Introduzione
La redazione di questo breve dizionario è stata da me iniziata nel corso degli anni ’90, quando ebbi l’opportunità di operare, all’interno del “Forum per l’intercultura”, un grande progetto che si svolse a Roma sotto l’impulso del direttore della Caritas Mons. Luigi Di Liegro, a cui stava tanto a cuore un’armoniosa convivenza sociale e religiosa. Negli incontri, da noi organizzati sui temi dell’immigrazione e della multireligiosità, e specialmente nei corsi per l’aggiornamento dei docenti nelle diverse scuole, mi resi conto che conta ben poco l’erudizione, se manca la capacità di esporre i contenuti con stile semplice ed essenzialmente accessibile.
Un impegno funzionale per impratichirmi in questa direzione fu la cura delle schede per il vademecum Gli immigrati a Roma. Luoghi d’incontro e di preghiera, facendo rileggere i miei testi anche ad amici delle diverse comunità religiose [1]. Questo prezioso volumetto, che tra il 1998 e il 2014 conobbe sei edizioni, purtroppo in seguito non è stato più pubblicato. In un dizionario così sintetico era fuori posto indicare riferimenti bibliografici, che per ciascuna delle religioni presentate sarebbero stati quanto mai numerosi. Non ho mancato, però, di menzionare spesso un’opera alla quale mi sono fortemente ispirato: si tratta de La Chiesa cattolica in dialogo con le altre religioni del mondo, curata dal Pontificio Consiglio per il Dialogo Interreligioso [2]. È opportuno aggiungere che il fatto di aver scritto spesso sulla diversità religiosa e di essere stato operativamente a stretto contatto con persone di diversa confessione religiosa ha ulteriormente accentuato la ricerca della semplicità espositiva, evitando comunque di incorrere nella superficialità.
Ho pensato che il risultato di un così lungo cammino potrebbe essere d’aiuto ad altre persone interessate ad uno sguardo d’insieme sulle grandi religioni del mondo e, perciò, ho deciso di pubblicare nuovamente queste schede nella loro versione aggiornata e ampliata.
La religione ebraica è strettamente connessa con la storia di questo popolo. L’inizio della storia ebraica risale a 4000 anni fa, quando Abramo (XIX secolo a. C.) lasciò la Mesopotamia per andare verso un’altra terra promessa da Dio. Questa promessa, da allora fino ad oggi, continua ad esprimersi attraverso il rito della circoncisione. Ad Abramo è stata promessa la discendenza di un popolo eletto per testimoniare al mondo un Dio unico e misericordioso. Trasferiti dalla terra di Israele in Egitto, dove restano per circa 400 anni, nel cammino di avvicinamento a Israele si attua la promessa e Mosè riceve sul monte Sinai le tavole della legge con i dieci comandamenti.
L’ulteriore storia di questo popolo è molto tormentata. Nel 586 a.C. Nabucodonosor distrugge il tempio e inizia, quindi, l’esilio babilonese. Numerose sono le traversie anche successivamente. Nel periodo della dominazione romana la figura di Gesù Cristo non è stata accettata come Messia, in quanto non gli sono stati riconosciuti i segni dell’unto di Dio. Nel 70 d.C. Gerusalemme con il secondo santuario (costruito nel 516) viene definitivamente distrutta dall’imperatore Tito: inizia la diaspora degli ebrei in tutto il mondo. Del tempio oggi resta solo il muro del pianto. L’attaccamento alla loro identità espone gli ebrei ad essere spesso assoggettati a persecuzioni o comunque a essere privati del pieno riconoscimento dei diritti: non sono mancati i casi di espulsione collettiva. Nel secolo XVI in Italia vengono istituiti i ghetti, zone di residenza coatta, con l’obbligo di rientro per trascorrervi la notte e talvolta anche di portare un segno di riconoscimento.
Come reazione al perdurante antisemitismo già dalla fine dell’Ottocento si pensò alla fondazione di uno Stato indipendente con centro a Gerusalemme. Dopo lo sterminio nazista e l’Olocausto di 6 milioni di ebrei, il desiderio di una terra viene soddisfatto ufficialmente nel 1948 con l’assegnazione del territorio di Israele. Il gruppo ashkenazita (Ashkenaz, Germania) è quello dell’Europa centro-orientale, che ha dato luogo alla cultura yiddish, mentre quello sefardita (da Sefarad, Spagna) è quello spostatosi dalla Spagna nel Nord Africa, nell’impero ottomano e nella Palestina.
La struttura sociale ebraica fa perno sulla figura del rabbino (maestro) e sullo studio della dottrina, scritta e orale. Il culto domestico si caratterizza per la benedizione del pane a opera del capofamiglia all’inizio del pasto, che si chiude con il ringraziamento a Dio. La cena del venerdì sera è preceduta dall’accensione delle candele da parte della madre e dalla benedizione del vino per consacrare la festa del sabato. Gli ebrei mettono al centro della loro vita la parola di Dio trasmessa attraverso le scritture. La Bibbia, libro ispirato da Dio, viene suddiviso dagli ebrei in tre parti: il Pentateuco, i Profeti e gli Scritti sapienziali. Il “Talmud”, che si è costituito gradualmente come commento orale alla Tōrāh, aiuta a capire i precetti, i divieti e gli aspetti etici della religione ebraica.
I presupposti dottrinali dell’ebraismo sono tre: Dio, un popolo e un’alleanza. Il carattere prevalentemente pratico della religione ebraica non è stato favorevole alla formazione di dogmi e di sistemi teologici. La sistemazione teologica ha insistito su alcuni punti: la figura di Dio (esistenza eterna, onniscienza, incorporeità) e il dovere di credere in Lui e di adorarlo; la superiorità della profezia di Mosé; l’esistenza di un complesso di precetti nel cammino verso Dio; il rispetto del sabato, festa dedicata al riposo e alla santificazione; la futura venuta del Messia che ristabilirà la giustizia e ridarà tranquillità al suo popolo e a tutta l’umanità; la resurrezione dei morti. Nel giudaismo non esiste la preoccupazione missionaria. Infatti, l’universalismo ebraico non consiste nel tentativo di uniformare tutti i popoli alle proprie idee, ma nel riconoscere la legittimità delle altre culture e religioni purché siano rispettate le sette leggi dettate a Noè secondo la Bibbia.
Gli ebrei oggi, circa 15 milioni, contano le e maggiori presenze, negli Stati Uniti, in Israele e in Europa. Essi si ripartiscono in ebrei ortodossi (quelli più numerosi), conservatori e riformati. Gli ebrei laici sono quelli che si identificano con la storia della loro comunità, senza però condividerne i valori religiosi.
Il nucleo centrale del cattolicesimo è imperniato sulla figura di Gesù Cristo, come avviene anche nelle altre confessioni cristiane. Riprendiamo alcuni brani dal volume Camminare insieme.
