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Antropologia come pratica dell’indisciplina

Indiscipline (ph. Stefano Montes)

Indiscipline (ph. Stefano Montes)

di Stefano Montes 

È possibile fare un’antropologia del quotidiano che prenda in conto non soltanto eventi straordinari ma anche quelli ordinari, persino banali o comuni e non esotizzanti, e li passi al setaccio dello sguardo dello studioso che include se stesso e la propria prospettiva soggettiva nell’oggetto di studio preso in conto e osservato sia dall’interno sia dall’esterno? Si può pensare alla vita in toto come a una ricerca etnografica e, allo stesso tempo, all’etnografia come a una sorta di traduzione del vivere quotidiano? Direi di sì! Direi che l’antropologia dovrebbe incamminarsi sempre più in questa direzione in cui ricerca etnografica e vita risultano essere strettamente legate, reciprocamente presupposte e mostrate: di fatto «cos’è l’antropologia se non una specie di traduzione che è tanto più onesta, veritiera e interessante quanto più mostra l’atto del mostrare, cioè come viene prodotta?» (Taussig 2005: 319). In linea con questa impostazione, prendo qui in considerazione alcuni frammenti di vita – la mia e altrui vita sono inevitabilmente intrecciate – dispiegatisi nel mese di agosto e settembre del 2023 al fine di passarli al setaccio di uno sguardo antropologico in parte giustificatore di questa ipotesi, in parte vera e propria riflessione epistemologica sul senso del vivere e dell’antropologia stessa. Si tratta di alcuni frammenti di vita accompagnati dalle fotografie – di cui sono l’autore – che ho scattato proprio in quelle occasioni personalmente vissute o che ho deciso di associare, in seguito, per ragioni d’ordine semantico, pragmatico e culturale.

Ma cosa vuole dire, esattamente, essere ‘autore’? Lo vedremo in seguito! Vorrei intanto dire che questo scritto – che il lettore ha sotto gli occhi – è forse comparabile a un diario etnografico. E ci sarebbero buone ragioni per affermarlo se non altro perché ho preso l’abitudine, ormai da anni, di appuntarmi quasi giornalmente – a casa, in viaggio o altrove – lo scorrere della mia vita per iscritto, attraverso immagini e persino grazie a una piattaforma interattiva quale è facebook. Ammetto senza esitare che ho una tendenza a ‘registrare’ gli eventi del mio quotidiano in forma diaristica, appuntandomeli, sottolineandoli, riflettendoci anche da antropologo del quotidiano a cui stanno strette regole e discipline e vorrebbe sempre saperne di più su se stesso e gli altri in società. Tuttavia, se non considero questo mio foto-testo un vero e proprio diario, è soprattutto perché penso che il diario sia un genere testuale tra gli altri, per molti aspetti incompleto, sovente privo di immagini, rappresentativo di alcuni eventi ma non di altri, per di più non esplicitamente dedicato dagli autori a una interrogazione esplicita e pubblica sul senso del vivere e dell’antropologia. Solitamente, per di più, un diario si presenta nella forma del testo scritto e non fa affidamento a foto e immagini varie; invece, io mi avvalgo di foto e immagini in maniera pervasiva, quasi ossessiva, perché penso di essere – lo siamo tutti – un individuo proiettato in un mondo che osservo e ci osserva costantemente sotto forma di figure e attori molteplici: noi tutti inquadriamo il mondo continuamente – anche durante una banale e non impegnativa passeggiata – e siamo inquadrati dal mondo nel modo stesso in cui esso si ritaglia e ci consente alcune azioni e non altre; osserviamo gli altri – esseri in carne e ossa, ma anche gli stessi oggetti – e ne siamo, a sua volta, osservati pur senza rendercene conto del tutto consapevolmente o farcene carico direttamente in termini cognitivi ed emotivi.

Mi piace particolarmente il modo in cui formula la questione Sartre perché considera lo sguardo – persino lo sguardo – un attore in movimento in un mondo in cui soggetti e oggetti sono inscindibili, oltre che legati alla situazione: «Cogliermi come visto vuol dire cogliermi come visto nel mondo e a partire dal mondo. Lo sguardo non mi taglia fuori dall’universo, ma viene a cercami in seno alla mia situazione e coglie di me proprio dei rapporti inscindibili dagli altri utensili: se sono visto come seduto, devo essere visto come ‘seduto su una sedia’; se sono colto come curvo, devo esserlo come ‘curvo sul buco della serratura’ ecc.» (Sartre 2014: 310). È utile constatare che il rapporto instabile tra identità e alterità, soggetti e oggetti, sguardi e situazioni si dipana e si mette in scena già, all’interno di una stessa cultura, attraverso l’osservazione, nell’articolazione tra il dentro e il fuori, l’ambiente e l’essere umano al cui interno l’individuo è inserito. Come scrive Devereux, «in ogni istante, ogni persona è ‘soggetto’ per se stessa e costituisce l’ambiente per gli altri: tutto ciò che è ‘dentro’ per il soggetto è ‘fuori’ per l’Altro. Infine, per diventare essere sociale, il soggetto deve imparare a osservarsi, sotto certi aspetti, e soprattutto nelle relazioni intersoggettive in quanto ‘fuori’, in quanto ambiente per gli altri» (Devereux 1975: 64). L’essere in situazione di cui parla Sartre deve inevitabilmente, nella prospettiva di Devereux, applicarsi a un lavoro instancabile di riconversione di categorie che lo costituiscono, agli occhi dell’altro, in quanto soggetto o ambiente o tutt’e due. Preferisco, dunque, per tutte queste ragioni, non rinunciare alle immagini e allo sguardo che le attiva e rende sociali. Preferisco mantenere, se possibile, tutta la complessità dei rapporti, a cui ho appena accennato, facendo appello a ‘forme semiotiche’ più ibride e miscelate. Preferisco parlare, come precedentemente annunciato, di ricerca etnografica a tutti gli effetti in cui porzioni di vita vengono trasposte allo scritto ed espresse in una successione di immagini pertinenti.

