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C’è ancora domani? Violenza di genere e di linguaggi

da C'è ancora domani

da C’è ancora domani

di Maria Rosaria Di Giacinto 

Cosa una donna (non) deve, può, vuole essere 

La violenza e la disuguaglianza di genere sono problemi più che mai attuali. A fronte di molteplici conquiste nel campo del diritto, la condizione delle donne in differenti contesti sociali di tutto il mondo risulta subordinata. Nel presente globale, l’essere maschio, ricco, bianco e occidentale rappresenta un vantaggio non di poco conto. Ciò è il risultato, o per meglio dire l’ovvia continuazione, di una cultura patriarcale che resiste nel tempo, grazie alla sua potente capacità di insinuarsi, adattarsi e celarsi trasversalmente.

Sin dalla nascita, in molte culture, attori e attrici sociali imparano inconsapevolmente l’esistenza di un incontrovertibile binomio: uomini e donne sono particelle opposte e separate, il cui destino è legarsi come molecole polarizzate. Nelle espressioni più estreme di tale filosofia di vita, l’incontro tra questi due universi sarebbe la base solida non soltanto della famiglia tradizionale, ma dell’intera comunità, dello Stato nazionale, del naturale ordine delle cose. La donna è donna se è moglie e madre e non può e non deve realizzarsi al di fuori dell’ambito domestico. L’uomo è il pater familias dall’autorità indiscutibile, che non può e non deve mostrare incertezze e debolezze. Nella logica machista, al di fuori dell’uomo come uomo e della donna come donna, regnano caos, disordine e insensatezza ed è impossibile dirigersi teologicamente verso il domani (Calvi, 2011). 

In merito alla questione della violenza e della disuguaglianza di genere, si inserisce perfettamente e provvidenzialmente il film della regista e attrice Paola Cortellesi, C’è ancora domani, che, uscito nelle sale cinematografiche italiane il 26 ottobre scorso, ha riscosso un notevole successo di pubblico e critica [1]. La difficoltà dell’autrice nell’accedere a fondi pubblici per finanziare la propria pellicola [2] la dice lunga sullo stato attuale delle cose. Sebbene il susseguirsi di episodi di violenza contro le donne non accenni a retrocedere, il tema non raccoglie l’attenzione che merita tra i vertici del potere politico italiano. La forza di movimenti come Non una di meno o di iniziative come la Giornata internazionale per l’eliminazione della violenza contro le donne, evidentemente, poco scalfiscono lo zoccolo duro della cultura patriarcale, presente in svariati strati della società. Negli ultimi anni, il fenomeno dei femminicidi ha assunto proporzioni allarmanti. Nel mondo, una donna su tre subisce una qualche violenza di genere e ogni undici minuti una di esse viene uccisa da un familiare. In Italia, la media è di circa 150 vittime all’anno, cioè un omicidio ogni due giorni. Nella maggior parte dei casi, gli assassini sono compagni possessivi e gelosi [3].

La violenza di genere è perlopiù domestica e la storia raccontata da Cortellesi centra perfettamente il problema. La protagonista, Delia (interpretata dalla stessa Cortellesi), è una signora romana del secondo dopoguerra, sposata a un marito possessivo e violento, con un odioso suocero da accudire, due figli piccoli indomabili e una figlia adolescente che non riesce a comprenderla. Tra le innumerevoli difficoltà quotidiane, la donna riesce a ritagliare spazi di autonomia che le permettono di confrontarsi con un’amica sincera, un ex fidanzato ancora innamorato, un soldato afroamericano e le vicine del quartiere. La protagonista è perfettamente inquadrata nel proprio tempo. La sua condizione, fino a un certo punto della storia, è talmente ovvia, da non insinuare in lei l’idea di un possibile cambiamento. Per buona parte dei minuti di proiezione, Delia accetta offese e mortificazioni, convinta di non avere altra scelta che restare col marito. Sebbene svolga lavori utili alla famiglia e alla comunità è sottopagata e rinchiusa entro una gabbia fisica e mentale che le impedisce di godere liberamente del frutto del proprio sudore.

