di Luca Di Sciullo [*]
Forse mai come oggi abbiamo l’impressione che il quadro dei dati illustrati, necessariamente aggiornato all’inizio del 2023, sia già di gran lunga superato, tanto è stato il dinamismo che l’attuale esecutivo, ad appena un anno dal suo insediamento, ha profuso in materia di immigrazione.
In 12 mesi abbiamo visto: la dichiarazione dello stato di emergenza migratoria, la nomina di un commissario all’emergenza, il varo di 6 Decreti legge, la conferma del memorandum d’intesa con la Libia e la firma di un nuovo memorandum con la Tunisia, la realizzazione di una Conferenza internazionale su sviluppo e migrazioni, l’istituzione di un “Comitato interministeriale per la sicurezza della Repubblica” (questa è l’eloquente denominazione scelta per designare la cabina di regia governativa sulle migrazioni), l’emanazione di un decreto flussi e diverse altre disposizioni intermedie, inframmezzate da dichiarazioni alquanto indicative dell’humus mentale e del retropensiero che ha ispirato un così spiccato attivismo.
Eppure abbiamo la sensazione che la maggior parte di tutta questa energia cinetica spesa abbia prodotto un avanzamento solo apparente, che assomiglia a quei famosi passi di breakdance in cui il ballerino sembra camminare in avanti ma in realtà va all’indietro.
Da qualsiasi prospettiva – sia essa giuridica, culturale, civile o etica – noi guardiamo tutto questo complesso di parole e opere (ché le omissioni hanno caratterizzato piuttosto l’altra parte politica, quando è stata al governo negli ultimi 25 anni) non si fatica a vedere o un triste deja vù o una ulteriore, preoccupante regressione.
A distanza di appena 3 mesi l’uno dall’altro, tra gennaio e marzo 2023, due Decreti che hanno sostanzialmente ripristinato, a specchio, rispettivamente il primo e il secondo “Decreto Salvini”, usciti nel 2018 e nel 2019, per poi venire in gran parte abrogati nel 2020 dal “Decreto Lamorgese”. Quindi, quasi un cambio normativo all’anno, giocato sul metti, togli, rimetti, in una specie di schizofrenia legislativa che mostra quanto sia ormai strumentalmente ideologizzata l’intera materia delle migrazioni.
È stato del resto un ripristino telecomandato che, con qualche aggravante originale, ha cercato piuttosto goffamente sul piano giuridico (ma anche con molto cinismo sul piano umanitario) di aggirare quei rilievi di incostituzionalità e di infrazione del diritto internazionale che erano stati sollevati nelle versioni originali di 4-5 anni prima.
E così, dopo il maldestro tentativo (giustamente fallito) di spostare la competenza delle domande di protezione internazionale dei migranti sullo Stato di bandiera della nave che ne aveva effettuato il salvataggio (un modo surrettizio, questo, di aggirare il Regolamento di Dublino senza avere il coraggio di affrontarlo nelle sedi istituzionali dell’Unione), abbiamo visto reintrodurre multe, sequestri e fermi alle navi delle organizzazioni umanitarie che, nel salvare vite in mare, non avessero obbedito ai cosiddetti “codici di condotta” stilati dal governo.
Navi prima a turno diffamate come “taxi del mare”, o tacciate di favorire l’“immigrazione irregolare” (una espressione sempre più paradossale, visto che – a forza di tagliare, restringere, chiudere e bloccare, da una parte i confini e dall’altra le previsioni del Testo Unico – di canali regolari realisticamente percorribili è da 25 anni che ce ne sono sempre meno, non solo per fare ingresso ma anche per restare in Italia); come pure le ong che sostengono queste navi sono state accusate di essere “colluse con i trafficanti”, pur senza mai una sola prova giudiziale a sostegno.
E quest’accusa, l’essere collusi con i trafficanti, è quanto meno bizzarra, quando viene mossa da una classe politica che – come hanno dimostrato varie inchieste giornalistiche – in Libia ha stretto accordi non solo con i due governi in lotta, ma anche con diversi capi clan che il traffico dei migranti lo gestiscono per davvero (e qualcuno di questi, pare, lo hanno anche invitato ufficialmente in Italia).
