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Le scadenze calendariali delle feste e dei riti

9788815386687_0_536_0_75di Mariano Fresta

Per chi si occupa dal punto di vista demologico di feste stagionali, il titolo del libro appena pubblicato è veramente allettante: Attraversando l’anno. Natura, stagioni, riti (Il Mulino, 2023). Abituati, come studiosi di folklore, a saltellare da una festa all’altra, forse non ci siamo accorti che i 365 giorni dell’anno sono quasi tutti occupati da una moltitudine di celebrazioni che si manifestano come una lunghissima e variegatissima sequenza di riti. Ci ha pensato l’autore del volume, Duccio Balestracci, senese e già ordinario di Storia medievale nell’Ateneo della sua città, a mettere ordine agli eventi seguendo, giorno dopo giorno, i ritmi del calendario. E chissà quanta pazienza a compilare le schede, a stilare gli elenchi e quanta fatica gli è costata dare una sistemazione organica a quel garbuglio creato dalla sovrapposizione delle diverse concezioni del tempo (quello ciclico e quello lineare) e della mescolanza di vari calendari e di feste, che si celebrano, quasi con le stesse modalità, in luoghi e tempi lontani e diversi.

Vista l’ampia documentazione storica, l’opera appare molto preziosa per gli studiosi e per i curiosi che abbiano bisogno o voglia di conoscere lo scadenzario delle attività festive che si svolgono nel nostro Paese (e non solo).  Opera preziosa, dunque, che non manca tuttavia di qualche pecca.

Generalmente molti comportamenti culturali delle varie società umane hanno origine e motivazioni che ci rimangono sconosciute perché sono nati in epoche lontanissime da noi e ci appaiono, a causa della totale assenza di informazioni su quanto è accaduto diverse migliaia di anni fa, più incomprensibili ed oscure delle onde gravitazionali dei fisici quantistici. Qualche cosa sappiamo perché da quando esiste la scrittura questi fenomeni hanno attratto l’attenzione e la curiosità degli storici, degli scrittori e dei cronisti antichi, ma anche essi di questi fenomeni misteriosi ed effimeri ci hanno tramandato solo le descrizioni e non i significati. Possiamo immaginare il perché sono nati i miti, le leggende, ma delle tante usanze, che sopravvivono anche oggi, è difficile indicare luogo, data di nascita e motivazione della loro origine.

In epoca positivistica sono state avanzate delle ipotesi, alcune affascinanti, ma non convincenti, come quelle di Frazer; qualcosa della presunzione scientista di quel periodo è tuttavia rimasta in noi quando vogliamo a tutti i costi individuare il perché di certi fenomeni, magari per capire il motivo per cui anche noi moderni ne restiamo coinvolti o solo per soddisfare le nostre curiosità.

Trovandosi fra le mani una documentazione immensa riguardante riti, feste e costumanze antiche, anche Balestracci spontaneamente si è chiesto il perché della loro nascita e della loro millenaria esistenza. Ed ha trovato, o meglio ha creduto di aver trovato la risposta: basandosi su tesi rintracciabili in Lévi-Strauss e nell’opera dell’antropologo americano Eduardo Kohn, secondo lui questa miriade di riti è stata dettata dalla paura degli uomini nei confronti di certe manifestazioni della natura e delle «variazioni e delle incertezze delle stagioni». Ci sarà stata certamente la paura, ma ipotizzarla come sola madre di quel complessissimo patrimonio di riti mi sembra la soluzione più facile; è mia opinione, per quello che vale, infatti, che le origini di tutte quelle arcaiche attività cerimoniali siano molteplici e che una sola spiegazione di natura psicologica non sia sufficiente.

9788874528837_0_536_0_75Tra l’altro, lasciando da parte Frazer e altri studiosi dell’era positivistica, un’altra spiegazione di stampo psicologico e più rassicurante è quella suggeritaci dal filosofo coreano Byung-Chul Han, che lo stesso Balestracci cita nel suo lavoro, quando scrive che «la festa è la forma intensa della vita: nella festa la vita fa riferimento a sé stessa invece di subordinarsi a uno scopo»: se è così, si potrebbe allora ipotizzare che tutte queste feste e tutta la loro ritualità esistono perché negli uomini è insito il bisogno di affermare, attraverso di esse, la propria esistenza e la propria vitalità, sia sul piano fisico che su quello psicologico. Chissà, forse tutto è cominciato perché all’umanità piace far festa. E comunque, le molte ipotesi e qualsiasi interpretazione possano essere avanzate non saranno mai del tutto convincenti, perché non abbiamo nemmeno un indizio su cui appoggiarle. Comunque, se fossi stato in lui, avrei considerato maggiormente l’opera di Lanternari, La grande festa, in cui è possibile trovare qualche spiegazione più concreta.