«Il cristianesimo si fonda sugli insegnamenti di Gesù Cristo, attraverso il quale Dio si è completamente e definitivamente rivelato. Come Figlio incarnato di Dio, Gesù nacque ebreo, visse e morì nell’antica Palestina, il crocevia di tre continenti e di tre civiltà: Asia, Africa e Europa. Nella persona di Gesù Cristo, l’umana ricerca di Dio, della Verità Assoluta, trova la sua risposta. in Cristo, l’uomo trova, definitivamente e completamente, ciò che ha sempre cercato attraverso le varie religioni.
Inviato da Dio a salvare l’umanità intera, Gesù visse una vita di totale compassione nei confronti degli uomini. Egli rese manifesta la presenza salvifica di Dio restituendo la vita ai ciechi, guarendo gli zoppi e i paralitici, curando gli infermi e resuscitando i morti, e realmente divenne la “vita” di tutti gli uomini. Gesù rivelò all’umanità che in un solo Dio vi sono tre Persone: il Padre, il Figlio e lo Spirito Santo.
Con le sue parole e il suo comportamento, Gesù ferì l’orgoglio dei capi religiosi del paese, i quali decisero di eliminarlo. Egli lo sapeva, ma non fece nulla per sfuggire il pericolo che minacciava la sua vita. Fu condannato all’empia tortura della morte per crocifissione, come Lui stesso aveva profetizzato. Alcuni discepoli ottennero dal governatore il permesso di seppellire il corpo di Gesù. La tomba fu affidata alla stretta sorveglianza dei soldati, eppure, tre giorni dopo la morte, fu trovata vuota e Gesù, risorto dalla morte come aveva promesso, si mostrò assai chiaramente e in numerose occasioni ai suoi discepoli. Egli ha promesso che alla fine dei tempi tornerà di nuovo, nella gloria, a raccogliere i frutti dei semi che ha seminato, per dare a ogni uomo e a ogni donna la giusta ricompensa secondo la vita che avrà vissuto.
Gli eventi principali della vita di Gesù e le parole della sua predicazione ci sono stati tramandati dai discepoli attraverso i quattro libri dei Vangeli, che costituiscono, per i cristiani, la parte più preziosa del Nuovo Testamento, la parte della Bibbia che costituisce la Nuova Alleanza. L’altra parte della Bibbia, l’Antico Testamento, è comune anche agli ebrei e ai cristiani.
Egli conferì agli apostoli un ruolo speciale nella predicazione e nella diffusione del suo messaggio. Fra essi, Gesù scelse Pietro come capo e gli affidò la cura e la direzione di tutti coloro che avrebbero creduto in lui. Tuttavia, nel corso dei secoli, la rivalità umana, il nazionalismo e i fraintendimenti reciproci hanno sfortunatamente portato al dissenso e alla divisione in seno alla cristianità. Oggi la Chiesa cattolica si sforza di presentare il messaggio del Vangelo in tutta la sua carica di liberazione, anche se è consapevole dei limiti e della debolezza che, nel corso della storia, hanno diminuito l’efficacia della sua testimonianza.
Il mistero della Santissima Trinità, inaccessibile alla ragione, è il mistero centrale della fede cristiana. Credendo nella Santissima Trinità, i cristiani non professano la fede in tre dei, ma in un solo Dio in tre persone. Gli esseri umani furono creati per essere in amicizia con Dio, ma il peccato ha spezzato questo rapporto. L’intera stirpe umana è coinvolta nel peccato commesso da Adamo, che porta alla morte come conseguenza diretta. Tuttavia, l’umanità peccatrice non viene abbandonata da Dio in balìa della morte; infatti Dio manda il Figlio, il “Verbo fatto carne”, nella persona di Gesù Cristo, per salvare l’umanità caduta nel peccato.
Gesù è veramente uomo senza cessare di essere veramente Dio. Egli è l’unico mediatore fra Dio e l’umanità. Ogni cosa è stata creata in Lui e attraverso di Lui, e ogni cosa va verso di Lui. La potenza di Dio si è rivelata attraverso i miracoli compiuti da Gesù, mentre l’amore di Dio si è reso manifesto soprattutto attraverso il dono totale che Gesù ha fatto della propria vita. La sua passione, la sua morte sulla croce e la sua resurrezione costituiscono gli autentici mezzi della salvezza divina. L’amore per Dio e per il prossimo costituisce l’essenza della vita cristiana, anche quando ciò implichi sofferenza e morte. Ogni cristiano partecipa alla vita di Cristo attraverso i Sacramenti della Chiesa: l’Eucaristia è il momento più alto della liturgia cristiana, nonché la fonte permanente di tutta la vita cristiana. La preghiera fa parte della vita quotidiana di ogni cristiano. La domenica, la comunità cristiana si riunisce per la celebrazione solenne dell’Eucaristia».
Ortodossia è il termine che significa retta glorificazione di Dio, retta fede, e cioè quella praticata nel primo millennio della vita cristiana. L’ortodossia raggruppa le Chiese sorte nell’antico Impero romano d’Oriente, che sono in comunione con il patriarcato ecumenico di Costantinopoli che, pur avendo perso la sua antica influenza a seguito della prevalenza dei turchi (musulmani), è venerato da tutta la comunità ortodossa come la sede primaria. Le Chiese locali ortodosse sono autocefale, quando godono di una indipendenza completa, o autonome, quando godono di una indipendenza parziale. Gli ortodossi, che condividono con i cattolici la fede cristiana, sono i primi ad essersi staccati dalla Chiesa di Roma. Bisogna rifarsi alle vicende storiche (diversità di mentalità e di condizioni di vita e anche mancanza di mutua comprensione) per riuscire a inquadrare il contesto di questa dolorosa separazione.
Costantino, dopo essere diventato l’unico imperatore a seguito della vittoriosa battaglia di Ponte Milvio (312), scelse Bisanzio come sede imperiale, dandole il nome di Costantinopoli (l’odierna Istanbul): caduta nel 410 Roma in mano ai barbari, la città divenne per quasi mille anni la roccaforte della cristianità, distinguendosi per l’alto grado di cultura. Confrontate con la nascita dell’islam (VII secolo) e la sua forte diffusione, le Chiese cristiane orientali conoscono non pochi problemi operativi.
La rottura definitiva con l’Occidente avvenne nel 1054 per un motivo eminentemente teologico, mentre in precedenza era emerso anche il diverso orientamento nell’inquadrare la supremazia del vescovo di Roma: il rapporto dello Spirito Santo rispetto alle altre due persone della Trinità. Non bisogna dimenticare che a livello politico i rapporti erano andati progressivamente inasprendosi a causa delle crociate, indette dalle Chiese occidentali contro i turchi per liberare la Terrasanta. La quarta crociata, nel 1204, fu addirittura dirottata contro la stessa Costantinopoli, con saccheggio della città e della cattedrale di Santa Sofia e insediamento di un imperatore latino. Ciò favorì, tra l’altro, la pressione islamica nel Vicino Oriente e nei Balcani. Nel 1453 Costantinopoli cade in mano ai turchi, che tuttavia permisero, seppure con rigide limitazioni, la pratica della religione cristiana, così come prescrive l’islam per le altre due religioni del libro (la Bibbia): il cristianesimo e l’ebraismo.
