Essere filosofo significa, a mio parere, essere un intellettuale a tutto tondo. Significa essere protesi – del tutto indipendentemente da qualsiasi titolo di studio – verso la conoscenza ‘vera’ e provare, spontaneamente, a vivere in coerenza con ciò che si è capito sino a quel momento. Di questo genere di intellettuali ne ho conosciuto pochi: Livio Ghersi (Messina 1954 – Palermo 2023) è stato tra questi [1]. A pochi mesi dalla prematura scomparsa aveva dato alle stampe un volume ponderoso e poderoso, Lo storicismo in Germania e in Italia (1730 – 1954). I problemi del XXI secolo, alla luce dello Storicismo (Di Girolamo Trapani 2022): leggendolo, prima in bozze e poi stampato, mi resi conto che conteneva molto più di quanto il titolo non lasciasse prevedere. Non era infatti uno dei tanti studi accademici che, pur lodevoli, sono destinati a specialisti di storia della filosofia (e a qualche studente universitario alle prese con la tesi di laurea): piuttosto si trattava del testamento intellettuale, sociale, politico e direi spirituale di un uomo, solitario e schivo, che, prima di morire, voleva affidare a lettori pazienti il succo delle sue letture pluridecennali e i suoi giudizi su una miriade di problematiche contemporanee.
Come è facile intuire, non è possibile rendere conto – per giunta in dialogo critico – di un volume del genere senza essere costretti a scriverne un altro (sia pur più breve). Tuttavia, almeno le linee essenziali possono essere richiamate, nella speranza che con queste scarne note si susciti nel lettore il desiderio di risalire al testo originario.
La varietà come valore e l’uniformità come disvalore
Nel primo capitolo della Parte prima l’Autore fornisce alcune coordinate teorico-metodologiche per facilitare una lettura per quanto possibile scevra di equivoci del suo libro. In particolare egli, dopo aver distinto senza contrapporli lo storicismo italiano e lo storicismo tedesco, si concentra sulla decostruzione dei “pregiudizi contro lo storicismo”, individuandone sette principali:
1) sarebbe una ‘filosofia della storia’, come sostenuto tra gli altri da Karl Popper, autore di Miseria dello storicismo (1944);
2) sarebbe «un surrogato delle religioni tradizionali” (a uso di “uomini colti”), come sostenuto tra gli altri da Karl Loewith in Significato e fine della storia (1949);
3) sarebbe un «baluardo contro ogni ideologia di progresso, contro ogni tendenza a riformare radicalmente il mondo umano, contro ogni utopia»;
4) sarebbe una filiazione del Romanticismo (in polemica con l’eredità dell’Illuminismo) e, per questo, avrebbe «alimentato l’irrazionalismo, fornendo spunti che poi avrebbero trovato sviluppo nel nazionalismo, nell’imperialismo e, addirittura, nel fascismo e nel nazismo»;
5) sarebbe una versione di “giustificazionismo storico” in quanto teorizzerebbe che «ogni avvenimento storico non poteva avere altro esito di quello che effettivamente ha avuto»;
6) è stato nel passato nemico del “giusnaturalismo” (ossia della teoria della prevalenza del “diritto naturale” su ogni “diritto positivo”) ed oggi è nemico della «ideologia dei diritti umani»;
7) in quanto attribuisce «valore al principio di varietà, di diversità» dimostrerebbe di essere una forma di “relativismo”».
Come avvia Ghersi la confutazione di queste interpretazioni dello storicismo? Con un tono mille miglia lontano dallo stile polemico, aggressivo, eristico della maggior parte dei sedicenti intellettuali in giro per studi televisivi e convegni vari: «in talune di predette critiche può esserci pure un fondamento di verità. Prevalgono nettamente, però, le esagerazioni, le forzature interpretative e i pregiudizi ideologici. Proprio l’approfondimento della problematica dello storicismo mi ha dimostrato quanto l’argomento sia difficile e complesso». Davvero solo gli stolti hanno risposte facili a questioni difficili! Ciò premesso, l’Autore dichiara di supporre di possedere “argomenti abbastanza forti” per sostenere che:
a) «il concetto di storicismo va tenuto distinto dalle varie filosofie della storia»
b) «lo storicismo non tende a consacrare il successo dei vincitori e non è una forma di giustificazionismo storico»
c) «Lo storicismo non avvalora il relativismo morale».
Le oltre 900 pagine successive saranno, dunque, consacrate a illustrare queste tre tesi e – solo tramite tale illustrazione – a «confutare le tesi contrarie».
