di Sonia Giusti
In queste brevi note cercheremo di sintetizzare la polemica nata fra lo storico delle religioni, Raffaele Pettazzoni e Benedetto Croce che, nonostante le “infastidite” critiche del filosofo neoidealista, contribuì all’affermazione del metodo storico-comparativo proposto per la storia delle religioni, in Italia.
Raffaele Pettazzoni era spinto verso una concezione universalistica della storia delle religioni, convinto che le religioni, tutte, sia «primitive» che «storiche», non si comprendono se non nel quadro della storia religiosa, nella sua globalità, che non intendeva inserire in una chimerica storia universale delle religioni, ma voleva analizzare nelle concrete situazioni culturalmente determinate e storicamente differenziate. Egli intende la religione come «comportamento fondato sulla fede», specificando anche che gli oggetti della fede sono il suo problema.
Ma la sospettosa diffidenza dei due rappresentanti dello storicismo neoidealistico italiano, Benedetto Croce e Adolfo Omodeo, di fronte al fiorire degli studi religiosi, non si fece attendere e ciò si spiega se pensiamo che in Italia questi studi erano prevalentemente di stampo cattolico-modernista e che, sia pure in odore di eresia, erano condotti, a giudizio del Croce, secondo un approccio più apologetico che scientifico. In questo quadro, tuttavia, rimane da capire una ostilità così pervicacemente protratta nei confronti di uno studioso come il Pettazzoni che, cominciato il suo studio solitario nel settore etnologico, così fuori degli interessi neoidealistici italiani, aveva orientato la sua ricerca secondo istanze storicistiche.
Nella tensione a realizzare il progressivo distacco dell’etnologia dalle sue origini naturalistiche, infatti, egli avvertiva l’esigenza che essa si qualificasse come scienza storica avente ad oggetto l’uomo nella storia e non l’uomo nella natura; il nostro storico delle religioni procedeva nei suoi propositi metodologici e teoretici, sempre più sicuramente, secondo una concezione della storia che non ricalca la contrapposizione dello schema diltheyano (idiografico-nomotetico), ma che si ricompone nel suo complesso articolarsi fra fatti individuali e fatti plurimi con la costante attenzione a una dinamica culturale che si svolge fra innovazioni e permanenze.
Lo storicismo di Pettazzoni, «tutt’altro che crociano», come precisava Angelo Brelich in Perché storicismo e quale storicismo [1], si chiarisce nell’ambito della polemica con Croce e Omodeo alla luce della loro ostinata fermezza contro tutto ciò che potesse lontanamente presentarsi come naturalistica ricostruzione della storia; per contrasto, questo atteggiamento contribuì non poco a fare affilare gli strumenti di una metodologia interamente da costruire o da fondare che, tuttavia, si presenta già impostata fin dal 1913 nelle sue linee epistemologiche essenziali.
Le intenzioni di Croce fermamente volte a negare qualsiasi valore storico alla raccolta filologica pettazzoniana per riconoscerle soltanto un’utilità euristica – e Omodeo era dello stesso avviso – sembrarono a Paolo Toschi, soprattutto, una guerra di principio laico contro il sacro elevato ad oggetto di scienza [2] , e anche il frutto di una sostanziale incomprensione della portata scientifica e civile dell’operazione culturale di innesto di settori di ricerca, come l’etnologia, esclusi dall’ambito storiografico, oltre al rifiuto di una rivalutazione del sacro considerato non nella sua esperienza, ma come problema storico.
Nella nota alla lezione inaugurale che il Pettazzoni tenne ad apertura dell’insegnamento di Storia delle Religioni, nel 1924, Croce attaccò duramente la «cosiddetta» storia delle religioni, alla quale si cercava di dare un contenuto scientifico, e attaccò anche il concetto di universalità di questa scienza. Il suo procedimento di ricerca veniva definito compilatorio nella pretesa «assurda» impresa di contenere un così vasto campo di analisi e nel tentativo – ritenuto ancora più assurdo – di tener distinte filologia e filosofia [3].
Pettazzoni, dal canto suo, ribadiva che la coscienza storico-religiosa, specialmente in Italia, dove «la religione è autorità più che pensiero», si forma proprio sul concetto di universalità della religione che non è un accumulo di curiosità, ma «comparazione che è distinzione, distinzione che è pensiero, pensiero che è coscienza». Per Croce, viceversa, la storia delle religioni andava ricondotta nell’ambito della storia etico-politica e della filosofia, se non voleva ridursi ad una raccolta, sia pure diligente, di curiosità.
