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Divagazioni intorno a mafie, affari e politica

filedi Lauso Zagato

Il volume cui faccio riferimento, è che sta all’origine delle mie divagazioni, è uscito la scorsa primavera, ed è frutto della collaborazione tra il giornalista d’inchiesta Roberto Leccio e il sociologo Marco Omizzolo, Laboratorio criminale (People ed., Busto Arsizio, 2023). Ha goduto di recensioni positive su testate qualificate, recensioni che si sono anche opportunamente soffermate sui rischi che il lavoro di inchiesta e denuncia ha comportato (e tuttora comporta) per gli autori [1]. Mi pare però che un simile approccio finisca per inchiodare Laboratorio criminale ad un ruolo di libro-inchiesta che a mio avviso gli va stretto e che, comunque, non richiederebbe un ulteriore intervento convergente, ad opera di un non-professionista dell’informazione.

La mia opinione è invece che Laboratorio criminale, pur essendo un testo assolutamente coerente al proprio interno, si presti proficuamente ad una lettura articolata su due distinti livelli. Ciò non già avvalendosi di artifizi espositivi di tipo formale, quanto piuttosto inserendo con continuità spunti di analisi teorico-politica nel procedere della narrazione. In tal modo il volume contribuisce, in misura certo non trascurabile, ad arricchire la comprensione da parte nostra dell’orrida realtà in cui siamo calati. Nel far questo, gli autori inseriscono nella trama narrativa sollecitazioni e “strappi” talora anche contraddittori. Su tali (proficui, talvolta preziosi) “strappi”, mi soffermerò nella seconda parte.

Al momento di immergermi nelle divagazioni ispirate da questo libro, osservo ancora come Omizzolo e Leccio si avvalgano anche di passaggi descrittivi di notevole vivacità paesaggistica. Ciò avviene in particolare quando ci guidano in termini suggestivi ad incontrare l’acquedotto Felice degli anni ‘70, le baraccopoli attorno ai treni che collegavano, e collegano, la capitale con Latina e Frosinone (e i castelli romani) all’altezza dell’allora stazione Casilina, oggi chiusa. Ivi le linee ferroviarie provenienti dal sud incrociavano quelle provenienti da est, Abruzzo e il Molise, all’altezza dell’acquedotto Felice era collocato il primo dei due semafori che guidavano l’ordine di ingresso dei treni alla stazione Termini [2].

1692717372197Parlavo di coerenza interna: gli autori si propongono, giusta l’introduzione, di «ricostruire la genesi e l’evoluzione di una delle organizzazioni mafiose più sottovalutate», quella del clan Casamonica-Di Silvio. Tale ricostruzione si propone di indagare la cosiddetta ‘quinta mafia’, cioè «un network per sua natura liquido, costantemente ibrido e mobile … in grado di vincere appalti, eleggere propri rappresentanti nelle istituzioni, disporre di professionisti di primo livello, avvocati, medici, notai e commercialisti, acquistare imprese … senza mai abbandonare e mettere in discussione la propria identità, i propri linguaggi, comportamenti e modus vivendi». A conclusione del saggio, gli Autori potranno a buon diritto rivendicare di aver dimostrato come quella descritta non sia una criminalità minore e/o localmente identificata. Al contrario, si tratta di un gigantesco laboratorio criminale «dove una nuova e aggiornata organizzazione, inizialmente complementare alle mafie tradizionali, ha raggiunto la propria autonomia funzionale grazie alle sue peculiari modalità e capacità operative». Tra le prime, oltre alla brutalità dei metodi, vanno annoverati il particolare peso dell’aggregazione familiare, e la rete di avanzate relazioni professionali e politiche, una criminalità insomma «che inneggia al fascismo e si considera padrona, intoccabile, invincibile». Ciò che in questi decenni, secondo Omizzolo e Leccio, è mancato da parte delle istituzioni (ma anche e soprattutto, mi permetto di aggiungere, della riflessione critica legata all’approfondimento politico ad opera dei militanti “antagonisti” delle odierne pratiche capitalistiche) è stata una lettura unitaria in grado di collocare in «un quadro univoco e chiaro il complesso di pratiche, interessi e relazioni che fanno di questi criminali un’organizzazione mafiosa spietate e diffusa».

