di Alberto Giovanni Biuso
Filosofia
Le previsioni/profezie sulla morte della filosofia – che significa per lo più il confluire della filosofia in altri saperi – sono sempre state smentite. Questo vale per il passato più o meno lontano e vale ancor di più per un presente nel quale «le discipline filosofiche come tali hanno rivelato una vitalità insospettata di fronte alle trasformazioni della società post-industriale, dall’informatica alla bioetica passando per le scienze cognitive» [1]. La filosofia è infatti oggi un sapere assai vitale, diffuso e pervasivo.
Quali le ragioni? La prima è che non è possibile agire senza un quadro teorico, per quanto implicito e inconsapevole esso sia, che permetta di orientarsi nel mondo e nella sua complessità. Ogni gesto, infatti, «anche il più quotidiano, che ce ne rendiamo conto o meno, si fonda su un certo modo di concepire il mondo che ci circonda» [2]. Si aggiunga l’evidenza del fatto che la gran parte delle convinzioni, principi e valori che a un essere umano appaiono del tutto ‘naturali’ lo sono in minima parte e costituiscono invece il risultato dell’educazione ricevuta e quindi delle idee che attraverso l’educazione vengono trasmesse ai figli, ai discenti, ai membri di un gruppo etnico, sociale, religioso, culturale.
La perennità del sapere filosofico nei secoli è data comunque da altro, da un fattore più interno e strutturale, è conseguenza del fatto che la filosofia è una scienza dell’intero. Mentre gli altri saperi ritagliano per sé una parte del mondo e di esso si occupano, la filosofia teoretica, vale a dire ciò che Aristotele chiama «filosofia prima», cerca di indagare e comprendere le cause fondamentali, i principi universali, l’essere, il tempo, le strutture della materia e delle sue forme, la verità degli enti, degli eventi e dei processi [3]. E lo fa, anche oggi, attraverso almeno tre paradigmi: il superamento del pregiudizio antimetafisico; una pluralità che tende a superare i dualismi senza cadere in riduzionismi di varia natura; la capacità di produrre significati.
La radicalità delle questioni che il mondo e l’esistenza pongono è infatti tale da rendere non autarchiche ma dipendenti dall’intero sia le scienze sociali sia le scienze dure e i loro metodi, scienze che dallo scambio rigoroso con la filosofia hanno molto da guadagnare in giustificazione e chiarezza. Gli enunciati della metafisica, disprezzati a lungo dalle correnti filosofiche e scientifiche più diverse, si stanno rivelando particolarmente fecondi per chiarire la natura di molti problemi sia generali sia specifici, che riguardano ad esempio questioni biologiche, gnoseologiche, politiche. Come afferma efficacemente David Armstrong, «metaphysics is now respectable again» [4] e «ancora nel presente» i suoi temi rimangono «attraenti e ineludibili» [5].
Queste affermazioni, e altre simili che è frequente leggere nella letteratura filosofica contemporanea, sintetizzano quanto va accadendo da molti anni. La tesi che la metafisica possa essere ricondotta alle sole sue strutture linguistiche è tramontata, così come vanno perdendo di plausibilità altre forme di riduzionismo e di eliminativismo. I più avvertiti filosofi materialisti si rendono infatti conto che metafisica e naturalismo non sono in contraddizione, che nozioni e concetti come sostanza, potenza, qualità, quantità, causa, verità, possiedono una densità ontologica e una complessità epistemologica che sarebbe del tutto impoverente disconoscere e negare. Si può infatti partire dall’assunto che tutto ciò che esiste sia di natura fisica e da qui dispiegare metafisiche e ontologie molto articolate, complesse, aperte.
Una direzione feconda e centrale della ricerca filosofica oggi consiste dunque nel lavoro teoretico e prassico volto a superare sia le secche del riduzionismo, che intende ricondurre la pluralità dei fenomeni a una struttura monocorde e immutabile, sia quelle del dualismo che continua a contrapporre ciò che è certamente diverso senza però per questo essere incompatibile, al fine di cogliere invece la pluralità differente e unitaria in cui consiste l’essere delle cose.
Come accennato, Aristotele definisce «filosofia prima» la scienza dell’essere, che nella sua prospettiva coincide con la scienza del divino e con la scienza dell’intero. La filosofia prima è sia sapere dell’ente – ciò che successivamente prenderà il nome di metafisica e ontologia – sia teologia.
