Terrore. Il nostro Paese vive di nuovo l’epoca del terrore. Questo probabilmente arriverebbe alle nostre orecchie e occhi se la strage in corso, di cui siamo spesso solo spettatori, colpisse vittime di ruolo e genere diverso. E invece no. Il terrore, l’orrore, è quello che si prova se si dà uno sguardo alle statistiche sulla violenza di genere in Italia. Terrore. Se volete, cercatele voi. A me basta sfogliare i quotidiani per notare che ormai, appunto, le vittime sono quotidiane. E spesso, ciò che trasforma il terrore in orrore, è che il 90% dei carnefici è in famiglia, a casa, un partner o un ex- partner. Fine della storia.
Con buona pace di chi ancora vigliaccamente continua a raccontarsi altre robe pur di non mettere in discussione il peso della questione. Responsabilità, sarebbe la parola chiave. Perché la questione è sistemica e sistematica. Ma, proprio nei giorni in cui scrivo assistiamo all’encomio istituzione tributato pubblicamente al discorso del Sig. Cecchettin [1] pronunciato al funerale della figlia uccisa dall’ex – non ex – fidanzato, mentre nel frattempo viene sgomberato a Catania un consultorio [2] che svolgeva un cruciale presidio proprio contro la violenza di genere.
La violenza di genere è una questione di potere, dice Giuliana S. di “Non Una di Meno Palermo”.
Cosa è “Non Una di Meno” e come nasce “Non Una di Meno” a Palermo?
«G.: Non Una di Meno Palermo nasce nel febbraio del 2019 dalla scelta di donne e soggettività singole e di collettivi femministi e associazioni già attive nella nostra città, di cominciare un percorso comune aderendo al Piano Femminista contro la violenza sulle donne. Il nodo di Palermo è parte del movimento nazionale transfemminista intersezionale di Non Una di Meno nato dal basso con l’obiettivo di riaffermare una nuova stagione di consapevolezza partendo dall’assunto che la violenza di genere è un fenomeno sistemico che innerva la società nella sua interezza. Da tale consapevolezza nasce la necessità di lottare contro la violenza di genere in tutte le sue forme: oppressione, sfruttamento, sessismo, razzismo, abilismo, omofobia e transfobia. Il percorso è chiaro e prevede la ripresa e l’occupazione dello spazio pubblico, nonché la riappropriazione della decisionalità sul proprio corpo e sulla vita. Il movimento italiano nasce nel 2015 sulla scia delle mobilitazioni che negli anni precedenti si sviluppano in Sud America. “Ni una mujer menos, ni una muerta más” (non una donna in meno, non una morta in più) è la frase pronunciata per la prima volta dalla poetessa messicana e attivista per i diritti umani Susana Chávez che ha speso la sua vita per denunciare i femminicidi della città natale Ciudad Juárez e in cui fu assassinata nel 2011 a soli 36 anni, a causa delle sue battaglie. “Ni una menos” diventa il nome di un movimento globale che nasce in Argentina, si diffonde in tutta l’America Latina per poi sfociare nel parallelo Women’s March, che negli States ha visto molte donne riaggregarsi contro Donald Trump fino a raggiungere l’Europa».
Ecco, potresti spiegare bene cosa si intende per “intersezionalità”? Perché credo sia cruciale nel definire i rapporti che intercorrono fra società, cultura, politica (nel senso essenziale di rapporti di potere) e ciò di cui Non Una di Meno si occupa
«G.: Il concetto d’intersezionalità parte dal presupposto che i sistemi oppressivi presenti nella società (per esempio razzismo, sessismo, omofobia, abilismo, xenofobia) non agiscano indipendentemente l’uno dall’altro ma siano interconnessi. Il concetto d’intersezionalità è direttamente legato al transfemminismo: nato verso la fine del XX secolo, il transfemminismo è una prospettiva femminista che si prefigge di inglobare le istanze della comunità Lgbtqi+ all’interno della lotta per i diritti delle donne».
Alla luce di ciò di cui si occupa Non Una di Meno, che significa secondo te fare militanza oggi?
