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Molteplicità degli Io. Una critica hessiana alla decadenza borghese

81yoaifeel-_sl1465_di Luca Renzi 

Se si volesse partire da una considerazione ‘alta’ del tema, si dovrebbe necessariamente far riferimento ai tre “maestri del sospetto” del pensiero moderno e per certi aspetti postmoderno, vale a dire Marx, Nietzsche e Freud. I loro orientamenti sono tipici della tensione della modernità, o meglio della tensione tra la volontà di ‘sospettare’ e la volontà di ascoltare, che insieme animano l’ermeneutica. Ricœur considerava fondamentali i tre maestri, che definirono falsa quella scienza di matrice cartesiana. I tre hanno mostrato rispettivamente, e ognuno a modo suo, che dietro le grandi certezze vi sono i valori socio-economici, la volontà di potenza e l’inconscio. Vedremo – ma questo sarà oggetto di una trattazione più vasta – che almeno due di questi valori rientrano nella trattazione relativa a Hesse.

Al centro della riflessione ermeneutica (Ricœur parlò di un “arco ermeneutico”; a partire da questo primo pilastro, egli ha tracciato l’arco dell’identità, mostrandone progressivamente la complessità fino alla celebre formulazione della “identità narrativa”) vi è il simbolo, valorizzato attraverso l’emblema del sogno di origine freudiana, un sogno che è “regione del doppio senso” e che quindi mette in discussione l’interpretazione, poiché in ogni simbolo è presente un significato manifesto e uno latente.

Con riferimento al Lupo della steppa, il tema della “bestia mitologica” [1] ricorre anche in certa critica più che consolidata su Hesse e sul suo romanzo capitale (la definizione è di H. Ball). Il fatto che una tale “bestia mitologica” possa essere scandagliata nel bel mezzo della nostra vita moderna indica un’epoca in cui l’arte dell’amore e della gentilezza, l’arte della comprensione, può essere individuata solo per il tramite della scrittura. 

41u6np6a2dlIl romanzo Il lupo della steppa è forse l’incarnazione più potente di Hesse oltre che il luogo ove la critica hessiana alla decadenza borghese è racchiusa maggiormente e storicizzata ironicamente nel Teatro Magico; essa non poteva che prendere forma nell’incontro dei contrari in quell’immagine della dissolvenza di Mozart in Pablo con la quale problematicamente il romanzo si conclude. Oltre all’idilliaco e all’asceta, c’è un Hesse vigoroso. Oltre al poeta malinconico di Demian, c’è un Klingsor esuberante, tuonante, sonoro che ha dieci vite a sua disposizione. Dai tempi de Il lupo della steppa c’è stato un Hesse che conosce il Furor Teutonicus così come il piccolo scolaro languido. Il lupo (anche in Wolfgang Amadeus [Mozart] e in Johann Wolfgang [Goethe]) è un predatore con occhi e orecchie aguzzi e una dentatura tagliente. 

Ecco alcune citazioni tratte dal Traktat, sorta di biografia interiore, ovvero psichica, contenuta ne Il lupo della steppa, di libro nel libro (il cui modello è Kafka, con il suo Vor dem Gesetz, motivo di incantevole enigmaticità, come ebbe modo di osservare G. Baioni, incastonato nel Processo a mo’ di mistero avvolto in un enigma), sorta di esposizione teorica, definita “dissertazione” e inclusa nel romanzo:

«C’era una volta un tale di nome Harry, detto il “lupo della steppa”. Camminava con due gambe, portava abiti ed era un uomo, ma, a rigore, era un lupo. Aveva imparato parecchio di quel che possono imparare gli uomini dotati d’intelligenza, ed era uomo piuttosto savio. Ma una cosa non aveva imparato: a essere contento di sé e della sua vita. Non ci riusciva, era un uomo scontento».

