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Il Lussu di Giuseppe Fiori, una luce nei nostri tempi bui

Giuseppe Fiori

Giuseppe Fiori

di Costantino Cossu

Nella lunga parabola della sua esistenza, dal 1890 al 1975, dagli esiti estremi del corso risorgimentale sino ai primi sintomi di crisi degli assetti planetari seguiti alla Seconda guerra mondiale, Emilio Lussu ha percorso un cammino lungo il quale svolte e crocevia appaiono risolti, visti oggi, in una sostanziale coerenza di atti e di orientamenti di valore. È il dato che emerge con più forza dalla rilettura del Cavaliere dei Rossomori, la biografia dell’autore di Un anno sull’Altipiano che Giuseppe Fiori mandò per la prima volta in libreria nel 1985 con la casa editrice Einaudi e che Laterza ha appena rieditato aggiungendo al testo una prefazione di Roberto Saviano.

«La biografia intellettuale di Lussu – scrive Fiori – è la storia di un’evoluzione dal liberismo rurale al socialismo pragmatico, al socialismo consapevolmente premarxista, al marxismo. Un socialista irregolare». A sinistra, dunque, Lussu, ma libertario: «Sono per un socialismo antitotalitario e quindi non accentratore, non burocratico; socialismo che si realizza nella società e nello Stato in prevalente funzione di libertà».  Fermo nell’indicare alla sinistra una prospettiva liberaldemocratica, ma mai ciecamente anticomunista: «Serve un grande partito socialista che parli il linguaggio repubblicano e democratico della legalità, del lavoro e della libertà umana, e che appaia e sia realmente autonomo dal Pci». Ma anche: «Quei socialisti che pensano che sia difficile dialogare con i comunisti, mi dicano quale situazione si avrebbe senza di loro e contro di loro. Senza i comunisti si perfeziona la reazione, non la democrazia».

Nel campo difficile della politica estera, in controtendenza assoluta con gli orientamenti prevalenti sia tra i moderati sia tra i ranghi del Pci togliattiano, Lussu è fautore della neutralità: «Amici dell’America e amici della Russia, ma soprattutto amici del nostro Paese. Al di fuori della neutralità non c’è salvezza per l’Italia, e non c’è onore. E aggiungo, non c’è democrazia». Parole che lette oggi fanno impressione. Un socialismo che si realizza «in prevalente funzione di libertà»; senza i comunisti (senza cioè, intendeva Lussu, una visione politica che non sia tesa a un superamento dello scandalo che nasce dallo sfruttamento dell’uomo sull’uomo), «si perfeziona la reazione, non la democrazia»; al di fuori della neutralità non c’è onore (dignità nazionale) e soprattutto non c’è democrazia. E questa parola, “democrazia”, che continuamente ricorre come un concetto da riempire di contenuti politici.

Lussu

Emilio Lussu

Più esattamente: la pratica attuazione della democrazia è per Lussu indissolubilmente legata da una parte al progressivo superamento (non al semplice miglioramento) degli assetti economici e sociali proprî del sistema capitalistico, dall’altra a una scelta, nella sostanza pacifista, di non allineamento ai blocchi contrapposti della Guerra fredda. Libertà, giustizia e pace, fuse in un’unica visione.  Lussu il pragmatico, Lussu uomo d’azione da sempre avvezzo a rapportare ogni atto alla cogente concretezza dei rapporti di forza, è anche un leader capace di indicare alla politica un orizzonte nuovo di civiltà. Quanto, oggi, una simile disposizione sarebbe utile per superare un’impasse che, a livello mondiale, rischia di sfociare in una pericolosa regressione democratica? Molto utile, crediamo. Si naviga, invece, in un mare solcato da vascelli guidati da timonieri ciechi.