Nei capitoli secondo e terzo Ghersi, intercalando pagine di storia con ritratti di pensatori, evoca, con abbondanti citazioni e senza rinunziare ai propri commenti, gli esponenti principali dello storicismo italiano: Giambattista Vico, Giuseppe Mazzini e soprattutto, ovviamente, Benedetto Croce, al quale viene dedicata una vera e propria monografia. Significative della postura intellettuale di Ghersi queste righe del capoverso conclusivo:
«Per un elementare dovere di onestà intellettuale, ho sentito di dover mettere in chiaro che le mie riflessioni, pur tanto influenzate da Croce, ad un certo punto non soltanto prendono un indirizzo autonomo, ma divergono sensibilmente da quelle del filosofo».
Allo “Storicismo romantico in Germania” l’A. dedica i capitoli quarto e quinto, evocando vari autori e soffermandosi in particolare su Johann Gottlieb Fichte, Johann Georg Hamann, Johann Gottfried Herder, Wilhelm Humboldt, Friedrich Daniel Ernst Schleiermacher, Bartold Georg Niebuhr e Leopold Ranke, Wilhelm Dilthey, Georg Simmel, Heinrich Rickert, Ernst Troeltsch, Oswald Spengler, Friedrich Meinecke. Come si può intuire anche solo sulla base di questo elenco siamo davanti a un’operazione davvero imponente, anche perché costruita interamente su letture (e citazioni) di prima mano: il lettore di media cultura, anche se cultore di scienze umane, avrà certamente da imparare da questa trattazione che va ben oltre i sintetici paragrafetti che a molti di questi autori vengono riservati nei manuali scolastici e che, per altro, vengono spesso ‘sacrificati’ per obiettive ragioni di tempo didattico.
Il sesto capitolo, che chiude la Parte prima del volumone, è interamente storico e geo-politico: vi si ripercorre, puntellandolo di giudizi personali, il travagliato passaggio “Dalla Germania ‘guglielmina’ alla Unione Europea”. Il ‘liberale’ Ghersi, dopo aver richiamato e riconosciuto gli indubbi meriti di grandi europeisti come Luigi Einaudi, Lionel Robbins, Ernesto Rossi e Altiero Spinelli non ha esitazioni nell’esprimere la sua amara delusione per gli esiti contemporanei di questo processo: l’Unione Europea appare tutt’oggi la “eterna incompiuta”, lacerata fra due prospettive difficilmente conciliabili. La prima (“Europa dei democratici e dei socialisti”) cui, senza eccessiva generosità, Ghersi attribuisce «modalità giacobine, azzerando progressivamente le peculiarità culturali degli Stati membri e uniformando tutto»; e la seconda (“Europa delle Patrie” o delle “Nazioni”), verso cui egli esprime con chiarezza la propria preferenza. Già in questo capitolo, una sorta di ponte fra la prima e la seconda Parte, l’autore moltiplica le valutazioni personali: dal «sentimento di tristezza per la decadenza culturale e politica del Regno Unito» alla «insaziabile bulimia della Nato» cui va attribuita la responsabilità radicale del conflitto bellico fra Russia e Ucraina, Paese – quest’ultimo – i cui “nazionalisti” non sono “innocenti” perché protagonisti da tempo di una “politica oltranzista”. Il capitolo si chiude con una forte “apologia del realismo”, cioè della «capacità di leggere la realtà per quello che è»: una capacità che
«presuppone la conoscenza storica e se ne nutre. Oltre alla conoscenza storica, che è la base, servono altre chiavi per intendere le dinamiche del mondo umano. Queste chiavi corrispondono ad altrettanti rami del sapere: Economia, Statistica, Demografia, Geografia, Sociologia (nel senso in cui l’ha praticata Georg Simmel), Storia delle religioni, Diritto. Dal mio punto di vista, in Italia la scuola pubblica è stata progressivamente distrutta, nel senso che non riesce più a fornire un insegnamento valido. Le giovani generazioni non hanno più gli strumenti minimi di comprensione per poter leggere la realtà. Ciò dipende dalla realizzazione pratica che hanno avuto gli ideali egualitari e pedagogici affermatisi nella società e nella cultura italiane dopo il movimento del 1968. (…) Oggi non è nemmeno appropriato parlare di uno scontro tra realisti ed idealisti. Per effetto della dilagante ignoranza, frutto della distruzione della scuola, lo scontro autentico è tra i pochi realisti rimasti ed una massa sterminata di ‘bambini desideranti’. I quali pensano di avere ‘diritto’ a veder realizzato tutto ciò che desiderano».
