«Possiamo noi antropologi dire qualcosa di utile, magari di nuovo, sulla guerra? Pensare e dire, intendo, qualcosa che entri con onestà e commossa intelligenza dei fatti nel tormento delle coscienze al ritornare delle bombe, delle stragi, degli omicidi organizzati e promossi come dovere civile, come sacrificio sublime, come onore e piacere della vittoria?». Così scriveva su questa rivista (n. 55, maggio 2022) Pier Giorgio Solinas pochi mesi dopo l’aggressione russa in Ucraina. Parafrasando quell’interrogativo possiamo oggi dire qualcosa di nuovo rispetto a quello che è stato fin qui ampiamente scritto, dibattuto e sostenuto spesso con una veemente e terribile assertività, sulla guerra in Palestina? Possiamo tentare una qualche pacata riflessione, affrancata dai bollettini della cronaca e dalle passioni delle fazioni, su un conflitto che attraversa decenni di vicissitudini e che aggroviglia ormai in nodi inestricabili torti e ragioni, vittime e carnefici in una incestuosa e sciagurata complicità?
Possiamo sollevare lo sguardo al di là dell’orizzonte spettacolare delle violenze offerte e sublimate dalle immagini dei media che mischiano nel trionfo della reciproca distruttività i corpi dei bambini maciullati e le scie luminose dei missili, le macerie degli ospedali sventrati e la potenza tecnologica dei droni?
La ricerca delle cause in una storia complicata da un ginepraio di fattori politici, economici, religiosi e culturali rischia di essere un esercizio retorico, può diventare perfino un alibi per esorcizzare la comprensione dei fatti e della loro evoluzione, per allontanare e confondere la realtà del presente nella suggestione di miti, ideologie e narrazioni del passato. La sfida tra i due popoli – entrambi paradossalmente appartenenti alla famiglia semitica del Mediterraneo – evoca attentati e repressioni, occupazioni e diaspore, intifade e sistematiche violazione del diritto internazionale. Una lunga e profonda scia di odio e di sangue che ha inizio nel 1947 con la mancata fondazione dello Stato di Palestina e si incancrenisce via via con il dissennato piano di colonizzazione attuato dai governi israeliani. Dipanare questo groviglio di tensioni stratificate nel tempo e di laceranti memorie è compito degli storici, ragionare su quanto è accaduto per capire quanto sta accadendo è dovere degli intellettuali, anche se oggi potrebbe essere forse una pietra d’inciampo nella costruzione politica di un qualche dialogo possibile, di una possibile via di uscita dall’orrido e oscuro labirinto della guerra. Davanti alla “civiltà delle armi” che si impone con i suoi raffinati ordigni di morte fino a sperimentare e raggiungere la perfezione del totale e definitivo annientamento, a noi che non siamo soldati non restano che le parole, vecchi arnesi e umane tecnologie per ‘combattere’ le molteplici forme di violenza, conoscendone le origini, indagandone la natura e studiandone le difese «con onestà e commossa intelligenza dei fatti», potremmo ripetere con Solinas.
Su queste questioni Dialoghi Mediterranei propone in questo numero alcune letture che da punti di vista diversi contribuiscono a spiegare, chiarire, interpretare aspetti e sviluppi della complessa vicenda storica oggi implosa in una difficile e drammatica cronaca. C’è lo sguardo sulla Palestina vista dalla Tunisia, una interessante analisi di Chiara Sebastiani sulla lunga tradizione di convivenza tra arabi ed ebrei nel Paese nordafricano e sulla particolare e solidale attenzione alla crisi palestinese che potrebbe aprire scenari inediti. Un modo decentrato di guardare all’attualità del Medio Oriente incrociando eventi e prospettive da sponde mediterranee diverse. Giuseppe Savagnone, invece, declina la teoria di René Girard sulla simmetria della violenza destinata a cancellare le differenze per decifrare la dinamica di questo conflitto che assimila i contendenti nello stesso rovinoso e distruttivo abbraccio. Così «alla fine, più che la lotta di una democrazia per difendersi dal terrorismo di un gruppo fondamentalista, come l’ha interpretata Biden nel suo discorso alla nazione, la guerra a cui stiamo assistendo sembra piuttosto una folle corsa verso la distruzione dell’altro e, in fondo, verso la propria». Terrorismo e antiterrorismo sono infatti indistinguibili nella ferocia dei bombardamenti e nella confusa escalation bilaterale. Un mostruoso equilibrio del terrore.