Lo sguardo (ph. Stefano Montes)

Lo sguardo (ph. Stefano Montes)

Sono consapevole del fatto che – quale che sia il genere di ‘scrittura’ privilegiato (autobiografia, diario, monografia, dialoghi scritti, documentario, etc.) – la traduzione dell’esperienza in codificazioni atte a coglierla in testo è sempre incompleta e parziale. Qualsiasi testo, per quanto capillarmente e fittamente concepito in termini di resa degli eventi, è insufficiente a raccogliere le informazioni relative a una vita in extenso. Esiste infatti una discontinuità ineludibile tra l’esperienza vissuta e il testo che l’accoglie se non altro per il semplice fatto che, mentre noi scriviamo o prendiamo appunti, la vita continua a scorrere inarrestabile. La vita non attende la scrittura e la scrittura non può stare al passo della vita! È, questo, motivo di dolenza e impotenza? O è, al contrario, felice occasione per un migliore affondo nelle pieghe del tempo, nell’osservazione pluristratificata e nei meccanismi complessi relativi ai linguaggi sociali intesi nel loro senso interculturale? Come afferma Lévi-Strauss: «trascrivendo un’osservazione, quale che sia, non si conservano i fatti nella loro autenticità originaria: li si traduce in un altro linguaggio e si perde qualcosa per strada. Ma che dobbiamo concluderne? Che non si può tradurre né osservare?» (Lévi-Strauss 1988: 214). L’impotenza, dunque, può trasformarsi – di volta in volta, da una ricerca all’altra, spostandosi da un concetto all’altro – in ricerca etnografica sui modi di intendere l’osservazione, l’esperienza, la traduzione, la scrittura e la stessa imperfezione intrinseca nell’organizzazione della cultura e nelle sue forme di espressione implicitamente fabbricate. Per questa stessa ragione, l’antropologia non dovrebbe mai essere disgiunta da una costante riflessione epistemologica sui propri fondamenti e sui posizionamenti del soggetto che, di volta in volta, interpreta il – suo e altrui – ruolo d’antropologo.

Per quanto riguarda il diario, bisogna ricordare che ha avuto un posto sofferto in antropologia. Si pensi a Malinowski e al suo diario pubblicato postumo, ma scritto dall’autore senza pensare, in vita, al grande pubblico (Malinowski 1992)! Ciò che io scrivo – qui e altrove, per iscritto e nelle piattaforme sociali – non è invece pensato per essere tenuto lontano da occhi indiscreti; anzi, l’insieme della mia produzione d’antropologo è concepita, nel tempo, su base dialogica, riflessiva e intersoggettiva. Scrivo per me stesso e per interagire con altri studiosi e individui. Scrivo pensando a un dialogo con me stesso e con altri. Scrivo sulla mia vita, in forma saggistica e contrappuntistica, anche per ricevere una reazione – una sorta di contro-dono – da parte di studiosi o di chiunque altro sia interessato alle dinamiche sociali e culturali del nostro tempo. Penso questa mia ricerca pluriennale, per molti aspetti, come se fosse un’incursione reiterata nel campo dell’antropologia dialogica. Ma non soltanto! Precisiamolo.

L’antropologia dialogica è una corrente di tutto rispetto che si è affermata a partire dagli anni Ottanta. L’antropologia dialogica ha, quindi, un riferimento storico preciso. E il dialogo, nel suo complesso, rappresenta uno sfondo di riferimento teorico importante per gli antropologi che si riconoscono in questa corrente di studi. I campi di analisi di questi antropologi sono disparati, ma hanno, tutti, in comune, il dialogo come punto di partenza e di arrivo: l’interazione con gli informatori privilegiati (Rabinow 1977), le arti performative presso gli zuni (Tedlock 1983), le interlocuzioni con un nativo (Dwyer 1982) o la storia di vita di un regista marocchino (Dwyer 2004), i rimandi tra testo letterario ed etnografico (Clifford 1993), la malattia in Africa (Pool 1994), l’economia colombiana (Gudeman, Rivera 1990), i nessi tra cultura e dialogo (Tedlock, Mannheim 1995). Cito qui, quasi a memoria, alcuni testi per me rappresentativi, tra tanti altri che meriterebbero comunque elogi e riconoscimenti nel campo del dialogismo in antropologia. Ciò che conta sottolineare adesso, in questo contesto più sintetico, è che il dialogo tende – giustamente – a sgretolare la scissione fasulla stabilita da alcuni tra un soggetto (che osserva neutralmente) e gli altri soggetti (osservati staticamente, talvolta concepiti come istanze sprovviste di pari diritto di parola). Ecco perché, nonostante questo orientamento teorico abbia una collocazione storica precisa, credo che la questione relativa al dialogo abbia una valenza – in senso epistemologico e metodologico – che va al di là del momento storico e del periodo di maggiore diffusione di questa corrente nel settore delle scienze sociali.

Il diario (ph. Stefano Montes)

Il diario (ph. Stefano Montes)

Detto questo, ogni tipo di antropologia dovrebbe essere, secondo me, dialogica al di là del periodo storico in cui essa si è sviluppata e, parimenti, dovrebbe rifiutare il monologismo della ricerca, della riflessione unilaterale e della scrittura ‘autoriale’. In definitiva, dal mio punto di vista, ogni singolo tipo di antropologia non può che essere dialogica alla base e ammettere la mescolanza continua di identità e alterità, soggettività e oggettività, teoria e pratica, metodologia ed epistemologia. Sempre sulla stessa falsariga, ogni tipo di antropologia – pur nella diversità degli orientamenti e posizionamenti – dovrebbe rifiutare la sicurezza e stabilità che sembrano assicurare i risultati intesi in senso terminativo: non ci si dovrebbe mai illudere di arrivare a dei risultati definitivi, ma si dovrebbe cercare, al contrario, di pensare dati e risultati come elementi di un processo interminabile, in costante divenire. Ogni tipo di antropologia dovrebbe essere, in definitiva, indisciplinata se non altro perché, come ricorda Balandier, ordine e disordine si rimandano reciprocamente e costitutivamente (Balandier 1991).