La dimensione spirituale degli esseri umani
Per interpretare correttamente tutta questa seconda Parte bisogna premettere qualche parola sulla prospettiva filosofico-teologica dell’Autore. Il quale, come per altro la maggioranza degli studiosi almeno in Italia, compie un’operazione a dir poco bizzarra.
Primo passo: assumere, come unica attendibile, la versione del cristianesimo dominante fra il V e il XIX secolo (comprendente in tutte le Chiese, non solo nella cattolica, una serie di verità indiscutibili come la divinità di Gesù, la Trinità, l’immortalità dell’anima individuale, l’oggettività di un giudizio divino con conseguenti premio o condanna eterni e così via). Secondo passo: attaccare, come intollerabili guastatori, quei teologi che contestano la validità di tale versione tradizionale e maggioritaria del cristianesimo e dimostrano – Bibbia alla mano – che la cosiddetta ‘ortodossia’ è in realtà la prima, grande, radicale ‘eresia’ rispetto al messaggio e agli intenti di Gesù di Nazareth e dei suoi primi discepoli.
Terzo passo: una volta difeso il modello dogmatico e gerarchico prevalente in molte Chiese cristiane (soprattutto nella cattolica) dalle critiche dei pericolosi novatores, concludere esprimendo il proprio rammarico: purtroppo, dato che il ‘vero’ cristianesimo è questo, non si può in coscienza accettarlo.
Da qui il quarto e ultimo passo: adottare una spiritualità a-confessionale, laica, ragionevole…senza neppure sospettare di essere in perfetta sintonia proprio con quel messaggio evangelico originario che i teologi ‘progressisti’ (fieramente combattuti) si sforzano invano di enucleare, liberandolo dalle scorie accumulate in venti secoli di speculazioni metafisiche fuori luogo e di appesantimenti moralistici.
Il caso del mio compianto amico Ghersi, con cui non potrò più litigare affettuosamente su questi (come su tanti altri) punti di disaccordo, è esemplare: difende Benedetto XVI da rivoluzionari come Hans Kueng (perseguitato come troppo ardito da tre papi!), accusando quest’ultimo di non avere “senso storico” né “senso politico” e di essere incapace di «porsi, per un attimo, nel ruolo del Pontefice», per il quale non può esserci «esigenza più importante che quella di mantenere l’unità della Chiesa» , ma per dichiarare subito dopo che la sua indipendenza intellettuale e il suo senso critico non gli consentono di essere cattolico! Che Benedetto XVI possa avere torto e Kueng ragione; che per un intellettuale cristiano la verità accertata debba prevalere anche a costo del naufragio della Chiesa come istituzione; che, insomma, si possa e si debba essere come Kueng credenti criticamente, Ghersi non lo ipotizza nemmeno: il papa è il papa e dà voce a un’istituzione bimillenaria, il singolo teologo ha dalla sua solo scienza e coscienza e, dunque, dovrebbe limitarsi a obbedire tacendo. Non posso evitare di collegare questa posizione in particolare con la visione storicistica in generale: verum è solo il factum, il cristianesimo autentico è solo il cristianesimo che si è storicamente realizzato, ogni altra versione – essendo stata scomunicata, perseguitata, arsa sui roghi – è rimasta astratta, non ha inciso nel tessuto effettivo degli eventi ed è dunque da considerare insignificante.
In ogni modo, Ghersi, dopo aver ricordato ai teologi l’obbligo della docilità all’autorità magisteriale, si affretta a collocarsi altrove, nella scomoda minoranza dei “cercatori della verità”: essi, da una parte, sono animati dalla “certezza” che “la verità esista” («da qui la profonda differenza di atteggiamento rispetto alle conclusioni scettiche di chi nega che possa parlarsi di ‘verità’, ritenendo ammissibili soltanto le opinioni, tutte legittime in base alla libertà di manifestazione del pensiero e, potenzialmente, tutte equivalenti»); ma, dall’altra parte, preferiscono «sbagliare con la propria testa, dopo aver ponderato ogni cosa con il massimo scrupolo, piuttosto che adeguarsi, senza convinzione, all’ordine di ubbidire al comando che proviene da un’autorità spirituale». Inoltre egli confessa che la sua “natura” individuale lo «porta a privilegiare il cervello, piuttosto che il cuore. Esattamente il contrario di quanto fanno le nature autenticamente religiose».