Balestracci non è un demologo, né un antropologo, lo dice lui stesso apertamente nell’introduzione: egli è uno storico.  E ha affrontato il lavoro come uno storico che cerca di capire 

«come archetipi, stratificazioni, riti e miti abbiano interloquito con i tentativi da parte di istituzioni religiose e laiche di disciplinare … le rappresentazioni mentali che gli uomini avevano elaborato nel corso dei millenni in rapporto con il cosmo, la natura ….; come si fossero effettuate le riscritture e le domesticazioni; quanto il risultato finale fosse (e in parte almeno sia ancora) un ibrido, fluido composto nel quale persistenze, resistenze e protocolli hanno trovato il modo di convivere, confliggere, contaminarsi, rimodellarsi».

Solo che “la storia non è lineare”, afferma Balestracci, soprattutto, aggiungo io, quando si affronta la storia della cultura, in cui coabitano strati di esperienze differenti perché nate in epoche diverse. I processi culturali sono difficili da seguire e spesso sono sorprendenti, perché, mentre tutto scorre e si trasforma, alcuni aspetti della cultura ci si presentano esattamente come erano cento anni fa, forse come erano mille anni fa e ancora prima. Ciò accade perché, come aveva scoperto Carlo Cattaneo, la cultura può diventare stazionaria tanto che alcuni suoi tratti si presentano a noi senza essere cambiati e modificati nonostante siano sopravvenuti, successivamente alla loro nascita, altri tempi ed altre esperienze. Riporto qui un esempio banale che lo fa comprendere immediatamente: per dire che siamo felici usiamo l’espressione “stiamo al settimo cielo”, utilizziamo cioè una nozione che apparteneva al sistema tolemaico per il quale i cieli erano sette ed erano ben delimitati. Una nozione del tutto obsoleta ed abbandonata dopo Galilei, ma presente ancora nel linguaggio quotidiano.

Il fatto è che i primi numerosi millenni della vita umana sono stati come un imprinting che ha marchiato per sempre le nostre primordiali esperienze conoscitive, tanto che qualsiasi altro strato culturale sopravvenuto non è riuscito a scalfirle né tanto meno a modificarle. Prendiamo ad esempio, la festa di Capodanno che, nonostante le varie date della sua celebrazione, è attestata presso tutti i popoli della terra: anche per questo la lettura del lavoro di Lanternari sarebbe stato utile, ma a questo punto è sufficiente solo fare attenzione alla fenomenologia delle feste.

s-l1600L’umanità ha sempre segnalato questa data, in cui il Sole sembra fermarsi per ripartire verso una stagione nuova, provocando un forte rumore. I contadini, per farlo, percuotevano i loro attrezzi agricoli, le pentole, le botti (è una tradizione ancora viva in Campania); alcune popolazioni dei continenti extra europei e quelle più antiche dell’Europa producevano il rumore con uno strumento costruito appositamente, il rombo, che, facendolo ruotare, emetteva un sordo ronzio; con questi rumori salutavano il nuovo anno. Noi, più esperti tecnologicamente, lo salutiamo con pistolettate e fucilate e soprattutto con petardi e con raffinati fuochi artificiali. Ma il risultato non cambia, perché il rumore deve scacciare tutto ciò che è vecchio, patologico e malefico e nello stesso tempo serve a manifestare la gioia per l’arrivo di un anno nuovo e di nuove prospettive.

Questa festa, intrisa di euforia, di allegra spensieratezza, si celebra in ogni luogo, in modi diversissimi, alcuni simpatici altri meno, e lo storico Balestracci la insegue dovunque si celebri, tra gli Inuit, tra gli Aborigeni australiani, tra gli antichi Peruviani, tra gli Africani e gli Europei.  A volte lo storico rimane sorpreso e divertito perché trova un rito che si svolge esattamente uguale in posti lontanissimi, geograficamente e culturalmente. Altre volte elenca con molta ironia la sequela di divinità che presiedono alle attività umane, come quando, (nel paragrafo di pagina 38 “Un dio per tutte le stagioni”), parlando dei lavori agricoli al tempo degli antichi Romani, nota che c’era il dio Bonus Eventus che curava la situazione generale del terreno, poi, uno dietro l’altro, venivano: Consus che curava i chicchi di grano già interrati, Stercutius che agevolava la funzione del concime, Notodus che vigilava il grano appena germogliato, Latturcia che faceva riempire le spighe, Tutilia  che appunto tutelava i depositi delle granaglie; e poi  Fructusca che pensava all’impollinazione delle piante arboree; per non parlare del piantatoio un bastone appuntito, di forma fallica (quindi una rappresentazione del dio Priapo), e con in cima scolpita una testa di gallo, ancora in uso negli orti toscani fino a qualche anno fa, che serviva a preparare la buca dove inserire le piantine o i semi.