517nvnhkg2l-_uf10001000_ql80_Questa è l’immagine (provvisoria) che ci offre Hesse nel suo romanzo forse più noto e il tema principale del Traktat è proprio quello della dissociazione dell’Io. Il romanzo consta in effetti già nella sua prima parte di tre diversi narratori, uno dei quali è l’osservatore esterno, colui che ci restituisce la descrizione del Lupo, uno dei cosiddetti ‘immortali’, secondo la tecnica romantica del narratore che affida i propri scritti ad un ‘curatore’ fittizio. 

Queste tre prospettive, eguali e paritetiche, sul personaggio principale, costituiscono la prima parte del romanzo, delineando il tema dell’identità e del suo sviluppo. Le due parti del romanzo che seguono esaminano successivamente l’abolizione delle prospettive unilaterali, la cui lotta inibisce il progresso di Harry Haller – presumibile alter ego di Hesse. Ciò è già fin da subito una parte importante del mistero che circonda la figura di Harry Haller, il lupo della steppa, mistero di tipo psicoanalitico innanzitutto. Il Traktat così prosegue:

«Per arrivare a questo scopo o poter addirittura tentare il balzo nell’universo, questo lupo della steppa dovrebbe trovarsi una volta di fronte a se stesso, dovrebbe vedere il caos nella propria anima e arrivare finalmente a una perfetta coscienza di sé».

E vieppiù ciò vale quando afferma:

«Quando dunque un uomo arriva già a sdoppiare la pretesa unità dell’io è già quasi un genio, in ogni caso però un’eccezione rara e interessante. In realtà nessun io, nemmeno il più ingenuo è un’unità, bensì un mondo molto vario, un piccolo cielo stellato, un caos di forme, di gradi e situazioni, di eredità e possibilità».

Dunque, con toni pirandelliani egli giunge ad una conclusione (provvisoria) di questo tenore:

«Quando Faust pronuncia le parole, celebri fra i maestri di scuola, ammirate con un brivido dai borghesucci: “Due anime, ahimè, son nel mio petto!” egli dimentica Mefistofele e una folla di altre anime che sono anch’esse nel suo petto. Anche il nostro lupo crede di aver in petto due anime (lupo e uomo) e già gli pare di avere il petto molto angusto. Il petto, il corpo è infatti sempre uno, le anime invece che vi albergano non sono due o cinque, ma infinite; l’uomo è una cipolla formata di cento bucce, un tessuto di cento fili» [2].

9788842498360_0_200_0_0Nel romanzo, Hesse ha concentrato molti dei temi che caratterizzano la sua poetica, tra cui quello dell’outsider e del malessere, del viaggio e della fuga, del sogno e della crisi di identità. Nel corso della narrazione, il passato di Haller riaffiora a sprazzi; Haller è un uomo di «rätselhafte Fremdheit», (enigmatica estraneità), dall’aria avulsa, di cui si coglie, negli sguardi tristi e nel pauroso isolamento, l’inizio di una malattia. Il tema principale del romanzo è infatti la dualità, la disarmonizzazione del protagonista, alter ego imperfetto di Hermann Hesse, e la complessità dell’essere umano.

Erminia, essere ermafrodito, madre Eva-amante-sorella è colei che asserisce di comprendere Haller fino in fondo: «Lo dico soltanto per farti vedere che so comprenderti [...] Ti capisco benissimo». È lei il suo alter ego femminile «[...] sono una specie di specchio tuo, [...] dentro di me c’è qualche cosa che ti risponde e ti comprende» [3].

Il lupo della steppa propone dunque una visione dualistica della realtà e, nello stesso tempo, propone il mito della riunificazione anticipandolo in un documento interpolato (Traktat). La complessa struttura della prosa è frutto di un’attenta opera di costruzione razionale del testo, densa di simboli e di richiami interni che sottolineano la concezione di Hermann Hesse dell’opera d’arte come finzione, dimostrando come la scrittura de Il lupo della steppa si sia nettamente discostata da quella immediatezza che lo stesso autore voleva attribuirle.

