di Aldo Aledda
La vita di Emilio Lussu non poteva essere raccontata in modo così efficace e ricca di spunti se non da un corregionale che è stato nello stesso tempo politico giornalista e scrittore come Peppino Fiori. Il grande uomo politico di Armungia, fondatore con i fratelli Rosselli del partito d’azione e, con altri in Sardegna, della relativa propaggine autonomistica è, infatti, messa in luce nei singoli e variegati aspetti della sua personalità dalla penna del vecchio direttore di “Paese sera” e Senatore della Repubblica. Ed è in particolare sull’uomo che chi stende queste note intende soffermarsi, lasciando l’analisi delle sue scelte e della sua attività politica a chi è più preparato e ne ha più ragioni, con la sola riserva che spesso si gira intorno a certi personaggi quasi fossero esclusivamente e passivamente immessi nel flusso della storia e le loro scelte politiche non fossero anche condizionate dalla propria personalità e dai tortuosi percorsi dell’esistenza umana.
Peraltro, dichiaro subito di non avere mai sentito il bisogno di aderire alla formazione politica da lui fondata, anche se riconosco l’opportunità di quella scelta in un momento storico in cui la Sardegna aveva bisogno di darsi una identità politica e la forza di uscire dal sottosviluppo che l’avevano condannata secoli di povertà endemica e di soggezione politica. Che questa necessità abbia poi perso di attualità e con essa la formazione politica che più di altre se ne voleva fare carico è dimostrato dal fatto che, nel secondo Dopoguerra, a onta delle visioni “separatiste” di alcune delle sue frange estreme, a quanto pare neanche tanto gradite dallo stesso Lussu [1], la “Rinascita” dell’isola, come fu definita, è avvenuta proprio grazie a quel contesto politico nazionale – costituito da forze cattoliche socialiste e genericamente progressiste – che da parte sardista si riteneva improbabile ne potessero essere in alcun modo capaci.
Dopodiché, a dimostrazione di come anche le costruzioni politiche presentano un loro ciclo con la nascita e l’esaurimento dei fini (a prescindere anche dallo scarso consenso elettorale che ha sempre avuto il partito sardo d’azione nell’isola), questa formazione politica ha finito per andare alla deriva nel sistema politico italiano, laddove partendo da sinistra, dove l’aveva collocata Lussu e la mantennero per tutta la Prima Repubblica i suoi principali fondatori del 1921 e eredi, da Contu a Sanna, ai fratelli Melis, ha finito, con la Seconda, per approdare a destra riducendosi a un’ala della Lega salviniana, ossia di un partito che del suo fondatore Umberto Bossi ha perso perfino quell’orgoglio nordico che per qualche verso giustificava l’apparentamento con l’autonomismo sardo [2]. Un esito infelice, si direbbe.
L’aspetto positivo della dispersione dell’eredità politica di Lussu, tuttavia, è che oggi possiamo parlare del personaggio senza trovarci condizionati dalla contingenza e dall’appartenenza politica. Perciò, mentre lascio l’analisi e la ricostruzione dell’attività politica a chi, desiderando approfondire il tema, è più addentro di me, rendendo omaggio per primo al compianto storico sardo, Manlio Brigaglia, che si è rivelato tanto esaustivo e insuperabile in quest’esercizio nell’introduzione alla seconda parte dell’Opera completa del nostro grande corregionale, per quanto mi riguarda cercherò di soffermarmi piuttosto sulla circolarità della vicenda umana e politica di quest’uomo in cui azione, formazione intellettuale e politica e vita personale appaiono strettamente legate e coerenti soprattutto nella sua opposizione intransigente al regime fascista portata avanti con estremo coraggio in un mondo di opportunisti e voltagabbana irriso, com’è noto, da Winston S. Churchill che, osservando come in Italia un giorno c’erano 45 milioni di fascisti e il giorno dopo 45 milioni di antifascisti, si chiedeva argutamente da quale statistica veniva fuori il numero di 90 milioni di italiani.
Per capire Emilio Lussu non si può prescindere, in primo luogo, dal carattere dell’“azione” che caratterizza la sua personalità, come tratto e come ansia, e dalle riflessioni non poco attuali che ne scaturiscono e giustificano la sua prassi. Valoroso e pluridecorato soldato, ma anche umano e carismatico comandante che, se vogliamo, grazie alla sua formazione giuridica, aveva ritenuto imprescindibile anche in guerra il senso di umanità e il primato del diritto distinguendo, lui che era stato “interventista” della prima ora, ciò che era giusto e umano da ciò che poteva essere considerato solo bestiale e sadico e, perfino, “stupido”.