Per questa via il territorio di Latina, il cosiddetto «laboratorio di governo della destra in Italia» – secondo la non dimenticata definizione dell’ex segretario MSI al momento dello sdoganamento politico berlusconiano di tale partito – si è rivelato «luogo di elaborazione, radicamento e gemmazione di un sistema criminale che ne ha condizionato lo sviluppo» [3].

L’indagine ha un preciso momento di apertura [4]: l’alleanza politico-criminale che emerge con forza inattesa dall’esito delle elezioni del 2014 a Latina, fenomeno giudicato ai tempi folkloristico, comunque di rilievo solo locale, dalla cosiddetta sinistra di governo. Per fare luce su di esso, gli autori avvertono la necessità di liberarsi di alcuni falsi presupposti, giacché: «nulla di ciò che è locale, in realtà, resta localmente circoscritto». Calcio, industria dei rifiuti, la stessa politica di commissariamento realizzata dal governo Berlusconi [5], sono la base su cui questa “resistibile ascesa” fa le sue prove.

Interrogandosi sul perché il fenomeno abbia avuto origine proprio nella provincia laziale, e insieme sul perché non sia rimasto locale, gli autori ricostruiscono la nascita di un tipo inedito di criminalità, che va alla conquista dei territori attraverso gruppi locali «i cui membri hanno la medesima origine e cultura e sono legati da solidi vincoli di parentela, coi quali i clan  delle mafie tradizionali (la ndrangheta più di ogni altra) hanno creato un meccanismo a doppio valore d’uso, simbiotico ed affaristico». E un meccanismo che non solo ha fatto di Roma (e del Lazio) un laboratorio criminale, ma la ha trasformata nel «primo di una serie di laboratori criminali che normai spuntano come funghi alla periferia delle metropoli».

Siamo così condotti per mano alla corretta conclusione che proprio le «politiche di segregazione nei confronti di comunità discriminate sono un’occasione per costruire sistemi di potere» e speculazione, in un’ottica pienamente capitalista, ma dotata nel contempo di caratteristiche specifiche: una forma di capitalismo all’ennesima potenza che getta le basi, mantiene e si nutre di una dimensione “concentrazionaria e criminale”. Qui il richiamo alle carte processuali, al di là delle posizioni di singoli imputati nei processi romani, apre uno squarcio che da solo, per così dire, vale il prezzo del biglietto. Ciò avviene quando un imputato intercettato dichiara ad un altro distinto rappresentante del mondo di mezzo (le finte cooperative che collaborano con le istituzioni deviate): «Noi quest’anno abbiamo chiuso con quaranta milioni … ma tutti i soldi utili li abbiamo fatto sugli zingari, sull’emergenza alloggiativa e sugli immigrati, tutti gli altri settori finiscono a zero».

51jycn-wbl-_ac_uf10001000_ql80_Sull’emergenza zingari gli autori osservano, richiamando una loro visita all’infernale campo “Al Karama”, nel comune di Latina come la marginalizzazione/esclusione abbia al cuore, sempre, una scelta politica. In altre parole: se passa il pregiudizio che un popolo sia inferiore ad un altro, sarà la stessa organizzazione sociale, attraverso le conseguenti politiche razziste, a creare le condizioni di inveramento del pregiudizio. La stratificazione socio-culturale, figlia del razzismo, porta alla subordinazione degli inferiorizzati [6]. Il cap. 7 è tra i più drammatici del libro, non solo perché descrive una situazione disumana, ma perché partendo da questa il discorso si sposta su un evento impensato, inatteso e foriero di futuri disastri per la capitale e l’Italia: la conquista politico-amministrativa del comune di Roma, grazie al blitz mediatico successivo ad un drammatico fatto di cronaca, da parte di Alemanno [7]. La giunta Alemanno, come noto, sarà legata a gravi illeciti in serie, tra i quali spicca proprio la gestione dell’emergenza Rom [8] subito costruita, con decretazione d’urgenza, dal governo Berlusconi. Non mi soffermo, anche se sono godibili (ove si superi il disgusto) i siparietti dedicati alla crescita anche mediatica degli esponenti del clan Casamonica, attraverso l’accorta regia dell’ineffabile Vespa.  