Nei Paesi del Vicino e Medio Oriente, in un contesto di rapporti difficili con le popolazioni locali a cause di politiche di intolleranza intese a favorire l’islam, il numero degli ortodossi è notevolmente diminuito come anche quello dei cattolici. Nei Paesi dell’Est europeo, invece, le comunità ortodosse sono sopravvissute alle difficoltà e alle vere e proprie persecuzioni dei regimi marxisti, e dispongono adesso di un più ampio spazio di intervento.
Il nucleo teologico, a parte le differenze alle quali si è accennato, è lo stesso condiviso dai cattolici. La conformazione organizzativa è, invece, molto differente. Ogni chiesa ortodossa si configura come una Chiesa indipendente con patriarchi e vescovi: primi fra tutti sono i quattro patriarchi delle antiche sedi di Costantinopoli, Alessandria, Antiochia e Gerusalemme. Le liturgie, nei singoli Paesi, vengono celebrate in riti (bizantino, alessandrino, antiocheno, caldeo, armeno) e lingue diverse; mentre la comunione viene distribuita sotto le due specie. I sacerdoti possono sposarsi ma non i vescovi. Sul piano del culto è una loro caratteristica quella di privilegiare, rispetto alle raffigurazioni tridimensionali, le icone (immagini dipinte sul legno).
Il Concilio Vaticano II, nel decreto sull’ecumenismo, così scrive: «Le Chiese d’Oriente e d’Occidente hanno seguito durante non pochi secoli una propria vita, unite però dalla fraterna comunione di fede e della vita sacramentale. Non si deve ugualmente passare sotto silenzio che le Chiese d’Oriente hanno fin dall’origine un tesoro, dal quale la Chiesa d’Occidente molte cose ha prese nel campo della liturgia, della tradizione spirituale e dell’ordine giuridico. Né si deve sottovalutare il fatto che i dogmi fondamentali della fede cristiana, quali quelli della Trinità e del Verbo di Dio incarnato da Maria Vergine, sono stati definiti in Concili ecumenici celebrati in Oriente. E per conservare questa fede quelle Chiese molto hanno sofferto e soffrono»
La seconda separazione all’interno del mondo cristiano, dopo quella degli ortodossi, è avvenuta in Occidente con le Chiese protestanti, dopo un lunghissimo periodo di vita che il popolo cristiano aveva trascorso nella comunione ecclesiale. Il movimento della Riforma è nato nel 1517 con le 95 tesi di Lutero che, allo scopo di restituire alla Chiesa il volto evangelico originario, propose questo programma: sola scrittura, solo Cristo e sola fede. Un precedente storico della Riforma protestante si ebbe nei seguaci del commerciante francese Pietro Valdo (il 1174 fu l’anno della sua conversione) a un cristianesimo vissuto con coerenza e i suoi seguaci, perseguitati, si rifugiarono in alcune valli del Piemonte, rimanendovi fino ai nostri giorni.
I principi fondamentali delle Chiese protestanti, dette anche evangeliche in quanto hanno inteso rinnovarsi secondo il vangelo (le chiese calviniste si chiamano invece riformate), sono:
- salvezza per la sola fede, nel senso che fede significa capire che Gesù è la luce della nostra vita, il messia, il liberatore che ci ha riscattato dal male;
- rapporto diretto tra Dio e l’uomo, senza la mediazione sacerdotale (il sacerdozio è ritenuto universale) i sacramenti e i culti accessori alla Madonna e ai santi
- sono riconosciuti solo due sacramenti: il battesimo, che è segno della nostra morte e resurrezione in Cristo; la cena del Signore o eucaristia, che è segno visibile della spirituale comunione fraterna tra coloro che credono in Lui;
- la centralità della Bibbia per la fede e la vita del cristiano;
- la Chiesa intesa come assemblea dei credenti senza costruzioni sacrali e gerarchie intese come canale obbligato per la salvezza: tutti i fedeli partecipano al sacerdozio, per cui l’istituzione ecclesiastica non deve considerarsi più intermediaria giuridico-sacramentale della salvezza. Le Chiese evangeliche, sempre in cammino e sempre da riformare, sono solo il luogo di incontro dove chi crede in Cristo deve poter vivere la sua libertà attraverso un governo democratico: per questo viene rifiutata l’autorità del Papa. Per i protestanti è sacra, invece, la vita di tutti i giorni, in quanto dedicata all’amore per Dio e per i fratelli.
In Italia sono presenti le Chiese valdesi, luterane, battiste e metodiste. Ad esse si aggiungono un gran numero di Chiese e comunità libere: evangelici indipendenti, assemblee di Dio, avventisti e pentecostali. Invece i mormoni e i testimoni di Geova non vengono considerati (e non si considerano) cristiani evangelici. I protestanti italiani sono, secondo recenti stime, tra le 350 e le 450 mila unità. Tra le loro feste vanno segnalate, quella del 17 febbraio che ricorda le libertà civili concesse dal re Carlo Alberto ai valdesi con possibilità di uscire dal ghetto alpino, e la domenica più vicina al 31 ottobre, detta anche festa della riforma perché ne ricorda le esigenze.
Le Chiese protestanti, anche se non hanno un’unità centrale e hanno conosciuto dissensi e perfino scismi, hanno saputo conservare nel tempo un certo grado di unità. Nel 1973 i luterani e i riformati hanno raggiunto la piena comunione, mentre in seguito si sono aggregati i metodisti. Dal 1967 opera in Italia la Federazione delle Chiese evangeliche e, al suo interno, battisti, metodisti e valdesi hanno sottoscritto un accordo di reciproco riconoscimento. Passi in avanti sono stati fatti anche sulla via dell’ecumenismo con i cattolici. Il 31 ottobre 1999 è stato approvato un documento congiunto sulla giustificazione dalla Federazione luterana mondiale e dal Pontificio Consiglio per la promozione dell’unità dei cristiani.
Il Concilio Vaticano II, nel decreto sull’ecumenismo, così si pronuncia a riguardo delle Chiese protestanti: «Sebbene il movimento ecumenico e il desiderio di pace con la Chiesa cattolica non sia ancora invalso ovunque, nutriamo speranza che a poco a poco cresca in tutti il sentimento ecumenico e la mutua stima. Bisogna però riconoscere che tra queste Chiese e comunità e la Chiesa cattolica vi sono importanti divergenze, non solo d’indole storica, sociologica, psicologica e culturale, ma soprattutto d’interpretazione della verità rivelata». Quindi il Concilio, rivolgendosi a quelli che Paolo II successivamente chiamerà “i fratelli ritrovati”, aggiunge di rallegrarsi vedendoli «tendere a Cristo come alla fonte e al centro della comunione ecclesiastica. La sacra scrittura nello stesso dialogo costituisce l’eccellente strumento nella potente mano di Dio per il raggiungimento di quella unità, che il Salvatore offre a tutti gli uomini».