D’altronde, non si potrebbe comprendere la disciplina senza l’indisciplina: il movimento del pensiero è, tra le altre cose, il risultato dell’interazione dell’una con l’altra. Ci sono, ovviamente, anche altre ragioni per questa mia affermazione d’ordine più personale. Queste ragioni io le collego al mio stesso lavoro di antropologo. Io faccio soprattutto riferimento, nel mio lavoro, a un’idea di divenire avanzata da Deleuze il quale tende a sovvertire, continuamente, le definizioni statiche e a rimetterle in movimento nel circolo della cultura, oltre che della filosofia. L’ipotesi filosofica di divenire a cui Deleuze fa appello, spesso in sottofondo alla sua ricerca, tende a mettere in secondo piano l’inizio e la fine – nozione e pratica – e a insistere sul dinamismo del vivere nel mezzo. In questo, Deleuze è molto vicino a Foucault, allorquando, nella sua prolusione d’insediamento al Collège de France, disse che il suo desiderio sarebbe stato quello di andare al di là dell’inizio di ogni discorso, di situarsi negli interstizi, di essere lacuna più che origine. E lo disse a ragione: è proprio attraverso gli esordi – ritualizzandoli – che le istituzioni impongono forme di controllo disciplinare e d’esclusione. Ecco un frammento, particolarmente significativo, del suo discorso, di cui si dovrebbe tenere massimamente conto in antropologia: 

«Nel discorso che devo oggi tenere, e in quelli che mi occorrerà tenere qui, forse per anni, avrei voluto poter insinuarmi surrettiziamente. Più che prendere la parola, avrei voluto esserne avvolto, e portato ben oltre ogni inizio possibile. Mi sarebbe piaciuto accorgermi che al momento di parlare una voce senza nome mi precedeva da tempo: mi sarebbe allora bastato concatenare, proseguire la frase, ripormi, senza che vi si prestasse attenzione, nei suoi interstizi, come se mi avesse fatto segno, restando, per un attimo, sospesa. Inizi, non ce ne sarebbero dunque; e invece d’esser colui donde viene il discorso, secondo il capriccio del suo svolgimento, sarei piuttosto una lacuna, il punto della sua scomparsa possibile» (Foucault 2004: 3). 
Insinuarsi (ph. Stefano Montes)

Insinuarsi (ph. Stefano Montes)

Io, seguendo l’esempio di Foucault, vorrei sfuggire agli esordi, situandomi nel divenire che smussa rituali e controlli istitutivi. Io cerco, di fatto, di sfuggire agli esordi rimescolando, più in generale, il valore stereotipato che attribuiamo a volte alle categorie del pensare e dell’agire in relazione alla cultura. Parlo per me? Forse! Ma, quale che sia l’efficacia del mio lavoro specifico in antropologia, sarebbe utile per tutti (antropologi e non) prendere coscienza delle discontinuità – identità e alterità, esperienza e testo, soggettività e oggettività, vita e frammentazione, etc. – nelle quali incappiamo in società senza rendercene conto o che noi stessi ci costruiamo per tessere il filo inconsapevole della nostra vita. ‘Abbandonarsi’ al divenire, a mio modo di vedere, è un modo per trasgredire all’ordine disciplinare e autoriale del discorso stesso e all’inconsapevolezza del vivere. «La disciplina è un principio di controllo della produzione del discorso» (Foucault 2004: 18-19). In questo senso, vale la pena ricordare qui una delle questioni che più mi sta a cuore: riguarda la nozione di identità e quella di alterità in connessione con la nozione – poco esplorata in antropologia – di flusso di pensiero o endofasia. Le domande, come capita spesso, sono apparentemente semplici, benché le risposte siano molteplici e non scontate: come pensa un individuo? Pensa e scrive in solitudine? E come si situa rispetto agli altri in società?

Per quanto riguarda l’identità, è bene ribadire il principio che persino quando si scrive – in apparente solitudine – si è in compagnia dei propri pensieri, dei libri letti e citati o rifiutati, del mondo che ci circonda e ci influenza e dal quale è impossibile estrapolarsi del tutto in quanto entità isolata o individuale. L’individuo pensa se stesso e gli altri in società non soltanto secondo modalità di pensiero eterodirette e più controllate, ma anche sulla base di flussi di pensiero che lo attraversano facendo da basso continuo al suo vivere. Questa è anche la ragione per cui Foucault, più che di autore vero e proprio, a suo tempo parlava di funzione-autore e terminava un suo celebre saggio – sul rapporto tra soggetto, cultura e autorialità – con una serie di domande tuttora centrali non soltanto in filosofia ma anche in antropologia: «Chi ha realmente parlato? È veramente lui e nessun altro? Con quale autenticità o con quale originalità? E che cosa ha espresso dal più profondo di se stesso nel suo discorso? […] Quali sono i modi di esistenza di questo discorso? Da dove viene tenuto, come può circolare e chi può appropriarsene? Quali sono le ubicazioni predisposte per dei soggetti possibili? Chi può riempire queste diverse funzioni del soggetto?» (Foucault 1971: 21). Accettata questa impostazione di massima secondo cui gli altri sono interlocutori molteplici – al loro interno ed esterno – e sono interlocutori alla pari in funzione di una cultura orientatrice che si pone il problema dell’origine e della circolazione dei discorsi (e non solo dei soggetti-autori), penso che il passo avanti da fare consista nell’applicare questa prospettiva pluridiscorsiva non soltanto ad alcuni spaccati della cultura presi in conto singolarmente – per esempio, l’economia o la malattia, per quanto importanti esse siano in seno a una cultura e per un individuo – ma all’esistenza stessa nella sua interezza e globale specificità.