Tanto più che nell’uno e nell’altro fronte a morire sono i civili più dei militari, uomini, donne e soprattutto bambini sacrificati sull’altare di Marte, macellati come agnelli, trucidati solo perché arabi ed ebrei, figli dell’odio e della stoltezza dei loro padri. Quando nel macabro precipitare degli eventi fuori controllo tutto sarà sepolto dal furore della vendetta e dal narcisismo della forza, avremo la misura di un genocidio che cancellerà generazioni di bambini e seppellirà probabilmente e definitivamente la questione palestinese senza nemmeno spezzare l’implacabile catena delle violente ritorsioni. Così in questa spirale sacrificale – scrive Antonello Ciccozzi in un’ampia riflessione antropologica sulla speculare reciprocità degli etnocentrismi e i rischi impliciti dell’alterità irriducibile – «dopo il sangue degli ebrei, il sangue dei palestinesi sta seguitando ad alimentare un vortice di odio e di violenza che minaccia di risucchiare il mondo intero nello scontro di civiltà tra Occidente e Islam», unitamente alla pretesa di «derivare una legittimità del legame tra popolo e suolo ciascuno in nome del proprio Dio».
Sulle ambiguità di certe interpretazioni dei media ragiona Aldo Nicosia che invita alla lettura di fondamentali pagine di autorevoli studiosi della materia per meglio contestualizzare la tragedia che si sta consumando in Palestina, dove «la presenza di un movimento armato nemico come Hamas – scrive – è funzionale alla logica della “legittima risposta” israeliana agli attacchi di missili, o agli attentati kamikaze. Si sa che è molto facile provocare Hamas che serve ad Israele più di quanto non serva ai Palestinesi di Gaza». Piero Di Giorgi infine riprende il filo dei suoi personali ricordi, la sua partecipazione al Comitato mondiale per la pace quando il rappresentante della Palestina era Yasser Arafat, le speranze alimentate dagli accordi di Oslo del 1993 per l’unico progetto credibile, quello di due popoli e di due Stati, il suo fallimento e le inerzie delle istituzioni internazionali, le responsabilità dei governi d’Israele, le debolezze delle leadership palestinese. Un viatico che ha accompagnato le stagioni e le utopie politiche di più generazioni.
Inimmaginabili sono gli sviluppi di questa crisi in Medio Oriente dove le piazze arabe sono in agitazione e il disordine geopolitico scompagina le vecchie alleanze e minaccia nuovi conflitti a più ampia dimensione. Restiamo appesi ai bordi della Storia, tra la fragilità delle democrazie europee di fronte all’irrisolto pantano ucraino, il declino dell’egemonia dell’Occidente, la potenza crescente delle autocrazie, la diffusione dei fondamentalismi, la reviviscenza dei nazionalismi che oggi usa chiamare sovranismi. Nel frattempo dell’altra guerra sul Mediterraneo, quella combattuta contro i migranti che continuano a morire davanti alle nostre coste, si riapre il grottesco capitolo che racconta dei terroristi a bordo dei barconi per incrementare la fame di paura mai sazia e legittimare l’incalzante e concitata decretazione di provvedimenti repressivi e restrittivi adottati da una politica di sistematica criminalizzazione. Ne fa un dettagliato elenco Luca Di Sciullo nella sua denuncia del progressivo processo di ‘cosificazione’ dell’umano, per cui non ci indigniamo più «quando sentiamo espressioni come “sbarchi selettivi” o “carichi residuali”, quando sentiamo argomentare con incredibile serietà vaneggiamenti come quello di costruire, in mezzo al Mediterraneo, un’isola artificiale in cui segregare tutti i migranti diretti in Europa». In questo mare nostrum, dove «l’uomo è cacciato, rinchiuso, venduto, torturato» per usare le parole di Braudel che amava citare, Vincenzo Consolo vedeva prender corpo l’im-mondo, un mondo di follia popolato dalla massa di cadaveri «dissolti nelle fiamme celesti/ sepolti sotto tumuli infernali/ sopra tell di cenere e di pianti». Sono versi di un breve e raro testo poetico dello scrittore siciliano, che Ada Bellanova ha ricordato nel suo bel contributo sulla complessità del Mediterraneo, amalgama e crocevia di transiti, di esili e di asili, «flusso incessante di energie umane e culturali», filo conduttore di tutta l’opera dell’autore di Il sorriso dell’ignoto marinaio.