In questo senso Lussu inquadra, soprattutto in Un anno sull’Altipiano, il significato di quella che il Papa del tempo, Benedetto XV, definì come una “inutile strage”, non solo attraverso riflessioni personali e altre messe in bocca, magari con semplici battute, ad altri personaggi riportati con il suo tipico stile asciutto e ironico, una sorta di De bello gallico. Per tutti valga il dialogo – peraltro reputato una stonatura anche dai più autorevoli sodali politici [3]– tra gli ufficiali del suo Comando sul valore e il significato della guerra, che probabilmente costituisce il tentativo dell’autore di esprimere un giudizio finale, anche a freddo (nella tranquillità delle montagne svizzere) sull’esperienza bellica che ebbe a vivere in prima persona.
A questi si aggiungono altri infiniti e significativi episodi della vita quotidiana in trincea. Per esempio, quando nel corso di un’ispezione in cui era riuscito a trovare una postazione che consentiva di scorgere tutto il movimento nelle trincee opposte senza essere scoperti e vide un giovane ufficiale austriaco, sicuramente fresco di scuola di guerra, che si mostrava baldanzoso ai suoi soldati e facile da centrare come se si “fosse in poligono”, dopo aver riflettuto alcuni secondi sul significato di un gesto che avrebbe privato un uomo della sua esistenza per quanto l’azione fosse legittimata dallo stato di guerra, decide di non premere il grilletto e altrettanto avrebbe fatto il caporale che lo accompagnava dopo che Lussu aveva commentato “Non siamo mica alla caccia del cinghiale”. Memore, con quest’ultima espressione, sicuramente di quei riti venatori cui aveva partecipato fin da bambino nelle montagne del Gerrei e che poi avrebbe celebrato nella sua opera più intima di sardo, Il cinghiale del diavolo, in un altro Altipiano, quello del suo paese, davanti alla casa paterna.
Il senso del dovere e della responsabilità lo spinsero a non fare arretrare la sua compagnia dall’altipiano di Asiago quando tutta l’Armata italiana si scioglieva in una fuga disordinata davanti alle truppe austriache arraffando e saccheggiando quanto potevano i soldati italiani sbandati e terrorizzati, mentre la brigata Sassari rimaneva solida e solitaria a opporsi al dilagare nemico dopo avere rassicurato orgogliosamente in sardo le mamme del posto con i bambini in braccio che vedevano intorno il mondo crollare e li guardavano supplici: “adesso ci pensiamo noi!”. E fu grazie a comandanti amati dalla truppa come Lussu che i soldati si adattarono a difendere con le unghie e con i denti le loro posizioni.
A conferma del valore dei soldati sardi e, curiosamente, dell’esortazione che fa nell’Altipiano il comandante del reggimento ai soldati di portare sempre con sé il coltello, mi raccontava, qualche decennio fa, un vecchio “sassarino” che mentre era appostato di guardia ai piedi di una collinetta in cima alla quale si trovava una mitragliatrice nemica che teneva inchiodata la compagnia, si vide superare a valle da un manipolo di commilitoni della Barbagia che strisciando si muovevano non visti nella vegetazione per guadagnare la cima con il coltello tra i denti: “dove andate”, chiese e uno rispose in sardo “A bocchire zente”, a fare fuori qualcuno, e così liberarono il campo da quell’ingombro.
L’esperienza della Guerra fu fondamentale per Lussu, anche in riferimento alla gestione delle fasi più drammatiche in cui registrava il più totale disprezzo degli alti comandi italiani della vita umana, non solo dei nemici, ma anche dei propri soldati, spesso a fronte di una maggiore umanità mostrata dai “nemici”. Ricordo, quando giovane attore di teatro ebbi l’occasione di recitare nel relativo radiodramma della Rai, le prove accurate che rappresentavano uno di quei famigerati assalti alle trincee nemiche dove comandanti incoscienti e incapaci in pochi attimi e per ambizione di carriera sacrificavano inutilmente la vita di centinaia di soldati: seguendo il testo di Lussu, ai soldati veniva distribuito prima dell’azione cognac e cioccolata in modo che la volontà fosse il più possibile annichilita, dietro stavano i carabinieri che avevano l’ordine di sparare su chiunque cercasse di tornare indietro, quindi mentre si avanzava a morte sicura (tanto che due militari non appena il trombettiere suonò la carica preferirono rivolgere il moschetto contro la propria gola) dalle trincee nemiche collocate a valle a poche decine di metri si alzò un cappellano militare austriaco supplicando gli italiani di tornare indietro e non appena fu chiaro che quell’atto di incoscienza non si sarebbe fermato incominciarono a crepitare le mitragliatrici falciando senza pietà gli incoscienti assalitori. Io, nella mia parte di caporale mi salvai, ma per essere subito dopo sacrificato da un borioso generale che ispezionando le nostre trincee si fermò all’altezza della mia feritoia chiedendomi di mostrare il coraggio che lui aveva avuto sporgendosi verso il nemico, solo che nel mio caso il soldato che rappresentavo non aveva avuto altrettanta fortuna, perché fui beccato da un cecchino che nel frattempo era riuscito ad aggiustare il tiro stramazzando a terra col generale che gongolava per il mio eroismo.