Ad una prima lettura, Il lupo della steppa sembra però mancare di un’effettiva organizzazione sia interna che esterna, in quanto manca una vera e propria suddivisione in parti e capitoli. Tutto il romanzo sembra una fantasmagoria di eventi, interrotti dal solo Traktat ma, se si osserva dall’interno la struttura del romanzo, si nota che il libro si divide spontaneamente in tre sezioni comprendenti il cosiddetto materiale preliminare, l’azione e la sezione sul Teatro Magico. Queste tre suddivisioni non costituiscono parte dell’azione o della trama del romanzo; sono tutte di natura introduttiva.

Esistono dunque tre macrosezioni. All’interno della prima sono presenti tre “introduzioni” o ritratti che hanno un loro carattere peculiare. Una delle funzioni dell’introduzione è quella di presentare le circostanze fittizie che hanno portato alla pubblicazione del libro, e qui Hesse ricorre a un espediente abbastanza usuale, già richiamato e di matrice romantica, per istituire una pluralità di livelli di lettura, quella cioè di introdurre il materiale come “diario” rinvenuto per caso.

Il primo ritratto di Haller è costituito dalla descrizione del Bürger da un punto di vista dunque ‘borghese’; il secondo è invece un autoritratto, la descrizione dello stesso Haller della sua doppia natura di uomo e lupo; la terza descrizione di Haller è invece fornita da una prospettiva più eminente, quella dei cosiddetti immortali che chiariscono teoricamente, nella dissertazione (Traktat), il dato della presenza di due poli all’interno della natura umana e anticipano una riconciliazione che, nella visione di Hesse della vita, è simbolo dell’aspirazione ad una osmosi o pace universale.

La seconda parte del romanzo, la parte più considerevole di esso, segue le regole classiche della narrazione (si riferisce ad un’azione che copre circa un mese costituta da una narrazione semplice e lineare) e racconta la storia dell’incontro di Haller con la giovane Ermine, che lo accompagnerà sulla strada della comprensione di sé che si compirà definitivamente nel Teatro Magico.

2560559196879_0_0_536_0_75L’ultima sezione, che si svolge nelle sinuosità del Teatro Magico appunto, luogo beato ma tenebroso, frequentato da diavoli e diavolesse e anche per questo metafora dell’inferno, è invece ricca di elementi magici e fantastici che contrastano nettamente con il realismo della narrativa precedente. È in questo ambiente che Harry Haller può sperimentare situazioni diverse contemporanee, grazie alla sovrapposizione di piani temporali e spaziali. È così che Haller riuscirà̀ a risolvere il suo conflitto interiore e a comprendere ed assimilare il senso profondo dell’ironia.

Come ha affermato nel suo notevole studio Maddalena Fumagalli, con la fantasmagoria del Teatro Magico Hesse non intendeva proporre ai suoi lettori l’idea di un luogo astratto, di una fuga dall’oggi (come sembrerebbe addurre il viaggio compiuto sotto gli effetti narcotizzanti di talune sigarette o di liquori). Il Teatro Magico è al contrario il luogo di una cruda presa di coscienza, è il “luogo dell’anima”, come di lì a poco verrà definito l’Oriente. Ma è un “luogo dell’anima” speciale che rimanda a una realtà estremamente concreta: aprendo una delle porte che consentono l’accesso ai “quadri” della vita – come per 1984 di Orwell – Harry e Pablo sono trascinati in un eccentrico quadro surrealista, una “caccia grossa alle automobili”, immagini moderne di macchine di guerra di una realtà fatta di rumori, di tinte abbacinanti, di scoppi improvvisi di colori e suoni frastornanti, una realtà psichedelica insomma. Anche la musica è parte di questo mondo, quella di Mozart, del don Giovanni con cui Harry è accompagnato nel Teatro Magico, così come quella di Pablo, cioè il jazz. Grazie a questa visione della realtà in chiave ironica, Pablo e Mozart non incarnano più posizioni contrapposte bensì momenti che hanno la loro ragion d’essere nella reciproca convivenza [4].