Nella recensione che De Martino fece a Pettazzoni, l’autore riprende il concetto della inscindibilità di filologia e storia, critica che gli era stata fatta, a sua volta da Croce, chiedendosi: è mai possibile una etnologia che dia informazioni al pensiero storiografico:
«una che prepara e porge le serie dei fatti etnologici bellamente classificati secondo il tempo lo spazio e la causa, e una che vi imprime al di fuori il segno del pensiero storiografico? E non è in questo potenziamento il carattere di una etnologia storicistica? Non si tratta di ‘abbassare’ il momento naturalistico ad eurisi nel processo di anamnesi; bensì di approfondire il filologismo in una vasta coscienza storica».
Più tardi, quando i suoi tempi furono maturi per avviare la «fase meridionalistica» della sua ricerca sul campo, sempre sulla questione del metodo egli scrive:
«Per pensare e scrivere una storia occorre il problema e il documento: due condizioni che si determinano e concrescono insieme formando l’unità del lavoro storico, effettivo. Senza il documento il problema resta gratuito e impreciso, senza il problema il documento resta inerte» [4].
Questo era il nodo del conflitto, apertosi nel ‘24 e riconfermato, a quattro anni di distanza da quando, presentando il quadro della situazione degli studi di storia delle religioni in Italia, Croce dichiarava di trovarli «in pieno fiore». Ma i meriti di questa fioritura, che faceva risalire ai primi del ‘900, erano da attribuirsi non soltanto al movimento modernista, ma soprattutto alla filosofia idealistica.
Questa filosofia, scrive Croce, «non poteva considerare con occhio nemico o straniero tanta parte dell’anima e della storia umana. Per questi vari stimoli, si moltiplicano libri di storia delle religioni, si fondano riviste si creano cattedre; e si formò anche sopra quella materia una speciale filologia». Un tale entusiasmo non deve trarci in inganno. In realtà queste affermazioni non volevano affatto contraddire quanto aveva scritto nel ‘24. Croce infatti indicava come esempi di indirizzo da seguire negli studi di storia delle religioni le ricerche di Salvatorelli e, soprattutto, i tre volumi della Storia delle origini cristiane di Adolfo Omodeo. In questi lavori si apprezzava la filologia che non veniva considerata, come negli scritti di Pettazzoni, «aggregazione estrinseca di particolari e incidenti», ma sintesi storiografica.
Ovviamente, in questo indirizzo di studi era esclusa la «cosiddetta» scienza delle religioni le cui analisi erano ritenute «di carattere o meramente filologico ed estrinseco, o deterministiche, naturalistiche e sociologiche» [5]. Omodeo si indirizzava contro lo stesso obbiettivo: una scienza delle religioni che doveva essere ricondotta nell’ambito della filosofia e della storia, non avendo di per sé oggetto specifico di indagine. A rigore di logica, se la religione non costituisce una originale categoria dello spirito, ma si risolve nella categoria del logos, essa è filosofia, quindi la religione, secondo Croce, non è costituita da concetti, ma da miti – che sono concetti in fieri – concetti che non hanno ancora raggiunto una «forma critica compiuta, e che permangono in posizione contraddittoria».
Nella sistemazione filosofica crociana, mentre l’arte costituisce una delle quattro categorie spirituali, il mito ne è escluso. La religione non è ancora filosofia, rimane fuori della catarsi teoretica, non ha posto nel sistema categoriale dello spirito; essa viene racchiusa nella «vitalità», da Croce definita come «una terribile forza che la poesia doma e trasfigura con la magia della bellezza, il pensiero discerne e conosce nella sua realtà e nella realtà delle sue illusioni, e la coscienza e volontà morale impronta di sé e santifica»[6].
La conclusione metodologica del Croce viene indicata nel rifiuto netto di una storia delle «posizioni contraddittorie»; per Croce «la storia non si fa delle posizioni contraddittorie, ma del principio positivo che è in quelle contraddizioni e vien fuori attraverso quell’involucro» [7]. Le opposizioni di Croce a questo genere di studi, come ricordava Alberto Pincherle nel ‘54, la sua «quasi ripugnanza e dispettosa avversione», in realtà furono stimolatrici di un pensiero più ricco e profondo [8]. In seguito, comunque, la durezza crociana si ammorbidì; ne fu prova l’incoraggiamento che egli dette alla «Società di Storia delle Religioni» di cui fu anche socio onorario.