La scarsa stima dei generali, dei colonelli e degli alti ufficiali che prendevano decisioni senza le necessarie conoscenze e competenze e il più delle volte sotto i fumi dell’alcol è chiaramente denunciata da Lussu che più di una volta si assunse la responsabilità di esimere i suoi soldati dalle operazioni suicida sfidando i deferimenti alla Corte marziale di cui era ogni volta minacciato. Da qui l’episodio di quel patetico colonnello che guidava le sue truppe (e che alla fine si uccise impiccandosi al ramo di un albero) aduso a scolare bottiglie di cognac una dietro l’altra e che in un momento di depressione lucida definì la guerra in corso come uno scontro non tra eserciti bensì tra barili di acquavite, italiani e austriaci. D’altro canto, affermerà Lussu a proposito della Prima Guerra Mondiale, con una considerazione che anche oggi apparirebbe molto attuale, che «Gli Stati vinti hanno avuto certamente la peggio, ma anche quelli cui ha arriso la vittoria hanno sofferto profondi turbamenti. In Italia, Caporetto è stata la rivolta passiva di un esercito stanco di massacri comandati con disinvoltura e di battaglie immobili…» [4].
Quindi l’esperienza militare è stata fondamentale nella formazione di Lussu, con riflessi anche su quella politica. Non a caso il suo più ambizioso lavoro, Teoria dell’insurrezione, quello che Manlio Brigaglia definisce il suo “vero” libro [5] e che fu solo offuscato dalla fama ottenuta dai suoi due migliori Un anno sull’Altipiano e Marcia su Roma e dintorni, laddove, cercando di spiegare come dal suo punto di vista avrebbe potuto realizzarsi l’egemonia del proletariato, analizza i principali conati rivoluzionari di tutti i tempi, mettendone in evidenza le lacune strategiche e operative laddove fallirono e gli insegnamenti di quelli che riuscirono, riversando in questo lavoro tutta la conoscenza e l’esperienza che gli derivava da comandante militare. Raramente come in quest’uomo queste qualità si sono fuse con gli obiettivi politici avallando quella concezione per cui la guerra altro non è che una prosecuzione della politica con altri mezzi e l’aforisma che la stessa sia un’attività troppo importante per essere lasciata in mano ai soli generali.
In un’epoca come la nostra di accentuato pacifismo e terrore dell’arma nucleare, lo strumento della guerra e la classe militare che ne dà esecuzione godono di pessima stampa e la sua attività è camuffata da metafore ispirate a un linguaggio politicamente e grottescamente corretto, che vanno dall’“operazione militare speciale” alla Vladimir Putin a quelle di “Peacekeeping” dell’Onu o all’addestramento delle forze di polizia che devono difendere i princìpi democratici nei Paesi in cui questi sono minacciati, invocati spesso a giustificare l’impegno italiano. Per Lussu il giudizio su questo strumento si fa più complesso, spingendolo ad affermare che «la pace è sinceramente bramata non solo da imponenti masse proletarie, ma anche da imponenti forze della grande borghesia»[6]. Per concludere che «un pacifismo integrale, dopo tutto, non ha neppure un valore pratico. Volere la guerra a tutti i costi è, senza dubbio, una follia, ma è anche una follia volere a tutti i costi la pace. […] Siamo nel campo astrattamente politico e non in quello astrattamente etico e non è di alcun interesse farsi affascinare dalle parole»[7].
Lussu non è certo un guerrafondaio, ma è convinto che rispetto ai due obiettivi che ne orientano l’azione, ossia abbattere la dittatura fascista e realizzare il riscatto del proletariato, altro non v’è che militarizzare la rivoluzione e l’insurrezione nella convinzione che una pace eventuale faccia solo gli interessi di chi vuole mantenere l’egemonia e non cambiare nulla, segnatamente la grande borghesia che controllava a suo avviso anche lo Stato italiano. E, nel capitolo dedicato al tirannicidio, spiega come all’occorrenza si può passare all’eliminazione diretta di chi detiene il potere, anche se, ammonisce, non bisogna cadere nell’eccesso ma essere consci che come il nazismo non cadrebbe alla morte di Hitler, anche il fascismo non cadrebbe con la morte di Mussolini (contrariamente a quanto riteneva Renzo De Felice). Perciò occorrono rivoluzioni di massa che cambino alla radice il sistema [8].