Un Mediterraneo non più cimitero ma “sala parto” «destinato a elargire i suoi frutti migliori: una nuova umanità, che non riconosce e non legittima alcuna frontiera» auspica Vincenzo Guarrasi che, nel connettere le migrazioni alle origini non solo della storia ma anche della stessa vita umana, legge in questa chiave il film di Matteo Garrone, Io capitano, in cui i giovani protagonisti sfidano i confini e sovvertono i destini. Sembrano davvero interpretare queste nuove generazioni di migranti il paradigma dell’immaginazione e della ‘aspirazione’ al generale moto di dislocazione collettiva di cui ha scritto l’antropologo Arjun Appadurai. Come correttamente osserva Chiara Lanini che nel viaggio narrato come un epos dal regista vede «l’esperienza trasformativa e il rito di passaggio, di cui il rischio è condizione fondamentale». Nel dibattito che abbiamo promosso sul film candidato agli Oscar sono intervenuti anche Giovanni Cordova e Giuseppe Sorce. Il primo compie un’ampia analisi critica che apprezza soprattutto nel linguaggio artistico della pellicola la capacità narrativa dell’orrore, la resa estetica del dolore, «il potere evocativo e immaginifico dei luoghi, della sofferenza, dell’addio e della speranza, senza introdurre commentari dal taglio espressamente politico che avrebbero avuto una qualche ragion d’essere ma che avrebbero comportato una inevitabile deviazione dalla cifra stilistica dell’autore». Sorce, da parte sua, ha definito Io capitano “film dell’antropocene” «perché la storia che racconta è una storia di un adesso-qui realmente distopico, ambientata in un luogo geografico molto vicino a noi pubblico italiano, nello stesso tempo in cui andiamo a vederla su uno schermo». Una piccola finestra – aggiunge – su «un mondo in cui il passato (coloniale) e il futuro (climatico) entrano in una collisione che ci riguarda già, a noi spettatori, direttamente».
Di altre migrazioni, di ricordi e di storie familiari è il racconto che si dipana in alcuni dei contributi presenti nello spazio dedicato alla Tunisia. Si narra della presenza nel Paese nordafricano della comunità siciliana fin dall’Ottocento. Di grande efficacia letteraria è il testo di Marinette Pendola, nota scrittrice testimone dell’esperienza di sradicamento, essendo nata e vissuta a Tunisi da cui fu costretta a partire dopo l’indipendenza nel 1956. Sono pagine intense di un’autobiografia che è scrittura psicoterapeutica, documento di vite spezzate, di memorie sofferte e faticosamente rielaborate. «Approdo ultimo di un’esperienza umana, sociale e linguistica che copre circa due secoli». Non meno lunga e significativa è la vicenda familiare di Silvia Finzi, da sempre in Tunisia, direttore responsabile del Corriere di Tunisi e della Casa editrice impegnata nella pubblicazione di libri di cultura e letteratura italiana. Degli artisti italiani, pittori e scultori, che hanno vissuto e lavorato in Tunisia, la studiosa ripercorre con attenzione le scuole di formazione, le rispettive produzioni e le numerose attività espositive realizzate prima e dopo l’indipendenza. Non sembra possa esserci un domani per l’arte italiana in Tunisia, ma «la storia dell’emigrazione – scrive in conclusione Finzi – ci insegna che laddove i migranti siciliani hanno lasciato il loro sguardo sulla Tunisia, i migranti tunisini in Sicilia potranno, a loro volta, costruire un loro proprio immaginario creativo sulla Sicilia». Ancora una volta si guarda dunque alle migrazioni come ad una feconda e strutturale vicenda antropologica delle civiltà mediterranee.
S’intreccia con le storie di Pendola e di Finzi l’interessante contributo di Enrico Montalbano che mette in dialogo l’esodo dei siciliani del secolo scorso a Tunisi e a Sfax documentato nei suoi preziosi cortometraggi con le osservazioni sui flussi dei profughi di oggi destinati a sperimentare affanni e fortune della convivenza in Sicilia. Sono in lingua inglese e francese rispettivamente gli altri due interventi sulla Tunisia. Roberta Marin continua a illustrare la scena culturale con gli esponenti più rappresentativi dell’arte contemporanea rinnovata nel fervore della stagione postrivoluzionaria. Elena Nicolai ci fa incontrare Madame Nébiha Kalloum Tlili, prima donna presidente dal 2019 della “Chambre Régionale des Jardins d’Enfants et des Crèches” del sindacato, che ci introduce nel mondo della scuola tunisina chiamata alle difficili sfide educative del futuro.