«G.: Significa considerare l’impegno politico transfemminista importante e centrale nelle nostre vite, considerarlo una responsabilità non secondaria rispetto a tutte le responsabilità che la società in cui viviamo ci impone: la scuola, il lavoro, la famiglia, le bollette da pagare ecc. Significa quindi ritagliarsi tempo quotidiano, mettersi in discussione, decostruirsi, produrre ragionamento, studiare e rielaborare. Soprattutto significa riconoscersi in un percorso collettivo e di condivisione di pratiche e teorie».
È la dimensione collettiva quindi che si deve cercare di recuperare e restituire, riconsiderare cioè il ruolo centrale del fare ed essere “comunità”, essendo spesso proprio il senso di comunità quello che per primo la società attuale indebolisce, volente o nolente. Ci sono pratiche che possiamo tuttə noi attuare nel quotidiano, a casa, in famiglia, col partner, in ufficio, per iniziare, provare almeno, a decostruirci in tal senso?
«G.: La violenza di genere non è un fenomeno avulso dalla società, appunto. Non è il raptus di follia di un marito in preda alla collera, non è la legittima conseguenza di una gonna troppo corta o di un bicchiere di troppo. La violenza contro le donne, nelle sue differenti declinazioni storiche e materiali, è un elemento costitutivo e strutturante dei rapporti sociali e del contesto socio-culturale in cui viviamo. Tutti noi ci formiamo in questo modello sociale e abbiamo la tendenza a normalizzare certi comportamenti e situazioni. La prima cosa che possiamo fare è non sentirci fuori da questo meccanismo, riconoscere i comportamenti patriarcali che subiamo o che in alcuni casi agiamo, stigmatizzarli e metterli in discussione. A partire dal linguaggio o dalle relazioni che instauriamo. Cercare alleanze. Spesso anche solo sapere che c’è una “comunità” può essere importantissimo, perché sai che li trovi supporto, conforto oltre che aiuto».
A chi ancora ha paura a esporsi con le proprie idee spesso in contrasto con le logiche sociali patriarcali e maschiliste in qualsiasi contesto, cosa consiglieresti?
«G.: Di creare sorellanza. La lotta o è collettiva o non è. Le esperienze personali vissute dalle donne, dai più̀ gravi atti di violenza alle più celate forme di discriminazione legate al genere che questa società̀ produce, non possono essere vissute esclusivamente come fatti “privati”, ma devono appunto trovare nella dimensione collettiva la via d’uscita. Solo così potranno trasformarsi in forza capace di sovvertire il sistema e liberare tutte dalla violenza».
C’è un forte legame fra patriarcato e narrazione dei sentimenti?
«G.: La narrazione tossica con cui vengono raccontati sempre i casi di violenza di genere e i femminicidi dai media mainstream è una delle forme di violenza patriarcale più invasiva perché tende a normalizzare la tossicità delle relazioni».
Secondo te si possono si possono gettare e praticare le basi di una critica/lotta al patriarcato, si può innescare cioè un cambiamento nella narrazione dei generi, dei ruoli sociali, della cultura sociale, a partire dalla scuola? E se sì, cosa suggeriresti?
«G.: L’educazione, la scuola, le università e tutti i luoghi di formazione, sono contesti nei quali non ci si può esimere dall’affrontare la questione. L’educazione “di genere”, perciò, deve essere un approccio quotidiano trasversale a tutti gli ambiti del rapporto educativo e della formazione. Dunque ben vengano i progetti mirati a decostruire gli stereotipi e a combattere le discriminazioni, ma dobbiamo lavorare anche affinché all’interno delle scuole il genere non costituisca necessariamente un tema a sé, ma si trasformi in una “postura” pedagogica interdisciplinare e diventi costitutivo dell’approccio quotidiano di ogni insegnante. È evidente che tale prospettiva risulta essere nettamente in contrasto con il sistema educativo e formativo vigente sempre più definanziato e piegato alle esigenze del mercato del lavoro. Nonostante ciò la scuola rimane un terreno centrale nella lotta alla violenza di genere. Un luogo fondamentale dove i ruoli di genere possono essere costruiti ma anche decostruiti. Sarebbe però necessario formare ed “educare” in primo luogo i lavoratori delle scuole. Nella scuola dove lavoro, per esempio, abbiamo costituito ormai da un po’ di anni una commissione sull’educazione di genere, un gruppo di docenti che lavorano quindi sulla programmazione dell’educazione di genere poiché oltre ad interventi singoli abbiamo ragionato sulla necessità di curvare la didattica su questi temi. Bisogna, come detto, formare i lavoratori della scuola, i docenti con corsi di formazione sulla gestione anche di eventuali conflitti. In particolare come Non Una di Meno organizziamo incontri con e nelle scuole, spesso sono gli studenti stessi che ci contattano per organizzare incontri durante la settimana dello studente».