La religione musulmana (o islam e cioè sottomissione a Dio), della quale Maometto (Muhammad) è stato profeta, è quella più diffusa nel mondo dopo il cristianesimo. Maometto, nato nel 569 d.C., operò come commerciante a La Mecca e, pur avendo conosciuto forme di ebraismo e di cristianesimo, ricercò il contatto diretto con Dio (Allah). Ricevuta la sua rivelazione, predicò l’islam alla Mecca e, essendo stato perseguitato, nel 622 emigrò a Medina. L’anno della sua emigrazione, in arabo hijra (egira), ha segnato l’inizio del computo dell’era musulmana. A Medina Maometto formulò e realizzò il concetto di Stato islamico. Tornato alla Mecca, liberò la città dall’idolatria, restituendo la “ka’ba”, santuario a forma di cubo, al suo monoteismo originario. Egli morì nel 632 all’età di 63 anni. I suoi successori furono i califfi (vicari di Dio sulla terra) fino al 1924, anno in cui il presidente turco Kemal Ataturk abolì ufficialmente tale carica.
L’islam considera gli ebrei e i cristiani come “popolo del libro”, la cui forma di fede viene ritenuta superata dalla rivelazione definitiva che Maometto ha asserito di avere ricevuto. La “umma” è la fraternità religioso-sociale degli aderenti all’islam, che si dividono tra sunniti (circa il 90%), seguaci dell’impostazione tradizionale, e sciiti, secondo i quali “l’imam”, discendente di Maometto tramite Ali e Fatima (genero e figlia del profeta musulmano), è l’unico a conoscere il vero significato della legge.
Il testo sacro dell’islam è il Corano, e cioè la recitazione che Maometto, venerato come l’ultimo dei profeti, fece della rivelazione divina da lui ricevuta, poi trasmessa ai primi discepoli. La “sunna” è, invece, la trasmissione orale dei detti, dei fatti e dei comportamenti di Maometto. La “shari’a” è la legge islamica, basata sul Corano e sulla sua tradizione, che dovrebbe regolare il funzionamento dell’intera società. Cinque sono i pilastri islamici del culto:
- La professione di fede. «Non vi è divinità all’infuori di Dio e Maometto è l’inviato di Dio»: questa formula conferisce la qualità di musulmano e garantisce la ricompensa eterna a chi la pronuncia con cuore sincero prima di morire.
- La preghiera rituale. Viene recitata cinque volte al giorno, in direzione della Mecca, in momenti e tempi ben precisi, dopo la purificazione di anima e corpo mediante abluzioni. La preghiera può essere individuale o collettiva: in questo caso, come avviene per esempio il venerdì, i fedeli seguono un “imam” (“colui che sta davanti”, cioè che si trova nella prima fila degli oranti, in moschea), ripetendone i gesti, le parole e le prostrazioni. A tali riti si può aggiungere la salmodia di alcuni versetti coranici.
- L’elemosina legale. Consiste in una tassa del dieci per cento su tutti i redditi dell’anno da devolvere alla cassa della comunità: oggi questa elemosina è stata inglobata nelle tasse statali, mentre è libera l’elemosina non rituale.
- Il digiuno di “ramadan”. In questo mese, in cui sarebbe stato rivelato il Corano a Maometto, la comunità musulmana pratica una sorta di ritiro spirituale collettivo. Dalla prima luce dell’alba fino al tramonto non si mangia, non si beve, non si fuma, non si prendono medicine, non si hanno rapporti coniugali, mentre di notte si festeggia o si prega nelle moschee. Il “ramadam” termina con la festa di rottura del digiuno (Aid al-fitr), che include un’elemosina speciale.
- Il pellegrinaggio. Ogni musulmano, almeno una volta nella vita e a condizione di avere a disposizione dei mezzi sufficienti, ha l’obbligo santo di recarsi alla Mecca e a Medina, città sante dell’islam, dove si svolgono riti precisi nell’ultimo mese dell’anno lunare liturgico (Dhu al-hajj). (A questi pilastri alcuni aggiungono il “Gihad”, e cioè lo sforzo o la guerra santa a difesa dell’islam, da alcuni intesa in senso spirituale e da altri in senso bellico).
I musulmani, a seguito dei flussi migratori, sono diventati numerosi anche nei Paesi europei, dove si auspica assumano una forma maggiormente conforme a una società laica. Non sono poche, però, le difficoltà oggettive che restano da superare. Come ha raccomandato il Concilio Vaticano II (Dichiarazione “Nostra Aetate”), «nel corso dei secoli, non pochi dissensi e inimicizie sono sorti tra cristiani e musulmani», per cui bisogna ora abituarci «a dimenticare il passato e a esercitare sinceramente la mutua comprensione, nonché a difendere e promuovere insieme per tutti gli uomini, la giustizia sociale, i valori morali, la pace e la libertà».
La bellezza di questo insieme variegato di religiosità è stata molto bene sintetizzata dal Concilio Vaticano II, (Dichiarazione “Nostra Aetate”):
«Nell’induismo gli uomini scrutano il mistero divino e lo esprimono con la inesauribile fecondità dei miti e con i penetranti tentativi della filosofia: essi cercano la liberazione dalle angosce della nostra condizione sia attraverso forme di vita ascetica, sia nella meditazione profonda, sia nel rifugio in Dio con amore e confidenza».
Molti elementi del vasto bagaglio culturale e religioso definito per convenzione “induismo” sono condivisi da circa l’80% della popolazione indiana, che da questi insegnamenti è stata profondamente influenzata. Nel caso dell’induismo si presenta, al posto del concetto classico di religione, un composto di fattori religiosi e sociali. Non è, quindi, possibile identificare un fondatore di questi contenuti. La mancanza di una norma unitaria e di una gerarchia ha aperto la strada a una grande varietà di credenze e di denominazioni.
Il patrimonio letterario dell’induismo, conosciuto come “Veda”, è giunto alla redazione a noi pervenuta al 1500 a.C. e a seguito di diversi ritocchi si colloca alla base della spiritualità e della cultura religiosa indiana. La sua parte centrale e più antica consiste in una serie di “raccolte” (samitha) di inni, colti nell’intimo dai poeti, vati e veggenti indiani e successivamente tramandati attraverso l’opera della classe brahmanica. Si tratta di quattro raccolte a carattere speculativo, filosofico e, nel caso di certe Upaniṣad a carattere mistico. Si tende a promuovere una forma di interiorizzazione del sacrificio vedico, stabilendo il primato della persona sul rito: un atteggiamento che, tra l’altro, si ritrova ampiamente nella rivoluzione “laica” del Budda contro il clericalismo e il sistema delle caste. In queste opere il “karman” (inteso inizialmente come “atto sacrificale”) cessa di essere una liturgia esteriore, divenendo il nucleo fondamentale dell’esperienza dell’uomo.
Una più articolata e sistematica riflessione filosofica si è concretizzata poi in sei principali “scuole” o “visioni della realtà” (darsana), di cui una, antichissima, è lo yoga, una pratica “terapeutica”, spesso rintracciabile in molte tra le più tarde correnti di meditazione indiana (buddismo compreso), che intende condurre l’uomo alla liberazione dal ciclo delle rinascite (samsara), passando attraverso l’acquietamento della mente raggiunto tramite determinate tecniche psicofisiche.