romanxiIl Teatro Magico, in secondo luogo, è chiaramente una variazione su tema; il tema, preso in prestito dal Traktat, è l’idea che la personalità di Haller comprenda una molteplicità di elementi opposti. Gli stessi corridoi del teatro rappresentano una variazione su tema, in quanto ognuno di essi costituisce una specifica istanza delle tendenze opposte nella natura di Haller (si pensi ai corridoi del sontuoso ma sinistro hotel Overlook dello The Shining kubrickiano, di chiaro richiamo kafkiano con riferimento allo smisurato Hotel Occidental del suo romanzo Amerika). D’altra parte, il Teatro Magico rappresenta lo strumento attraverso il quale Harry è simbolicamente introdotto nell’intimo della sua personalità e in tutte le sue manifestazioni. In questa sezione, Hesse utilizza la tecnica della doppia percezione in termini musicali come equivalente letterario del contrappunto [5].

Avvalora questa tesi anche Claudio Magris che, in una sua introduzione al romanzo affermava:

«Dal punto di vista della storia letteraria il Lupo della steppa è stato considerato come un capolavoro dell’espressionismo e in questo senso si può leggere come la descrizione della città-inferno, in cui ogni allucinazione o incubo può surrealisticamente aver luogo, in cui − come in una sonata musicale − ritorna a varie riprese il tema della pazzia» [6].

61k0j1vz86l-_ac_uf10001000_ql80_In effetti il romanzo si apre con un riferimento alla follia (“Nur für Verrückte”), ma è anche vero che questo tema rimane in secondo piano nel corso della narrazione, lasciando emergere in modo più convincente quello della dualità dell’essere che si rivelerà piuttosto una molteplicità. Per metà borghese perbene e per metà lupo feroce, come delinea il Traktat, Harry Haller è, infatti, «una moltitudine di nuclei psichici o di frammenti di nuclei psichici che si condensano in cristallizzazioni provvisorie e si sciolgono e separano di continuo» [7].

È nel Traktat che viene anticipato il tema della riconciliazione degli opposti e della necessaria accettazione della complessità̀ dell’Io, accettazione che si realizzerà̀ grazie alla scoperta dei piaceri della carne e dell’espressione corporale attraverso la nietzscheana danza, nonché attraverso il conseguimento della suprema arte dell’ironia. Scrutando dentro il caos della sua anima, Harry Haller apprenderà a vivere felicemente nel mondo e potrà̀ osare il “salto” definitivo per unirsi agli Immortali [8], così come ricordava Margherita Versari nel suo fondamentale studio:

«Nel Teatro Magico, caleidoscopico schermo su cui si specchiano e si palesano le infinite pulsioni del protagonista, si attua dunque quanto Harry nei sogni e nelle visioni cominciava a presagire attraverso l’insegnamento di Erminia. […] smascherato l’inganno dello spazio e del tempo, egli dovrà imparare a scorgere la traccia d’oro dietro ogni manifestazione, sia pur meschina, di questa vita, e dunque a ridere di se stesso, rapportando le sue umane vicende al grande Tempo, agli immortali» [9].

Il volume che fu a cura di Mauro Ponzi, Hermann Hesse e l’“altro” ci dà conto di questa moltitudine degli Io in Hesse (per parafrasare l’altrettanto leggendario saggio di Ferruccio Masini La moltitudine dei Sì), soprattutto per la visione dell’“altro” come outsider, nel senso della convivenza pacifica fra le diverse forme dell’individuo e come alterità e uguaglianza nella diversità, compatibile con le istanze della Weltanschauung hessiana.

Nello stesso volume, Andreas Solbach specifica la dimensione dello outsider hessiano:

«Uno dei maggiori tratti distintivi di Hesse è sicuramente quello dell’outsider, e ancora più quello di autore di figure di outsider. Nella sua opera poetica egli crea – ma lo è egli stesso – “Einzelgänger für Millionen”, individui che si muovono ai margini della società: originali ed eremiti, outcast e underdogs, esclusi e emarginati, stravaganti ed eccentrici, dissidenti e non conformisti, protestatari e asociali» [10].