Geniale è la scena in cui Delia viene picchiata dal marito. Cortellesi decide di simulare un ballo tra i coniugi. Strattoni, schiaffi e percosse sono i passi di un rituale danzante, socialmente accettato e scontato, che ben si inserisce entro una concezione paternalistica del matrimonio quale unione eterna e indissolubile. Essere picchiata dal marito è un’attività ovvia e banale quanto svolgere le faccende domestiche, occuparsi dei figli e chiedere il permesso per uscire di casa. Paradossalmente, la violenza è il linguaggio attraverso cui il marito esprime il proprio attaccamento a lei e alla famiglia. In questo spaccato d’Italia degli anni ‘50, non sembra esserci spazio per ciò che una donna (non) vuole essere.

La violenza fisica e psicologica subita da Delia tuttavia non la neutralizzano come persona. Il suo ruolo nel film è attivo, la sua capacità di resistenza si trasforma lentamente e inesorabilmente in presa di coscienza della propria agency. Nella piccola realtà quotidiana della donna, il matrimonio della figlia con un giovane di ceto un po’ più agiato sembra essere fondamentale per uscire dalla condizione di povertà in cui versa la famiglia. Quando, però, il promesso sposo comincia ad avere atteggiamenti simili a suo marito, Delia capisce che è il momento di intervenire. Interessante la scelta di chiedere aiuto al soldato afroamericano, quasi Cortellesi volesse, più o meno consapevolmente, associare due categorie altamente discriminate in svariati contesti di ieri e di oggi. A questo punto della trama, non il vincolo del matrimonio, ma al contrario l’affermazione della propria individualità è la chiave per riscattarsi. Attraverso il voto, che di lì a poco le donne italiane avrebbero conquistato, Delia scopre la possibilità d’indipendenza dal marito, si rende conto di non essere più sola e di poter fare la differenza. Contando sull’aiuto di altre donne (sua figlia in primis) che a discapito delle differenze sono anch’esse sottomesse alla sua stessa logica patriarcale, si reca alle urne e vota.

C’è ancora domani è un film prima di tutto politico. La pellicola è dedicata a donne e uomini di ogni tempo, contesto e categoria. La critica ha sottolineato l’abilità della regista di trattare un argomento così delicato e drammatico con punte di leggerezza e ironia: un’intuizione che è probabilmente il segreto del successo al botteghino. All’atmosfera pesante e opprimente delle mura domestiche, infatti, corrisponde un pathos costante che non concede distrazioni. Colpisce l’estrema attualità di un racconto in bianco e nero ambientato più di 70 anni fa, ma che può essere lo specchio di tanti frammenti del terzo millennio italiano. Certamente, si tratta di un’Italia che non ha ancora conosciuto gli effetti del diritto di voto alle donne, del ’68, del divorzio e della pillola anticoncezionale, ma è plausibile illudersi che a queste tappe dell’emancipazione femminile corrisponda un miglioramento a tutto tondo? Le 103 vittime di violenza di genere del 2023 gridano di no.  Per tutte le donne uccise dal proprio compagno non c’è più domani.  

Elaborato scolastico sulla violenza di genere, 25 novembre 2023

Elaborato scolastico sulla violenza di genere, 25 novembre 2023

Linguaggio, violenza e genere 

La violenza e la disuguaglianza di genere procedono nascondendosi nell’ovvio quotidiano.  All’interno dell’attuale cultura capitalistica, neoliberista e consumistica, il patriarcato assume forme diverse rispetto al passato. Le donne di oggi, a parità di mansioni, devono ancora far fronte a stipendi più bassi [4] o a giudizi spietati sul proprio corpo, sui propri doveri di moglie e di madre, che con forza ristagnano nel dibattito pubblico. Un esempio su tutti, la polemica contro la brillante astronauta italiana, Samantha Cristoforetti, accusata di abbandonare i figli alle cure esclusive del marito durante la propria missione nello spazio. Non è un caso, dunque, che gran parte delle donne sia costretta a lasciare il lavoro dopo la maternità [5]. 