Ma poi, ancora in maniera dissociata e con una acrobatica distorsione interpretativa del diritto del mare, quelle medesime navi che tutti gli ultimi governi hanno demonizzato e che questo Decreto è tornato, con ogni mezzo, a ostacolare, lo stesso testo di legge ha riconosciuto essere già esse stesse un place of safety (un luogo sicuro), equiparandole a dei porti: un’astuzia funzionale al fatto che, dopo aver imposto alle Ong di dirigersi – cito testualmente – “senza ritardi” verso il porto assegnato, poi il diritto di causare ritardi se lo potessero arrogare i decisori politici, prescrivendo loro porti lontani e allungando così la durata del percorso, senza alcuno scrupolo per la sofferenza fisica e psicologica dei migranti salvati.
A dimostrazione che il vero, malcelato intento di quella ingiunzione, come ha rilevato anche il Consiglio d’Europa, era solo di vietare indirettamente salvataggi multipli e di “desertificare” il Mediterraneo, sgombrando il prima possibile, da osservatori indipendenti, quello scenario di morti a catena, le cui responsabilità politiche toccano direttamente l’Italia e l’Unione europea.
Con la beffa finale di averli, in qualche caso, riportati addirittura indietro, in pullman, i migranti fatti scendere in questi porti lontani, esattamente là dove avrebbero dovuto originariamente sbarcare, con ore e chilometri inutili percorsi via mare e via terra (come se non ne avessero già fatti abbastanza prima!). Il tutto per aggravare i costi di rifornimento del carburante consumato inutilmente dalle navi delle Ong e, in mancanza di fondi sufficienti, tenerle – in questo modo subdolo – forzatamente inoperanti.
Poco importa che a causa di questo ottuso e inutile prolungamento del viaggio, e degli stenti e del travaglio che vi sono associati, qualche madre incinta abbia perso in grembo il proprio figlio. Sono “effetti collaterali”, dicono i burocrati, ma evidentemente del tutto sopportabili per il legislatore, che al riguardo non ha proferito neppure una parola, in una indifferenza glaciale.
La stessa indifferenza riservata, poche settimane dopo, alle bare di Cutro, dinanzi alle quali la solitudine in cui è stato lasciato il Presidente Mattarella dà la rappresentazione plastica della insensibilità istituzionale di chi, dopo i proclami e il palcoscenico, a un doveroso omaggio alle salme di un disastro nazionale ha preferito non fare tardi alla festa di compleanno privata di un ministro.
Del resto, il Decreto firmato a Cutro è stato perfettamente in linea con questo atteggiamento: al di là della magniloquente sicumera sulla caccia che l’Italia avrebbe scatenato – come nuova polizia universale – su tutto “l’orbe terracqueo” contro gli scafisti (scaricando quindi la rabbia sull’ultimo anello della filiera, che spesso è solo la penultima vittima, invece che sui trafficanti che la gestiscono per intero e che in Libia, come detto, preferiamo pagare sottobanco), questo Decreto ha nuovamente scarnificato il diritto alla protezione:
- in primo luogo, tornando a restringere i criteri di accesso alla protezione speciale e rendendo, così, il relativo permesso molto più difficile da ottenere, da rinnovare e da convertire, in sfregio dell’art. 10 della Costituzione; il che sta destinando ancora una volta migliaia di titolari o potenziali beneficiari al diniego, e quindi, di fatto, all’ingrossamento della sacca dell’irregolarità nel Paese;
- in secondo luogo, estendendo la procedura accelerata di domanda d’asilo alla frontiera a quanti provengano da Paesi ritenuti “sicuri” (e quindi, prima ancora di istruirne l’esame, già pregiudizialmente considerati diniegabili ed espellibili); non prima, però, di aver fatto loro trascorrere, in caso di mancanza di documenti, fino a 4 settimane di detenzione: un particolare, questo, sul quale pochi mesi dopo hanno ben pensato di lucrare, prevedendo una cauzione di circa 5.000 euro per evitare la reclusione (previsione peraltro impraticabile, visto che dovrebbe essere attuata tramite una fideiussione bancaria, che nessun istituto di credito rilascia se non hai i documenti).
Quindi, in sintesi: non solo so a priori che ti espellerò quasi sicuramente, e quindi tagliamo corto con le procedure e risparmiamo sulle pratiche, con buona pace delle garanzie e dei tuoi diritti; ma nel frattempo ti tengo internato, o, in alternativa, speculo sul tuo stato di bisogno.
