibile, soffia un alito che non è di quaggiù» (8). Per Pfeiffer, quest’«assumere l’icona» è un modo per concepire l’immagine trasfigurata che non potrà mai essere la materia che fa ombra, in quanto, per la Chiesa orientale, la materia che fa ombra è come l’immagine del peccato. E chi vede con gli occhi di Dio non vede più la materia, dato che per lui «è tutto trasparente e aperto».
In un suo recente scritto (9), lo studioso tedesco indaga il rapporto Parola/immagine, sottolineando come, sin dalla tradizione veterotestamentaria, ogni parola per essere concepita e compresa debba richiamare alla mente un’immagine corrispondente. È un’osservazione di grande nitore concettuale. L’opera d’arte, in fondo, non può che essere concepita se non come la proiezione sulla materia di un’immagine che si crea nell’intimo dell’uomo. E il tema dell’immagine di Dio in relazione al volto e al corpo umano, risulta acquisire, nel discorso di Pfeiffer, una funzione precipua, tanto più se si intende riflettere sulla centralità della Parola incarnata (Cristo) e della sua rappresentazione nell’Occidente e nell’Oriente cristiano:
In Oriente, l’icona di Cristo viene considerata la vera e propria immagine di Dio. L’artista deve sempre seguire i prototipi, cioè le immagini non fatte con mani umane, che la tradizione lega direttamente a Cristo, quasi autoritratti di lui. L’artista deve rinunciare quasi del tutto alla sua fantasia figurativa e seguire sempre i modelli divini. In tal modo, l’arte non si sviluppa quasi per nulla, né quanto ai contenuti né quanto alla forma.
Nell’Occidente troviamo invece un ricco sviluppo che passa attraverso diverse tappe. La prima è ancora quella comune con l’Oriente: il Cristo Pantocrator. Esso, nell’Oriente bizantino, esprime la ricerca dell’equilibrio tra la natura umana e quella divina in Cristo, che si manifesta nell’equilibrio tra l’espressione della giustizia e quella della misericordia, sul suo volto. Forse, il migliore esempio di questa rappresentazione è il Pantocrator di Cefalù, in Sicilia (fig. 7).
In Occidente, l’espressione della divinità di Cristo viene affidata, durante questa prima tappa, alla stabilizzazione delle forme corporali: le linee seguono un ritmo proprio e così non descrivono solo le forme corporali, ma rimandano alla natura divina. Anche nell’Alto Medioevo si tramanda uno stile espressivo trascendentale, che dura sino al pieno sviluppo dello stile romanico.
[…] Sotto l’influsso della spiritualità di san Bernardo di Chiaravalle e della devozione delle reliquie della passione, giunte in Occidente in seguito alle crociate, l’immagine di Cristo diventa più umana. L’equilibrio tra le due nature pende verso l’accentuazione della natura umana di Cristo (10).
Torniamo alla nostra Croce. Nel suo esame iconologico dell’opera, Pfeiffer interpreta teologicamente la posizione del Crocifisso denotando lo specifico significato dell’inclinazione di Cristo verso la destra. Questo oggi viene ignorato, anche perché la nostra epoca ha fondamentalmente perso quella linfa simbolica che, soprattutto in ambito cultuale, ha alimentato, nei secoli, il linguaggio artistico, facilitando finanche alle persone più semplici l’acquisizione dei fondamenti della fede e della tradizione religiosa cristiana con quell’immediatezza che è, in fondo, il principale veicolo di ricongiunzione con il trascendente. Il Cristo della Croce di Mazara è inclinato verso destra perché lì sta la Madonna, che simboleggia la Chiesa: questa connotazione iconica è la cifra del rapporto matrimoniale tra Cristo e la Chiesa (11). Poi abbiamo il perizoma (fig. 8). Pfeiffer ha verificato che è dipinto dorato, e la presenza (simbolica) dell’oro indica sempre la natura divina di Cristo. Allora, la natura umana ne è l’annullamento. A noi è dato raggiungere Dio solo attraverso il totale annullamento «e questo totale annullamento l’ha fatto Cristo per noi, prima, sulla croce. Ognuno di noi è assoluto annullamento. Tutto ciò che noi siamo è mistero e prestito. Tutti i nostri pensieri, davanti al mistero della Croce, sono assoluto niente» (Pfeiffer).
Il problema teologico dell’“annientamento” riguarda il Crocifisso come oggetto di culto, sì, ma anche come luogo fondativo di un discorso che, teologicamente, possiamo inquadrare in una dimensione spirituale e mistica. Il Crocifisso va guardato, quindi, come la kenosi di Dio (12), «e noi, davanti ad ogni legno cruciforme, e ad ogni effige del Crocifisso, adoriamo il mistero del Dio fatto uomo che con la sua morte annullò la nostra. Così l’effige che sul legno si pone, icona o scultura che sia, è strumento anamnetico di simbolizzante consapevolezza di fede, non reificazione idolica di religiose intuizioni o di percezioni inconsce del mondo divino» (13). Basterebbe rileggere l’inno cristologico della Lettera ai Filippesi (2, 6-11) (14), o alcuni meravigliosi sermoni eckhartiani (15) per intendere che se non ci si annienta, se non si annulla il nostro io, non c’è resurrezione.