Come ci illustra Solbach, Hesse si è servito sovente dell’accorgimento narrativo omodiegetico in cui l’autore del racconto è presente o parte in causa nei fatti narrati; questo non è un caso e d’altronde corrisponde allo stilema della commedia dantesca oltre ad avere una lunga eredità, che sale dal romanzo picaresco fino al romanticismo tedesco. Egli associa questa condizione alla figura di Knulp, il girovago per eccellenza dell’omonimo romanzo, laddove afferma:

«É però necessario spiegare intanto brevemente la concezione hessiana dei girovaghi, in relazione al loro background storico sociale, giacché i vagabondi, i girovaghi, gli ambulanti, i nomadi che popolano questi testi appartengono al gruppo tradizionalmente emarginato dei disonesti».

34Dovrebbe essere chiaro a questo punto, quanto i vagabondi di Hesse rientrino in quella categoria di individui che non posseggono un luogo proprio e in tale categoria si riconoscono per la propria marginalità, tanto che erigono una barriera tra sé e le aspettative della società. La posizione marginale per la quale hanno optato volontariamente, non coincide affatto con la rappresentazione romantica di un’“eterna domenica” o di una “pigrizia insuperabile”, bensì con quella di uno sforzo tenace di fuggire dalla società, allo scopo di avvicinarsi alla vita e alla natura, questo – detto a margine – era anche il senso del perdigiorno romantico e dell’eroe picaresco in genere. Il vagabondo per Hesse è sempre soprattutto anche una raffigurazione dell’artista girovago, con il quale egli condivide la passione per i versi semplici e popolari e per le forme musicali. Knulp e i suoi consimili scelgono consapevolmente una forma di vita solitaria, vicina a quella della bohème artistica, in quanto si ritagliano degli spazi insoliti ai margini della società cercando la compagnia dei loro simili e del popolo semplice.

Questo è il caso solo parziale de Il lupo della steppa. L’alterità di questi primi personaggi è associata all’essere nomadi, mentre nel Lupo della steppa nella figura di Haller alter ego di Hermann, è evidente come tale nomadismo divenga tutto interiore, psichico, solipsistico, esistenziale. Qui nei primi racconti la peculiarità del vagabondo è palesemente il suo carisma irresistibile che in molti casi costituisce anche l’espressione di un disturbo narcisistico autoreferenziale per cui il carismatico è considerato invincibile, da sé e dagli altri; egli è semmai perciò un bohémien e un bonvivant e non un dandy, maggiormente caratterizzato da elitismo.

La vanitas, di cui simili personaggi sono parte sostanziale, è naturalmente un’eredità dell’epoca barocca, un’epoca rappresentata simbolicamente nella letteratura tedesca dal Simplicius di Grimmelshausen, eroe picaresco per eccellenza, e esemplificata teoricamente dallo scritto di Norbert Elias sul processo di civilizzazione come momento epocale in cui vita e morte vengono associati e resi pubblici; naturalmente per questi eroi accanto alla vanitas vi è anche la dimensione della sinceritas, consustanziale nel Lupo della steppa insieme alla categoria della solitudine, in cui il protagonista è votato a sofferenze certe e ineluttabili, momento dell’esperienza della solitudine direttamente collegato al momento di morte e all’idea barocca del transeunte.