Come nascondersi che non solo sull’accettazione con riserve del conflitto bellico ma anche nella lotta e nel confronto politico non influisca ancora una volta la sua formazione militare, e soprattutto quel lato di essa costituito dal reciproco rispetto e dallo spirito di fratellanza che lo portava a essere abbastanza comprensivo verso chi portava la divisa tanto che, anche in ordine ai sentimenti democratici, ci teneva a tenere accuratamente distinto il ruolo dell’esercito da quello delle altre forze che si battevano per l’autoritarismo e il totalitarismo, convinto come era che non le caserme (in cui stavano i soldati) ma le stanze del Viminale fossero il vero covo in cui si ospitava, si proteggeva e si nutriva uno squadrismo funzionale all’affermazione del fascismo nella lotta politica. Significativo l’incontro da parlamentare a Roma col generale De Bono, direttore generale della pubblica sicurezza e membro del Quadrumvirato del fascismo nella Marcia su Roma, che memore dell’esperienza in comune nella Grande Guerra in cui era stato generale di Corpo d’armata, mostrò all’on. Lussu, pur accolto con estrema cordialità e cameratismo, un volto opportunistico improntato, da un lato, alla massima stima e alla doglianza per l’affaire Matteotti oltre che di sdegno per quanto di criminale accadeva in Sardegna a opera delle squadracce fasciste (ingiungendo al suo segretario, Lussu presente, di adoperarsi per la cessazione nell’isola della violenza fascista), salvo poi ordinare per lo stesso Lussu una fine analoga a quella di Matteotti [9].
La fiducia di Lussu nei confronti delle forze armate si manifesta soprattutto nella misura in cui costruisce con gli ex combattenti il Partito sardo d’azione e, a livello nazionale, si adopera a mobilitare i reduci in funzione antifascista, dopo averli coinvolti e organizzati in un movimento politico con l’obiettivo di influenzare le sorti del Paese. Mi sembra, peraltro, che questo aspetto non sia abbastanza sottolineato da parte dei suoi biografi e commentatori, ma che emerge soprattutto quando la sua eliminazione fisica è chiaramente deliberata dal regime, forse in testa dallo stesso Mussolini che non era riuscito ad avere con lui l’abboccamento necessario per riportarlo dalla parte “giusta” come avvenne con altri parlamentari sardi di sinistra e sardisti, ma che, non volendo sporcarsi troppo le mani, ne affida l’esecuzione agli alti vertici del partito e dello Stato nella persona dei prefetti, dei questori e delle forze di polizia (o, all’estero, con le spie e impropri agenti infiltrati nelle organizzazioni degli esuli) [10].
Anche in queste vicende sembra stendersi in qualche modo intorno a Lussu, perseguitato dal regime, prima dell’avventurosa evasione dal confino di Lipari o quando era ancora parlamentare o capo del Partito sardo d’azione, sembra stendersi, dunque, la rete protettiva dei “sassarini” in congedo. Così a Senorbì fu un suo ex commilitone divenuto gerarca fascista del paese a sottrarre il vecchio comandante dalle squadracce che lo avevano accerchiato con fucili e pistole pronte a eseguire l’ordine di eliminarlo [11]. Ed egualmente, quando da lì riuscì a raggiungere la sua casa di Armungia e si stese intorno a lui la rete di compaesani, ex commilitoni, compagni di caccia grossa, che appostati come si fa nelle alture col fucile in mano per avvistare il cinghiale e incanalarlo nello spazio dove stanno i tiratori, furono pronti a fare altrettanto con i fascisti, costringendo gli squadristi, provenienti da Cagliari per mettere in atto le direttive del partito, a tornarsene scornati in città. Analogo svolgimento ebbe il celebre episodio nel Capoluogo sardo quando una folla di fascisti (guidati da un parlamentare ex collega sardista e amico di antica data di Lussu) cinse d’assedio la sua abitazione di Piazza Martiri in cui il Capitano si era barricato con le armi in pugno e che si concluse con l’uccisione da parte di Lussu del temerario ginnasta che era riuscito a salire sul suo balcone, poi seguita dalla fuga disordinata della folla dei “coraggiosi” fascisti e relativa dispersione nei vicoli del centro storico. Solo alla fine intervennero le truppe e forze di polizia che, questore in testa, col rispetto dovuto a un parlamentare, convinsero Lussu ad arrendersi e da lì il processo in cui venne assolto per legittima difesa e, poi, la condanna del tribunale speciale al confino.
In tutti questi episodi ricorrono figure di ex commilitoni, soprattutto di umili origini che, spesso, per sopravvivere e mantenere la propria famiglia si erano dovuti piegare al nuovo corso ma mai avevano perso la stima e il dovere di obbedienza al loro vecchio comandante che anche nei momenti più difficili della Grande Guerra avevano trovato sempre schierato dalla loro parte. Tuttavia il giudizio si fa più articolato rispetto a quando incontra la gente umile, animata solo dal desiderio di sopravvivenza nella sorte avversa, cui riserva tutta la sua comprensione, fino a divenire impietoso e sferzante quando trova sul suo cammino ex commilitoni, professionisti, intellettuali, funzionari pubblici convertiti al nuovo corso per ragioni di sopravvivenza come nei confronti di quel vecchio collega che trova issato ai vertici dell’apparato e che a suo tempo si era sfogato con lui assicurandogli che si sarebbe ucciso piuttosto che adeguarsi al fascismo.