Osserviamo, adesso, le piaghe del Crocifisso, e proviamo ad analizzare la presenza dei tre chiodi sulla statua: i due laterali per le mani; il terzo, in basso, ferma i due piedi sovrapposti. Questa rappresentazione – a detta di Pfeiffer – fa riferimento alla Santa Sindone di Torino, nella quale un piede appare meno lungo dell’altro, una gamba meno lunga dell’altra. Ed è proprio in un costante rimando alla Sindone che, verso la fine del XII secolo, si è creata la nuova iconografia dei “tre chiodi”. Questi tre chiodi sono stati interpretati per la prima volta da san Francesco per i tre voti (16). Osservando il Crocifisso, è importante, in questo senso, contemplare che il chiodo della mano destra rappresenta la povertà, quello della mano sinistra la castità (ma anche la preghiera); le due mani sono simbolicamente in tensione; il terzo chiodo è l’ubbidienza (non c’è ubbidienza senza un suddito e un superiore). Questo è un “textus” che, senz’altro, alimenta un discorso profondamente spirituale. Tutto è tensione. E quello del Crocifisso è un respiro dolorosissimo. L’uomo non può, d’altronde, né darsi, né togliersi il respiro, non avendo strumenti per farlo. Il dono del respiro arriva da Dio. Pfeiffer lamenta il fatto che, al giorno d’oggi, nessuno si occupa più di queste cose. L’Occidente, se rapportato all’Oriente, è privo della fondamentale “cultura del respiro”, che è l’inizio di ogni vera cultura. Dobbiamo – nota il gesuita – guardare verso i buddisti e verso gli induisti. Loro pregano nella maniera giusta. Il respiro, ad esempio per i buddisti, è un’unione tra cielo e terra; e, dunque, è un “asterisco”.
Le braccia del Crocifisso mazarese sono fini, delicatissime, quasi femminili, non virili. Questa è un’altra derivazione iconografica della Sindone. La Sindone è una proiezione parallela, non un’impronta, pur sembrandolo.
L’immagine della Sindone si presenta come una perfetta proiezione di un corpo tridimensionale nella bidimensionalità, e non solo come una semplice impronta di un corpo umano nel telo. La causa di questa proiezione non può che essere connessa al corpo morto coperto dalla Sindone, il corpo di un uomo flagellato, incoronato con una corona di spine, morto crocifisso e trafitto da una lancia che ha provocato una grande piaga sul costato (17).
Diversi segni della Sindone si trovano sui crocifissi e, in Occidente, diversi crocifissi iconograficamente dipendono dalla Sindone. Facendo un breve excursus per delle comparazioni, Pfeiffer cerca di dimostrare quanto è stato sostenuto sopra a partire dall’analisi stilistica del Crocifisso giottesco che si conserva nel Tempio Malatestiano di Rimini (fig. 9). Anche questo Crocifisso ha braccia quasi femminee. Notiamo, in generale, le forme quadrate, sulla croce, indicanti che siamo ancora sulla terra; però ha il volto del divino, e la cornice è d’oro. La comparazione prosegue con la considerazione di un altro crocifisso anteriore (1321-1325), quello di Simone Martini, che si conserva a San Casciano Val di Pesa (fig. 10), dove abbiamo lo stesso perizoma del crocifisso di Mazara. Qui la forma geometrica si compenetra nel gotico.
Il perizoma è trasparente e richiama la tradizione che possiamo trovare per iscritto nelle Meditationes vitae Christi (18), in cui si racconta che la Madonna, sia alla nascita, sia nel momento in cui Gesù si è trovato totalmente nudo, ha tolto il proprio velo per utilizzarlo come perizoma: questo è il motivo dello sposalizio (stare sotto lo stesso velo).
Un crocifisso che per lo studioso tedesco precede il nostro per una particolare similitudine stilistica è quello di Hubert van Eyck, databile al 1430 circa (fig. 11).
Proprio in riferimento a questo crocifisso dipinto, si può riscontrare una “similarità francescana” con il Crocifisso siciliano. Leggendo l’opera, che si conserva agli Staatliche Museen di Berlino, osserviamo che, sullo sfondo, il mondo stesso diventa una scala per arrivare a Dio. Ogni cosa ha un significato. Quando, in un crocifisso dipinto, si vede sullo sfondo un albero senza fronde, questo ha un rapporto diretto con la croce. Nell’opera di van Eyck, vediamo raffigurato un ceppo. Un ceppo, secondo la tradizione, era il legno della croce; nell’antichità, lo si usava perché questo era considerato il meno marcescibile. Poi, v’è anche un rapporto con lo Spirito Santo. Perciò si mette un mulino.