Da questa angolazione (di una persona che alla domanda: “ma, allora, tu sei cattolico?” risponde: “no, sono liberale e laico”) l’autore redige una sorta di Summa philosophica contemporanea, affrontando un elenco impressionante di quaestiones (di cui posso limitarmi a evocare solo alcune principali):
a) Il “fenomeno religioso” dal punto di vista di esponenti apicali del pensiero europeo, in particolare tedesco: Johann Wolfang Goethe, Ludwig Feuerbach, Friederich Nietzsche, Max Weber, Carl Gustav Jung (il cui «concetto di ‘inconscio collettivo’ (…) si può sposare perfettamente con la mentalità dello storicismo»), Karl Jaspers;
b) «la fede nell’Islam come esempio storico della forza di conquista del mondo umano fondata sulla fede religiosa»;
c) lo gnosticismo come idea (ricorrente nella storia) che «la conoscenza costituisca la via per ottenere la salvezza»;
d) gli ultimi sette pontificati romani, da Pio XII a Francesco con una comparazione specifica dei «due differenti modi di interpretare il ruolo del papa: Benedetto XVI e Francesco», con la conclusione (date le settecento pagine precedenti, abbastanza prevedibile) che il secondo sia molto meno adatto del primo: «Nei confronti di papa Francesco ho provato, viceversa, l’impressione, dal mio punto di vista non gradevole, che per lui sia più importante ‘piacere’ alle grandi masse. Si sforza di dire cose ‘popolari’, che risultino gradite alle orecchie dei più. Ciò significa abdicare, in gran parte, al ruolo di ‘pastore’, di educatore, di guida. A che serve che i credenti, o sedicenti tali, si preoccupino del giudizio divino, quindi dei propri doveri individuali, della propria responsabilità morale individuale, se si parte dal presupposto che la misericordia di Dio, alla fine, comunque, salverà tutti?»;
e) «le difficoltà dell’integrazione» degli immigrati in generale, e delle donne di cultura islamica in particolare, nei Paesi occidentali (con un riferimento specifico alla necessità di introdurre nelle scuole lo studio del cristianesimo come disciplina obbligatoria per tutti);
f) «la rilevanza della Demografia nell’Economia Politica, nella visione di Thomas Robert Malthus» e nel malthusianesimo contemporaneo (specie dopo la Seconda guerra mondiale): «dal mio punto di vista, quello della sovrappopolazione mondiale è il maggior problema storico del ventunesimo secolo. Ogni altro problema (tutela dell’ambiente naturale, gestione dei flussi migratori) è strettamente interconnesso con il predetto problema principale e da questo dipendente»;
g) «le problematiche del divorzio, dell’aborto, del suicidio medicalmente assistito, dell’eutanasia» che, secondo l’Autore, vanno affrontate da una “visione laica dello Stato” contrapposta, oggettivamente, ad una “visione clericale”: «i clericali pretendono di salvare anche chi non ha alcuna voglia di essere salvato; anzi, vorrebbe essere lasciato in pace. Le leggi dello Stato laico, viceversa, non impongono alcunché ad alcuno»:
h) “la libertà dell’orientamento sessuale”: «la regola aurea alla quale bisognerebbe attenersi è che i gusti e gli orientamenti sessuali costituiscono un fatto privato. Gli esseri umani vanno valutati e apprezzati se, ed in quanto, sono persone generose, di indole buona, non inclini ai pettegolezzi, lavoratori scrupolosi ed onesti, persone spiritose, che si sono coltivate con buone letture, che apprezzano l’arte, la buona musica, il cinema, il teatro, che sono cittadini educati e consapevoli dei loro doveri verso la comunità sociale di appartenenza. Rispetto a questi aspetti decisivi per il nostro giudizio su una persona, l’orientamento sessuale è del tutto irrilevante»;
i) «a proposito della assunzione di droghe e sostanze stupefacenti» la libertà individuale non può considerarsi illimitata come nel caso delle relazioni sessuali fra adulti consenzienti: ogni cittadino, infatti, ha «il dovere di conservare la lucidità mentale e la razionalità» ogni volta che esce da casa e si relaziona ad altri cittadini;
j) l’etica pubblica e, in particolare, «il significato del settimo comandamento, ‘non rubare’, applicato all’attività di governo e ai ruoli di rappresentanza politica»;
k) il “suffragio universale” e le sue ambivalenze etico-politiche: “il diritto di voto” non va concepito come «qualcosa che si dà all’individuo per potenziarlo politicamente, quasi si trattasse del riconoscimento di un onore e di una ulteriore dignità», bensì in un’ottica di «conferimento di una grande responsabilità», per cui non è trascurabile «valutare se l’individuo ne comprenda il significato e ne sia all’altezza».