Anche il suo percorso scolastico, se vogliamo, appare coerente con questa impostazione di fondo. Emilio Lussu non è uno di quei brillanti studenti che approdarono alla politica a seguito di letture e posizioni assunte fin da quando erano i primi della classe, segnatamente quella generazione cui pure si accompagnò e che improntò buona parte della gioventù rivoluzionaria dell’epoca dopo un’intensa applicazione allo studio delle teorie marxiste e socialiste e la cui prassi spesso ebbe a criticare nell’opera appena citata in quanto condotta da personalità politiche di elevata caratura intellettuale ma troppo spesso carenti sul piano dell’operatività. Anzi il giudizio di Lussu sugli intellettuali è complesso e tutt’altro che benevolo: pur riconoscendone il ruolo per aiutare il proletariato a liberarsi dalla schiavitù della propria condizione egli critica che «la gran parte di essi continua a considerarsi come una sorta di aristocrazia privilegiata, cui è dato vivere, per diritto naturale, nelle sfere dell’Olimpo» [12].
Più pungente diviene la critica ai professori universitari che, come è noto, per potere continuare a insegnare e non ridursi alla fame, come capitò all’appena quindicina di loro che non si piegò al regime, in massa avrebbero fatto giuramento allo Stato fascista (compresi i comunisti, su suggerimento dello stesso Togliatti che li riteneva indispensabili per evitare la deriva ideologica dei giovani). Lussu, appunto li condanna perché «si sono messi, nella marcia dell’umanità, nella retroguardia. In Italia la saggezza patentata ha fatto fallimento. In testa i pedagoghi e i filosofi» [13]. Ma più severo appare il trattamento che riserva agli intellettuali prestati alla politica che, dopo averli tacciati di opportunismo, li invita a prendere posizioni chiare descrivendone in qualche modo l’antropologia: «O per la libertà o contro la libertà. O per il popolo o contro il popolo. A fianco della borghesia reazionaria, egli si sente borghese e reazionario, e la sua qualità di intellettuale passa in seconda linea; a fianco del proletariato, egli diventa proletario, ne abbraccia la causa e parla da proletario, non da intellettuale» [14].
Il suo percorso scolastico appare appena sufficiente a farlo procedere il tanto che bastava a completare la preparazione di un giovane benestante che era destinato a succedere al padre nella gestione dei beni familiari (posto che il fratello maggiore essendo di salute malferma non sembrava avere l’energia e il vigore per gestire terreni, bestiame e personale contadino). I suoi studi sono caratterizzati, già dal Liceo classico che frequenta in parte a Roma e in parte a Cagliari (e dove si diploma da privatista) e poi l’università, da frequenti interruzioni legate alla sua attività e alle vicende familiari; tuttavia, essi giungono a compimento e, dopo la laurea in legge, gli consentono di esercitare la professione di avvocato. La formazione di Lussu, procedendo sul campo ma sorretta da importanti letture, come si evince dai suoi racconti e dalle sue citazioni, lungi quindi dal considerarsi tipica di un “intellettuale” è quella che gli consente di farsi le idee più chiare grazie alla verifica sul piano pratico delle teorie che apprendeva dai libri. In questo modo, passando dall’ipotesi al loro controllo, le rende in qualche modo scientifiche.
Da questa verifica, dal confronto di come erano applicate le teorie marxiste nella Russia rivoluzionaria, per esempio, nasce la sua preferenza per il tipo di socialismo che si verrà affermando nell’Europa occidentale in contrapposizione alle ideologie più radicali che daranno vita ai partiti comunisti e sicuramente più utile a una società in cui andavano messe in primo piano le attese delle classi più umili senza peraltro ingaggiarle in una lotta contro quelle medie e alte, da cui dipendevano le sorti dell’economia e ancora dirigevano i Paesi e da cui esso stesso proveniva, come possidente dalle idee liberali. Da questo sostrato nascerà lo scrittore e il giornalista che caratterizzerà il corso della sua esistenza.
Di fatto Lussu più che un intellettuale è un uomo di elevata cultura. Dalle sue lettere e dalla sua biografia si evince che legge molto, soprattutto nelle pause dell’incarcerazione, del confino e dell’emigrazione, dai classici antichi agli autori moderni. In particolare, nella Teoria dell’insurrezione ci mostra una notevole preparazione storica e conoscenza dettagliata dei vari momenti e dei meccanismi in cui si realizzarono le rivoluzioni e le insurrezioni.