In chiusura alla sua articolata e intensa lectio magistralis, lo storico dell’arte dell’Università Gregoriana ci interroga sulle reali origini, sulla provenienza del nostro Crocifisso. Da una parte – afferma icasticamente – abbiamo una morte. Dall’altra, tutte le fattezze mostrano una pace enorme, qualcosa di innocente. Il richiamo sotteso del discorso di Pfeiffer, tocca un tema iconografico che gli sta molto a cuore: quello della Volto Santo – una volta venerato a Roma – che, oggi, si conserva in un piccolo santuario abruzzese, a Manoppello (fig. 12). Questa è l’immagine che ha creato la leggenda della Veronica (19). Pfeiffer, nel corso della sua lunga attività di ricerca e di studio, ha decisamente maturato la convinzione che questo sia, insieme alla Sindone, il vero modello dell’immagine di Cristo. Di conseguenza – a detta dello studioso – queste due reliquie/immagini stanno, nella storia dell’arte, dietro ogni immagine che rappresenta Cristo.
Questi due prototipi, imitati dagli artisti che prendono le mosse da uno o dall’altro o da entrambi, sono il motivo per cui tutte queste immagini di Cristo possono essere riconosciute come ritratti di un unico individuo, sin dagli affreschi visibili in alcune catacombe romane.
[…] L’immagine di Cristo come l’immagine di Dio è veramente la chiave di volta della teologia cristiana. Finora, questa constatazione valeva solo per i teologi delle chiese ortodosse, ma è auspicabile che il dialogo ecumenico tra le due chiese sorelle, l’ortodossa e la cattolica, conduca quest’ultima a una nuova valutazione della vera immagine di Cristo. Dio – per Pfeiffer – è presente in quest’immagine, e come attraverso un velo lo possiamo vedere «faccia a faccia» (20).
Quello della Veronica di Manoppello non è, certo, il Cristo morto, ma il Cristo nel primo momento della resurrezione: la nuova vita, la speranza. C’è una leggenda georgiana, risalente al VI secolo, che dice che la Madonna avrebbe avuto l’immagine di Cristo – dopo la sua morte – e, quando pregava, metteva quest’immagine verso l’Oriente perché, soprattutto quando è illuminata dal sole, mostra tutta la sua bellezza.
Dialoghi Mediterranei, n.1, aprile 2013
(1) La manifestazione Signum Sanctae Crucis. Percorsi di arte e fede a Museo Diocesano (Mazara del Vallo, 2-3 aprile 2011), voluta da mons. Domenico Mogavero, vescovo di Mazara, è stata organizzata e coordinata dalla direttrice del Museo Diocesano, Francesca Paola Massara, attenta studiosa di Archeologia, Arte ed Iconografia Cristiana e docente presso la Facoltà teologica di Sicilia di Palermo (dove dirige anche la Biblioteca “Mons. Cataldo Naro”).
(2) Pubblicata originariamente, con il titolo Signum Sanctae Crucis. Iconologia del Crocifisso nella lezione di Heinrich Pfeiffer S.J., in «Mediaeval Sophia» 9 (gennaio-giugno 2011), pp. 81-96 (ringrazio il direttore della rivista, Giuseppe Allegro, e la redazione dell’Officina di Studi Medievali per avermi permesso di ripubblicare, con alcuni emendamenti, l’articolo in questa sede).
(3) Attingo alcune delle presenti informazioni dalla puntuale scheda storico-artistica preparata da Francesca Paola Massara in occasione dell’esposizione del Crocifisso al Museo Diocesano di Mazara del Vallo (2 aprile-31 agosto 2011); le fotografie utilizzate per la documentazione iconografica del Crocifisso sono di Filippo Serra.
(4) Per una rigorosa trattazione dell’arte siciliana nel secolo XV, cfr. F. Abbate, Storia dell’arte nell’Italia Meridionale, vol. II (Il Sud angioino e aragonese), Roma, Donzelli, 1998, p. 279 e sgg.
(5) Cfr. Gv 19, 25-27.
(6) Nel Fisiologo – opera redatta da un autore anonimo ad Alessandria d’Egitto, probabilmente in ambiente gnostico, tra il II e il IV secolo d.C. – si dice che il pellicano ama moltissimo i suoi figli: «quando ha generato i piccoli, questi, non appena sono un po’ cresciuti, colpiscono il volto dei genitori; i genitori allora li picchiano e li uccidono. In seguito però ne provano compassione, e per tre giorni piangono i figli che hanno ucciso. Il terzo giorno, la madre si percuote il fianco e il suo sangue, effondendosi sui corpi morti dei piccoli, li risuscita». Cfr. Il Fisiologo, a cura di F. Zamboni, Adelphi, Milano, 1975 (in part. pp. 43; pp. 90-91).