Sui concetti fondamentali dell’induismo si è a lungo elaborato nell’ambito delle diverse scuole. Il “dharma”, che corrisponde alle nozioni di giustizia, virtù e bene, è una sorta di legge della natura che governa l’universo e ne stabilisce l’ordine morale: ad essa l’individuo deve conformarsi nel modo più consono al proprio stato sociale e alla situazione in cui si trova.
La “dinamica delle rinascite”, strettamente legata alla “legge del karman”, assegna all’essere umano, a seconda dei suoi meriti e demeriti, un ciclico trasmigrare di vita in vita. L’uomo si riveste di differenti forme, anche non umane, prima di raggiungere la purificazione, ottenuta grazie al compimento di opere buone (punya). Per certe scuole a condurre alla liberazione è la consapevolezza che l’imperitura origine di tutte le cose (Brahman) risiede anche nel sé (atman), fatto che crea una diretta corrispondenza tra macro e micro cosmo. In altri contesti, il fedele, per evitare l’azione negativa (vikarman), è portato al non agire, praticando l’ascesi e altre tecniche.
Non è unanime il consenso sulla sussistenza nell’induismo del concetto di “Dio”. Nei vari ambiti di culto si riscontrano opzioni monoteistiche ed unificatrici, a carattere monistico, ma anche altre imperniate su una sorta di pantheon panteistico pluralistico. Secondo una concezione, più recente formulazione dovuta all’insegnamento del maestro Sankara (circa VII-VIII secolo d.C.), il sé “individuale (atman) sarebbe della medesima natura dello spirito supremo (Brahman), talvolta identificato nel suono sillabico “OM”
Nell’induismo sono assai ricorrenti tre figure di divinità (Brahma, Visnu e Siva), talvolta riunite nella trimurti o triade indiana, raffigurata da un corpo con tre teste. Nell’induismo hanno grande importanza, come attestano le regolari visite e i molti pellegrinaggi, i numerosi luoghi sacri, sparsi a centinaia per tutta l’India: sono luoghi carichi di devozione, che ricordano ai fedeli la discesa in terra (avatara) delle diverse divinità.
Il legame tra l’India e l’Occidente, un dialogo in corso da vecchia data, è andato intensificandosi a partire dal secolo XVI a seguito degli scambi commerciali e della colonizzazione. Va anche ricordato che il primo incontro del gesuita P. Matteo Ricci con le religioni orientali fu quello con l’induismo, prima che si trasferisse in Cina.
Il giainismo è stato fondato nel VI secolo prima di Cristo da Vardharmana Mahavira (letteralmente “il grande eroe”), un contemporaneo del Buddha. Ancora giovane, egli scelse di diventare un asceta e i suoi seguaci lo venerano come l’ultimo maestro. Il termine Jaina significa letteralmente lo spirito vittorioso, il vivente, l’eterno!. Quella di Jana è la condizione spirituale più elevata.
Il giainismo è praticato da alcuni milioni di persone che vivono in prevalenza nell’India settentrionale. La comunità è composta da monaci e monache, sempre in viaggio, senza una fissa dimora, salvo nella stagione delle piogge. La comunità è composta anche da laici e laiche che a differenza di quanto avviene nelle altre religioni, sono parimenti tenuti a una osservanza rigida. I monaci sono divisi in due scuole, praticamente incollocabili, una rigida e l’altra più aperta.
I giainisti non negano l’esistenza di Dio, ma non la considerano indispensabile per la salvezza. L’uomo è padrone di sé stesso e su di sé deve contare. La creazione non è un atto del divino creatore. L’anima, diventata impura e preda delle passioni a contatto con la materia, deve raggiungere la purificazione dagli elementi del karma, che causa il ciclo infinito delle nascite, delle morti e delle rinascite. Lo stato di purificazione totale si raggiunge mediante la pratica rigorosa della non-violenza verso tutti gli esseri e perciò questi fedeli seguono una dieta strettamente vegetariana e si sottopongono volontariamente al potere della morte. Con la purificazione totale sarà possibile arrivare alle vette più alte per restarvi in uno stato di beatitudine passiva (nirvana). Al nirvana si perviene con l’autocontrollo, la giusta conoscenza e la giusta fede, la pratica dell’austerità, della mortificazione e dell’ascetismo. Ai monaci è prescritto il distacco assoluto dal mondo e ai laici il distacco dalle cose non strettamente necessarie.
Questa religione viene così presentata dal Concilio Vaticano II (Dichiarazione “Nostra Aetate”): «il buddhismo, secondo le sue varie scuole, interpretative, riconosce la radicale insufficienza di questo mondo materiale e insegna una via seguendo la quale gli uomini, con cuore devoto e confidente, siano capaci di acquistare lo stato di liberazione perfetta o di pervenire allo stato di illuminazione suprema per mezzo dei propri sforzi e con l’aiuto venuto dall’alto.
Fondatore del buddismo fu Siddhārtha Gautama (VI secolo a.C.), nel Nepal meridionale. Di nobile origine e vissuto negli agi, a un certo punto, insoddisfatto della vita condotta, si dedicò alla meditazione sulla sofferenza umana e sulle sue cause. A 35 anni, attraverso una illuminazione, comprese il senso della vita e diventò il buddha (l’illuminato, dal verbo svegliarsi). Quindi per 45 anni predicò, con linguaggio semplice, la non violenza, la compassione e l’amicizia e fondò una comunità monastica, aperta anche alle donne.
Il buddhismo, estesosi ampiamente in tutto l’Estremo Oriente fino al Tibet, alla Cina e al Giappone, si è adattato alle caratteristiche e ai modi di vita di popolazioni così differenti. Si divide in due grandi correnti: il buddhismo theravada, più diffuso in Oriente, e il buddismo mahyana, più diffuso in Occidente e improntato a una sorta di democraticizzatine della salvezza in quanto ognuno può arrivare personalmente all’illuminazione.
I numerosi testi sacri del buddhismo sono stati raccolti nel canone pali che è quello più conosciuto. Il buddhismo è una peculiare forma religiosa, che interpella molto l’intelligenza e che, anche senza l’intermediazione di sacerdoti, consente di raggiungere tramite l’autodisciplina la purificazione e la liberazione dagli interessi personali. La pratica della meditazione diventa essenziale per il raggiungimento della condizione adulta: lo zen è una sua forma caratterizzata dalla notevole importanza dedicata alla meditazione. Il buddismo propone “quattro nobili verità”:
- Bisogna seguire un percorso che porti alla consapevolezza che la vita, nonostante le apparenze, è un dolore perché tutto è passeggero.
- A provocare i dolori è il desiderio insoddisfatto.
- Eliminando il desiderio, si evita anche il dolore.
- Per superare il desiderio è necessario seguire l’ottuplice sentiero e, attraverso un lungo percorso, si raggiunge il nirvana, la liberazione dai limiti dell’esistenza.