Oscillare (ph. Stefano Montes)

Oscillare (ph. Stefano Montes)

In questo senso, tornando a me stesso e alla mia ricerca e tenuto conto di quanto detto, sarebbe forse più opportuno parlare di auto-etnografia perché tendo a scrivere sugli altri (e con gli altri, sovente pure a quattro mani) instaurando un va-e-vieni continuo tra me stesso e gli altri di cui parlo e scrivo. In quanto antropologo, dunque, tendo a situarmi nell’alveo dell’auto-etnografia. Mi sforzo di farlo. Mi sforzo di farlo soprattutto perché mi aiuta a meglio comprendere la sovrapposizione e la miscela di ruoli che io, malgrado tutto, rappresento nella mia vita: antropologo, docente, padre, figlio, amico, marito, appassionato di musica, viaggiatore, etc. Questo presupposto non vale unicamente per me. Tutti noi passiamo da un insieme di ruoli ad altri, quasi senza accorgerci che siamo un insieme sovrapposto di questi ruoli da cui usciamo ed entriamo incessantemente. L’auto-etnografia, comunque sia, non è una novità odierna, o una mia invenzione, ma ha radici lontane anche in seno all’antropologia (Reed-Danahay 1997; Okely, Callaway 1992). Gli studiosi che si rifanno a questa corrente teorica mettono l’accento, nei loro lavori, sulla loro imprescindibile soggettività modellata attraverso le insostituibili interazioni stabilite con altri individui e, allo stesso tempo, fanno ineludibile riferimento alla soggettività altrui presa in conto senza tralasciare la riflessione sul proprio punto di vista mediatore e dialogante. Semplice? Non direi!

Comunque la si volga la questione (in termini di definizione di ciò che io faccio nel mio lavoro di ricerca e che, approssimativamente, oscillando, etichetto come auto-etnografia dell’esistenza), due problemi permangono nel tempo (non soltanto per me ovviamente) e a cui non si può ovviare facilmente: 1. il primo problema è che la scelta dei frammenti di vita selezionati è sempre arbitraria rispetto alla continuità stessa degli eventi nel loro persistente svolgersi; 2. il secondo problema riguarda l’imperfezione – a cui accennava Lévi-Strauss – che si manifesta sempre nel passaggio dall’esperienza vissuta alla sua testualizzazione. È noto: ogni traduzione è imperfetta, che sia testuale o culturale poco importa. Per tenere conto di queste dimensioni plurime e irrisolte, la mia produzione antropologica si è trasformata, sempre più, nel tempo, in una riflessione non soltanto sulla materia fotografica e scritta di cui mi avvalgo costantemente in modo interrelato ma, anche, sulle stesse forme di discontinuità che si frappongono tra l’una e l’altra, tra gli eventi ordinari e straordinari, tra l’esperienza e il testo, tra l’individuo e il sociale, tra i processi di soggettivazione e oggettivazione, tra il pensare eterodiretto e i flussi di pensiero più liberi. Quest’ultimo punto è particolarmente delicato perché, nonostante sia un cardine riconosciuto nel campo della scrittura letteraria, soprattutto in un certo periodo storico – basti pensare ai flussi di coscienza nell’Ulisse di Joyce o agli intrecci mnestici ed esistenziali nella Ricerca di Proust – in campo antropologico, invece, gli sono stati dedicati scarsi sforzi teorici e pragmatici. Per opporsi a questa tendenza e scarsa considerazione teorica in cui rientrano i flussi di coscienza, il principio da tenere in somma considerazione antropologica è il seguente: io non sono ‘io’ se non per accettazione e reazione ai modi in cui io dialogo non soltanto con altri, ma anche con me stesso e i miei flussi interiori di coscienza.

Nella prossimità del mondo (ph. Stefano Montes)

Nella prossimità del mondo (ph. Stefano Montes)

L’identità di un individuo non è soltanto tale in virtù di una assimilazione e differenziazione con l’identità e alterità d’altri individui, ma anche con l’alter-ego dell’individuo stesso spesso incarnato dai suoi flussi di pensiero meno irreggimentati. Che si chiamino voci interiori, endofasia o flussi di pensiero, poco importa qui. Ciò che va sottolineato è, invece, che siamo costantemente attraversati da questi discorsi interiori di cui parlo nei miei saggi etnografici. L’endofasia è un tratto importante dell’essere umano e va ribadito (Lœvenbruck 2022). Vaghiamo e divaghiamo tutto il tempo, spesso senza nemmeno rendercene conto. Lo facciamo tutti. Io lo faccio come tanti altri: antropologi e non. La differenza è che, nei miei scritti, cerco di rifletterci in modo produttivo mettendo proficuamente in campo riferimenti teorici e collegamenti autoriali che, magari, una persona comune con un altro lavoro – o un antropologo che pensa il mondo in modo esclusivamente oggettivista o disciplinato – non farebbe. Lo faccio a tal punto – divago a tal punto – che Tonino, direttore della rivista Dialoghi Mediterranei, il quale ha sempre accolto con benevolenza i miei esperimenti etnografici, mi ha chiesto tempo fa: come mai non raccogli i tuoi testi più sperimentali in un unico volume proprio con il titolo di “Divagazioni antropologiche”? Questa domanda mi ha ulteriormente fatto riflettere sul termine ‘divagazione’ e su ciò che faccio o penso di fare.

Che differenze e similitudini ci sarebbero tra le divagazioni e le autoetnografie di cui parlo qui, forse cercando di darmi un tono accademico? Forse non molte! In effetti, in entrambi i casi si tratta comunque di etichette che, difficilmente, possono racchiudere contenuti di tipo diversificato e volutamente non omogeneo: contenuti che vorrei mantenessero un carattere eterogeneo quale è, per l’appunto, l’essere umano nella sua essenza. Ciò che conta e che va ribadito – quali che siano le etichette – è che siamo, in effetti, attraversati da questi discorsi interiori (che io non vorrei tralasciare nei miei studi auto-etnografici). Ogni antropologo dovrebbe tenerne conto in ogni caso, indipendentemente dall’ambito di lavoro specifico e dal settore tematico direttamente affrontato. Il punto che va ben precisato è che, nonostante le mie e altrui divagazioni, non possiamo comunque fare a meno del mondo. Nessuno di noi può farlo. Ecco, forse, perché mi piace divagare ma penso pure che il termine in sé, nei suoi aspetti più conformemente contenutistici, potrebbe dare l’impressione che si voglia ‘rimanere nella testa’ e fare a meno del mondo. È impossibile farne a meno, del mondo! Come scrive Merleau-Ponty, noi siamo nel mondo, nella sua prossimità: «una prossimità vertiginosa ci impedisce di coglierci come puro spirito separato dalle cose o di definirle come puri oggetti senza alcun attributo umano» (Merleau-Ponty 2002: 39). Se è però impossibile – per me come per chiunque altro – estrapolarsi dal mondo, è altrettanto impossibile addomesticare totalmente i flussi di pensiero e dirigerli in toto. Credo che sia impossibile, per tutti, non soltanto per me, avere il controllo incondizionato della propria coscienza e degli intrecci che questa crea, per di più, con i processi di istanziazione somatica.