Quali sono le tue visioni per il mondo a venire, cosa aspettarsi, come prepararsi
«G.: È chiaro che l’assetto geopolitico europeo e non solo non fa sperare bene, però devo dire che contemporaneamente i movimenti transfemministi in Italia e nel mondo sono quelli che comunque continuano a riempire le piazze e occupare il dibattito politico. Ciò non mi fa essere pessimista. Anche facendo un confronto con dieci anni fa la differenza si percepisce, sia in termini di piazze, di numero di persone partecipanti, ma anche in termini di consapevolezza, che vedo più diffusa anche nelle generazioni più giovani e questo fa ben sperare. Negli ultimi anni, in Italia quanto meno, le piazze che si riempiono di più sono quelle transfemministe. Certo c’è il rischio del pink washing, il fatto cioè che spesso le mobilitazioni, gli slogan, il linguaggio dei movimenti femministi vengono assorbite dal capitalismo, per pubblicizzare merce. C’è cambiamento o stiamo diventando compatibili senza più essere di rottura? Ce lo chiediamo anche noi. Se i tuoi slogan vengono utilizzati da chi tu combatti allora la comunicazione, il terreno critico e di lotta, può diventare scivoloso. Però, d’altro canto, il fatto che un certo linguaggio ormai sia sdoganato, il fatto che si parli più facilmente di certi temi rispetto a dieci, venti anni fa, sicuramente resta una prospettiva positiva dal mio punto di vista».
Lo scirocco dicembrino antropocenico accompagna la fine di questa intervista. Fa tintinnare i tavolini della via del centro e ci fa rimpiangere già un’estate che, quando arriverà, non rimpiangeremo per nulla. Ma il punto è un altro. E sono io che cerco di ritrovare la normalità, una dimensione neutra a difesa della mia psiche, delle mie mire di controllo sulla mia vita, quando la neutralità non fa parte di questo mondo. Mi sembra quasi che non abbiamo parlato di violenza di genere ma dell’oppressione di una minoranza. Ed è questo l’effetto che fa l’esercizio del potere e la violenza e la coercizione del potere. Come dice Giuliana, il punto è il potere. Cosa voglio dire? Giuliana mi ha ricordato che adesso, più che mai, c’è l’urgenza di fare militanza e che questa parola non deve spaventare a far storcere il naso. Anzi. Perché militanza oggi è sinonimo di responsabilità. La questione della violenza di genere è sistemica, la responsabilità è quindi di tutti. Se la responsabilità è di tutti allora cominciamo dal ricordarci che possiamo fare comunità. Per noi stessi, per l’altrə e per il mondo che abiteremo domani.
Dialoghi Mediterranei, n. 65, gennaio 2024
Note
[1] https://www.miur.gov.it/web/guest/-/lettera-del-ministro-per-la-diffusione-nelle-scuole-del-discorso-pronunciato- da-gino-cecchettin-al-termine-delle-esequie-per-la-figlia-giulia
[2] https://ilmanifesto.it/mi-cuerpos-es-mio-catania-in-piazza-per-il-consultorio; https://www.ilpost.it/2023/12/08/mobilitazione-contro-sgombero-consultorio-catania/
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Giuseppe Sorce, laureato in lettere moderne all’Università di Palermo, ha discusso una tesi in antropologia culturale (dir. M. Meschiari) dal titolo A new kind of “we”, un tentativo di analisi antropologica del rapporto uomo-tecnologia e le sue implicazioni nella percezione, nella comunicazione, nella narrazione del sé e nella costruzione dell’identità. Ha conseguito la laurea magistrale in Italianistica e scienze linguistiche presso l’Università di Bologna con una tesi su “Pensare il luogo e immaginare lo spazio. Terra, cibernetica e geografia”, relatore prof. Franco Farinelli.
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