Non è bastato quindi aver escluso dal Reddito di cittadinanza, attraverso requisiti aggiuntivi illegittimi, il 90% dei 2 milioni di stranieri in condizione di povertà in Italia e, con lo stesso metodo, averne ulteriormente ridotto al lumicino la platea di beneficiari per il nuovo Assegno di inclusione, previsto dal 2024; ma ora il governo ha deciso di impoverire ulteriormente anche quelli che neppure farà entrare nel Paese;
- in terzo luogo, infine, il “Decreto Cutro” ha ancora una volta spezzato in due il sistema di accoglienza, tornando a segregare i richiedenti asilo nei Cas, dove li ha nuovamente privati di servizi complementari fondamentali per la loro integrazione (come l’insegnamento della lingua italiana e il supporto psicologico e legale), per cui essi vi stazionano inerti per mesi, alla mercè di reclutatori e sfruttatori senza scrupoli, mentre dall’altra parte ha ridotto i fondi di mantenimento del SAI (Sistema di Accoglienza Nazionale) e di fatto smantellato l’accoglienza diffusa, che pure era stata un’apprezzata ed efficace buona pratica nazionale.
A tutte queste norme, ne sono poi succedute altre: a parte la dichiarata intenzione di moltiplicare i Centri di permanenza per il rimpatrio, affinché ogni regione ne abbia uno, e di rafforzare gli hotspot (piano che mira a imporre un modello “detentivo”, di isolamento e di emarginazione dei richiedenti asilo, in sostituzione di un paradigma inclusivo), abbiamo registrato: l’abolizione dello ius soli sportivo per bambini sotto i 14 anni; l’espulsione accelerata per giovani che, pur non accompagnati, dichiarano di essere minorenni e di cui si accerti invece la maggiore età mediante un sistema di rilevazione (da molti ritenuto discutibile) come l’esame antropometrico delle ossa; la possibilità di assegnare i minori con età superiore ai 16 anni a centri di accoglienza per adulti (quindi in condizione di promiscuità!) fino a un massimo di 3 mesi; la cancellazione d’ufficio della domanda d’asilo se si salta l’appuntamento in Polizia per la formalizzazione e l’impossibilità di presentarne una nuova se si è avviata la procedura di espulsione, e così via.
Perfino il tanto decantato allargamento delle quote dei lavoratori stranieri dall’estero, finalmente realizzato, dopo 12 anni di pressoché totale chiusura del principale canale di ingresso dei migranti economici, su disperata richiesta dei datori di lavoro (i quali, soprattutto dopo la crisi pandemica, devono affrontare carenze strutturali di manodopera aggiuntiva in comparti vitali dell’economia nazionale) – ecco, perfino questo allargamento, dicevo, rischia di piegarsi, in misura proporzionalmente più ingigantita, alle stesse dinamiche di precarizzazione dello status giuridico dei lavoratori (e di conseguente ricattabilità ed esposizione allo sfruttamento, anche grave), che da 21 anni osserviamo riguardare in modo sistematico gli occupati stranieri, a causa dei meccanismi subordinanti e anacronistici della legge “Bossi-Fini”, se quest’ultima non viene contestualmente riformata. E a questo proposito stupisce l’ostinazione con cui non si intende mettere mano a questa norma, quasi per religioso ossequio ai rispettivi padri fondatori degli attuali partiti di maggioranza, che le danno il nome, quando persino lo stesso Fini, la scorsa estate, ha riconosciuto pubblicamente che sarebbe il caso di modificarla.
Per non parlare, poi, del trionfalismo con cui il governo ha celebrato la firma del nuovo memorandum d’intesa con la Tunisia, ben sapendo di consegnare nelle mani dell’ennesimo autocrate violento, insieme a un’immancabile fiume di denaro, le leve con cui ricattare l’Italia e l’Unione europea; leve peraltro immediatamente attivate da Saied, che solo fino a pochi giorni prima della firma aveva espulso con la forza, fuori dei confini tunisini, decine di migranti subsahariani, tra cui donne e bambini, abbandonandoli a morire di fame e di sete nel deserto libico (al punto che la stessa polizia libica se ne è mossa qualche volta a pietà, il che è tutto dire); e mutuando anche lui, dal lessico del sovranismo europeo, l’immarcescibile parola d’ordine della “sostituzione etnica”, per essere finalmente “alla pari”, come la nostra Presidente del Consiglio si è affrettata a sottolineare, aprendo i lavori della Conferenza sulle migrazioni.
Come abbiamo visto finora, e come la storia insegna, c’è una violenza più subdola e infida di quella urlata nelle piazze e sdoganata nella politica, appena 5 anni fa, ed è quella normalizzata, strutturale, resa addirittura istituzionale e giuridica, dell’apparato burocratico salito al potere. Le pagine più buie del Novecento ci hanno mostrato che il potere esercitato da burocrati indottrinati è spesso molto più temibile e pericoloso di quello dei loro indottrinatori, perché la violenza, nel momento in cui passa dai singoli alla struttura, si discioglie nell’anonimato e si spersonalizza.