Discontinuità (ph. Stefano Montes)

Discontinuità (ph. Stefano Montes)

Penso che le mie divagazioni, per quanto zigzaganti e interiori, vogliano comunque mantenere un sostrato somatico forte e rimandare alle molteplici situazioni in cui mi trovo a essere posizionato nel mondo nel corso della mia, per quanto banale sia, esistenza. Che fare allora? Arrendersi all’impossibile? Arrendersi alle etichette? Più che glissare sulla questione, arrendendosi, penso che sia importante farne un punto di forza di una antropologia più indisciplinata, applicandosi in questa direzione, riflettendo sugli intrecci culturali posti in essere, includendo i flussi di coscienza in questi intrecci, osservandoli, osservandosi nel mondo. In sostanza, sintetizzando un po’ sull’insieme delle cose affermate, zigzagando fin qui, direi che mi sono mosso in passato – e vorrei farlo sempre più in futuro – producendo uno spostamento di accenti: dal dialogo (incentrato su singoli aspetti di una cultura) alla pluridiscorsività (persino quella interiore ed endofasica dell’individuo) costitutiva dell’esistenza nella sua interezza ed eterogeneità. Inoltre, più che trincerarmi all’interno di un unico genere testuale (per esempio il diario, la monografia, la trascrizione dialogica o filmica), difendendone le virtù, io mi sono lasciato andare, e vorrei sempre più lasciarmi andare, a generi fluidi, mescolandoli, intrecciandone pregi e difetti, decentrandomi in quanto soggetto visto con una – non più possibile oggigiorno – centralità. In tutto questo, ritengo che sia importante riservare una particolare attenzione alla decostruzione della definizione di antropologia in quanto discontinuità spaziale, ricomponendola in una nuova e più fervida continuità che concede maggiore spazio alla nozione di esistenza e di divenire. Tra le forme di discontinuità alle quali ho accennato brevemente (ordinario/straordinario, esperienza/testo, soggettivazione/oggettivazione, vita in extenso/frammenti, etc.) quella riguardante lo spazio non va trascurata perché la si è concepita come fondatrice a tutto tondo, per un certo periodo, dell’antropologia di campo.

La domanda era (e spesso lo è ancora) in passato: dove inizia e dove termina un’etnografia? Si potrebbe dire che un’etnografia comincia con l’arrivo sul campo e si chiude con il ritorno a casa dell’etnografo che trasforma la sua esperienza vissuta sul campo in testo. Sembrerebbe, di primo acchito, che non ci sia nessun problema in questa concezione. In realtà, non è così, soprattutto se ci si interroga sulla nozione di campo più particolarmente. Se il campo – si pensi a Malinowski (Malinowski 2004) o a Firth (Firth 1976) – è sempre un luogo recondito e strano, allora si capisce che gran parte dell’antropologia del passato è fondata sulla discontinuità – arbitrariamente posta – tra la vita vissuta a casa dall’antropologo (nel proprio paese e luogo di residenza) e la sua vita vissuta altrove (in un luogo esotico, lontano e strano), nonché tra ciò che è visto come familiare e ciò che è visto come straniante. Se si accetta questa mia osservazione (cfr. Pratt 1997 e Sontag 2022 per un approfondimento), la mia replica sotto forma di domanda è la seguente: e ciò che viene prima o dopo l’arrivo sul campo in un luogo esotico non vale forse la pena di essere preso in conto? E la vita stessa, nel suo quotidiano scorrere, nei luoghi familiari, non ha anch’essa diritto di essere presa in conto al pari di un campo esotizzante? Tra l’altro in molti casi – vale soprattutto in passato – l’esperienza sul campo e il processo di scrittura venivano tenuti distinti e non venivano debitamente interrogati in quanto processo congiunto di articolazioni del pensare e del categorizzare. Le etnografie dei funzionalisti avevano inizi certi (arrivo sul campo) ed epiloghi certi (ritorno a casa). Si vede, a titolo d’esempio, lo splendido e scenografico incipit di Firth: 

«Nel fresco della prima mattina, poco avanti l’alba, la prua della Southern Cross si diresse verso oriente. All’orizzonte era a mala pena visibile una sottile sagoma blu scuro. Lentamente questa si trasformò in una rocciosa massa montana che si elevava a strapiombo sull’oceano; poi quando ci avvicinammo a poche miglia mostrò alla sua base una stretta fascia di terra bassa e piana, lussureggiante di vegetazione. Il giorno grigio e cupo con le sue nubi basse rafforzò la mia lugubre impressione di un picco solitario, selvaggio e tempestoso, erto su un deserto d’acqua. Dopo un’ora circa fummo vicino alla riva, e potemmo vedere delle canoe avvicinarsi in cerchio da sud, uscendo dal banco ove la marea era bassa. La piccola flotta di canoe a bilanciere si avvicinò: erano piene di uomini mezzi nudi, coi fianchi fasciati di stoffa di corteccia e grandi ventagli fissati alla cintura sul dorso, con anelli di tartaruga o rotoli di foglie ai lobi delle orecchie e al naso, barbuti e con lunghi capelli sciolti sulle spalle» (Firth 1976: 3).