Insomma, l’animismo degli antichi Romani non aveva confini. E giustamente lo storico rimane meravigliato di tanta molteplice presenza divina in ogni vicenda umana, così che prende atto che all’umanità sono stati necessari i riti, forse per allontanare i pericoli, forse per invocare benefici, forse solo per far festa, e lo sono tutt’ora nella nostra società globalizzata che: «ha perduto ogni memoria dei suoi antichi tratti originali, ma che esprime … un ineliminabile bisogno di riti». Un bisogno, però, che si può dire soddisfatto, anche se non ci rendiamo conto che festeggiando il compleanno di un amico o sedendoci a tavola per mangiare stiamo svolgendo un rito. Perché, secondo i linguisti, rito deriva da una radice che significa “unire, tenere insieme”, e quando si fa festa e si mangia in compagnia i vincoli di parentela e di amicizia si rafforzano.

La ricerca di Balestracci si spinge fino alle popolazioni in cui è presente lo sciamanesimo, per il quale sembra avere un particolare interesse, e che è un tentativo con cui gli uomini, attraverso gli sciamani, cercano di instaurare un rapporto con le divinità. Che è ciò che in fondo cercano di realizzare tutte le religioni.

La parte del lavoro, tuttavia, più corposa e molto interessante è quella in cui l’Autore narra il conflitto millenario tra una mentalità ancestrale restia ad accettare una nuova visione del mondo e la Chiesa cattolica poco propensa ad accogliere forme e pratiche di culto ritenute pagane e forse, per essa, anche “demoniache”. La questione è affrontata riportando numerose testimonianze riguardanti il comportamento della Chiesa che talora accoglie certi riti cristianizzandoli, altre volte li tollera fingendo indifferenza o giustificandoli in quanto li giudica come una particolare forma di fede definita “religiosità popolare”, ora li condanna fermamente (cosa che oggi succede raramente ma che nei secoli passati ha caratterizzato una lunga e triste epoca, in cui si sono verificate molte tragiche vicende).

L’accettazione e la cristianizzazione di certe pratiche arcaiche sono palesi nelle Rogazioni che non sono più effettuate dal 1984. Alla fine di aprile, un sacerdote percorreva il territorio parrocchiale benedicendo i campi e invocando la Divinità a tenere lontane dagli uomini la fame, la guerra e la peste. Era la stessa azione rituale che gli antichi Romani chiamavano Ambarvalia (lett.: “intorno ai campi”) e che svolgevano per invocare la dea delle messi, Cerere, perché tenesse lontana dal grano la malattia della ruggine (o, per i Romani, il dio cattivo della ruggine, Robigus). Resiste invece, la cristianizzazione di un’altra festa, quella che salutava l’arrivo del maggio, periodo in cui inizia la maturazione dei raccolti, con la differenza che mentre una volta a dirigere le celebrazioni era una giovane donna eletta dalla comunità, da diversi decenni ormai la “regina di maggio” non è che la Madonna, per un decreto del 1945 di papa Pio XII. La festa più antica, conosciuta col nome di “maggio” o “calendimaggio”, ancora in vigore e diffusa in tante regioni europee, mantiene comunque la sua autonomia.

Ciclo degli affreschi del Monte Oliveto

Ciclo degli affreschi del Monte Oliveto

Le modalità con cui sono agite le feste patronali sono invece accettate tacitamente, nonostante la loro palese laicità e le evidenti pratiche superstiziose che le accompagnano (ogni festa, scrive Lanternari, ripete in piccolo il capodanno del solstizio invernale) come facilmente si può vedere nelle processioni sontuose e folkloristiche della Settimana Santa in alcune città del Meridione e di sant’Agata e santa Rosalia a Catania e Palermo. In cittadine meno importanti, ultimamente, abbiamo assistito all’inchino della statua del santo, verso coloro che seguivano la processione standosene sul proprio balcone, con cui si omaggiava qualche capo mafioso, nel silenzio ufficiale della Chiesa e con le vibranti proteste di qualche isolato sacerdote.