Il superamento della impostazione filosofica pettazzoniana, che si radicava nell’ambito dell’evoluzionismo positivistico e che certamente fu sollecitato dalla polemica con gli idealisti italiani verso una concezione storicistica, si esprimeva in una originale visione della storia; abbandonando la filosofia della religione proposta dagli evoluzionisti e rifiutando la concezione panlogica della religione, intesa come philosophia inferior, Pettazzoni proponeva una concezione integralista della storia della religione la quale era intesa come categoria universale della cultura [9]. Per Croce
«le convenzionali ‘storie delle religioni’ riescono scarse di interesse, così inconcludenti, e quasi mere raccolte di curiosità, appunto per il falso concetto che le informa della religione come di qualcosa di specifico, che dia luogo a una sua particolare storia, laddove essa, nella sua idea, si identifica con la storia stessa del pensiero e della vita morale del genere umano. Quelle storie parlano … delle religioni dei Quaccheri, ma tacciono delle religioni dei cartesiani, dei giacobini o dei liberali; e il loro torto non è di parlare della prima, che è la storia di una setta, ma di tacere delle seconde, che abbracciano assai più larga e cospicua parte del genere umano, e di non collocare perciò nella necessaria prospettiva storica né la prima, né le altre»[10].
Queste parole sono scritte per confermare la fede nella ragione che ha avuto i suoi martiri, come Pietro Giannone che morì in carcere dopo 12 anni di reclusione negli Stati del Re di Sardegna, o come il Genovesi, da Croce definito, «personaggio evangelico» dell’evangelo della ragione. La fede nella ragione «nuova religione contemplativa e attiva» era quella di Giannone e del suo Triregno che il Croce vede come una macchina bellica contro il potere ecclesiastico.
L’opposizione di Croce al Pettazzoni non si spiega certamente in questi atteggiamenti di carattere storico, ché il Pettazzoni condivideva questa concezione della religione che era stata da lui dilatata in senso laico, nel senso che anche per lui, la religione è religione della libertà, tanto è vero che metteva in luce il valore religioso sia dell’opera di Mazzini, sia delle Lettere dei condannati a morte della Resistenza [11], intravedendo questa religione della libertà non solo nelle consapevoli forme coltivate dalle classi dirigenti, ma anche nelle pieghe ombrose della vita religiosa, nelle figure simboliche del pensiero fantastico, vichianamente inteso come sapere volgare, volontà cosmicizzante, anelito di libertà espresso nel linguaggio del mito. Pettazzoni non ammetteva una scala di valori in cui la religione occupasse un gradino inferiore rispetto alla filosofia o all’arte, ma ricercava le ragioni umane della religione «mistero ineffabile» sì, ma da rischiarare nella sua storicità. Il concetto laico di religione come costruzione di libertà è anche in Pettazzoni che scrive: «Ci sono nella religione degli oscuri fermenti che dalle profondità della coscienza prorompono a volte in atti di sublime eroismo».
Per Pettazzoni il compito della Storia delle religioni consisteva nell’applicare «il pensiero storico all’idea di salvazione», nell’allargare il concetto di religione anziché di restringerlo, per infrangere la esclusività degli studi «sottraendola al suo isolamento metafisico non per profanarla, ma per inserirla nel circolo del pensiero storico e della cultura moderna» [12].
D’altra parte la questione dell’autonomia della Storia delle religioni – come scienza – implicava grossi nodi da sciogliere, che non erano quelli sospettati dal Croce di istituire cattedre, ma quelli teoretici di una distinzione fra popoli civili e popoli senza storia, ancora zoologicamente intesi; e questa distinzione si rifletteva nella separazione di due ambiti di ricerca l’uno all’altro chiusi: quello dell’antropologia e quello della mitologia; unificando quei mondi poteva realizzarsi «quella universalità che sola vale a conferire ad uno studio carattere di scienza» [13].
Per Pettazzoni i due mondi – quello antico e quello etnologico – dovevano essere considerati in una unica problematica che è l’umanità religiosa, secondo un unico metodo che è quello storico-comparativo, rompendo i limiti di una indagine circoscritta a popoli appartenenti ad una medesima famiglia linguistica, quale era quella della mitologia comparata proposta da Max Müller e correggendo l’avventatezza di una comparazione antropologica basata sulle ipotesi congetturali di una storia dei «popoli senza storia» morfologicamente rappresentati in un unilineare svolgimento naturalistico. Il metodo, nato comparativo, in entrambi i filoni di ricerca, doveva essere integrato in senso storico, secondo il principio che «ogni phainomenon è un genomenon», dove genomenon è creazione [14].