E tuttavia in questa duplicità di ontologia/teologia Giorgio Agamben [6] individua un elemento di debolezza che ha portato la filosofia a rinunciare con Kant per ragioni teologiche alle indagini metafisiche e a perdere alla fine, cioè nel presente, la sua relazione con il mondo, sostituita in questo dalle scienze che non hanno più bisogno di fondamenti, critiche, giustificazioni e si accontentano di amministrare in modo tecnico-algoritmico sia gli enti naturali sia gli artefatti.
Come si è passati dal primato aristotelico della filosofia alla sua apparente insignificanza cibernetica? Agamben risponde ripercorrendo i principi primi quali: l’uno, la cosa, il vero, il bene; le categorie aristoteliche; gli universali medioevali. Tali dispositivi sono stati progressivamente trasformati da strutture dell’essere, dotate di piena autonomia ontologica, a correlati oggettivi di una rappresentazione e quindi in strutture soprattutto o esclusivamente gnoseologiche; sono transitate da entità reali a immagini mentali. Il momento chiave di tale trasformazione non sarebbe per Agamben la modernità cartesiana e galileiana, che l’ha ereditata, ma le numerose, sottili, attente e ingegnose riflessioni degli Scolastici.
Furono infatti i magistri medioevali a trasformare ciò che il grammatico del V secolo Prisciano indicava come mentis conceptum (parto della mente) nell’oggetto della filosofia, un oggetto che sostituisce a poco a poco ma per intero l’oggetto reale, il quale viene dissolto nella rappresentazione che una mente, umana o di altra natura, se ne fa.
Questo primato della conoscenza sull’essere, della gnoseologia sull’ontologia, capovolge il pensiero dei Greci e apre le porte alla centralità dell’umano nel mondo non come frutto della delega di una potenza che ha prodotto l’umano (antropocentrismo biblico) ma come capacità della mente di produrre il mondo del quale è signora (antropocentrismo matematico). Mondo che diventa un frutto, un portato, un’immagine della mente. «Per i Greci le cose appaiono. Per Kant le cose mi appaiono. Nel tempo intercorso tra i due è accaduto che l’ente è diventato oggetto, ciò che sta di fronte (Gegen-stand, obiectum o meglio: res obstans). Il termine oggetto non ha alcun equivalente in greco» [7].
La fisica e la cosmologia quantistiche, soprattutto nei loro sviluppi più idealistici – dalla interpretazione di Copenaghen alla teoria delle stringhe – possono essere viste anche come una vittoria della Scolastica e del kantismo, poiché rinunciano costitutivamente all’indagine sul mondo che esiste al di fuori del corpomente umano, trasformando quest’ultimo nella causa stessa del mondo.
Contro una simile affermazione della parte umana nei confronti del tutto senza il quale la parte non è in realtà né possibile né pensabile, Martin Heidegger ripropone la questione dell’essere come redenzione degli enti da una logica puramente costruttivistica e soggettivistica; redenzione della metafisica dalla situazione di irrilevanza rispetto agli oggetti che il sapere matematico costituisce per se stesso; redenzione della filosofia dalla condizione di ancilla scientiarum, condizione che è l’anticamera della sua fine.
All’interno dell’ampio continente (o galassia) che la filosofia è, sta dunque la filosofia teoretica. Disciplina senza luogo che occupa tutti i luoghi, sapere storico – come ogni espressione umana – ma rivolto all’immutabile, ambito e totalità, parte e insieme tutto, la filosofia teoretica è a volte tollerata, schernita e temuta.
Tollerata dagli storici della filosofia, schernita dai riduzionisti, temuta da tutti coloro per i quali le coordinate sulle quali i Greci edificarono il loro vedere costituiscono uno strano enigma, irriducibile ai saperi particolari, agli specialismi, al silenzio del senso. Teoresi è un crocevia, è il luogo nel quale il pensiero raggiunge i suoi confini estremi, cogliendo la vita, spiegando la sofferenza e accettando l’assurdo. Filosofia pura, che pone se stessa lontano dall’ovvio, oltre l’atteggiamento naturale, al di là del semplice darsi degli enti all’esperienza empirica per cogliere invece ciò che riluce e traluce nello sforzo di comprendere di che cosa gli enti sono enti, che cos’è l’essere che di tutti loro si predica.
Senso comune, tradizioni e chiacchiera vengono sostituiti da uno sguardo rivolto all’essere degli enti, a quella struttura che come tale non appare in evidenza ma che rende possibile ogni altro apparire. Esattamente come fa la luce.
Il confine invisibile delle cose, degli eventi, dei processi è il legame che tutti li unisce e che dà loro senso. In Platone la verità è questo, è il rapporto tra lo spessore materico del mondo e l’immagine che la mente se ne forma a partire da modelli che trascendono sia la materia sia la mente. Immagine che può essere vera soltanto se rivolta al mondo dei significati e del senso.