Oltre ai riferimenti espliciti alla maternità o alla fragilità femminile e specularmente all’efficienza e alla forza maschile, la (op)posizione di uomo e donna ideali della cultura patriarcale procede, implicitamente, attraverso il linguaggio. Così, oggi, alle battute di spirito sull’incapacità alla guida o sui cicli ormonali, si affianca la predominanza semantica del maschile: “avvocato” e non “avvocata”, “ragazzi” e non “ragazze e ragazzi” (Castelli, 2004) sono resistenze difficili da scardinare. Persino alcune voci liriche prettamente femminili, come il soprano, il mezzosoprano e il contralto, sono tuttora declinate al maschile, a causa di un retaggio del passato che inibiva la carriera musicale alle donne. Secondo le regole linguistiche, il femminile è assimilato nel maschile e ciò ben si accorda con la tradizione cristiana che vuole la donna appendice dell’uomo: Eva nasce dalla costola di un Adamo annoiato della propria solitudine in Paradiso. Miti religiosi e regole linguistiche, tramandati per secoli, si sono insinuati nella mente di uomini e donne che hanno finito per convincersi della naturalità dei compiti che la società assegna loro, tralasciando il fatto che sono, invece, frutto di una scelta arbitraria e mutevole. 

Il linguaggio del patriarcato

Il linguaggio del patriarcato

Si dimentica facilmente che in più di una cultura la discendenza segue la linea femminile; in altre, il genere non è considerato esclusivamente binario; in altre ancora, la donna è all’apice della piramide sociale e svolge compiti che in Occidente sono appannaggio degli uomini (Robbins, 2015). L’arbitrarietà dell’assegnazione di precisi ruoli sociali al genere è comprovata anche da diversi studi neuroscientifici. L’utilizzo del maschile per indicare una moltitudine di uomini e donne insieme viene assimilata inconsciamente sin dalla tenera età e predispone la mente a considerare le donne naturalmente deboli e naturalmente sottomesse agli uomini (Castelli, 2004). 

Si è tentati, quando si pone la questione del genere associato al linguaggio, di credere che umorismo nero, barzellette omofobe e asterischi poco abbiano a che fare con la sottomissione delle donne. Termini come “femminicidio”, “femminismo” o “patriarcato”, possono suonare antiquati, quando stucchevoli,  inadeguati, o poco concreti e incisivi. Se paragonata alla violenza fisica, la violenza verbale pare non reggere il confronto. Eppure, diversi sono i casi in cui il giogo mentale a cui molte donne sono sottoposte impedisce loro di abbandonare relazioni pericolose per la propria incolumità.

C’è ragione di credere che la difficoltà femminile nel tirarsi fuori da situazioni di grave vessazione dipenda, tra le altre cose, da una struttura sociale patriarcale, radicata nella mente sin dai primi istanti di vita per mezzo del linguaggio: un meccanismo vecchio, ma duro a morire. Che si chiami patriarcato, machismo o maschilismo, il tentativo quotidiano di domino del corpo e della mente delle donne esige una definizione, quale punto di partenza per lo scardinamento dello status quo.

Palermo, via Maqueda, 2023

Palermo, via Maqueda, 2023

Un minuto di rumore

Una volta chiarita l’importanza della parola, il passo successivo è quello di pensare a nuove forme di educazione al linguaggio e al genere, di educazione affettiva e sessuale. Affermare con il patriarcato che i generi siano solo due, che il matrimonio sia il perno fondante di una società sana, che il corpo dell’altr* appartenga al rispettivo partner, appare insensato (Scott, 2013). Il modello patriarcale non giova ai generi: i rapporti squilibrati non permettono alle identità di esprimersi liberamente, generano frustrazione e infelicità e, in troppi casi, sfociano in tragedia (Calvi, 2011). 