Il simbolo del buddhismo è la ruota a otto raggi, che indica l’ottuplice sentiero per raggiungere la liberazione e l’illuminazione: 1. Comprendere sé e la vita; 2. Pensare; 3. Parlare positivo; 4. Operare altruisticamente; 5. Lavorare positivo; 6. Impegnarsi; 7. Essere attenti al fare; 8. Concentrarsi su quanto si fa.
L’etica buddhista è fondata sulla compassione, sull’amore, su un’attitudine non violenta e responsabile. Durante la vita ogni persona compie azioni buone e azioni cattive: la loro combinazione influisce anche oltre la presente vita. Dopo la morte si rinasce o come esseri umani o anche come animali: per questo è dovuto un grande rispetto alla natura e a tutti gli esseri viventi.
É stato detto che il carattere transculturale dell’insegnamento buddhista costituisce un fondo comune del pensiero e delle civiltà orientali nel loro insieme. Dal secolo scorso il buddhismo si è diffuso anche in Occidente, dove molti sono interessati al rapporto con il sacro, ma senza l’orizzonte della trascendenza.
In Italia molti fedeli fanno capo all’Unione Buddhisti Italiani, rispetto alla quale ha un’organizzazione autonoma un’altra scuola buddhista denominata Soka Gakai (peraltro molto diffusa); entrambe hanno sottoscritto un’intesa con lo Stato italiano.
Guru Nanak, nato nel 1469 e morto nel 1539, è stato il fondatore della religione sikh, facendosene predicatore anche negli ambienti più umili, nella convinzione che tutti gli uomini buoni, a prescindere dalla casta e dal credo religioso, sono degni di onore e di rispetto e possano diventare sikh e cioè discepoli. Guru Nanak predicò che Dio è uno, eterno e creatore, supremo, assoluto, presente in tutte le cose, incontrastato, senza odio, immanente alla creazione e al di là di essa, immanente e trascendente, accessibile attraverso le suppliche. Egli fuse in maniera originale nel suo messaggio alcuni aspetti fondamentali dell’induismo e alcune influenze islamiche (sufismo indigeno e popolare).
Sotto il decimo Guru, Gobind Singh (1675-1709), per consolidare ulteriormente l’identità sikh e difenderla dalle minacce esterne, vennero introdotti cinque elementi come segni visibili della iniziazione:
- cappelli lunghi
- pettine
- spada
- braccialetto d’acciaio
- pantaloni corti.
La maggior parte degli attuali sikh (oltre 10 milioni) vive nella parte nord occidentale del Punjab in India. Dei templi sikh (gurdwar) uno dei più importanti è quello di ’Hari Mandir, noto come il “Tempio d’Oro” di Amritsar, dove inizialmente venne collocato il libro sacro. Si tratta di una religione monoteista, che implica la devozione a un solo Dio. Il libro sacro (Adi Granth), nel quale viene presentato il mistero ineffabile di Dio, fu opera di Guru Arjan Dev Ji (1581-1606), che mise per iscritto gli insegnamenti più importanti di Guru Nanak, fino ad allora tramandati oralmente, e raccolse anche le opere di poeti religiosi contemporanei sia indù che musulmani. L’opera, tra l’altro, è fondamentale per comprendere l’evoluzione linguistica nell’India settentrionale. Il libro sacro è venerato come il Guru per eccellenza (perfetto messaggero di Dio) perché recepisce la rivelazione dei misteri di Dio e la trasmette all’umanità. Nel volume Camminare insieme si legge: «Il Guru è la scala, la barca, la zattera con la quale raggiungere Dio […], luce della Parola che risplende nella persona umana».
Il taoismo può essere considerato l’autentica religione cinese, in quanto delle altre due più diffuse, il buddhismo viene dall’India e il confucianesimo più che una religione è un’etica portata alle estreme conseguenze. Il taoismo (il cammino), originariamente una filosofia, divenne un movimento religioso organizzato solo nel secondo secolo dopo Cristo, riprendendo elementi del confucianesimo, del buddhismo e della religione popolare, e successivamente venne adottato dalla corte imperiale.
Come fondatore viene indicato un personaggio, di cui poco si sa sul piano storico, il maestro Lao-Tzu (ragazzo adulto), da collocare forse nel VI secolo a.C., nello stesso periodo quindi di Confucio e dei profeti di Israele: i suoi scritti sono tra i migliori della letteratura mondiale. É probabile che un maestro o la sua scuola raccolse e ordinò quanto si era scritto nei precedenti millenni e questo al fine di arginare lo sconvolgimento della tradizione cinese ad opera del confucianesimo. Il libro del Tao (Tao-the-ching) riafferma, così, che la verità consiste nel vivere secondo natura.
Il taoismo propone il conseguimento dell’immortalità individuale attraverso una graduale presa di possesso del proprio organismo fino a renderlo immortale. Le pratiche di ordine fisico consistono in norme alimentari, ginnastiche, respiratorie e alchemiche (assorbimento di sostanze rare e velenose), che nel loro insieme costituiscono il nutrimento del corpo: da sole, però, possono favorirne solo la durata.
Le pratiche di origine spirituale consistono nella meditazione per raggiungere e custodire l’Unico, liberandosi dall’illusione di un Io separato. Ricorrendo a tecniche di concentrazione, il fedele cerca di entrare in contatto con le divinità, le potenze e le entità spirituali insite nel corpo umano, evitando che le divinità lascino il corpo il che provocherebbe la morte e la dissoluzione, e permettendo invece la prosecuzione delle pratiche fisiche fino a quando si sia costituito interamente il nuovo organismo incorruttibile. La meditazione taoista si fonda sulla convinzione che il corpo umano sia una copia perfetta (microcosmo) dell’universo esterno (macrocosmo). Pertanto, seguirà solo una morte apparente e al momento della sepoltura il corpo, diventato immortale, si sarà già librato nel cielo.
L’acquisizione del corpo immortale non è il grado supremo dell’itinerario religioso proposto dal taoismo che, seppure per pochi adepti di rango superiore, consiste invece nell’unione mistica con il tao, per cui il corpo, divenuto immateriale, si identifica con lo spirito, si compenetra con il tao e pervade tutte le cose, senza più distinzione tra l’io e l’universo.
Secondo il taoismo la divinità è concepita come il Signore dell’Altissimo, il Governatore che osserva, sostiene e controlla l’universo. Il Tao, tuttavia, non è concepito come un essere personale e trascendente, che resta al di fuori del mondo: è invece il principio primo di ogni sostanza, essere, forma e mutamento di tutto ciò che esiste.
Il confucianesimo trae origine da Confucio (551 a.C.), che non fu un profeta ma solo un maestro intenzionato a trasmettere la saggezza del passato, occupandosi della formazione dell’individuo. Nonostante l’insuccesso iniziale, con la dinastia Han (due secoli prima di Cristo e due secoli dopo), il suo insegnamento, raccolto in cinque testi classici (Wu-chung), ottenne un riconoscimento ufficiale e influì molto sulla classe dei letterati.