C’è molta Sardegna nella biografia di Lussu. Crediamo abbia ragione lo scrittore Giancarlo De Cataldo quando, recensendo per La Repubblica la nuova edizione del Cavaliere dei Rossomori, afferma: «Non si possono comprendere il tessuto umano, la forza etica, le scelte esistenziali di uno come Lussu se si amputa il racconto di quella vibrante, e per il profano a tratti inafferrabile, anima sarda. È il faro narrativo dal quale non si distacca mai Giuseppe Fiori».  Tanto vibrante è l’anima sarda che si manifesta già dal primo capitolo del libro, e lo fa assumendo i tratti di un’ancestrale dimensione identitaria. La scena della caccia al cinghiale nelle boscaglie di Armungia, il paese dove Lussu è nato, nel cuore del Gerrei, restituisce sin dalle prime pagine, con una forza letteraria straordinaria, il codice etico e in qualche maniera sentimentale della tradizionale società pastorale, nella quale il futuro capitano della Brigata Sassari s’è formato, membro di un’aristocrazia terriera fiera dei propri codici di valore.

s-l1600È intitolato “Il cacciatore” il capitolo che apre il libro. E subito Fiori istituisce un legame diretto tra il mondo dei prìncipi-pastori, guerrieri e cacciatori implacabili, e le gesta leggendarie di Lussu sulle doline del Carso e sull’Altipiano di Asiago: il capitolo immediatamente successivo lo intitola “Il capocaccia”. Lussu è il capo della caccia al nemico. È stato interventista della prima ora già da studente universitario alla facoltà di Giurisprudenza a Cagliari. La guerra l’ha voluta. Nell’Intesa vedeva un baluardo di libertà contro gli imperi tedesco e austroungarico. Era giovane, il suo orizzonte era quello liberaldemocratico e repubblicano e le baionette dei fanti servivano a portare a compimento quel processo di unità nazionale che Lussu vedeva non nei suoi tratti nazionalistici ma nelle sue determinazioni democratiche: rottura con gli assetti di potere che la monarchia sabauda aveva garantito per tutto il Risorgimento.

Repubblica non era soltanto libertà (dallo straniero), era anche, e soprattutto, giustizia, un nuovo ordine sociale segnato dall’ingresso delle masse popolari, a cominciare dai contadini del Mezzogiorno, nel sistema politico e istituzionale della nazione. Significativamente  Fiori riporta, tratto da Un anno sull’Altipiano, il dialogo tra il capitano Ottaviani, l’unico ufficiale dichiaratamente socialista, e Lussu, subito dopo che, con grande difficoltà, si è riusciti a sedare il tumulto dei fanti quando, il 17 gennaio del 1917, in pausa dalle trincee a Capolongo ricevono l’ordine di tornare in prima linea. Ecco il dialogo:

«OTTAVIANI: Alla prima occasione favorevole per sparare ai nostri ufficiali avrò non un fucile e una baionetta ma cento fucili e cento baionette. E, alla tua salute, anche un paio di mitragliatrici.
LUSSU: E dopo?
OTTAVIANI: E dopo, dietrofront! E fatto il dietrofront, avanti, avanti sempre, avanti sino a Roma. I nostri veri nemici non sono dirimpetto alle nostre trincee. Il gran quartiere generale nemico è lì, a Roma…
LUSSU: Ma che significherebbe in sostanza la tua marcia all’indietro? La vittoria nemica, evidentemente. E puoi davvero immaginare che la vittoria militare nemica non si affermi, sui vinti, come una vittoria anche politica? Riflettici: tutte le volte che i nemici hanno vinto, hanno portato i Borboni a Napoli e il Papa a Roma».