In questo patrimonio umano e culturale, fatto di impegno costante e rivoluzionario (da cui anche l’iniziale resistenza al rapporto con la giovanissima Joyce perché si riteneva votato alla rivoluzione e non alla famiglia), costellato comunque di vicende personali e familiari (come l’affetto per il fratello maggiore, per la zia e il legame con la vecchia madre), va comunque inquadrato il suo impegno politico. Da soldato, come abbiamo detto interventista nella Prima guerra mondiale, e da uomo abituato non solo a battersi per le cose in cui crede (e una volta anche in duello), ma anche in qualche modo a adattarsi con pragmatismo alle situazioni, a ricercare soluzioni e guardare avanti rispetto a quelle che possono essere le conseguenze delle azioni umane, anche in politica, sia con le mosse giuste o sia per effetto di calcoli sbagliati, ritiene che le battaglie vadano condotte cercando di comprendere le svolte e il ruolo che possono assumere i personaggi che dominano la scena.
Perciò, trovandosi nella mischia nel pieno dell’insorgere e dell’affermarsi del fascismo in Italia, lo combatte non solo nel Parlamento come fiero oppositore fin dalla prima ora, anche quando figure più moderate del firmamento politico e culturale italiano, da Giolitti a Croce, erano portate a sottovalutarlo o a giustificarne la necessità in quel momento storico. Con queste convinzioni di fondo, rafforzate da un carattere deciso non cede alle lusinghe dei suoi esponenti, compreso lo stesso Mussolini, su cui certamente condivideva la definizione data da quell’autorevole esponente del governo britannico che definì il Duce «un uomo che possedeva al massimo grado le qualità inferiori dell’uomo politico».
L’ultimo sprazzo di giustizia istituzionale, come abbiamo detto, lo conobbe a seguito dell’episodio di Piazza Martiri a Cagliari in cui la magistratura sarda mostrò la propria indipendenza dal potere politico assolvendolo per legittima difesa ed evitandogli così il peggio, ma finì appunto confinato nell’isoletta di Lipari in Sicilia, dove visse giorno per giorno col chiodo fisso della fuga, che riuscì a realizzare in modo clamoroso e avventuroso in un battello con i fratelli Rosselli rifugiandosi a Parigi. E qui, ancora una volta, unisce le capacità dell’uomo d’azione con quelle dell’agitatore politico che non mira solo a sacrificarsi per i suoi ideali, come fece per esempio l’amico e corregionale Antonio Gramsci che si immolò in carcere, ma anche a perseguire il concreto rovesciamento di un sistema che fin dall’inizio aveva capito essere iniquo e pernicioso per l’Italia e l’Europa e per questo riteneva che tutte le forze umane convinte di questa missione dovessero restare in campo, anche quando vi sarà il sacrificio dei fratelli Rosselli, soprattutto di Carlo con cui si era legato indissolubilmente nel confino di Lipari.
L’esperienza parigina interessa chi scrive anche come storico dell’emigrazione. Intanto la sua condizione di esule che, come si evince dalla sua biografia e dal racconto di Giuseppe Fiori, lo vede sempre dibattersi in disagiate condizioni economiche, testimone la giovane moglie quando andarono in affitto nella casa di un’anziana vedova in un piccolo villaggio ai piedi dei Pirenei per sfuggire alla polizia francese filonazista che lo braccava nel sud della Francia: racconterà Joyce che vivevano con dieci franchi al giorno contraccambiando spesso con lavori agricoli [15]. In generale Lussu appare angustiato dalla scarsità dei mezzi finanziari, sempre con l’acqua alla gola ma anche attento e desideroso di restituire i suoi debiti con gli amici (come quando sarà costretto a ricorrere alle cure per la polmonite contratta in carcere e nel confino, a Davos in Svizzera, dove Thomas Mann ambienta la sua famosa Montagna incantata).
Nondimeno questa condizione lo costringe a spostarsi perennemente a piedi per mancanza di soldi per pagare i mezzi di trasporto e, una volta, a trovarsi al centro di una situazione imbarazzante e curiosa, avendo fatto irritare un suo ospite americano cui, come massima proposta culturale alla sua portata, gli propose di recarsi al Louvre, di cui lui, poiché entrava gratis, era profondo conoscitore e che all’americano invece parve irrispettosa (forse perché all’epoca i musei non avevano il prestigio di cui godono attualmente in quanto erano considerati soprattutto raccolte di opere oscene). Lussu sopravviveva solo grazie alle sue collaborazioni giornalistiche e ai diritti di autore delle sue opere, quindi ben poco, e poteva muoversi per la sua attività di antifascista potendo contare prevalentemente sulla generosità e l’ospitalità dei più facoltosi italiani all’estero che lo cercavano e ne appoggiavano le scelte politiche. Era una condizione questa abbastanza comune agli emigrati politici italiani che, oltre alla sua persona, vede quella di altri prestigiosi esuli di cui egli stesso descrive la difficoltà, come Silvio Trentin, esponente di Giustizia e Libertà che, già professore all’Università di Venezia e parlamentare, egli ritrova in Francia dopo che le leggi sull’insegnamento lo avevano praticamente bandito dall’Italia e che, per mantenersi, fece prima il contadino e, poi, l’operaio in una tipografia. Ma ricordiamo che, nei dintorni, anche Pertini sopravviveva facendo il muratore e Ignazio Silone in Svizzera il traduttore e il dattilografo..