Il quotidiano (ph. Stefano Montes)

Il quotidiano (ph. Stefano Montes)

L’etnografia di Firth prende avvio con questa splendida descrizione dell’arrivo sul campo. E ciò che Firth si è lasciato alle spalle? Poco importa! Ciò che conta è che coincidano l’incipit del testo e la ricerca sul campo. Ciò che conta è circoscrivere il campo e il suo significato per quello che voleva dire all’epoca. La descrizione è molto bella, fitta e scenografica. Non lo si può negare! Ma, dietro la scenografia e l’apparenza, si nasconde una visione ristretta del campo e dell’etnografia. Approfondendo l’analisi dell’incipit si vede bene che Firth, volutamente o meno, incentra la sua descrizione dell’arrivo mettendo bene l’accento sul valore dell’inizio: è un inizio di giornata, è un inizio di apparizione della massa montana, è un inizio di valutazione personale sotto forma di impressione, è un inizio di rappresentazione dell’alterità raffigurata da uomini mezzi nudi. Tutto è declinato in chiave d’inizio. La descrizione è splendida, ma rimanda a una precisa ideologia dell’epoca basata sulla concezione del campo come luogo ritagliato dall’arrivo sul posto dall’antropologo che, da buon osservatore (e descrittore), si mette al lavoro gettandosi alle spalle la sua vita e la sua provenienza. E adesso? Le cose sono cambiate dai tempi di Malinowski o di Firth, rimane il fatto che – pur essendo tornati ‘a casa’ ed avendo, oggigiorno, pensato a un ‘rimpatrio dell’antropologia’ – gran parte delle etnografie sono incentrate, tuttora, su forme di discontinuità d’ordine spaziale: forme di discontinuità che non tengono conto dell’esistenza come riferimento essenziale nel suo complesso e nemmeno dei processi di soggettivazione e oggettivazione che si instaurano comunemente nei luoghi familiari, non straordinari e ordinari. Anche il banale ha il diritto d’essere indagato! Perec ce lo ricorda: 

«Quel che ci parla, mi pare, è sempre l’avvenimento, l’insolito, lo straordinario: articoli in prima pagina su cinque colonne, titoli a lettere cubitali. I treni cominciano a esistere solo quando deragliano, e più morti ci sono fra i viaggiatori, più i treni esistono; gli aerei hanno diritto di esistere solo quando sono dirottati. […] Quello che succede veramente, quello che viviamo, il resto, tutto il resto, dov’è? Quello che succede ogni giorno e che si ripete ogni giorno, il banale, il quotidiano, l’evidente, il comune, l’ordinario, l’infra-ordinario, il rumore di fondo, l’abituale, in che modo renderne conto, in che modo interrogarlo, in che modo descriverlo? Interrogare l’abituale. Ma per l’appunto ci siamo abituati. Non lo interroghiamo, non ci interroga, non ci sembra costituire un problema, lo viviamo senza pensarci» (Perec 2023: 8-9). 

Dal mio punto di vista, l’antropologia dovrebbe, dunque, spostare l’accento dalla dimensione spaziale – come avveniva soprattutto in passato – a quella temporale, non soltanto straordinaria, ma anche ordinaria, persino banale, incentrandosi sul divenire degli esseri umani e non-umani, dei soggetti e degli oggetti se non altro perché «si è sempre nel mezzo di un cammino, nel mezzo di qualcosa» (Deleuze, Parnet 1998: 34). In questo senso, quando io parlo di un’antropologia dell’esistenza – a volte oscillando tra questa e l’auto-etnografia – penso a questo presupposto (ribadito più volte da Deleuze nei suoi testi) che avvicina esistenza e divenire in una strettissima associazione e miscuglio. Per molti aspetti, la ‘mia’ antropologia dell’esistenza è anche una antropologia del divenire. Naturalmente, l’antropologia dell’esistenza non è una novità assoluta in antropologia. Esistono studi molto interessanti e di grande rilievo che, soprattutto, capovolgono la direzione della ricerca: invece di parlare di cultura e società all’interno della quale l’individuo ‘annega’, preferiscono, con miglior profitto, partire proprio dall’individuo per tessere tutte le possibili relazioni da esso intrattenute all’interno di una cultura e società (cfr. Rapport 2003; Piette 2009; Jackson, Piette 2015; Heiss 2015). Se io oscillo tra auto-etnografia e antropologia dell’esistenza è semplicemente perché sono ben consapevole che – pur piacendomi ambedue approcci e pensandoli molto prossimi – sono, tutto sommato, delle etichette che difficilmente possono racchiudere la complessità delle questioni legate all’esistenza o alla soggettività e individualità.

Radici (ph. Stefano Montes)

Radici (ph. Stefano Montes)

Se io oscillo senza dichiarare un’appartenenza unica e incontrovertibile a una sola corrente, dunque, nonostante le mie simpatie e adesioni, è perché amo oscillare in modo indisciplinato e più libero. Oscillare consente di riposizionarsi. Oscillare consente di rimettersi in gioco diversamente. E io amo la diversità e lo sregolamento delle norme rigide! Come ho già detto, l’indisciplina è sovente un modo per contravvenire a regole fasulle e imposte dall’alto. Oscillare in modo indisciplinato è benefico perché consente una maggiore libertà di pensiero e di azione rispetto a quadri di riferimento già dati e presupposti. Le etichette vanno sempre decostruite e l’antropologia dovrebbe sempre essere – tutta – indisciplinata rispetto a un ordine e a una disciplina concepiti in modo statico e stantio. Ho, certamente, anch’io alcuni rimandi teorici che ritornano spesso nei miei studi e di cui non voglio fare a meno. Sono, come tutti, un essere umano con le sue debolezze e con una inevitabile tendenza a centrarmi che, però, non vorrei divenisse costitutiva della mia ricerca e del mio modo di essere. Sono diventato antropologo, tra le altre cose, proprio per ovviare a questo problema e pensare all’esistenza – anche alla mia stessa esistenza – in quanto forma di decentramento. Lungi da me, tuttavia, pensarmi totalmente dall’esterno o con una capacità di decentramento tale da fare a meno di qualsiasi riferimento. Impossibile! Si guardi cosa dice, per esempio, Jackson – un antropologo dell’esistenza – a proposito dei suoi e altrui ‘centramenti’: «To escape the reifying and dulling effects of generalization, some anthropologists have focused on the individual (e.g. Rapport 2003; others on narrative (e.g. Abu-Lughod 1993). My own strategy is to focus on events. Thus, each chapter in this book is centred on a ‘critical event’ (cf. Das 1995) that broaches this question of being as a relationship between the forces that act upon us and our capacity for bringing the new into being» (Jackson 2005: xi).