Se non si preferisce il rumore al silenzio, se non si agisce sul fronte dell’educazione, difficilmente si arriverà a una diminuzione dei casi di abuso e femminicidio. La violenza di genere oggi si fonda sull’idea che i rapporti abbiano solo due tipologie di protagonisti, uomini e donne e che queste ultime debbano naturalmente collocarsi in una posizione subordinata. In tali relazioni, gli uomini hanno il dovere di proteggere le donne e, specularmente, le donne non devono mettersi nelle condizioni di pericolo. 

In questo senso, le parole di Elena Cecchettin, sorella Giulia Cecchettin, uccisa recentemente dall’ex fidanzato, tornano utili:

«la differenza non deve essere sulle spalle della donna […] L’assassino di mia sorella viene spesso definito come un mostro, invece, mostro non è. Un mostro è un’eccezione, una persona esterna alla società, una persona della quale la società non deve prendersi la responsabilità. E, invece, la responsabilità c’è. I mostri non sono malati: sono figli del patriarcato, della cultura dello stupro. La cultura dello stupro è ciò che legittima ogni comportamento che va a ledere la figura della donna, a partire dalle cose a cui talvolta non viene nemmeno data importanza, ma che di importanza ne hanno eccome, come il controllo, la possessività, il catcalling. Ogni uomo viene privilegiato da questa cultura. Viene spesso detto «non tutti gli uomini»: tutti gli uomini no, ma sono sempre uomini. Nessun uomo è buono se non fa nulla per smantellare la società che li privilegia tanto. È responsabilità degli uomini in questa società patriarcale, dato il loro privilegio e il loro potere, educare e richiamare amici e colleghi non appena sentono il minimo accenno di violenza sessista. Ditelo a quell’amico che controlla la propria ragazza, ditelo a quel collega che fa catcalling alle passanti, rendiatevi ostili ai comportamenti del genere ormai accettati dalla società che non sono altro che il preludio del femminicidio. Il femminicidio è un omicidio di Stato, perché lo Stato non ci tutela, non ci protegge. Il femminicidio non è un delitto passionale, è un delitto di potere. Serve un’educazione sessuale e affettiva capillare, serve insegnare che l’amore non è possesso. Bisogna finanziare i centri antiviolenza, bisogna dare la possibilità di chiedere aiuto a chi ne ha bisogno. Per Giulia non fate un minuto di silenzio, per Giulia, bruciate tutto».

Si comprende l’urgenza di un cambiamento, di un’educazione al rispetto dell’altr*. Alle poco efficaci battaglie per l’inasprimento della pena, dovrebbe sostituirsi una densa riflessione collettiva sul diritto alla diversità, sul linguaggio patriarcale e sul significato sociale dei corpi e dei loro ruoli nel quotidiano. 

Linguaggio patriarcale dell’emancipazione. Autrice anonima di scuola secondaria, febbraio, 2023.

Linguaggio patriarcale dell’emancipazione. Autrice anonima di scuola secondaria, febbraio, 2023

Dagli anni ’50 ad oggi, tanto è stato fatto, ma troppo resta da fare. Linguaggi cinematografici come quello di Paola Cortellesi rappresentano un’occasione irrinunciabile di denuncia e resistenza politica. Agli avvenimenti evenemenziali dei grandi uomini di potere, Cortellesi preferisce il racconto sociale di quelle donne come Delia che hanno fatto la storia d’Italia senza saperlo, che hanno saputo sperare in un domani non ancora pienamente raggiunto. La regista è riuscita nel difficile compito di catturare un’istanza pressante del presente e restituirla sottoforma di arte e azione politica. L’aver portato sul grande schermo il tema dello svantaggio femminile è una tattica di resistenza alle disuguaglianze di potere, un’importante opportunità per sensibilizzare le menti e operare la svolta. Il linguaggio del patriarcato viene così affermato al fine di essere sapientemente sovvertito e la narrazione del passato funge da strumento di comprensione e cambiamento dell’oggi.