Parlando delle usanze relative ai riti della Candelora, Balestracci scrive: «Il patrimonio religioso-folklorico … convive tranquillamente con la trascrizione cristiana, avvenuta nel V secolo, dei giorni di inizio di febbraio, legati alla Purificazione della Vergine, e le candele acristiane della luce di Primavera …». Forse è uno dei pochi casi in cui le due contrapposte visioni del mondo riescono a condividere una festa, in genere però le cose stanno diversamente e il conflitto continua ad esistere seppure avvolto in un diplomatico silenzio. Ed è lo stesso Balestracci a narrarcelo con alcune utili e informate digressioni storiche sul Natale, sul ceppo di fine anno e san Bernardino, sui Re magi, sulle Rogazioni, sui due san Valentino, su santa Claus e san Nicola, su Halloween e la festa dei morti e su altre questioni minori ma non meno illuminanti.

Questo conflitto millenario, che oggi si svolge nel silenzio, sembra che non sia destinato a scomparire, almeno  entro un breve periodo, perché malgrado tutti gli sforzi della Chiesa, una “mentalità arcaica”, o forse una “religiosità arcaica”, continua a fare una resistenza passiva, uscendo talora allo scoperto e superando, anche vittoriosamente, le sfide: penso alla santificazione di padre Pio, un frate dai comportamenti piuttosto discutibili ma ben voluto dalle folle, penso alle sedicenti apparizioni della Madonna di Medjugorie e a quelle ancor più dubbie di Trevignano. Per non dire che mentalità arcaica e religiosità superstiziosa e bigotta sono alla base delle apparizioni pubbliche dei grandi capi mafiosi, come Riina e Provenzano che si facevano vedere circondati da immagini sacre, crocifissi e coroncine del Rosario; si sa, inoltre, che spesso i clan mafiosi finanziano le feste patronali per attirare la simpatia dell’opinione pubblica nei loro confronti e per dimostrare il loro potere.

Credo che la lettura che Balestracci fa degli affreschi del Bazzi, detto il Sodoma, nel chiostro del monastero di Monte Oliveto Maggiore (Asciano – Siena) sia indicativa di questo stato di silenziosa belligeranza tra Chiesa cattolica e mentalità arcaica e soprattutto della noncuranza con cui buona parte dell’umanità accoglie l’insegnamento della Chiesa. L’interpretazione di Balestracci è cosi efficacemente esplicativa che vale la pena riproporne qui le parti essenziali: in un uno dei riquadri affrescati c’è

«san Benedetto che catechizza i contadini [avendo] davanti figure che lo guardano con espressioni più diverse … Tre lo ascoltano con attenzione, un rustico lo osserva con aggrondata perplessità … un altro … ha l’aria sbalordita di chi ode cose inaudite. Le più significative espressioni sono, tuttavia, quelle dei due contadini posti dietro a tutti gli altri, uno dei quali bisbiglia qualcosa all’orecchio del compagno, che ride divertito. Non è difficile immaginare che si stiano facendo burla di quanto il sant’uomo sta raccontando e che a loro suona come una serie di fole». 
San Benedetto catechizza i contadini, affresco del Monte Oliveto

San Benedetto catechizza i contadini, affresco del Monte Oliveto

Se non lo prendono in giro, certamente dimostrano di essere del tutto increduli o estranei a quanto il santo sta dicendo, perché sono fortemente convinti del loro antico, tradizionale e inamovibile sapere.

Balestracci procedendo nelle sue argomentazioni spesso segue il calendario liturgico cattolico, così gli è più facile districarsi tra le innumerevoli e complesse ricorrenze di origine arcaica, sia perché ogni festa cristiana è fortemente calendarizzata, sia perché essa si sovrappone o riprende le cerimonie antiche, specie quelle di origine romana, da noi più facilmente interpretabili per il motivo ovvio che la nostra attuale cultura ha molti debiti nei confronti di quella degli antichi abitatori del Lazio.

Un altro tema trattato con particolare attenzione è quello del Carnevale. Sulla scorta di Bachtin, Balestracci dimostra come lo scherzo feroce, la dissacrazione e la sghignazzata, che caratterizzano ogni tipo di carnevale, marcano «una frattura stagionale che, analogamente a tutte le altre, si porta dietro la coreografia della messa in mora delle convenzioni, regole e protocolli a favore di un rovesciamento purificatore del tempo, in una sorta di “caos indotto e controllato” che deve propiziare il nuovo ordine». Con aggiunta la considerazione che il Carnevale non è una festa ultra millenaria, ma recente, che ha avuto origine molto probabilmente in periodo medioevale. Nel profondo, tuttavia, deve conservare qualcosa di più antico, se, come sappiamo, qualcosa del genere avveniva nei Lupercalia dei Romani.