L’interesse iniziale dell’Omodeo per il cristianesimo delle origini e lo scarto dei suoi successivi oggetti di studio (che sorprende il lettore), la Restaurazione francese e il Risorgimento italiano, si spiegano se ci lasciamo guidare da quel «valore storico» che egli andò ricercando nelle vicende umane – l’ethos, la volontà dell’uomo, di essere soggetto di storia - in quelle vicende che più gli sembravano pregnanti e che gli resero insopportabili le analisi della storia amministrativa ed ecclesiastica del cristianesimo che si organizzava in Chiesa. Nel suo saggio Trentacinque anni di lavoro storico, Omodeo scriveva: «appresi che il mito non è una forma mentale dei primitivi, ma è intrinseco al pensiero più scaltrito e divenni esperto a valutare l’efficacia dei miti teologici e dei sogni apocalittici». Ma vi è di più: Omodeo implicitamente riconosce il valore autonomo della religione quando scrive: essa «non vive solo di pensiero teologico, ma è connessa con tutte le forme di civiltà, da cui nasce e che da esse si svolgono … la storia religiosa mi si è trasformata spontaneamente in storia della civiltà e delle idee madri di essa» [15].
Dialoghi Mediterranei, n. 64, novembre 2023
Note
[1] A. Brelich, Perché storicismo e quale storicismo, in «Religioni e civiltà», I, 1972: 7-28.
[2] P. TOSCHI, Benedetto Croce studioso di letteratura popolare, in «Lares», XIX, 1953.
[3] B. CROCE, Recensione a Svolgimento e carattere della storia delle religioni, in «La critica», XXIII, fase. V, 1924: 312-313.
[4] E. DE MARTINO, Recensione a R. Pettazzoni, in «SMSR», XVII, 1941: 74-76.
[5] I tre volumi cui fa riferimento il Croce sono: Gesù e le origini del Cristianesimo, Messina, Principato,1913; Prolegomeni alla storia dell’età apostolica, Messina, Principato, 1920; Paolo di Tarso, apostolo delle genti, Messina, Principato, 1922.
[6] B. CROCE, Intorno alla categoria della vitalità, in Indagini su Hegel e schiarimenti filosofici, Bari, Laterza, 1967: 144.
[7] Ibidem.
[8] A. PINCHERLE, Benedetto Croce, in «Ricerche di storia religiosa», 1954: 238.
[9] M. NOVACZYK, Filozofia a historia religii we wloszech 1873-1973, Varsavia 1914; in questo volume cfr. La filosofia e la storia delle religioni in Italia, di cui sarebbe auspicabile una traduzione in Italia. L’A. mette in evidenza la concezione della religione come categoria universale della cultura e le riconosce un carattere cli cultura specifico in quanto fattore integrale e funzionale del pensiero storico, cfr. dell’opera cit.:260.
[10] B. CROCE, Storia del Regno di Napoli, Bari, Laterza, 1924, (nella ed. del ’58): 186.
[11] Lo scritto su Mazzini è del ’42 e fo pubblicato insieme con quello sulla Resistenza, nel volume Italia religiosa, Bari, Laterza, 1952.
[12] R. PETTAZZONI, Allocuzione finale, in Atti del Congresso Internazionale di Storia delle Religioni, Firenze, Sansoni, 1956: 34.
[13] R. PETTAZZONI, Introduzione alla storia della religione greca, cit. in «SMSR»: 20-33.
[14] R. PETTAZZONI, Religione e Cultura, in «Il Mondo», n. 28, 12 luglio 1955: 8; anche in Religione e Società, Ponte nuovo ed. Bologna, 1966.
[15] A. OMODEO, Introduzione a Il senso della storia, Einaudi, Torino, 1970.
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Sonia Giusti, già docente di Antropologia culturale e antropologia storica presso l’Università degli Studi di Cassino e Presidente del Corso di laurea in Servizio sociale. Ha lavorato sui temi trattati da Ernesto De Martino e Raffaele Pettazzoni e sullo storicismo inglese di Robin George Collingwood, oltre alle ricerche sui Diritti Umani e sulla storicità della conoscenza. Ha svolto seminari presso le Università di Roma, Urbino, Palermo e Oxford, presso la Bodleian Lybrary. È autrice di diversi studi. Tra le più recenti pubblicazioni si segnalano i seguenti titoli: Forme e significati della storia (2000); Antropologia storica (2001); Percorsi di antropologia storica (2005).
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