In questo numero il dibattito sulle riviste vede la partecipazione di quattro importanti voci dell’antropologia italiana: fra di esse “Lares”, la più antica fra le rassegne di studi demoetnoantropologici fondata da Loria più di un secolo fa e oggi rivitalizzata in un progetto scientifico «la cui idea fondante – scrivono Fabiana Dimpflmeier e Dario Nardini – è quella che la svolta post-demologica non possa realizzarsi senza un assiduo confronto critico con i livelli più avanzati della ricerca e del dibattito in antropologia». Un po’ sulla stessa linea si muove “Il de Martino”, un semestrale che dopo quasi trent’anni di pubblicazioni inaugura un nuovo ciclo progettuale come sviluppo e innovazione dell’eredità del lavoro del passato. «C’è una tradizione da rinnovare – scrive il suo direttore Antonio Fanelli – e c’è tanto da fare per raccontare l’Italia, il mondo e le loro storie, rimettendo occhi e orecchie sui territori, disseppellendo talvolta radici lunghe e talaltra documentando tagli, strappi e nuovi inizi, che spesso non conosciamo anche perché ormai quasi nessuno sembra interessato a raccontare le realtà locali, le vaste periferie sociali, i soggetti non egemoni. Che cosa sia successo nelle nostre società negli ultimi quarant’anni è tema con cui la ricerca storica, antropologica e sociologica deve ancora largamente misurarsi». Obiettivi e programmi, in realtà, che ogni rivista oggi dovrebbe perseguire. Il ruolo centrale delle immagini in etnografia è l’oggetto di studio privilegiato del semestrale “Visual Ethnography”. Il suo vicedirettore Pietro Meloni ne riepiloga i dieci anni di vita durante i quali la testata si è guadagnata una apprezzata posizione di nicchia in grado di porsi come riferimento sull’uso scientifico dei linguaggi visivi e creativi. “Dada. Rivista di Antropologia post-globale” è infine il periodico online, che si caratterizza perché prevalentemente versato sulle «questioni classiche e moderne nel contesto sociale, politico e culturale della nostra epoca post-globale», annota il suo direttore Antonio Palmisano.
Aver raccolto le storie delle riviste, aver comparato lo stato di salute di ciascuna, le potenzialità e le criticità, le crisi e le scommesse editoriali, siamo convinti possa costituire un primo piccolo tentativo d’inventario delle risorse progettuali messe in campo, delle linee di tendenza che disegnano il futuro dell’antropologia italiana, le dinamiche rispetto alle associazioni, alle fondazioni e alle istituzioni culturali, il peso e il posto nel dibattito pubblico. Se la voce accademica dell’antropologia è sovente debole e irrilevante nello spazio intellettuale e politico del nostro Paese, forse le riviste possono esercitare questa funzione rovesciando la gerarchia centro-periferia e dando la parola alle nuove generazioni di studiosi più liberi dai vincoli dell’asfittico specialismo e più aperti e sensibili alle sollecitazioni critiche della contemporaneità. Spazi di sperimentazione e di accoglienza di linguaggi e saperi diversi, le riviste, soprattutto quelle che profittano delle opportunità offerte dalla rete, rappresentano formidabili connettori e agili vettori di circolazione dei risultati delle ricerche scientifiche, un patrimonio da potenziare anche attraverso nuove forme di coordinamento e di dialogo transdisciplinare.
«È possibile fare un’antropologia del quotidiano che prenda in conto non soltanto eventi straordinari ma anche quelli ordinari, persino banali o comuni e non esotizzanti, e li passi al setaccio dello sguardo dello studioso che include se stesso e la propria prospettiva soggettiva nell’oggetto di studio preso in conto e osservato sia dall’interno sia dall’esterno? Si può pensare alla vita in toto come a una ricerca etnografica e, allo stesso tempo, all’etnografia come a una sorta di traduzione del vivere quotidiano?» Gli interrogativi che Stefano Montes pone in questo numero sono, per esempio, tra quelli su cui una rivista di antropologia non può non riflettere e dibattere. Così come le questioni sulla rarefazione demografica e lo spopolamento dei piccoli paesi che da più di cinque anni ormai Pietro Clemente sollecita all’attenzione. Qui ricorda Alberto Magnaghi, architetto urbanista fondatore della Società dei Territorialisti, scomparso a settembre, che tra i primi parlò di “sfarinamento dei luoghi”, di “coscienza di luogo”, nel senso di un profondo cambiamento nella nostra relazione e percezione del territorio, così come del nostro stare nel mondo. «Per riconquistare spazi umanizzati, sottratti alla degenerazione della natura propria dell’antropocene, separati dalla tragedia ecologica e bellica», precisa Pietro Clemente.