Come anche c’è un odio più sottile e sordido di quello che, ancora fino a un lustro fa, esplodeva nei comizi e rimbombava nei talk show, ed è quello evoluto in una gelida apatia e indifferenza verso la sofferenza e perfino verso la morte altrui.
Che cosa ci è successo? E che cosa vediamo noi, oggi, quando guardiamo o pensiamo a un immigrato? Perché non ci indigniamo più quando sentiamo espressioni come “sbarchi selettivi” o “carichi residuali”, che dicono in maniera eloquente la definitiva spersonalizzazione dei migranti, la cancellazione dei loro volti, e che ormai parliamo di loro ragionando solo con misure di peso e di stazza, in termini di tonnellate di carne umana? O quando sentiamo argomentare con incredibile serietà vaneggiamenti come quello di costruire, in mezzo al Mediterraneo, un’isola artificiale in cui segregare tutti i migranti diretti in Europa?
Dobbiamo riconoscere che oggi, al compimento di 50 anni di storia dell’immigrazione in Italia, siamo nella fase terminale di un lungo processo di doppia trasformazione antropologica: quella degli immigrati, degradati da esseri umani a non-persone, e quindi a oggetti; e, in parallelo (ma come rovescio dello stesso processo), quella che riguarda noi, che più cosifichiamo i migranti e più regrediamo, a nostra volta, da esseri umani a branco.
In che cosa mai si risolvono, infatti, i martellanti appelli al nazionalismo da parte dei vari sovranismi d’Europa, compreso il nostro, quando prescindono – come succede oggi – dai patrimoni di cultura e di civiltà giuridica, letteraria, artistica, filosofica che hanno contribuito in secoli a umanizzare i rispettivi popoli, se non in richiami all’unità del branco? E alla violenza che cementa, come tale, ogni branco?
È esattamente in virtù di questa violenza che si è potuta definitivamente compiere, oggi, la cosificazione degli immigrati, per cui fungono da schermo piatto sul quale possiamo finalmente proiettare i nostri istinti di sopraffazione e i nostri deliri di supremazia.
E nell’escalation di sentimenti che lungo l’ultimo quarto di secolo – grazie a una demonizzazione quanto più estrema tanto più infondata – ha accompagnato la nostra e la loro metamorfosi, mentre nei primi gradi (ovvero quando si è man mano passati dall’iniziale sospetto, alla diffidenza, e poi alla repulsione, all’inimicizia e ultimamente all’odio) ci si muoveva, tutto sommato, ancora nell’ambito di un razzismo “grezzo”, per quanto odioso, che nell’altro vedeva, sì, una “razza” inferiore, ma ancor sempre umana, il passaggio successivo, quello dall’odio “al calor bianco” alla più gelida e insensibile indifferenza, rappresenta una esasperazione del razzismo stesso, il passaggio a un razzismo 2.0 in cui le de-umanizzazione del migrante è approdata, appunto, alla sua definitiva trasformazione in “cosa”.
Ed è inutile ricordare che questa “cosificazione” dell’umano ha il suo precedente più prossimo nei campi di deportazione del Novecento, ai quali non è un caso, forse, che con ogni sforzo ci impegniamo a far assomigliare i campi profughi che noi stessi finanziamo lungo le rotte extra-europee, in quanti più Paesi anti-democratici che confinano con l’Unione.
Non è esagerato dire, coerentemente a questa logica, che li vogliamo: o morti, nelle terre di nessuno fuori dell’Unione europea; o segregati e sottomessi, fino a forme di vera e propria neo-schiavitù, dentro l’Italia e dentro l’Europa; oppure – e qui sta il portato più recente di questo razzismo 2.0, l’ultimo passo della loro cosificazione compiuto dall’attuale classe politica – li usiamo come merce di scambio, cioè come moneta comune, sia tra i Paesi dell’Unione europea sia tra l’Unione stessa e i Paesi terzi di transito e di origine.
Diceva Kant, in una massima folgorante, che «ciò che ha valore non ha prezzo e ciò che ha un prezzo non ha valore». Oggi i migranti hanno perso ogni valore perché finalmente hanno un prezzo sui tavoli degli accordi e dei memorandum, sui tavoli delle istituzioni comunitarie e su quelli delle Conferenze internazionali; e sono la merce di scambio con petrolio e gas perfino in quell’altrimenti fumoso “piano Mattei” che il governo dice di voler perseguire con l’Africa.