Il confucianesimo non pone l’accento sulla rivelazione o sulla fede in Dio, bensì predica un umanesimo che si potrebbe definire aperto alla trascendenza. Secondo Confucio gli uomini si possono ripartire in quattro classi: quelli che hanno scienza e virtù per natura, quelli che le acquistano con lo studio e la diligenza, quelli che, pur essendone incapaci, si sforzano di acquisirle e infine quelli che neppure tendono a migliorare. L’io non è un’idea astratta, ma la persona concreta che si struttura a due livelli: il vero io e il piccolo io. La società basata sul confucianesimo viene considerata una grande famiglia.
Lo shintoismo deriva da shin, (Sio) e to (via, denominata anche la “via di kami per distinguerla dalla “via di Budda), la religione di origine indiana che iniziava a diffondersi nel Paese a partire dal sesto secolo dopo Cristo. All’origine di questa, che è la religione tradizionale del Giappone, non vi è un fondatore: si tratta, piuttosto, della storia, della cultura e della filosofia di un popolo, tramandata oralmente e riproposta sotto forma religiosa dai letterati imperiali. Lo shinto è l’insieme di saggezza e di esperienza del popolo giapponese (idee, credenze pratiche tradizionali), una sorta di chiave interpretativa della loro storia.
Per conoscere questa religione sono fondamentali i trenta volumi del Kojiki (Memorie degli avvenimenti antichi), scritti nel 712 d.C. per fissare i punti fondamentali a più di un secolo di distanza dall’arrivo del buddhismo del quale si intendeva frenare la diffusione. Però, come non esiste un fondatore, così non esistono né testi sacri né dogmi, per cui si ritiene che un giapponese, naturalmente shintoista, possa seguire anche altre religioni.
Come viene illustrato nel volume La Chiesa cattolica in dialogo con le altre religioni del mondo, il kami è qualcosa di sacro, straordinario, soprannaturale, che si presenta sotto innumerevoli forme. Vi sono tre categorie di kami:
- quello delle nazioni e delle famiglie, (per questo tutte le famiglie shintoiste hanno un piccolo tempio dedicato a questo tipo di kami);
- quello delle comunità locali, e cioè il patrono dei villaggi e delle città, che sono fonte di benedizioni e di coesione;
- quello con poteri particolari (con riferimento a determinate situazioni o a particolari situazioni della vita, come la nascita, il matrimonio, la malattia e così via).
É stato osservato che si tratta, quindi, di un animismo o politeismo naturale, al quale si è aggiunto il culto delle grandi figure della storia e degli antenati, per cui le divinità giapponesi hanno poco in comune con quelle indù o con il Dio dei monoteisti. Vi sono anche diverse correnti shintoiste:
Lo shinto della famiglia imperiale. Include i riti e le preghiere recitate in occasione delle feste della famiglia dell’imperatore. Va ricordato che questa religione, strettamente connessa con il potere politico, ha fornito una base di legittimità all’unica dinastia imperiale, protrattasi così a lungo nel tempo, i cui membri sono considerati di origine divina e rispettati come il simbolo dell’unità nazionale. Anzi, nel passato si riteneva che l’imperatore non fosse solo il discendente degli dèi che crearono il Giappone ma Dio egli stesso: in un rescritto imperiale del 1946 è stata, però, dichiarata infondata tale concezione.
Lo shinto del santuario. È questa la corrente più diffusa e si occupa della cura di ben 80 mila templi e dei relativi riti, secondo una statistica di alcuni anni fa, 22 mila sacerdoti e 75 mila inservienti.
Lo shinto popolare si rivolge all’anima del popolo.
«Il tempio è la dimora di kami, si legge nel volume Camminare insieme. Laddove non esista un tempio vero e proprio, sarà la natura stessa, e in particolare una montagna, gli alberi verdeggianti, le rocce particolarmente belle, a essere considerata la casa terrena e provvisoria di Kami…
In genere, questi templi, dedicati agli antichi, alla nazione, alla comunità locale o a potenze particolari, sono situati in luoghi caratterizzati da importanti attrazioni naturali. Per questo motivo lo Shinto è anche definito da alcuni la religione della rivelazione di Dio attraverso la natura. La bellezza dei templi e dei santuari, nella religione shintoista, dà maggiormente risalto alla bellezza di Kami, piuttosto che alla sua verità e alla sua bontà».
Al riguardo è stato osservato che lo shintoismo non ha affrontato il problema dell’anima, dell’aldilà e dei codici morali: la nozione centrale consiste nella purezza rituale, per cui il peccato consiste nell’essere impuri, anche se involontariamente. É possibile riacquistare la purezza con opportuni riti: l’esorcismo praticato dai sacerdoti (che possono avere famiglia ed esercitare una normale professione), la lustrazione con acqua e sale e l’astensione (concepita come profilassi dal peccato). Si legge ancora nel volume Camminare insieme:
«L’idea del mondo, nella tradizione shintoista, si articola in tre elementi: il paradiso, la terra e l’inferno. Lo Shinto, tuttavia, dà importanza alla vita terrena: secondo questa tradizione, infatti, tutti gli esseri umani sono figli di Kami e, pertanto, sono fratelli e sorelle tra loro. La natura e gli esseri umani hanno in comune un vincolo di sangue e per questo sono chiamati a vivere in armonia».
Le religioni tradizionali africane
Le religioni tradizionali non hanno un’organizzazione centrale, ma sono diffuse in tutto il mondo: quelle africane sono le più conosciute. Si usa anche ricorrere al termine “religioni animiste, etniche, indigene, tribali, primitive”. Il loro contenuto, che non si struttura in affermazioni teologiche, è stato tramandato non attraverso libri bensì tramite la tradizione orale in racconti, celebrazioni, proverbi, costumi, riti e codici comportamentali.
Alcune categorie sono essenziali per inquadrare correttamente la cultura africana:
- il sacro, perché il divino permane nella storia e viene mantenuto attraverso la tradizione;
- i luoghi sacri, quali la foresta sacra, l’albero sacro, la montagna sacra, tutti luoghi fissi del culto, che costituiscono i testi sacri della religiosità del popolo;
- la relazione comunitaria, la solidarietà e l’accoglienza, perché l’individuo è parte essenziale della comunità e tutto ciò che appartiene all’individuo, appartiene alla comunità e tutto ciò che appartiene alla comunità, appartiene a ciascuno dei suoi membri;
- la fratellanza, che richiama l’idea dell’unità e del mondo unito;
- la famiglia, perché nessuno può rimanere senza legami familiari, attraverso i quali viene garantita la propria identità culturale;
- l’anziano, perché è il custode della tradizione, il garante dei valori religiosi e della sapienza popolare, la biblioteca della tradizione e il testo sacro del popolo.
«Imperniate su uno spiccato senso del sacro, le religioni tradizionali promuovono la fede in un Dio e lo considerano creatore, supremo, onnipotente, onnisciente, onnipresente, la vita, l’essere per eccellenza, il trascendente. La fede, la moralità e il culto sono le tre colonne delle religioni tradizionali» (dal volume Camminare insieme).