Progetti (ph. Stefano Montes)

Progetti (ph. Stefano Montes)

Per quanto mi riguarda, come ho già accennato, io preferisco oscillare tra temi diversi e etichette varie che hanno – tutti e tutte – qualcosa in comune con l’antropologia dell’esistenza e del quotidiano o con l’auto-etnografia. Se dovessi pensare a un riferimento importante della mia ricerca in antropologia, non avrei dubbi a menzionare un filosofo come Deleuze perché, più di altri, a mio parere, ha messo l’accento sul divenire e, quindi, sul senso del movimento e il valore dell’indisciplina nei confronti di pratiche e concetti obsoleti. Una formulazione di divenire, nella prospettiva di Deleuze, è la seguente: «Non sono mai l’inizio e la fine ad essere interessanti, essi sono solo dei punti. L’interessante è il mezzo» (Deleuze, Parnet 1998: 44). Stare nel mezzo, in qualche modo, assicura il divenire. Mentre inizio e fine sono visti come punti fissi. Io ammetto di avere la tendenza a stare nel mezzo e a pensarmi – e pensare la mia ricerca – come una linea più che un punto. Per quanto riguarda la questione del divenire, Deleuze è ancora più chiaro quando dice, facendo un esempio specifico, che i «francesi sono troppo umani, troppo storici, troppo preoccupati per l’avvenire e il passato. Passano il loro tempo a fare il punto. Non sono capaci di divenire, pensano in termini di passato e di avvenire storici […] Non sanno tracciare delle linee, seguire un canale […] Amano troppo le radici, gli alberi» (Deleuze, Parnet 1998: 42). Uno dei riferimenti impliciti d’ordine critico, in questo enunciato di Deleuze, è anche lo strutturalismo inteso come modo di pensare statico e come radicamento di posizioni. Se si accetta questo modo di pensare deleuziano – tracciare delle linee e non punti, movimenti e non posizioni immobili – in antropologia, si deve per forza di cose prendere in conto il tessuto metaforico che alcune nozioni contengono (per esempio, linea e punto) e, soprattutto, il valore effettivo da attribuire all’inizio e alla fine in quanto nozioni e pratiche intese, nel senso più ampio possibile, in una prospettiva culturale. Ciò comporta aspetti aporetici di non – sempre – facile soluzione in chiave pragmatica.

Entrate ed uscite (ph. Stefano Montes)

Entrate ed uscite (ph. Stefano Montes)

Per quanto mi riguarda, come ho già affermato precedentemente, le impossibilità di soluzione di alcune questioni – o le loro apparenti contraddizioni – sono uno stimolo, per me, per andare comunque oltre la staticità o gli aspetti stereotipati del pensare e agire. Rimane il punto: che valore attribuire alle nozioni di inizio e fine? Se ci si lascia andare con coerenza e con costanza al divenire – mantenendosi nel mezzo, trascurando inizio e fine – alcuni dispositivi culturali comunemente accettati andrebbero – potrebbero essere – smontati o, comunque sia, affrontati in modo più indisciplinato, meno irreggimentato. Si pensi all’inizio di un libro, per esempio. In una prospettiva deleuziana, l’inizio andrebbe sempre smussato o privato del suo valore di avvio e si dovrebbe cominciare mantenendosi nel mezzo. Come? Uno dei modi più semplici, ma interessanti, potrebbe essere costituito dalla moltiplicazione degli inizi o dal reinvestimento in alcuni inizi che consentono tuttavia di fare avanzare la trama degli eventi e di mantenerli in divenire. Si pensi, in letteratura, a Se una notte d’inverno un viaggiatore di Calvino! Questa prospettiva vale – ha la sua applicabilità – anche per quanto riguarda le idee e non soltanto per i testi letterari. Iniziare con una idea può aiutare a seguire un principio d’ordine e coerenza, ma è anche vero che sbarazzarsi della solidità stereotipata dell’idea d’inizio – l’origine rassicurante a essa associato – è opportuno per proiettarsi nel divenire tumultuoso delle cose, del mondo e delle culture.

Il banale (ph. Stefano Montes)

Il banale (ph. Stefano Montes)

Questo principio si può applicare anche a nozioni – centrali in antropologia – quali identità e alterità che, in un’ottica deleuziana, dovrebbero essere rifiutate in quanto entità predefinite – o definite troppo rigidamente – e dovrebbero essere ripensate in termini meno oppositivi, in una prospettiva in cui sono più mescolate e continuamente riarticolate nel divenire della cultura. Lo stesso può dirsi delle nozioni di soggettività e oggettività che dovrebbero essere riviste in quanto processi in continuo divenire, più che categorie in opposizioni che le essenzializzano. In antropologia, a questo riguardo, il pensiero va sicuramente a Malinowski. Negli Argonauti, Malinowski dà avvio alla sua ricerca con l’arrivo in spiaggia. Cosa si lascia alle spalle? Quale è il grande implicito contenuto in questo inizio prospettato da Malinowski nella sua concezione del campo. Malinowski si lascia alle spalle la vita che conduceva nei luoghi familiari: non ne parla – se non nei diari (Malinowski 1992) – e non pensa che debba essere presa debitamente in conto. Iniziando in questo modo, implicitamente ed esplicitamente, Malinowski affermava il principio che la ricerca dovesse farsi in posti lontani ed esotici e non nel proprio paese di residenza o di origine. Il primo ingresso nel villaggio – nella formulazione di Malinowski – presuppone una concezione della ricerca fondata (per dirla alla maniera di Deleuze) su punti e posizioni, in cui inizio e fine sono rappresentativi in maniera stabile di un tipo di azione esemplare (quella dell’etnografo) e dell’altrettanto esemplare metodologia utilizzata (quella funzionalista). Nel caso di Malinowski, l’entrata nel villaggio cancella la continuità con la vita vissuta in luoghi familiari: quella vita che Malinowski sembra essersi lasciato alle spalle e che sembrerebbe non avere più, per lui, un ruolo sul campo se non nei diari, pubblicati però postumi (Malinowski 1992).