Questo era Lussu: pragmatismo che mai rinuncia ai valori, alle prospettive politiche ampie. Certo, i nemici sono acquartierati sia a Roma sia a Berlino e a Vienna. Ma se Berlino e Vienna vincono, sarà molto più dura battere Roma. Discorsi tra ufficiali, d’altra parte. Per i soldati era molto diverso. Le pagine che Fiori dedica alla guerra sul Carso e sull’Altipiano di Asiago mostrano che, con rare eccezioni, i fanti della Sassari di coscienza politica non ne avevano alcuna. L’orizzonte dal quale venivano era quello dei piccoli villaggi isolati, una Sardegna estranea a se stessa perché chiusa in tanti microscopici cerchi comunitari. La guerra spezzava i cerchi. Metteva in contatto la Sardegna con se stessa. Nasceva una coscienza più ampia, che se non arrivava a definire coordinate conoscitive in grado di dare conto della complessità del mondo in cui i singoli individui vivevano e operavano, però costruiva, per la prima volta con tanta potenza, una dimensione in cui lingua e usi comuni circoscrivevano un raggio più ampio di quello del villaggio.

prima-sassari-hpI fanti della Sassari si riconoscevano in Lussu e lo seguivano ciecamente perché nel cacciatore di Armungia vedevano il riflesso di una comune condizione esistenziale, che era fatta di codici etici, di automatismi percettivi e di sentimenti condivisi. Seguivano Lussu nelle sue imprese impossibili, conquistavano postazioni nemiche dove altre compagnie venivano ripetutamente respinte, accerchiati e a munizioni esaurite si aprivano varchi tra le schiere austriache a colpi di coltello. Eroi? Niente affatto. Odiavano tutti la guerra. Se avessero potuto, sarebbero tornati a casa di filato. Ma erano lì, e se si doveva combattere, tanto valeva farlo bene. Per chi? Perché? Domande inutili nel fango delle trincee. Quando dai fossi pieni di pidocchi uscivano per farsi ammazzare a centinaia non gridavano “Savoia”, ma “Sardegna, Sardegna”. L’inafferrabile anima sarda, direbbe De Cataldo. Ma, ovviamente, è altro, e il terreno del giudizio è storico e antropologico. Con nodi che diventano immediatamente politici. Nodi ancora da sciogliere: Sardegna-identità, Sardegna-nazione.

Si apre qui un altro capitolo della vicenda politica di Lussu che le pagine di Fiori aiutano a comprendere. E che ha insegnamenti importanti per il presente. Nel secondo dopoguerra, quando si tratta di definire gli assetti istituzionali della Repubblica nata dal crollo del fascismo, Lussu si schiera apertamente contro tutte le tendenze separatiste, a partire da quelle che si affermano come maggioritarie all’interno del Partito sardo d’azione, di cui è fondatore. 

«Con il Psd’Az – scrive Fiori – il rapporto è complesso e difficile. Il padre del partito dell’autonomia scopre di non potersi più riconoscere nella maggioranza, a tendenza liberale». «Essi – ricorderà Lussu in una successiva ricostruzione di quei fatti riferendosi ai dirigenti sardisti – avevano totalmente dimenticato la questione sociale; essi parlavano un linguaggio puramente separatista. Nella mia esperienza politica ho imparato a conoscere che le posizioni accanitamente nazionalistiche sono sempre di conservazione sociale e di reazione. I separatisti e i nazionalisti sardi vedono nel socialismo il pericolo perché conservatori e reazionari». 

Tornato in Sardegna dopo la guerra, Lussu scopre che il Psd’Az è un partito conservatore, portatore degli interessi della piccola proprietà terriera e di ceti medi rivolti prevalentemente alla tutela corporativa dei propri interessi particolari. Ancora una volta, tiene fermo il punto. Ribadisce che il legame che unisce libertà e giustizia è inscindibile. Non c’è libertà, neppure quella, fondamentale, di autodeterminazione, che non sia destinata a rovesciarsi nel suo contrario se non rientra in un processo di liberazione delle classi subalterne dal dominio che caratterizza la loro condizione.