Queste religioni mostrano un profondo rispetto della sacralità della vita, dedicano grande attenzione alla famiglia, alla parentela e agli anziani, coinvolgono tutti i livelli di impegno di una persona e fanno corpo con i costumi locali, per cui la religiosità si propone anche come un fenomeno culturale e permea di sé l’identità delle popolazioni interessate: comprendere le religioni tradizionali significa penetrare usi e costumi del posto.
Le religioni tradizionali africane, da inquadrare unitariamente nonostante le diverse espressioni territoriali, hanno iniziato ad essere studiate in maniera scientifica [3]. In Africa prevale una visione unitaria dell’uomo, del mondo e di Dio. Tutti gli africani legati alla cultura tradizionale sono coinvolti nella pratica religiosa. Il discorso culturale coincide con quello religioso e fa dell’africano un essere fondamentalmente religioso. La ragione del vivere è orientata a una piena realizzazione di sé in Dio, raggiungendo così l’immortalità e congiungendosi gli antenati.
La religiosità è una categoria essenziale, perché pone Dio a fondamento di tutta l’esistenza, anche se non distrae dalla vita presente: non sussiste una separazione tra materia e spirito, anima e corpo, vita e morte. Peraltro, le modalità di incontro con Dio non fanno venire meno che egli rimanga totalmente altro da tutti e da tutto.
Siamo chiamati ad aprici alla conoscenza delle altre religioni e a instaurare con le stesse delle relazioni ispirate al dialogo, perché la scelta religiosa, anche quando è differente da quella da noi fatta, attiene al foro della coscienza individuale da considerare inviolabile. Un orientamento differente rischierebbe di portare ai margini della società una quota sempre più consistente della popolazione, costituita in misura crescente da immigrati sia in Italia che in altri Paesi. La differenza religiosa, se approcciata con diffidenza, rende sempre più estranei “i diversamente religiosi”, specialmente se stranieri, e porta a considerarli sempre più un out-group anziché un in-group per riprendere l’analisi condotta nel secolo scorso dal sociologo Georg Simmel nel suo famoso excursus sullo straniero.
Le riflessioni introduttive hanno sottolineato che un atteggiamento di chiusura piuttosto che portare l’interessato a un maggiore attaccamento ai dettati della propria religione, solitamente poco conosciuti e ancor di meno praticati, genera spesso un miscuglio di chiusura psicologica, presupponenza nazionalistica, arroccamento in una tradizione superficialmente intesa, incapacità di valutare con serenità i cambiamenti in corso.
Bisogna, perciò, abituarsi a riconoscere i contenuti positivi delle diverse religioni e anche a constatarne le basi comuni con la propria, facendone una piattaforma condivisa per favorire uno sviluppo armonioso della società, costituita anche da agnostici e atei, affrontando per quanto possibile insieme i temi riguardanti gli squilibri della società e le incognite del futuro, mostrando così la vicinanza dei credenti alla città degli uomini. Questa fruttuosa collaborazione sarà possibile se sia da parte dei credenti che da parte dei non credenti prevarrà la disponibilità a un reciproco rispetto delle scelte esistenziali fatte nel foro della propria coscienza.
Si richiede, quindi, anche il rispetto di chi fa una scelta di fede da considerare inviolabile giuridicamente e da riscoprire nei suoi aspetti positivi. Tutte le religioni sono portatrici di grandi valori in grado di motivare la morale individuale e anche l’etica pubblica. Senz’altro è auspicabile che le religioni, predisponendosi a una maggiore collaborazione tra di loro, riescano a emarginare con maggiore efficacia le correnti oltranziste insorte al loro interno, perché un così grande discredito hanno generato sulla religiosità in generale e poiché una vera testimonianza religiosa non comporta l’ostilità alla fede degli altri o alle posizioni di chi non crede.
Le religioni hanno una responsabilità in solido nei confronti di chi non crede e tale responsabilità non può essere esercitata se manca questa credibilità. Seppure vissuta in maniera differenziata, ogni religione (rivelata o meno) è in qualche modo protesa verso un orizzonte che supera l’esperienza mondana e per questa sua trascendenza può essere d’aiuto nel temperare le carenze delle politiche (a livello nazionale e a livello mondiale), tenendo vivo il richiamo ai grandi valori e specialmente a quello della solidarietà.
Il discorso dei valori è, tra l’altro, la base che deve portare a instaurare un’ampia solidarietà anche con le numerose persone di buona volontà che non sono religiose, perché atei, o agnostiche o alla ricerca. Non c’è bisogno di indugiare sulla rigorosa moralità di comportamento e di ideali di molti di loro, constatazione che ha portato qualche teologo a ritenere che l’adesione ai grandi valori (dalla libertà alla giustizia, alla solidarietà, all’altruismo e così via) attestino l’adesione a quell’incommensurabile e assoluto valore che per i credenti è Dio. Una tale impostazione porterebbe a impegnarsi nel bene senza la paura di essere sopraffatti e senza la riluttanza a percorrere, all’occorrenza, un tratto di cammino con altri credenti e anche con non credenti.
Al fondo della questione sulla molteplicità religiosa resta, comunque, questo interrogativo di fondo: perché Dio, che è unico, è stato visto e continua a essere visto in forme così differenziate, e perché da molti non viene affatto riconosciuto? Tentando di abbozzare qualche timida risposta, si può far riferimento ai due termini della questione: a Dio, che è infinitamente grande, alla persona umana che, pur risultando nel confronto infinitamente piccola, presenta innumerevoli specificità socioculturali, di cui ci rendiamo sempre più conto in un mondo globalizzato. Una risposta esauriente, che ora non può essere data, verrà trovata dal credente nel futuro che vivrà dopo la morte, ora si può solo cercare di operare il più unitariamente possibile nonostante il pluralismo religioso.
Dialoghi Mediterranei, n. 65, gennaio 2024
Note
[1] Edito dalla Caritas diocesana di Roma e dell’Ufficio Migrantes di Roma e del Lazio.
[2] Libreria Editrice Vaticana, Città del Vaticano, 1999.
[3] cfr. Martin Nkafu Nkemnkia., Il Pensare Africano come ‘Vitalogia’, Città Nuova editrice, Roma, 1995; 2.a ed. 1997.
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Franco Pittau, dottorato in filosofia, è studioso del fenomeno migratorio fin dagli anni ‘70, quando condusse un’esperienza sul campo, in Belgio e in Germania, impegnandosi nella tutela giuridica degli emigrati italiani. È stato l’ideatore del Dossier Statistico Immigrazione, il primo annuario del genere realizzato in Italia. Già responsabile del Centro studi e ricerche IDOS (Immigrazione Dossier Statistico), continua la sua collaborazione come Presidente onorario. È membro del Comitato organizzatore del Master in Economia Diritto Interculture Migrazioni (MEDIM) presso l’università di Roma Tor Vergata e scrive su riviste specialistiche sui temi dell’emigrazione e dell’immigrazione.
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