Il film di Paola Cortellesi dà voce a quelle donne messe a tacere dai loro compagni, e nel silenzio istituzionale, è capace di generare rumore. 

Dialoghi Mediterranei, n. 65, gennaio 2024 
Note
[1] https://www.hollywoodreporter.it/film/festival-e-premi/ce-ancora-domani-il-film-di-paola-cortellesi-si-aggiudica-il-biglietto-doro-2023/63451/
[2] https://www.rainews.it/video/2023/11/ce-ancora-domani-il-film-di-paola-cortellesi-non-ha-ricevuto-finanziamento-pubblico-00b93b79-65d9-455d-b2b5-116d28b4e9fa.html
[3] https://www.la7.it/fa-che-io-sia-lultima/video/violenza-sulle-donne-103-femminicidi-in-italia-nel-2023-le-identita-e-le-storie-delle-vittime-24-11-2023-515513#:~:text=Violenza%20sulle%20donne%2C%20103%20femminicidi,le%20storie%20delle%20vittime%20%7C%20LA7
[4] https://www.istat.it/donne-uomini/bloc-2d.html
[5]https://www.savethechildren.it/press/maternit%C3%A0-italia-circa-6-milioni-di-mamme-%E2%80%9Cequilibriste%E2%80%9D-tra-lavoro-e-carichi-familiari-il-426 
Riferimenti bibliografici
Calvi G. a cura di (2011), Donne e genere nella storia sociale, Viella, Roma
Castelli L. (2004), Psicologia sociale cognitiva. Un’introduzione, Laterza, Bari
Robbins R.H. (2015), Antropologia culturale. Un approccio per problemi, Feltrinelli, Milano
Scott J. W. (2013), Genere, politica, storia, CDC Arti Grafiche Srl, Castello
Sitografia
https://www.hollywoodreporter.it/film/festival-e-premi/ce-ancora-domani-il-film-di-paola-cortellesi-si-aggiudica-il-biglietto-doro-2023/63451/
 https://www.istat.it/donne-uomini/bloc-2d.html
https://www.la7.it/fa-che-io-sia-lultima/video/violenza-sulle-donne-103-femminicidi-in-italia-nel-2023-le-identita-e-le-storie-delle-vittime-24-11-2023- 515513#:~:text=Violenza%20sulle%20donne%2C%20103%20femminicidi,le%20storie%20delle%20vittime%20%7C%20LA7
https://www.rainews.it/video/2023/11/ce-ancora-domani-il-film-di-paola-cortellesi-non-ha-ricevuto-finanziamento-pubblico-00b93b79-65d9-455d-b2b5-116d28b4e9fa.html 
https://www.savethechildren.it/press/maternit%C3%A0-italia-circa-6-milioni-di-mamme-%E2%80%9Cequilibriste%E2%80%9D-tra-lavoro-e-carichi-familiari-il-426

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Maria Rosaria Di Giacinto, si è laureata nel 2020 in Studi Storici, Antropologici e Geografici presso l’Università degli Studi di Palermo. In ambito universitario, ha partecipato come relatrice a diversi convegni internazionali tra cui Problematizing Migration: Mobility and Vulnerablitation in a Age of Abandonment and Inequalities (2023), Peoples and cultures of the World (2022) Stati Uniti, Australia e Unione Europea: tre modelli a confronto (2017), da cui è stato tratto nel 2019 un volume da lei curato e in cui è autrice del saggio Politiche di migrazione irregolare. Stati Uniti, Australia e Unione Europea: tre modelli a confronto. Ha, inoltre, svolto le funzioni di ricercatrice e curatrice presso il Museo Eoliano dell’Emigrazione di Salina e preso parte a numerosi scambi all’estero, all’interno di progetti finanziati dall’Unione Europea. Attualmente, detiene la carica di referente per i giovani insegnanti all’interno del direttivo della sezione provinciale AIIG Sicilia occidentale e insegna presso una scuola secondaria di secondo grado.

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