(7) Proprio alla fine degli anni Trenta del Quattrocento, la più agguerrita intelligenza filosofica del Rinascimento europeo, Nicola Cusano, esponente di spicco della Chiesa del suo tempo e grande filosofo, nel tematizzare il metodo della “dotta ignoranza”, individua la via per l’uomo di uscire dalla pura dimensione conflittuale della “croce”, che lo inchioda alla finitezza del suo essere da un lato, e il suo anelito all’infinito dall’altro. Questa via gli viene offerta dal simbolo del cerchio, o meglio dall’avvertire l’uomo come simbolo di un cerchio che tutto racchiude, simbolo in cui tutto coesiste. Cfr., a tale proposito, il fondamentale studio di E. Cassirer, Individuo e cosmo nella filosofia del Rinascimento, ed. italiana a cura di F. Federici (originale tedesco: Leipzig, Teubner, 1927), Firenze, La Nuova Italia, 19742 (in partic., pp. 19-77).
(8) Cfr. P. Florenskij, Le porte regali. Saggio sull’icona, a cura di E. Zolla, Milano, Adelphi, 1977.
(9) Cfr. H. Pfeiffer, La storia dell’immagine di Cristo nell’arte, in P. Coda – L. Gavazzi (a cura di), L’immagine del divino, Milano, Mondadori, 2005, pp. 48-58.
(10) Ibid., pp. 53-54.
(11) La Chiesa, corpo del Signore Gesù Cristo, aderisce a lui per mezzo dello Spirito Santo, ed è al Mistero Pasquale che la sua “rigenerazione” fa riferimento, in quanto la Pasqua ha cancellato in lei il peccato mortifero contratto in Adamo e, secondo il modello di Cristo, l’ha trasformata in “promessa sposa senza macchia”. Cfr. Girolamo, Ad Geruchiam. De monogamia, in PL (Patrologiae Cursus Completus omnium SS. Patrum, Doctorum, Scriptorumque Ecclesiasticorum. Series Latina, accurante J.-P. Migne), 22, col. 1053; Cipriano, De unitate ecclesiae, in PL 4, coll. 502-503.
(12) Per un approfondimento teologico dell’argomento, si consiglia la densa lettura iconologica che Leo Di Simone fa di un’altra importante croce dipinta, quella di età federiciana che si conserva nella Cattedrale di Mazara del Vallo; cfr. L. Di Simone, Vexilla Regis. La Croce dipinta di Mazara del Vallo. Icona Pasquale della liturgia, Panzano in Chianti (Firenze), Edizioni Feeria-Comunità di San Leolino, 2004.
(13) Ibid., p. 47.
(14) Cfr. J. Gnilka, La lettera ai Filippesi, Brescia, Paideìa, 1972.
(15) Cfr. Meister Eckhart, Sermoni tedeschi, a cura di M. Vannini, Milano, Adelphi, 1985; Id., Dell’uomo nobile. Trattati, a cura di M. Vannini, Milano, Adelphi, 1999.
(16) Su questo tema, cfr. G. F. Merenda, Francino. L’altra storia di Francesco d’Assisi, Roma, Armando Editore, 2002 e C. Frugoni, Francesco e l’invenzione delle stimmate, Torino, Einaudi, 2010.
(17) H. Pfeiffer, La storia dell’immagine di Cristo nell’arte, in P. Coda – L. Gavazzi (a cura di), L’immagine del divino, cit., p. 57.
(18) L’opera è un trattato ascetico scritto tra il 1256 e i primordi del Trecento, forse nel periodo tra il 1260 e il 1263. Un tempo attribuito a san Bonaventura, è invece opera di un frate, Giovanni de’ Cauli, nativo di San Gemignano, uno dei più antichi compagni di san Francesco, che lo consacrò nel 1211; morì in tarda età nel convento di Bettona. Le Meditationes vennero volgarizzate nel Trecento, forse da un frate, Giacomo de Cordone. Cfr. http://www.treccani.it/enciclopedia/giovanni-de-cauli_(Dizionario-Biografico)/ (data d’accesso:15 febbraio 2013).
(19) Per una presentazione minuziosa della vicenda del Volto Santo di Manoppello, si vedano i due volumi di H. Pfeiffer: L’immagine di Cristo nell’arte, Roma, Città Nuova, 1986; Il Volto Santo di Manoppello, Pescara, Carsa Edizioni, 2000.
(20) H. Pfeiffer, La storia dell’immagine di Cristo nell’arte, in P. Coda – L. Gavazzi (a cura di), L’immagine del divino, cit., p. 58.