Questa concezione è condivisa dalla gran parte dei funzionalisti e, persino oggi, da diversi antropologi che pensano l’etnografia in termini di discontinuità tra ciò che è familiare e ciò che è esotico. È come se Malinowski, e i suoi attuali seguaci, dicessero: sei un antropologo se fai ricerca in luoghi lontani ed esotici, in luoghi in cui si parlano lingue a te poco note o, comunque, non padroneggiate come un vero e proprio madrelingua. Come provvedere allora in senso contrario? Come contravvenire a questo modo di concepire il campo e l’antropologia? Pensando all’esistenza come alla ricerca sul campo per eccellenza. Mettendo avanti la nozione di esistenza – ovunque l’antropologo si trovi – si produce una continuità tra il familiare e l’esotico e li si rimette in circolo, ridefinendoli nel divenire che li sottopone al gioco decostruttivo del processo. Si può dire che una sorte simile spetta alla nozione di progetto: se definito troppo rigidamente e in termini statici, lascia poco spazio al divenire degli incontri e alle possibilità molteplici contenute nel dialogo intrattenuto con l’altro e persino con il caso.

Esistere (ph. Stefano Montes)

Esistere (ph. Stefano Montes)

In questo senso, si capisce meglio ciò che dice Dwyer in Moroccan Dialogues: non ho nessuna «intenzione di portare a termine un progetto di ricerca concepito in anticipo, né, all’opposto, di fare vani tentativi di trasformarmi in nativo» (Dwyer 1982: xvi). Accettare la ‘datità’ del progetto significa rinunciare alle infinite possibilità che offre il divenire sul campo. Dwyer vuole sfuggire al progetto e vuole, invece, abbandonarsi al divenire del campo libero da pastoie predefinite e ingabbiatrici. Certo, tutto dipende anche da come lo si concepisce un progetto. Ma è anche vero che, quale che sia il suo ordine di rigidità, un progetto è comunque un modo per anticipare, in qualche modo, ciò che accadrà, prendendo posizione, facendo il punto, bloccandosi. Dwyer, invece, diversamente da Malinowski, intendeva fare tutto il contrario e desiderava concedere se stesso al valore dell’incontro e del dialogo. 

Per molti aspetti, l’antropologia dialogica degli anni Ottanta – benché non facesse esplicito riferimento al nome di Deleuze e avesse un carattere fondamentalmente esotizzante – dietro l’etichetta del dialogo seguiva il dettato indisciplinato articolato dalla nozione di divenire. Per quanto mi riguarda, tornando a un’ipotesi di antropologia dell’esistenza incentrata anche sull’ordinario, persino sul banale, direi che è legittimo chiedersi che tipo di ‘altrove’ è – se lo è – un contesto quotidiano. La domanda va posta. Più in generale, seguendo l’impostazione deleuziana, si dovrebbe smontare il valore indiscriminato dell’inizio e la sua apparente forza agentiva d’origine, abbandonandosi invece – con la dovuta indisciplina epistemologica – al divenire che ci attraversa e ci costituisce in quanto esseri in movimento. Del tutto d’accordo con Deleuze, dunque, quando dice che «si pensa troppo in termini di storia, sia essa personale o universale. Mentre i tipi di divenire […] sono orientamenti, direzioni, entrate e uscite» (Deleuze, Parnet 1998: 8).

In divenire (ph. Stefano Montes)

In divenire (ph. Stefano Montes)

Rileggendo ciò che ho scritto, mi rendo conto di aver dato – spero solo a me stesso – l’impressione di redigere una sorta di manifesto dell’antropologia, della mia antropologia, del mio modo di intenderla in un certo modo, secondo un certo orientamento. In realtà, questa è una impressione di superficie, credo. Ciò che ho inteso fare qui è, soprattutto, mettere avanti alcuni principi di cautela nel procedere antropologico che, spesso, cerca invece dei risultati più che dei processi, o delle conferme, più che delle oscillazioni produttrici di interconnessioni in una prospettiva di libero divenire. L’antropologia rimane, per me, una pratica dell’indisciplina e l’antropologo dovrebbe tendere, per questa ragione, all’oscillazione. Parimenti, l’antropologia è una pratica di decentramento ininterrotto prodotta in dialogo con individui e gruppi in divenire. L’antropologia, di conseguenza, dovrebbe attraversare le discipline. In tono con quanto detto, desidero allora concludere – in modo inconclusivo – con una domanda rivolta al lettore e a ogni potenziale antropologo: quali ‘entrate’ e ‘uscite’ sono – adesso e in futuro – praticabili al fine di concepire un’antropologia degli attraversamenti antidisciplinari, prodotta nella prossimità del divenire? 

Dialoghi Mediterranei, n. 64, novembre 2023 
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Stefano Montes, insegna Antropologia del linguaggio e Antropologia dei processi migratori e dei contesti culturali presso l’università di Palermo. In passato, ha insegnato all’università di Catania, Tartu, Tallinn e al Collège International de Philosophie di Parigi. È stato inoltre direttore di ricerca di un team franco- estone con sede principale nell’Università di Tartu. In seguito, è stato anche direttore di ricerca per due anni di un team franco-estone con sede nell’Università di Tallinn. Ha pubblicato in diverse riviste nazionali e internazionali. I suoi temi d’interesse principale riguardano soprattutto i rapporti tra linguaggi e culture, tra forme letterarie e forme etnografiche. Più recentemente, si è interessato ai processi migratori e alle pratiche del quotidiano con particolare riguardo all’intreccio instaurato tra attività cognitive e agentive. 

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