La rete e il labirinto del mondo non consistono soltanto nell’esperito e nell’esperiente. Il mondo è anzitutto l’insieme innumerabile dei nodi, delle direzioni, delle pratiche che legano gli enti e le coscienze. Ogni ente è un grumo di relazioni, di identità e di senso. Essi avvengono e si dispiegano nella struttura che della filosofia e della vita è la prima scaturigine e l’intimo segreto: il tempo.
Il tempo è la differenza tra il dato e l’evento, tra la stasi e il movimento, tra il divenuto, che è tempo spazializzato, e il divenire, che è durata. Il tempo è ciò che identifica l’umano in quanto umano, è l’individuazione e l’identificazione che segna la continuità tra gli eventi e la differenza tra di loro, facendo sì che non tutto sia dato nello stesso istante.
La filosofia teoretica studia quindi l’essere come temporalità, vale a dire l’essere come tempo in atto, le sue modalità, espressioni e direzioni. La filosofia teoretica si occupa dell’essere, della verità e del tempo in questa precisa articolazione: lo studio della verità dell’essere in quanto tempo.
La filosofia teoretica si moltiplica e dirama diventando metafisica, ontologia, gnoseologia, fenomenologia, ermeneutica, genealogia. L’ontologia classifica ciò che è, la metafisica spiega come è ciò che è ma entrambe sono volte a una descrizione, comprensione e spiegazione totalistica di ciò che esiste.
Gli altri ambiti si articolano a loro volta in una serie di parole/concetti chiave, al modo di una rete, di una mappa concettuale, di un orizzonte talmente vasto da poter dire che in qualche modo «tutta la filosofia è filosofia teoretica» [8], poiché la teoresi costituisce il nucleo sempre acceso e creativo della filosofia, quello che interroga l’essere stesso delle cose in quanto cose, degli enti in quanto enti, le loro condizioni di esistenza, le modalità in cui possono essere conosciuti, la fecondità che assumono dentro l’intero, nel mondo.
La verità dell’essere in quanto tempo è il divenire, è il movimento che conduce a essere altro rimanendo ciò che si è, è la dinamica per la quale «ἔστι μὲν γὰρ οὐδέποτ᾽ οὐδέν, ἀεὶ δὲ γίγνεται; nulla è mai, tutto sempre diviene» [9], è il transito dal nulla all’essere e dall’essere al nulla. Movimento che così espresso sarebbe impossibile se il nulla fosse un nulla assoluto, dal quale è evidente che nessun ente potrebbe scaturire, avere avvio, nascere, apparire. ‘Nulla’ che invece è fondamentalmente e sensatamente la differenza, che sta al centro del Sofista platonico e della sua ripresa nella Metafisica di Aristotele.
Il nulla è il bordo dell’essere che rende possibile il suo accadere, è l’attrito superando il quale gli enti esistono, è la luce che non appare come luce e che proprio nel suo non apparire rende possibile il manifestarsi di tutto il resto, lasciando in questo modo essere gli enti.
Il nulla non è pertanto e ovviamente sostanza, non è oggetto, né in senso ontologico di ‘cosa che c’è’ né in quello gnoseologico di ‘concetto da indagare’, il nulla, come l’essere, «non è altro che potenza (δύναμις)» [10], è la potenzialità che il reale possiede di diventare ciò che ora non è. L’essere è nulla di separato, circoscritto, manifesto.
Non è dunque possibile cogliere, comprendere e restituire la struttura ontologica come se si trattasse di una manifestazione ontica, vale a dire qualcosa che riguarda gli enti che sono. L’essere non è ma può soltanto manifestarsi in quanto struttura trasparente sulla quale le cose che sono proiettano il proprio essere enti, in questo modo diventando percepibili, esperibili, pensabili.
La filosofia teoretica è dunque lo spazio non dell’umano ma dell’essere, è la direzione che va al di là di un ‘soggetto’ che si crede il centro e invece è solo parte della realtà che lo sovrasta, lo comprende, lo condiziona, lo rende possibile, lo costituisce.
La metafisica greca, la sua complessità e la sua potenza, il suo dare per evidente ciò che in effetti evidente è – l’esistenza del mondo al di là di qualunque suo percettore – può contribuire ad affrancare la filosofia e le scienze dall’incanto soggettivistico, dall’illusione antropocentrica, dal mito teoretico invalidante dell’umanesimo. I dispositivi heideggeriani di Anwesenheit (presenza), Lichtung (radura), Ereignis (evento appropriante) sono dei rigorosi tentativi in questa direzione. Forse insufficienti ma sempre necessari per pensare l’evidenza del reale indipendentemente dalle formule magiche e povere dei nostri linguaggi.