Nelle pagine sulla Sardegna Luciano Marrocu tira le file delle letture promosse sulla sua Storia popolare dei sardi e della Sardegna, spiega la genesi del libro e ragiona sulle mitografie e sulle strutture dell’identità dell’Isola, temi su cui intervengono anche il geografo Raffaele Cattedra e lo scrittore Flavo Soriga. A scrutinare il sommario troppo esteso per poterne dare conto adeguatamente il lettore troverà tra gli autori, a guardar bene, filologi e linguisti, storici, geografi, filosofi, teologi e giuristi, poeti, romanzieri e artisti, critici e storici dell’arte, italianisti, anglisti e arabisti, giornalisti e traduttori, sociologi e naturalmente antropologi e infine fotografi. Sguardi diversi, approcci ed esperienze plurali, connessioni e consonanze involontarie o sottintese.
Tra i maestri della fotografia ci piace almeno segnalare due decani, rappresentativi di due aree marginali del nostro Paese: Eros Fiammetti della Val Camonica e Michele Santoro di Altomonte nel cuore della Calabria. Due etnografi del mondo popolare, fotografi di paese, autodidatti. «Una parte delle immagini è dedicata a quel mondo che mi appartiene, ma che, per ordine naturale delle cose, non c’è più. (…) I personaggi raccontano la storia di queste montagne, le loro facce solcate dal tempo parlano di sofferenze e fatiche, ma anche di gioia di vivere, pur nella consapevolezza del duro quotidiano». Così confida Fiammetti che privilegia come soggetti i bambini che condividono le privazioni del lavoro minorile. «Ho fotografato quello che mi passava davanti, che mi offriva la vita» racconta Santoro che del suo paese ha testimoniato i primi segni negli anni settanta del tramonto della civiltà contadina, fotografando «gli ultimi sopravvissuti di un mondo antichissimo in vista del progresso che avrebbe cambiato anche il profondo Sud». Un progresso che ha finito con lo svuotare e desertificare le comunità delle aree interne. Entrambi hanno lavorato con quel bianco e nero “assoluto” che – scrive Silvia Mazzucchelli – è «in definitiva un monocolore, un solo pigmento nero su una superficie bianca, che equivale alla scrittura, un riportare la fotografia al suo senso primordiale». Scrivere con la luce.
Dialoghi Mediterranei va in rete nel fragore dei bombardamenti su Gaza e nel silenzio di un’immane catastrofe umanitaria. Nel collasso del diritto e delle autorità sovranazionali, la guerra vince, cresce e si avvita su stessa, sembra essere diventata sempre di più lo strumento di risoluzione delle tensioni internazionali, minacciando di allargarsi e di divampare dalle periferie delle aree regionali al centro dei precari equilibri globali. No, questa non è una guerra tra il bene e il male, come dichiara Netanyahu. Non è uno scontro di civiltà. Se mai uno sprofondare nel cuore di tenebre delle civiltà. A guardar bene, è semplicemente la rappresaglia contro un pogrom, la pulizia etnica contro il terrore antisemita. La legittima difesa traviata e commutata in illegittima offesa. Oscena a questo punto la distinzione di bandiere tra i morti, «oscena – ha scritto David Grossman – ogni bilancia che pretende di pesare l’orrore».
Mentre chiudiamo questo editoriale l’ultimo bollettino ci informa che a Gaza un blackout totale rende impossibile evacuare i feriti, mancano i sacchi per seppellire i cadaveri, c’è stato un assalto ai magazzini dei viveri dei centri umanitari. Bombardato un campo profughi a nord. Una strage. Tank e soldati israeliani stanno accerchiando l’enclave palestinese. Più di ottomila morti nella Striscia, quasi la metà bambini. No di Netanyahu allo scambio ostaggi-detenuti. Si allontana qualsiasi ipotesi di tregua, invocata dalle Nazioni Unite e dal Papa. Nelle piazze di Beirut e Cairo si svolgono manifestazioni a sostegno di Hamas. In Italia piccoli gruppi di un corteo di pacifisti innalzano cartelli antisemiti. A Parigi sulle facciate di diverse abitazioni è comparsa la stella di David, come in Germania negli anni ‘30. E noi non possiamo che ripetere con Giuseppe Savagnone: «Di fronte all’antisemitismo, siamo tutti ebrei. Ma nessuno può criminalizzare il fatto che – di fronte a ciò che sta accadendo in questi giorni a Gaza – siamo anche tutti palestinesi». Non per ignavia o ipocrita neutralità, ma perché – dopo 75 anni di armi, sangue e lutti –non si può non stare dalla parte delle vittime, di tutte le vittime. Contro lo spirito bellico della propaganda e della retorica. Oltre la militarizzazione del dibattito pubblico. Perché forse solo dalla pietà per i morti i sopravvissuti potranno trarre la forza per vivere e le ragioni per imparare infine a convivere.
Dialoghi Mediterranei, n. 64, novembre 2023