0b5a0699d4364214b9c30a5d9210379cMa è con l’avvento del protagonista del Lupo della steppa che possiamo passare a un’altra forma di alterità, l’alterità dell’Io. Helga Esselborn-Krumbiegel segnalava con la famosa espressione di Rimbaud “Io è altro” l’estrema conseguenza del decentramento del soggetto che, con l’intrusione dell’estraneo, patisce e esperisce l’alterità dell’Io [11]. Sigmund Freud invocava questa alterità dell’Io per l’insorgere dell’inconscio; Julia Kristeva, con un’interpretazione assai acutizzata di Freud, aggiunge: «L’autre c’est mon propre incoscient». Non è diversa l’esperienza di Harry Haller ne Il lupo della steppa allorché incontra il “latino” Pablo; mentre Erminia pur nella sua opposizione risveglia in Harry sin dall’inizio la risonanza dell’alter ego, nel sassofonista Pablo egli trova un deciso avversario di ogni delimitazione e valutazione su cui tanto si basa l’auto definizione di Harry: «Venivamo da continenti opposti le nostre lingue non avevano nessuna espressione in comune». Ma proprio Pablo, maestro di quella musica jazz che con il proprio carattere ‘negro’ ripugna e attrae Harry, proprio lui introduce come sappiamo il lupo della steppa nel Teatro Magico di se stesso. A ciò Harry accede solo dopo la dissoluzione della sua personalità; solo allora egli può riconoscere e accettare il proprio inconscio anche negli occhi animaleschi di Pablo. Che alla fine egli colga il proprio discorso addirittura nelle parole di Pablo fa sì che l’inconscio escluso dall’io come intende Lacan, affiori come discorso estraneo in quello proprio. E qui le valgano le parole della grande psicoanalista bulgara.

Ciò basti a identificare la posizione di Harry Haller nel Lupo della steppa – posizione, tra l’altro, non dissimile da quella dello stesso autore svevo riguardo alla colonia svizzera di Monte Verità, luogo sommo della Lebensreform tedesca degli anni attorno al 1907 [12] – a tracciare la concezione ivi sottesa: dapprima l’estraneo viene percepito nella sua alterità; poi segue una fase del dialogo nella quale i confini del soggetto divengono in un certo senso permeabili allo sviluppo dell’estraneo; l’ultimo passaggio conduce all’alterità dell’Io nella tensione paradossale di estraneo e proprio.

L’eroe non solo percepisce l’estraneo quale proprio ma – e ciò è decisivo per la sua esperienza e per il rapporto di Hesse con l’estraneo – diviene estraneo a se stesso nell’incontro con il diverso. Questo decentramento dell’Io avviene primariamente non attraverso il medium della lingua, bensì nell’immagine. La condizione dell’intravedere, di enorme importanza nell’intera opera hessiana, è non a caso legata spesso a sogni e visioni oniriche e ciò ne conferma la sua funzione mediatrice verso l’inconscio e gli incontri con l’estraneo tramite il rispecchiamento distruggono qui la finzione di un Io limitato, come già anche era avvenuto nel Teatro Magico di Pablo.

Lo Hesse delle annotazioni Aus Indien del 1913 ci rende d’altronde la misura dell’approccio anticonformista e anticolonialista dell’autore e al contempo della sua disillusione. Insieme alla fascinazione e al desiderio neoromantico era colà espressa la ricerca di un orientamento spirituale come ne è esempio la veloce diffusione del buddhismo in tutta Europa negli anni Venti. Mentre nella più parte dei testi l’estraneo viene vissuto prevalentemente come minaccia, nel romanzo Siddharta del 1922 dominerà una visione positiva dell’estraneo, proveniente non a caso dalla filosofia e religioni indiane.

fe398bcf80134fa78726411462abfeccPer tornare infine al romanzo Il lupo della steppa, il libro diviene una “riflessione” a tutti gli effetti nel senso vero della parola: tutto infatti è basato su un gioco di specchi e riflessi. Il protagonista rispecchia l’autore; Harry parla addirittura di sé più di una volta in terza persona, riferendosi a Harry o come «Lupo della steppa», come se stesse scrutando se stesso da fuori; Erminia stessa costituisce uno specchio ai suoi pensieri (altro gioco di specchi dato dalla somiglianza con l’amico Hermann, soprattutto se si pensa che anche l’autore porta lo stesso nome: Erminia è infatti il femminile di Hermann). Nello specchio del Teatro Magico, Harry scorge le sue infinite personalità; la sua inquietudine è di certo un travaglio interiore, ma è anche specchio dei cambiamenti del mondo (Nietzsche, Marx e Freud, hanno infranto l’unità dell’individuo; il livello storico-politico si frantuma e così anche l’unità del concetto di potere, come tempo degli imperi e delle grandi guerre). Il libro diviene soprattutto uno specchio per il lettore: perché, alla fine, egli – come noi tutti – finisce per specchiarsi nelle inquietudini dell’anima del protagonista e ciò probabilmente rappresenta la maggiore critica hessiana alla decadenza borghese