Costruita l’intelaiatura di fondo, la seconda metà del lavoro tende a concentrarsi maggiormente sui passaggi concreti di costruzione del laboratorio criminale nell’Italia di questi ultimi anni. Ciò, giova ripetere, avviene tramite lo sviluppo di reti di origine familiare, che sviluppano un’attività puntuale e oculata di reati per sé minori (furto in appartamento, raggiri di persone anziane, commercio abusivo di materiali ferrosi) strumentali all’ingresso in attività criminali maggiori, traffico di stupefacenti e usura in particolare. Il fenomeno, e in questo sta la sua drammaticità, si sviluppa in un territorio devastato, che il business dei rifiuti aggrava di giorno in giorno, e l’immanenza dei campi (mi riferisco insieme alla gestione dei campi rom e a quella dei migranti) rende agghiacciante.

casamonicaLa criminalità che qui viene descritta è talmente interna al gruppo sociale da cui emerge che la residenza dei suoi protagonisti afferisce rigorosamente al campo rom e al suo degrado, anche quando si tratti di soggetti che muovono sotterraneamente capitali enormi e hanno la proprietà occulta di rilevanti costruzioni di pregio, sempre prive di permessi edilizi di sorta: una evasione fiscale enorme, unita a proventi direttamente illeciti reinvestiti in attività di per sé lecite. Va da sé che una simile ascesa di un clan originariamente periferico, e la sua gemmazione in vari punti del territorio nazionale, non avrebbero potuto avvenire senza una fitta rete di complicità sociale: il cap. 9 fornisce esempi utili in materia.

Mi paiono inoltre rilevanti le riflessioni sull’emergere di una sorta di welfare abitativo parallelo alternativo messo in opera da questa malavita, e della forza che i clan ne traggono nelle periferie degradate del territorio metropolitano. In tal modo, mi si perdoni l’amara conclusione, l’antica parola d’ordine “la casa si prende l’affitto non si paga” della nostra gioventù si trasforma in una cupa parodia di se stessa.

La descrizione puntuale del crescere della quinta mafia impone, in itinere, di inserire nella geografia delle nuove attività criminali gli stabilimenti balneari. Puntuale è la denuncia del vero e proprio suicidio – non vi sono altri termini cui ricorrere – commesso a suo tempo dalle amministrazioni del litorale laziale, tutte di centro-sinistra; mosse dalla vanità di mostrare (a chi?) un volto favorevole all’attività privata, rinunciarono al compito istituzionale di governare la cosa pubblica. Dalla loro rinuncia a incassare i canoni pur irrisori delle concessioni, inizia un processo che porterà alla sparizione delle spiagge libere lungo tutto il litorale. Ovviamente i clan criminali (con i propri sponsor politici) entreranno a far man bassa di questo lucrosissimo terreno di caccia, praticamente regalato dai poteri pubblici. In controluce rispetto a questa drammatica sequenza di eventi vengono richiamate nel libro le vicende tragicomiche delle giunte capitoline, fino all’episodio (che di comico non ha più nulla) dell’agguato dei renziani alla giunta Marino per … questioni di scontrini fiscali!