Un’altra parte interessante del lavoro è quella in cui Balestracci ci parla dei riti primaverili e di rinascita: qui la documentazione va da un luogo all’altro del pianeta, mettendo insieme riti, usanze, e comportamenti che appaiono uguali, malgrado le distanze geografiche e culturali. Il tutto non per dimostrare qualcosa di particolare ma per far vedere come, in fondo, unica è l’origine della cultura di tutta l’umanità. In un’epoca come la nostra in cui ci si affanna a dimostrare ed esaltare la propria identità etnica tutto ciò è un buon antidoto contro qualsiasi tentativo di affermare la superiorità di un popolo su di un altro.

Lupercalia, Archeologic Museum, Sousse

Lupercalia, Archeologic Museum, Sousse

All’Autore, inoltre, non sfuggono due cose importanti: la prima riguarda il fatto che «i mesi del freddo sono anche quelli che conoscono un maggior ricorso alla pratica del dono; che evidenziano significative sottolineature dei legami comunitari»: questa osservazione nasce dal suo presupposto che il buio e il freddo suscitano un forte sentimento di paura e di incertezza che invita gli uomini a stare insieme, a farsi domande esistenziali e a rispondersi in merito. Credo, però, che il vero risultato della vicinanza e dell’intimità, a cui costringe il freddo invernale, sia quello di far diventare più stretti i legami famigliari e comunitari e di suggerire che è necessario aver rispetto e solidarietà per gli altri. La seconda cosa importante riguarda la necessità che ha l’uomo di conoscere non solo ciò che gli sta intorno ma anche quello che potrà accadere il giorno dopo, l’anno dopo, per essere pronto a vivere il futuro che gli si presenterà davanti. Da qui le pratiche divinatorie e quelle magiche; ma sarà solo la scienza moderna della meteorologia che gli darà, appena appena, la possibilità di sapere se domani pioverà o ci sarà il sole.                   

In molte pagine, le considerazioni di Balestracci progrediscono mettendo insieme elementi culturali di popolazioni diverse, lontane tra di loro nel tempo e nello spazio; questo modo di sviluppare il tema ci fa ricordare il lavoro degli illuministi Fontenelle e Lafitau con  i loro tentativi di individuare in culture altre e lontane i tratti presenti in quella europea (fiabe, leggende, costumi, ecc.); a volte, nel non volere  dimenticare nulla, accumula informazioni su informazioni, come quando la comparazione avviene non per l’essenza dei fatti ma per certi aspetti marginali che possono essere diffusi ad ogni livello ed appartengono a significanti diversi. Ma sono defaillances antropologiche scusabili perché l’Autore più che raramente interviene a spiegare il fenomeno utilizzando la congettura iniziale che attribuisce tutto alla paura: si limita, infatti, a registrarlo e ad osservare che si tratta di un rito “primaverile”, di un rito, cioè, simile a quello del solstizio invernale.

In definitiva, malgrado certe debolezze antropologiche, il libro risulta utile per una veloce consultazione sulle feste primaverili e, soprattutto, poiché fa conoscere i temi di cui si è occupata e continua ad occuparsi l’antropologia culturale, è di aiuto al lettore comune che vuole soddisfare la sua curiosità e avvicinarsi a questa disciplina. 

Dialoghi Mediterranei, n. 65, gennaio 2024

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Mariano Fresta, già docente di Italiano e Latino presso i Licei, ha collaborato con Pietro Clemente, presso la Cattedra di Tradizioni popolari a Siena. Si è occupato di teatro popolare tradizionale in Toscana, di espressività popolare, di alimentazione, di allestimenti museali, di feste religiose, di storia degli studi folklorici, nonché di letteratura italiana (I Detti piacevoli del Poliziano, Giovanni Pascoli e il mondo contadinoLo stile narrativo nel Pinocchio del Collodi). Ha pubblicato sulle riviste Lares, La Ricerca Folklorica, Antropologia Museale, Archivio di Etnografia, Archivio Antropologico Mediterraneo. Ultimamente si è occupato di identità culturale, della tutela e la salvaguardia dei paesaggi (L’invenzione di un paesaggio tipico toscano, in Lares) e dei beni immateriali. Fa parte della redazione di Lares. Ha curato diversi volumi partecipandovi anche come autore: Vecchie segate ed alberi di maggio, 1983; Il “cantar maggio” delle contrade di Siena, 2000; La Val d’Orcia di Iris, 2003.  Ha scritto anche sui paesi abbandonati e su altri temi antropologici. É stato edito nel 2023 dal Museo Pasqualino il volume, Incursioni antropologiche. Paesi, teatro popolare, beni culturali, modernità.

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