Non si deve trascurare, infine, che Harry fa parte della categoria dei suicidi, «quelle anime che non considerano lo scopo della vita il perfezionamento e lo sviluppo di se stesse, bensì il dissolvimento, il ritorno alla Madre, il ritorno a Dio, il ritorno a Tutto». La via della morte era per lui un conforto e un sostegno: conoscere una “via d’uscita” che lo rendeva al pari del Werther goethiano curioso di assaporare il dolore.

Ma un ulteriore tassello si aggiunge a tale considerazione della decadenza: nella seconda stanza di Harry con l’indicazione “Avviamento alla costruzione della personalità. Successo garantito”, il giocatore di scacchi mette Harry di fronte alle molteplicità dell’anima. Qui i personaggi vengono soccorsi a ricomporre i pezzi della propria personalità, raggiungendo una varietà infinita di Io.

Hermann Hesse

Hermann Hesse

Numerosi sono gli Io che vivono dentro di lui e tutti convivono in una specie di partita a scacchi (d’altronde un accorgimento simile era insito nel Gioco delle perle di vetro): la sua persona non può quindi essere limitata a uomo e lupo, ma si tratta di varietà e molteplicità smisurate di Io («Come corpo ognuno è singolo, come anima mai» recita il romanzo), per cui da una definizione di Io alla ricerca di Sé si passa ad un superamento del dualismo e ad una molteplicità dell’Io stesso:

«In realtà nessun io, nemmeno il più ingenuo è un’unità, bensì un mondo molto vario, un piccolo cielo stellato, un caos di forme, di gradi e situazioni, di eredità e possibilità. Che ciascuno tenda a prendere questo caos per un’unità e parli del suo io come fosse un fenomeno semplice, ben fissato e delimitato: questa illusione ovvia ad ogni uomo (anche al più elevato) sembra una necessità, un’esigenza di vita come il respiro e il nutrimento. Questa illusione è frutto di una semplice trasposizione. Come corpo ogni uomo è uno, come anima mai» [13].

E così continua:

«A colui che abbia visto la scissione del proprio io facciamo vedere che può ricomporre i pezzi in qualunque momento e nell’ordine che più gli piace, raggiungendo in tal modo una varietà infinita nel giuoco della vita. Come il poeta con un pugno di personaggi crea un dramma, così noi con le figure del nostro io sezionato costruiamo gruppi sempre nuovi con nuovi giuochi, nuove tensioni, nuove situazioni. Guardate!»[14].

Il risveglio comporta una transizione da una visione ad un’altra ed esso avviene sempre dopo una profonda crisi. Il lupo della steppa si risveglia, dopo aver considerato il suicidio un’ipotesi reale; egli si trova a riscoprire le proprie pulsioni e a imparare a viverle invece di reprimerle e sarà Hesse stesso a “risvegliarsi” dopo la Prima guerra mondiale, allorché si avvicina alla psicoanalisi dopo una grande crisi interiore.

La ricerca dell’Io comprende, dunque, e non esclude consapevolezza dell’impossibilità di definirlo. Arrivato alla fine del percorso del Teatro Magico, dopo aver tolto la vita alla compagna-musa Erminia, il Lupo scopre che per sopravvivere nella sua steppa desolata deve accettare la soluzione dell’ironia, mettersi davanti ad uno specchio e ridere della piccolezza delle sue gioie e preoccupazioni ed elevarsi. In tale atteggiamento sta un momento fondamentale di quella critica del tutto originale alla civiltà borghese compiuta da Hesse. 