Opportunamente, il volume dedica spazio ai funerali, descritti nei particolari, dei personaggi chiave della cosiddetta ‘quinta mafia’. Se viene sottolineato il carattere politico-mediatico, provocatorio di certi eventi (con trasposizioni nella TV di Stato), esiste anche [9]  la consapevolezza da parte degli autori che dietro questi funerali, preparati sempre con una elaborazione complessa, dietro la loro sontuosità strana e anche, ai nostri occhi, volgare, vi è la volontà di sottolineare l’importanza del morto nella vita di chi rimane. È quanto dire che siamo in presenza di una «rappresentazione scenica dal valore altamente simbolico». Insomma: non si può limitarsi a vedere in queste cerimonie mere esibizioni di potere verso l’esterno, quanto riconoscere piuttosto in esse «l’esecuzione di una ritualità dove devono essere rispettati tutti gli aspetti altamente simbolici della loro cultura» [10]. Il riconoscimento di questa unicità culturale, propria del popolo rom, che inevitabilmente caratterizza questa rispetto alle altre mafie, conferma, ove ce ne fosse bisogno, il tratto scientifico del testo, che non può assolutamente essere ridotto a mero documento di accusa. Di grande interesse è anche il capitolo sui parallelismi europei nella prassi della criminalità rom, e sulla evidenza di un ritorno a fenomeni di schiavitù, fondata sulla forza e la minaccia [11].

downloadÉ il momento di dare seguito ad alcune considerazioni d’insieme, raggruppando gli spunti che il testo fornisce a più riprese in tal senso. In parte si tratta di spunti per così dire occasionali, ma non di meno degni di essere raccolti. Per fare un esempio, vi è una nota proprio in coda alle conclusioni in cui con piglio sicuro viene individuato e descritto il crescere di importanza della malavita indiana, la sua candidatura, per così dire, a divenire una nuova mafia. Quasi nessuno ne parla, così come sono pochi gli studi sui gruppi di pressione indiani negli SU, negli affari (anche nel malaffare) come in politica. Eppure è la loro entrata in scena che ha reso possibile a suo tempo l’elezione di Trump (altro che suprematismo bianco!): in prospettiva, quando del singolare tycoon non si parlerà più, è presumibile che proprio l’emersione negli SU di un nuovo soggetto politico-istituzionale con solide basi nel mondo criminale risulterà il dato caratterizzante di quelle strane elezioni.

Altro profilo in certa misura estemporaneo, ma importante agli occhi del giurista del patrimonio, è quello relativo all’archeologia industriale. L’introduzione di tale nozione costituì a suo tempo una conquista, resa possibile dalla riforma, insieme formale e di contenuto, nell’applicazione della Convenzione UNESCO del 1972; tale riforma consentì negli anni ’90 al sistema delle Liste di trarsi dalla situazione di stasi in cui era caduto [12]. Tuttavia, a livello globale come locale, si sono posti ben presto problemi dovuti al, diciamo così, disinvolto utilizzo politico, svoltosi alle diverse latitudini, dell’espressione archeologia industriale. Senza forzare il confronto tra i vari ordini di grandezza presentati da tali problemi [13], mi limito a constatare la delicatezza estrema di ogni discorso legato all’archeologia industriale. Il caso preso in esame da Leccio e Omizzolo ne è, pur nella sua meschinità, conferma: una serie di istituzioni, non solo locali, si è spinta a definire, con colpevole superficialità, protezione di un patrimonio di archeologia industriale il mantenimento di una grande fabbrica dismessa da decenni che fa da base fisica all’ascesa del clan criminale, e costituisce in realtà un «iperluogo sociale di formazione e industrializzazione della devianza», espressione di un capitalismo predatorio.

978880625728higVenendo all’approfondimento della questione rom, con cui il libro si apre, sono condivisibili le considerazioni sulle conseguenze, per queste comunità particolarmente nefaste, del collasso del sistema del cosiddetto socialismo reale. Per le varie comunità rom ciò ha significato «la fine di molti diritti acquisiti, come la sedentarizzazione, l’inserimento in ambito prevalentemente industriale, un buon livello di scolarizzazione e di partecipazione all’attività politica e sindacale». Per quanto riguarda l’Italia, gli autori pongono l’accento sulle conseguenze dell’arrivo in Italia di molti profughi dalla ex-Jugoslavia, «tuttora privi della cittadinanza italiana». Forse vi è qualcosa di più: è all’opera in Europa occidentale, con la fine della Repubblica socialista federale di Jugoslavia, un diabolico meccanismo moltiplicatore del ritorno dell’apolidia. Si tratta di una apolidia ormai giunta alla terza generazione, strutturata, non più facilmente estirpabile nel disperato nomadismo continentale, senza via d’uscita, che la anima [14]. É questo il buco nero che inghiottisce di volta in volta i tentativi di normalizzazione della situazione. Tale ritorno dell’apolidia di massa (di appartenenti a specifiche minoranze si intende), per quanto non approfondito, richiama a gran voce situazioni proprie dei secondi anni ’30 [15].