L’aspetto più interessante del migrante Lussu è che egli si butterà a capofitto a raccogliere e incanalare tutto il sentimento antifascista esistente nell’emigrazione italiana all’estero, compresa quella americana, in funzione di una svolta che inevitabilmente sarebbe seguita in Italia alla caduta del fascismo e di Mussolini. Lussu non trascurerà anche l’emigrazione sarda, che considerava un’opportunità per avviare, in collegamento anche la sua rete della Brigata Sassari, proprio dall’isola un moto insurrezionale nazionale. E, per studiare meglio questo piano non solo entrò in contatto col governo inglese, ma una volta si recò perfino in Corsica per valutare da quella distanza le possibilità operative.
Altro aspetto importante della sua condizione di emigrante, e che si iscrive nel filone molto frequentato dell’emigrazione italiana, soprattutto nella dibattuta questione della indifferenza e della nostalgia che si innestano nel tema del rientro nella propria terra, Lussu ci confessa la sua situazione in diciassette anni di esilio: «Io non sognavo neppure la mia casa, non mia madre, la sola vivente della famiglia, alla quale pur scrivevo poche righe al giorno…Io stesso non saprei spiegare le ragioni di queste lacune nei miei sogni frequenti… E mai ho rivisto in sogno sull’Altipiano di fronte al mio villaggio, le distese verdi dei cisti fioriti in bianco, intramezzati da cespugli blu, contemplati dall’alto, a cavallo, in primavera. A Ville Normande, dunque, sognai, finalmente, la caccia in Sardegna» [16]. Da queste riflessioni sulla condizione di emigrato sardo e in quella modesta dimora nel Sud della Francia nacque, dunque, l’opera tutta sarda dal titolo Il cinghiale del diavolo.
La tensione costante verso l’azione di Emilio Lussu, oltre a spiegarci perché non sprofondi mai nella nostalgia e nell’evocazione o nell’idealizzazione della terra di origine come fanno tantissimi emigrati, ci mostra per contro l’attenzione per un’emigrazione sarda e italiana all’estero, sia in Europa sia in America del Nord, che gli appare attraversata da una forte venatura antifascista. In Francia sarà lui stesso a proporre nel corso della Seconda Guerra Mondiale la costituzione di una Brigata “Giuseppe Garibaldi”, fatta di soli italiani, inquadrata ma autonoma militarmente dall’esercito francese. Tuttavia, a prescindere da questa iniziativa che si ispirava chiaramente ad altre analoghe dell’Eroe dei due mondi a suo tempo in terre straniere come liberatore, compresa la Francia durante la disastrosa guerra contro la Prussia del 1870, vi è il suo stare continuamente in contatto con gli emigrati sardi per avviare lo sbarco militare in Sardegna, di cui si è appena accennato. Costella questo suo impegno l’infinità di incontri e di riunioni che svolge con le diverse frange dell’emigrazione italiana, composta non da soli esuli e transfughi del fascismo, ma anche da quelli presenti da tempo in Europa che dimostrano un interessamento per la vecchia patria veramente sorprendente. Un filone questo che si mostrerà sempre vivo nei decenni successivi fino ai nostri giorni.
In conclusione, la figura di Emilio Lussu brilla di luce propria nella storia non solo del nostro Paese, ma anche in quella europea che è sempre stata presente nel suo orizzonte mentale. E ciò a prescindere dal suo credo politico, che per altri ha costituito la ragione del loro impegno e spesso anche del sacrificio e dell’eventuale martirio. Lussu, prima di essere un grande socialista, è stato un uomo politico a tutto tondo, capace di coniugare profonde convinzioni e lucide visioni della società con la capacità di agire e metterle in pratica, a sceverare ciò che serve da ciò che è inutile. Riconobbe l’importanza dell’esistenza per realizzare le cose in cui credeva e, come valoroso soldato che uscì quasi miracolosamente indenne dalla grande Guerra, pur stando sempre in prima linea e non rinunciando a esporsi, capiva che per combattere qualsiasi battaglia è necessario prima di tutto esserci, schivando all’occorrenza i proiettili nemici ed evitando tutti quegli espedienti, come il bere, che fanno perdere la lucidità e calano l’attenzione e la concentrazione. Da qui la necessità di essere e mostrarsi sempre attivi e presenti, mantenere i collegamenti, scrivere, testimoniare, incontrare, scontrarsi se necessario e, poi, pensare, farsi sentire e trasmettere, come pure lui ha fatto con grande efficacia nei suoi scritti. Per tutte queste ragioni si può definire Emilio Lussu prima di tutto un grande uomo, sensibile anche come marito, figlio e amico o nemico indulgente, che è l’etichetta di umanità che tutti forse preferiremmo sentirci addosso prima di riuscire in qualsivoglia campo.