Conclusioni
È intuibile quanto sia difficile trarre delle conclusioni da un’opera così complessa e articolata. Per fortuna ci pensa l’autore stesso a trarle nelle pagine finali dove, tra l’altro, si legge che:
a) «lo storicismo deve avere almeno le seguenti tre caratteristiche: 1) Riguarda le ‘individualità storiche’ e per tali devono intendersi non soltanto le singole persone, ma anche movimenti di pensiero, politici, artistici. Ad esempio, il Risorgimento italiano; 2) Prende in considerazione situazioni in ‘svolgimento’, o in ‘evoluzione’, che dir si voglia, perché i popoli, per i quali non si registrino significativi mutamenti al loro interno, hanno più a che fare con la natura che con la storia; 3) Non si occupa tanto dell’indifferenziato ‘genere umano’, quanto piuttosto si interessa della specificità, delle caratteristiche peculiari, dei singoli Paesi, o civiltà»;
b) lo storicismo costituisce «il più saldo fondamento per un indirizzo politico-ideale conservatore», posto che essere conservatori oggi significa «voler conservare le condizioni ambientali, climatiche, sociali, affinché il pianeta Terra continui ad essere un habitat favorevole per il genere umano; affinché questo possa vivere ovunque in condizioni dignitose e mantenga le sue caratteristiche di soggetto plurale, risultato di una felice e bella varietà»;
c) «nel suo significato più elementare, la parola ‘storicismo’ denota appunto la consapevolezza che ogni singolo essere umano è collegato da una fittissima rete di relazioni con tutti gli altri umani, sia delle generazioni precedenti, sia dei suoi contemporanei»;
d) «tutto cambia, ma non si ha alcuna certezza circa il fatto che i cambiamenti miglioreranno, o peggioreranno, la condizione complessiva del genere umano. Resta, quindi, campo libero alla volontà degli esseri umani di impegnarsi, a livello teoretico e nella prassi, affinché si affermino le esigenze ideali e i valori in cui credono e che ritengono più rispondenti al bene e al progresso del genere umano»;
e) «lo storicismo non è compiuto; è una mentalità, un modo di considerare le cose. Può risultare utile, quindi, anche per valutare gli specifici problemi di questo nostro ventunesimo secolo, dell’era cristiana».
Anche alla luce di queste considerazioni conclusive, tutte le innumerevoli tesi del libro andrebbero discusse una per una. Ma ciò, come anticipavo, implicherebbe la scrittura di un altro libro. Perciò mi limito a sperare che, anche grazie a queste poche pagine riassuntive, l’opera di Livio Ghersi non passi del tutto inosservata: sarebbe ingiusto nei confronti di uno studioso rigoroso e appassionato, ma ancor più una scelta autolesionistica da parte della comunità dei ricercatori in buona fede.
Dialoghi Mediterranei, n. 64, novembre 2023
Note
[1] https://www.zerozeronews.it/livio-ghersi-esempio-di-idealismo-liberale/
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Augusto Cavadi, già docente presso vari Licei siciliani, co-dirige insieme alla moglie Adriana Saieva la “Casa dell’equità e della bellezza” di Palermo. Collabora stabilmente con il sito http://www.zerozeronews.it/. I suoi scritti affrontano temi relativi alla filosofia, alla pedagogia, alla politica (con particolare attenzione al fenomeno mafioso), nonché alla religione, nei suoi diversi aspetti teologici e spirituali. Tra le ultime sue pubblicazioni si segnalano: Il Dio dei mafiosi (San Paolo, 2010); La bellezza della politica. Attraverso e oltre le ideologie del Novecento (Di Girolamo, 2011); Il Dio dei leghisti (San Paolo, 2012); Mosaici di saggezze – Filosofia come nuova antichissima spiritualità (Diogene Multimedia, 2015); La mafia desnuda – L’esperienza della Scuola di formazione etico-politica “Giovanni Falcone” (Di Girolamo, 2017); Peppino Impastato martire civile. Contro la mafia e contro i mafiosi (Di Girolamo, 2018), Dio visto da Sud. La Sicilia crocevia di religioni e agnosticismi (SCe, 2020); O religione o ateismo? La spiritualità “laica” come fondamento comune (Algra 2021).
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