In sintonia con il richiamo al pensiero della Harendt [16] emerge l’avvenuta comprensione da parte degli autori di Laboratorio criminale – e questo mi pare il dato centrale – di un profilo decisivo: la tendenza a giocare un ruolo crescente nel capitalismo post-liberista di una rete di cupi universi concentrazionari che in nessun modo possono essere considerati profilo periferico di una riformulazione del capitalismo in via di tragico consolidamento.

Qui però si apre una contraddizione, che non posso tacere: mi riferisco alla insistita evocazione nel libro dell’applicazione dell’art. 416bis come strumento atto a combattere la quinta mafia. Certo, è evidente come gli autori non facciano riferimento all’opportunità di un trattamento particolarmente duro, quanto piuttosto al riconoscimento di una soglia di pericolosità adeguata per un fenomeno così a lungo sottovalutato. Ma il 416bis non è astratto indice di soglie di pericolo dei destinatari, o quantomeno non solo questo: è anche un regime che si applica ai corpi di uomini e donne, che vi incorrono. La condanna di detto trattamento deve essere radicale, attenendo esso alla dimensione della tortura (magari sub specie di trattamento inumano, che della tortura è comunque articolazione specifica). Non appaiono lecite posizioni intermedie. Come reagiremmo se, di fronte alla proposta di introdurre il taglio della mano per punire i ladri, si replicasse sostenendo che … tale punizione va adottata con misura, solo per i furti più gravi, e comunque quando le sentenze siano passate in giudicato? Concluderemmo – o almeno così mi auguro – trattarsi di una posizione priva di senso, e soprattutto di diritto alcuno di cittadinanza.

Si tratta di uno scivolamento d’ala che in qualche nodo contraddice il valore strategico della tesi che attraversa il libro, al di là della pur encomiabile ricostruzione delle gesta dei Casamonica ed affini: quello di costituire ad un tempo una conferma a livello torico e una esemplare prova sul campo dello spaventoso dilatarsi della dimensione concentrazionaria nel capitalismo contemporaneo.

Mario Tronti, di mannelli

Mario Tronti, di Riccardo Mannelli

Ciò introduce, o forse interseca, due ordini di considerazioni finali, possibili oggetto di filoni di ricerca diversi ma convergenti. Per un verso mi riferisco al richiamo della realtà storica del colonialismo, particolarmente idoneo a definire il mondo in cui il volume si immerge. Riferendosi alla miseria dell’accoglienza nel nostro Paese, basata sulla mancata assunzione di consapevolezza del perché si deve accogliere, Omizzolo e Leccio affermano giustamente che ciò facendo «si gettano le basi di un’accoglienza, ancora una volta, concentrazionaria e criminale. Una forma di colonialismo all’ennesima potenza, in sostanza, di cui … si discute davvero poco» [17].

Per l’altro verso, vorrei riportare in chiusura l’intervento di uno dei maestri del pensiero di matrice operaista, che in un recente articolo in morte di Mario Tronti scrive di «messa a nudo dei nuovi poteri che controllano ormai la nostra stessa capacità di percepire, di apprendere, anzi che l’annichiliscono, rinchiudendoci nel loro metaverso. Che creano quell’individualismo massificato che Tronti indicava come il disastro maggiore nel suo ultimo intervento» [18]. Orbene, per quelli tra noi a giudizio dei quali tali poteri ci spingono ormai oltre, drammaticamente oltre, la stessa dimensione dell’individualismo massificato, Laboratorio criminale contribuisce a fornire un davvero apprezzabile terreno d’appoggio.