Lussu, come si sa, nel confronto tra i costituenti si è battuto per una soluzione federalista all’interno di un ordinamento unitario della Repubblica. Gli sembrava lo sbocco che più di tutti garantisse sia la libertà delle singole comunità di provvedere in autonomia al loro futuro sia la possibilità che, in un quadro di unità nazionale, si saldasse quell’alleanza delle classi lavoratrici che sola poteva, ai suoi occhi, garantire un esito progressivo del post fascismo e una piena attuazione dei princìpi democratici. Era la sua risposta alla domanda: quale autonomia? Domanda oggi più che mai pressante.

copertinaTra timidi intenti di riforma dello Statuto di autonomia speciale, sciagurate proposte di autonomia differenziata, alleanza di ferro tra il Psd’Az e forze che nella loro strategia politica tengono insieme radicale conservatorismo e ferma determinazione a dissolvere le architetture unitarie della Repubblica (e con esse il complesso di diritti di libertà e di giustizia che quelle architetture garantiscono), la questione è davvero cruciale. Certo, il quadro storico è differente rispetto a quello dentro il quale si muoveva Lussu. Le dinamiche innescate dal processo di globalizzazione, ma soprattutto il pensiero postcoloniale, hanno aperto prospettive di analisi e di azione politica che a Lussu non potevano che essere estranee. E oggi parlare di indipendentismo di sinistra non è più impossibile. Così come non è più impossibile discutere di federalismo. C’è un grande cantiere aperto, che crescerà nei prossimi anni e all’interno del quale ci si può misurare, con qualche speranza di arrivare a soluzioni adeguate, anche perché c’è stato, prima, lo straordinario lavoro di Lussu.

Giuseppe Fiori

Giuseppe Fiori

Detto del personaggio del Cavaliere dei Rossomori, resta da dire del suo autore, Giuseppe Fiori. Non a caso usiamo i termini “personaggio” e “autore”. Nel libro c’è un grande lavoro da storico. Dal giolittismo al prefascismo, dal fascismo all’antifascismo militante, dalla Liberazione alla nascita della Repubblica sino al Sessantotto, Fiori ricostruisce, con esattezza e acume interpretativo, fatti e circostanze. Dietro si intravvede un meticoloso lavoro d’archivio. Ma il Cavaliere dei Rossomori non è soltanto questo. È anche un’opera letteraria. È, per riprendere il giudizio che del libro diede Angelo Guglielmi in una recensione apparsa su “Alfabeta” nel 1985, «una grande favola epica». Un testo, cioè, «in cui non è tanto importante – scriveva Guglielmi – che ciò che viene raccontato corrisponda (come corrisponde) al vero, quanto che gli stimoli che trasmette, i sentimenti che comunica, i pensieri che suggerisce, le immaginazioni che accende, siano forti e irresistibili». E Fiori, nel raccontare, è forte e irresistibile, come uno scrittore vero. «Indubbiamente Fiori è stato favorito – notava Guglielmi nel suo articolo – dal fatto di avere a che fare con un personaggio dotato di una vitalità propria e che conteneva in sé tutte le contraddizioni di cui l’autore aveva bisogno. Ma mettere in moto queste contraddizioni tanto fa far vivere il personaggio sulla pagina, è opera, più che di storico, di narratore. Di autentico narratore».

Dialoghi Mediterranei, n. 65, gennaio 2024

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Costantino Cossu, laureato presso l’università “Carlo Bo” di Urbino (facoltà di Sociologia e Scuola di giornalismo), è giornalista professionista dal 1985, cura le pagine di Cultura del quotidiano la Nuova Sardegna. Collabora con il quotidiano Il manifesto e con la rivista “Gli Asini”. Ha scritto i libri: Sardegna, la fine dell’innocenza (Cuec, 2001), Gramsci serve ancora? (Edizioni dell’Asino, 2009). Ha curato il volume di autori vari La Sardegna al bivio (Edizioni dell’Asino, 2010) e il testo di Salvatore Mannuzzu, Giobbe (Edizioni della Torre, 2007).

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