Il dispositivo semantico che siamo, la struttura ermeneutica che ci rende parte di una semiosi senza fine tra il segno, il suo oggetto e l’interpretante (Peirce), non produce nulla oltre i sermones, i significati (Abelardo), non crea nessuna realtà materica ma diventa per l’appunto l’interprete della materia che c’è e si dà. E questo attraverso la varietà dei codici interpretativi – sia le lingue storico/positive sia i linguaggi delle diverse scienze – senza che nessuno di tali codici e di queste scienze possa pretendere di costituire il luogo esclusivo ed escludente della verità sia in senso metodologico sia in senso ontologico.
La filosofia teoretica è, appunto, una pura teoresi, autonoma da riferimenti empirici e da scopi immediatamente coglibili. Essa è dunque uno spazio gratuito, è un gesto di libertà sia culturale sia politica. Una emancipazione che emerge anche nel modo in cui la Società italiana di Filosofia Teoretica (SiFIT; https://www.teoretica.it/ ) intende presentare l’oggetto del proprio studio in occasione del XXV World Congress of Philosophy che si terrà a Roma nel mese di agosto 2024:
«La Società Italiana di Filosofia teoretica raccoglie studiosi che fanno della loro prospettiva di studio la pura teoresi, distinta da ogni riferimento empirico e applicativo e non immediatamente finalizzata ad esso. Ma cosa si intende con ‘pura teoria’? Qual è la natura del lavoro teorico? Quali le sue conseguenze? I filosofi hanno praticato la teoria in modi differenti nel corso dei secoli e nei luoghi dove si sono trovati a vivere e operare. Il panel si propone di convocare pensatori di ambito diverso che hanno mostrato come l’idea, già husserliana, di una “prassi della teoria” – una prassi volta ad attingere un senso dall’esperienza del mondo della vita – sia liminare nella costruzione di sistemi e proposte filosofiche. L’idea è dunque quella di rivolgersi non al che, ma al come dell’esercizio filosofico, nelle sue varietà declinate per metodi, correnti, generi, culture diverse».
Queste poche righe indicano con chiarezza che cosa la «filosofia teoretica» sia. Una definizione, come si vede, non da dizionario, non catechistica, non formale. Una definizione che rimane aperta e che cerca di pensare. Lavoro del pensiero che costituisce il significato, la modalità e lo scopo della teoresi filosofica.
Dialoghi Mediterranei, n. 65, gennaio 2024
Note
[1] M. Ferraris, «Prefazione. Dal postmoderno al realismo», in Filosofia contemporanea, a cura di T. Andina e G. Fracchia, Carocci Editore, Roma 2023: 13.
[2] T. Andina e A. Borghini, «Metafisica e ontologia», ivi: 27.
[3] Cfr. Aristotele, Metafisica, libro IV, 1, 1003a, 24-26.
[4] D.M. Armstrong, Sketch for a Systematic Metaphysics, Oxford University Press, Oxford 2010: VIII.
[5] R. Fabbrichesi, in Aa. Vv., Il primo libro di filosofia teoretica. Una guida per orientarsi tra parole e concetti, a cura di R. Fabbrichesi, Einaudi, Torino 2023: 32.
[6] Cfr. G. Agamben, Filosofia prima filosofia ultima, Il sapere dell’Occidente fra metafisica e scienze, Einaudi, Torino 2023.
[7] M. Heidegger, Seminari (Vier Seminare, Zürcher Seminar), a cura di F. Volpi, trad. di M. Bonola, Adelphi, Milano 2003: 92.
[8] R. Fabbrichesi, in Aa. Vv., Il primo libro di filosofia teoretica, cit.: VII.
[9] Platone, Teeteto: 152e.
[10] Id., Sofista: 247e.
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Alberto Giovanni Biuso, professore ordinario di Filosofia teoretica nel Dipartimento di Scienze Umanistiche dell’Università di Catania, dove insegna Filosofia teoretica, Filosofia delle menti artificiali e Epistemologia. È collaboratore, redattore e membro del Comitato scientifico di numerose riviste italiane ed europee. È direttore scientifico della rivista Vita pensata. Tema privilegiato della sua ricerca è il tempo, in particolare la relazione tra temporalità e metafisica. Si occupa inoltre della mente come dispositivo semantico; della vitalità delle filosofie e delle religioni pagane; delle strutture ontologiche e dei fondamenti politici di Internet; della questione animale come luogo di superamento del paradigma umanistico. Il suo libro più recente è Chronos. Scritti di storia della filosofia (Mimesis, 2023).
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