Dialoghi Mediterranei,
n. 64, novembre 2023
 
 Note
[1] Oltre a quelle uscite su siti o riviste on-line, richiamo la recensione pubblicata nella pagina culturale de Il Manifesto martedì 22 agosto 2023: Gabriella Di Mambro, Casamonica-Di Silvio, il “laboratorio” che ha generato una dinastia.
[2] Non che gli autori si perdano nelle citazioni letterarie: il richiamo delle baraccopoli consente loro di soffermarsi sulle condizioni disumane in cui esse crescevano, la mancanza di acqua potabile, la processione di politici che in occasione delle scadenze elettorali vi si fermava ad illudere ed ingannare gli infelici che vi vivevano: «Fior di politici romani hanno fatto carriera scambiando promesse in cambio di voti, da quelle parti. Bastava insegnare ai disperati, una volta procurati i documenti, a tracciare una croce sul simbolo della lista elettorale e i quattro numeri corrispondenti ad altrettanti candidati della medesima lista».
[3] Poiché peraltro esponenti di primo piano di tali cupe esperienze sarebbero saliti a ruoli istituzionali nazionali con l’ascesa al governo di Fratelli d’Italia, dobbiamo con amarezza convenire che, in certo senso, la previsione di Fini si è avverata
[4] Il primo capitolo, dedicato alla questione rom, introduce questioni su cui intendo tornare in seguito.
[5] La prassi della decretazione emergenziale tesa alla costruzione di una rete di commissari straordinari da parte di quel governo (al netto delle documentate pratiche di … cene eleganti in cui taluno tra costoro si sarebbe prontamente esibito dopo l’insediamento, giusta l’esempio fornito dal comune mentore e maestro di vita) meriterebbe di essere oggetto di analisi politico-giuridica, oltre che sociologica, attenta.
[6] La lezione di Fanon appare, ne siano o meno coscienti direttamente gli autori, presente. Sul ritorno di questo autore, sul quale non ho tempo in questa sede intervenire, consiglio lo stimolante testo di Lorenzo Bernini, Ftantz Fanon. Violenza/Colonia/Razza/Sesso/Velo, Deri veApprodi, Roma, 2023.
[7] Omizzolo e Leccio richiamano giustamente alla nostra memoria una data precisa, il 20 aprile 2008: si tratta del giorno in cui l’intervento di Maria Giovanna Maglie su Il Giornale, dal raffinato titolo “Maledetti buonisti”, inaugura la squallida campagna.
[8] Non sottovaluterei quanto riportato alle pp. 92-93, circa la decretazione d’urgenza in relazione al nuovo campo nomadi di Latina. Si trattava di decretazione chiaramente non regolare ed infatti doverosamente cassata dal CdS, ma mai rivista o modificata, anche solo sotto il profilo della regolarità amministrativa, da parte dell’amministrazione territoriale. La conseguenza fu la mancata erogazione dei soldi stanziati (ma in parte già spesi), lasciando la situazione sul campo eguale a quella che era: neppure i pullmini per portare a scuola figli dei degli abitanti del campo furono in seguito trovati.
[9] Documentata dalla diversità di passo tra la conclusione del cap. 12 e l’inizio del successivo. Cfr. anche nota successiva.
[10] Colpisce la spiegazione dell’insistita partecipazione dei bambini a tali cerimonie, partecipazione che viene ritenuta utile alla “formazione della memoria del defunto”. Insomma il funerale è cerimonia centrale nella cultura rom, in cui nulla deve essere lasciato al caso.
[11] In particolare, per quanto riguarda il RU, il fenomeno risulta in espansione in talune regioni del Paese. Un esponente della Polizia parla di «Millionary gypsy gang who got rich on slavery ring jailed for 79 years».
[12] Mi riferisco insieme alla Revisione nel 1972 delle Linee guida operative all’applicazione della Convenzione, tramite l’inserimento dei cd cultural landscapes (Operational Guidelines for the Implementation of the World Heritage Convention, par. 47), e al documento Strategia globale, pubblicato dal Comitato intergovernativo per la protezione del patrimonio mondiale culturale e naturale, di lì a poco. Rimando in materia a Lauso Zagato, Simona Pinton, Marco Giampieretti, Lezioni di diritto internazionale ed europeo del patrimonio culturale, Cafoscarina, Venezia, 2019, ed alla bibliografia ivi contenuta.
[13] Gravissimi in particolare i problemi legati alla proclamazione qualche anno fa dei paesaggi di archeologia industriale giapponese (secondo ottocento e inizi del XX secolo), nel corso di una industrializzazione costruita sullo sfruttamento alla morte di centinaia di migliaia di coreani, in pratica schiavi importati. Malgrado la moderazione della richiesta coreana, che non si opponeva alla candidatura in sé ma chiedeva che alla lesione dei diritti umani di questa massa di manodopera servile si facesse cenno nella proclamazione, il Comitato intergovernativo UNESCO si è allineato colpevolmente alla proposta di proclamazione giapponese.  Ho accennato alla questione in questa rivista: Lauso Zagato, Sul patrimonio dissonante e/o divisivo, in Dialoghi mediterranei, 55, 1 maggio 2022. Cfr. anche il dibattito che si è aperto su FaroVenezia (www.farovewenezia.it) riguardo alla nozione di patrimonio dissonante.
[14] Oggetto di riflessioni ed indagini sul finire del primo decennio del secolo – v. Vittorio De Napoli, La condizione di apolidi di fatto di molti rom originari dell’ex Yugoslavia, in Gli stranieri, 2007: 29-33 -   la questione dell’apolidia di ritorno sembra sparita dai radar dell’informazione in seguito, ma non certo per essersi risolta.
[15] La intuizione del ritorno della questione apolidia in nuove forme contribuisce mio avviso a spiegare il ritorno di attenzione, imprevisto quanto salutare, verso il volumetto della Harendt Noi rifugiati, autentico gioiello nascosto nella produzione scientifica della studiosa, tenuto tenacemente ai margini del dibattito interno al mainstream politico (sulle due sponde dell’Atlantico, oltre che in Israele). V. Hannah Arendt, Noi rifugiati, Einaudi, Torino, 2022, di cui va letto con attenzione anche il saggio inserito a mo’ di postfazione: Donatella Di Cesare, Hannah Arendt e i diritti dei rifugiati: 34 ss.
[16] V. nota precedente.
[17] Voglio evitare di legare l’apprezzamento del volume a riferimenti autoriali miei, che magari non coincidono con quelli degli autori: ma la vicinanza ad alcuni passaggi fanoniani mi ha colpito davvero molto (v. supra, nota 7).
[18] Sergio Bologna, Strappiamo Tronti ai salotti buoni!, in Machina, 18 agosto 2023. 