Dialoghi Mediterranei, n. 65, gennaio 2024
Note
[1] Cfr. lo storico Gian Giacomo Ortu nell’introduzione a Emilio Lussu. Tutte le opere. 1. Da Armungia al sardismo 1890-1926, Oristano, Aisara 2008, afferma che «sul separatismo Lussu ha avuto le idee molto chiare non ritenendolo, pur comprendendone alcune ragioni, un progetto politico credibile»: XIX.
[2] Ancora lo storico Ortu, a proposito del respiro nazionale che Lussu intende dare alla sua attività politica sottolinea che suo è «L’intento di conservare le caratteristiche di combattività della “Sassari”, nonostante le gravi e ripetute perdite,…non è assente il disegno, più politico, di sfruttare in senso nazionalista i suoi forti connotati etnici», anche perché «fu soprattutto la “Sassari” a rendere visibile e “onorevole” di fronte all’intero Paese il contributo militare sardo» (Ibidem: IX). E, più avanti, riporta lo storico sardo, Lussu riteneva che la concessione dell’autonomia alle sue regioni, e specialmente alla Sicilia e alla Sardegna, costituisse la condizione per una vera unità del Paese (Ibidem: XI).
[3] Cfr. in proposito Manlio Brigaglia, Introduzione, in Manlio Brigaglia (a cura di), Emilio Lussu. Tutte le opere. 2. L’esilio antifascista 1927-1943, Cagliari, Alsara 2010: XC.
[4] Lussu, Emilio, Teoria dell’insurrezione in Manlio Brigaglia (a cura di), Emilio Lussu. Tutte le opere. 2. L’esilio antifascista 1927-1943, Cagliari, Alsara 2010: 404.
[5] Sostiene Brigaglia che «Lussu rimase sempre molto legato a “questa sua Arte della guerra” come è stata chiamata, anche il libro è stato sempre considerato, nella storia dell’attività “scritta” di Lussu un testo minore: gli ha nociuto, forse, la forza propriamente letteraria di testi come Marcia su Roma e, soprattutto, Un anno sull’Altipiano» (Ibidem: LXVIII).
,[6] Ibidem: 410.
[7] Ibidem:411.
[8] Ibidem:416.
[9] Cfr. Marcia su Roma e dintorni in Manlio Brigaglia cit: 248-250.
[10] Cfr. in proposito G. Giacomo Ortu cit., in particolare il capitolo Le lusinghe di Mussolini: XXI.
[11] Ibidem: 254 ss.
[12] In Teoria dell’insurrezione cit.: 448, in cui continua: «In tale peccato di presunzione vi è un po’ la reminiscenza del saint-simonismo per cui gli intellettuali erano considerati una classe, ben distinta dalle altre destinata…a guidare l’umanità».
[13] Ibidem: 449.
[14] Ivi. La critica più feroce la riserva a chi si schiera in posizione mediana «che non sono…né carne né pesce, sono dei poveri diavoli a mite temperamento che, generalmente, finiscono per sistemarsi accettando le soluzioni che offrono un po’ d’ombra al sole».
[15] Racconta Joyce: «“Prendemmo in affitto da una vecchia contadina, Madame Noelie, che viveva tutta sola una cameretta con uso cucina. Avevamo l’usufrutto dell’orticello dietro la casa, a patto di curarlo e aumentarne la produzione. Nella rimessa avevamo qualche coniglio. Vivevamo così con dieci franchi al giorno. Lussu scendeva nell’orto per zappare, innaffiare, strappare le erbacce, piantare i semi di ravanelli e di lattuga, preparare i sostegni per i piselli e i pomodori…nel tempo che ci avanzava andavamo ad aiutare Madame Noelie o qualche altro contadino a raccogliere il fieno e a dissotterrare le ultime patate» Cit. in Manlio Brigaglia cit.: CVIII.
[16] Il cinghiale del diavolo in Gian Giacomo Ortu cit.:538.
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Aldo Aledda, ha rivestito importanti cariche istituzionali nella regione Sardegna e nel Coordinamento interregionale italiano, è autore di I sardi nel mondo. Chi sono, come vivono, che cosa pensano (Cagliari, Dattena 1991), Gli italiani nel mondo e le istituzioni pubbliche. (Milano, FrancoAngeli 2018), Sardi in fuga in Italia e dall’Italia. Politica, amministrazione e società in Sardegna nell’era delle grandi migrazioni. La politica italiana nei confronti dell’emigrazione e delle sue forme di volontariato all’estero (Milano, FrancoAngeli 2023).
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