Dobbiamo riconoscere che la comune moneta euro-mediterranea per fare affari e per stringere intese non è l’euro ma sono i migranti stessi. Tutto si paga in migranti: un po’ a me, un po’ a te, se non li vuoi pagameli scambiandoli nell’equivalente in euro… Nello spazio economico europeo un migrante costa, lo abbiamo sentito con una recente revisione del nuovo Patto europeo su migrazione e asilo, 22.000 euro: questo è il tasso di cambio valutario nell’Unione europea; ma già in Libia e Tunisia costano molto meno; in mare o lungo le rotte terrestri, poi, non costano nulla.
Dopo mezzo secolo di storia dell’immigrazione in Italia, ci si sarebbe aspettati che ormai fossimo qui a parlare di politiche di integrazione. Ma il tema è stato del tutto rimosso, dall’orizzonte di pensiero prima ancora che dal dibattito pubblico e dall’agenda politica, al punto che l’integrazione è diventata un che di normativamente assente, concettualmente frainteso e operativamente disatteso. Normativamente assente perché l’Italia, sebbene sia ormai un Paese di lunga tradizione migratoria, non si è mai ancora dotata – e pare sia ancora lungi dal farlo – di una pur minima legge sull’integrazione che funga da quadro di riferimento unitario per le Regioni, a cui è stata demandata la materia; concettualmente frainteso, perché quella che chiamiamo oggi “integrazione”, caricandone per intero la responsabilità sui soli immigrati dopo aver fornito loro un rapido kit di orientamento e di informazioni spendibili, nei brevi percorsi di accoglienza, è un’idea di integrazione ridotta allo stato larvale; e operativamente disatteso, perché le concrete attività di integrazione sui territori sono lasciate alla buona fantasia del Terzo settore e di altre strutture pubbliche e private, nell’ambito di progetti spot, temporanei per definizione, ma poi resta ancora bloccato il passaggio dalle buone prassi così maturate alle policy, cioè alle politiche ordinarie.
Il risultato è che, dopo mezzo secolo, siamo ancora impantanati a disquisire sugli inefficienti meccanismi di ingresso e regole di permanenza regolare dei migranti, che un Paese civile avrebbe dovuto aver già risolto da tempo, se non avesse ideologizzato l’intera materia, facendone un permanente terreno di caccia elettorale.
La vera emergenza non è l’immigrazione in sé, ma la carenza di un impianto normativo serio che la regoli in maniera ragionevole e giusta. Il vero allarme sociale non sono gli stranieri, ma una classe politica astratta dalla realtà e non all’altezza delle sfide epocali connesse alle migrazioni, da almeno un quarto di secolo. Ciò che mette davvero a repentaglio la sicurezza nazionale non sono i profughi che arrivano ai confini, ma è il trattamento disumano che, per legge, riserviamo loro in modo sistematico in tutti gli ambiti più fondamentali della vita, disconoscendone i diritti basilari e rendendo proibitiva la realizzazione dignitosa della loro persona.
E questa classe dirigente, così maestra nel redigere “codici etici” e “codici di condotta” per gli altri (usati però come strumenti di censura) e così brava a impartire lezioni di morale a quanti disperatamente sono costretti a cercare riparo e protezione fuori del proprio Paese (tacciandoli di irresponsabilità e liquidandoli con un lapidario “non devono partire”); questa classe dirigente, dicevo, evidentemente nel proprio, di codice etico, non contempla la più elementare lezione che ogni buon genitore impartisce ai propri figli, per farli diventare persone leali e cittadini onesti: chiedere scusa.
Dialoghi Mediterranei, n. 64, novembre 2023
[*] Intervento al Convegno di presentazione nazionale del Dossier Statistico Immigrazione 2023, Roma 26 ottobre 2023
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Luca Di Sciullo, dottorato in filosofia, è attuale presidente del Centro Studi e Ricerche IDOS, dove si è specializzato nell’analisi dei processi di integrazione degli immigrati a livello territoriale. Ha curato, per conto del CNEL, una serie di nove Rapporti sugli Indici di integrazione degli immigrati in Italia, di cui ha ideato, messo a punto e consolidato la metodologia di misurazione. Dal 2009 è docente di filosofia presso l’Istituto Filosofico Teologico “San Pietro” di Viterbo, aggregato al Pontificio Ateneo “S. Anselmo” di Roma.
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