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Lauso Zagato, giurista, già docente di Diritto Internazionale e Diritto dell’Unione Europea all’Università Ca’ Foscari di Venezia, è stato anche titolare del corso di Diritti umani e politiche di cittadinanza presso il Corso di laurea specialistica in Interculturalità e cittadinanza sociale della stessa Università. Si è occupato in particolare di problemi legati ai profili internazionali e comunitari della protezione della proprietà intellettuale, di diritto umanitario e di tutela dei beni culturali nei conflitti armati, nonché del patrimonio culturale intangibile e delle identità culturali delle minoranze e dei popoli indigeni. Tra i suoi lavori: La politica di ricerca della Comunità europea (1993); La protezione dei beni culturali in caso di c onflitto armato all’alba del secondo Protocollo 1999 (2007). Ha curato il volume collettaneo Verso una disciplina comune europea del diritto d’asilo (2006) e, più recentemente: Le culture dell’Europa, l’Europa della cultura (2012 con M. Vecco); Citizens of Europe. Culture e diritti (con M. Vecco); Cultural Heritage. Scenarios 2015-2017 (con S. Pinton); Il genocidio. Declinazioni e risposte di inizio secolo (2018); Lezioni di diritto internazionale ed europeo del patrimonio culturale (2019, con S. Pinton e M. Giampieretti). È stato tra fondatori, e poi Direttore, del Centro studi sui diritti umani. Attualmente coordina il gruppo di ricerca su “La difesa del patrimonio e delle identità/differenze culturali in caso di conflitto armato”, che opera sotto l’egida della Fondazione Venezia per la ricerca sulla pace.

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