Dialoghi Mediterranei, n. 65, gennaio 2024 
Note 
[1] H. Ball, Ein Mythologisches Untier, in: Materialien zu Hermann Hesses ‚Der Steppenwolf‘. Frankfurt a.M., Suhrkamp 1972: 266 ss.
[2] H. Hesse, Il lupo della steppa, ed. a c. di E. Pocar, Milano, Mondadori, 2016: 37
[3] Ivi: 39
[4] Cfr. M. Fumagalli, Pablo contra Mozart? In: M. Ponzi (a c. di), Hermann Hesse e l’«altro», Milano, Bruno Mondadori, 2004: 102 seg.
[5] Th. Ziolkoswski, Hermann Hesses ‘Steppenwolf’ – Eine Sonate in Prosa, in: Materialien zu Hermann Hesses, Der Steppenwolf‘. Frankfurt a. M., Suhrkamp 1972: 353 ss. Il lupo della steppa è dunque una lunga sonata, tesi avvalorata dalla struttura della prima parte, quella introduttiva, più esplicitamente costruita come una forma-sonata. Ziolkowski fa riferimento al romanzo parlando di “sinfonia”, per la coerenza e unitarietà̀ che lo caratterizza. Le tre sezioni introduttive, l’introduzione, le pagine d’apertura del manoscritto di Haller e il trattato, presentano tre diversi trattamenti dei temi conflittuali dell’anima di Harry: l’introduzione afferma i due temi, laddove la seconda sezione li sviluppa secondo l’interpretazione di Harry; il trattato o dissertazione, infine, riprende quei temi teoricamente e li ripropone, così che si realizza la risoluzione del conflitto in forma di tesi, antitesi, sintesi.
[6] C. Magris, introduzione a H. Hesse, I Romanzi, Milano, Mondadori2005: 12 seg.
[7] Ibidem
[8] Ne Il lupo della steppa il riso di Pablo e di Mozart punisce la “fissità” degli atteggiamenti ripetitivi, meccanici, “distratti”, indifferenti al reale, come emerge da Il Riso, il saggio di Henri Bergson del 1900, in cui il filosofo propone una lettura del riso come punizione della rigidità dell’atteggiamento sociale dell’uomo.
[9] Cfr. M. Versari, Un percorso iniziatico in Hermann Hesse. Dalla caduta alla seconda innocenza, Bologna, Clueb, 1999: 87 seg.
[10] Cfr. A. Solbach, in Ponzi, op. cit.: 43
[11] H. Esselborn-Krumbiegel, L’alterità dell’io. Minaccia e promessa nell’incontro con l’estraneo, in Ponzi, op. cit.: 57
[12] Cfr. L. Renzi, Doktor Knölges Ende e Der Weltverbesserer. Sul rapporto di Hermann Hesse con Monte Verità e la ‘Lebensreform’ e sulla sua trasposizione letteraria, in: “Atti XXIV Simposio internazionale di studi italo-tedeschi”, Accademia di Studi Italo-Tedeschi di Merano, Merano, 2002: 29-56
[13] H. Hesse, op. cit.: 97
[14] Ibidem.
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Luca Renzi, laureatosi nel 1990, dal 1991 al 1994 è stato lettore di lingua italiana presso l’università di Tübingen. Ha conseguito nel 1998 il dottorato in germanistica presso l’università di Pavia. Dopo soggiorni presso le università di Tübingen e di Basilea, ha conseguito nel 1999 una borsa post-doc presso l’École normale supérieure di Parigi, Institut des Textes et Manuscrits Modernes. Dal 2001 è stato prima professore incaricato presso l’università dell’Aquila, in seguito ricercatore universitario di Letteratura tedesca presso l’Università di Urbino. A partire dal 2005 ha tradotto e curato l’edizione italiana di diversi volumi dell’antropologo e studioso della cultura materiale Hermann Bausinger. Dal 2016 è professore associato. Ha tenuto corsi come visiting professor nelle seguenti università: Tübingen, Freiburg, Strasburgo, Bruxelles, Glasgow, Galway, Stettino, Budapest, Valenciennes. È membro della Associazione Italiana di Germanistica (AIG), della Internationale Alfred-Döblin-Gesellschaft e della Görres-Gesellschaft zur Pflege der Wissenschaft e fa parte del comitato di redazione di Linguæ & – Rivista di lingue e culture moderne.
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