di Emiliano Abramo
Gli obitori di Sfax straboccano di cadaveri di migranti subsahariani affogati in mare. L’allarme lanciato dal direttore della Sanità Regionale Hatem Cherif, rimbalzato in tutte le agenzie stampa del Mediterraneo, si poteva ascoltare in viva voce su Radio Mosaique FM anche in Sicilia dove, da Trapani a Mazara del Vallo, da Pantelleria a Lampedusa, il segnale e la musica dell’emittente arrivano forti e chiari.
La Tunisia è qui, a 100 km di mare dalla Sicilia, 14 ore di traghetto e ad un’ora di volo. L’immagine dei poveri corpi senza nome né diritti – nemmeno da morti – accatastati dentro gli stanzoni ospedalieri del complesso di medicina legale dell’ospedale universitario Habib Bourghiba, non può non prendere la gola. Se sei lì, lo fa anche fisicamente. Un obitorio pensato per trentacinque salme, quando ne ha cento, emana un odore forte che la formalina e i deodoranti chirurgici non riescono a contenere. Dall’inizio dell’anno, secondo l’Organizzazione Internazionale delle Migrazioni, 450 morti accertati nel mare tunisino, un numero indefinito di dispersi.
La Tunisia non è, ancora, la Libia. «Ma non è più una democrazia», dice l’European Council on Foreign Relation, riferendosi alla svolta autoritaria impressa dal presidente Saied, che ha usato il potere ottenuto a furor di un popolo sfiancato dall’economia stagnante e infuriato con la “casta”, con le elezioni di due anni fa, per sciogliere tutto, dal parlamento alla Corte Suprema, e incarcerare un bel po’ di oppositori politici e giornalisti. A metà febbraio, ad esempio, è stato arrestato Noureddine Boutar, noto giornalista e direttore generale di Mosaique Fm, la radio privata più importante del Paese, ascoltatissima soprattutto tra i giovani. Così come l’ex Presidente tunisino Moncef Marzouki, che ho incontrato pochi mesi fa in un confronto su Al Jazeera, condannato in contumacia dal tribunale di Tunisi per le sue posizioni contrarie al governo e attualmente rifugiato in Francia.
Ma torniamo alla condizione dei profughi e a come sono trattati. Dal sud, a Zarzis, tempo fa arrivò la notizia che le autorità ci hanno provato a far sparire 18 cadaveri di un naufragio, seppellendoli alla meglio per non dover spiegare niente ai familiari. Ma la popolazione si è ribellata, con scontri e barricate durati giorni. Anche a Sfax, dove lavorano medici e ricercatori dentro quel dipartimento di Medicina legale, non è così semplice liberarsi dei corpi che il mare ha restituito, anche se quelle erano vite di “subsahariani”, donne, uomini e bambini profughi, non di tunisini con famiglie che li reclamano.
Tragicamente anche in Italia conosciamo la questione dove è sempre il mare che restituisce i corpi adagiandoli sulle spiagge, come avvenuto recentemente a Cutro, in Calabria. Il mare a volte aiuta le autorità inghiottendo o portando lontano dagli occhi, a seconda delle correnti, i frammenti di vita per sempre dispersi. Il mare è il cimitero giusto: nessuna lapide segnala che lì, in quel punto, è avvenuto un naufragio. In mare anche gli speronamenti dei barchini ad opera delle motovedette della Guardia Nazionale Tunisina non lasciano tracce. Se non c’è qualcuno che li filma con il telefonino e riesce poi a rimanere vivo, o dall’alto di un aereo civile (quelli militari o di Frontex vedono tutto ma non parlano, coperti dal segreto militare), in mare non restano che relitti. Ma quei barchini, si sa, spesso sono delle bare galleggianti già in partenza.
Ma per fortuna i sopravvissuti ci sono, nonostante i quasi seicento morti del 2022. Proprio grazie alle loro foto, video e testimonianze sulla brutalità che la Guardia tunisina utilizza nel catturare e affondare o deportare i migranti in mare, possiamo sperare nella giustizia. Tutto materiale che sappiamo fortunatamente già in possesso della Corte Europea e delle Nazioni Unite. A dicembre dello scorso anno un vasto raggruppamento di organizzazioni della società civile tunisina, italiana ed europea, ha denunciato tutto questo in un documento dal titolo “I naufragi provocati consapevolmente al largo della Tunisia devono cessare”.
Preoccupante è l’attuale campagna presidenziale – che sembra segnata anche da punte di razzismo – che sta spingendo tanti africani a partire verso l’Europa proprio su barchini non attrezzati ad affrontare le insidie del Mediterraneo. Questo, insieme agli investimenti per l’acquisto delle motovedette italiane per il controllo dei mari, è un altro elemento che sta trasformando sempre di più la Tunisia in una nuova Libia. Naturalmente anche gli acquisti delle motovedette vengono effettuati con fondi che provengono dalle risorse destinate allo “sviluppo” della Tunisia. Ma prima degli ospedali, delle scuole, delle case, del grano che con la guerra in Ucraina manca, sembra necessario pensare a come addestrarli a fermare, con ogni mezzo, gli esseri umani in mare. O in terra, nei lager, come in Libia.
Di buon senso mi sembra invece essere la dichiarazione del Commissario europeo Paolo Gentiloni: «Stabilizzare l’economia della Tunisia è una premessa anche per gestire insieme il tema dei flussi migratori: non possiamo nasconderci dal fatto che molti flussi dall’Africa subsahariana si sono concentrati in Tunisia». Per poi proseguire, a margine del Workshop Ambrosetti: «La Tunisia ha bisogno di aiuti per gestire in modo umanitario la presenza di queste persone, per favorire – sottolinea Gentiloni – i rimpatri volontari quando ce ne siano le condizioni e per gestire i movimenti verso l’Unione Europea, sapendo che bisogna lavorare sempre di più per migrazioni regolari, di cui la nostra economia ha tra l’altro bisogno, e sempre meno invece per incoraggiare i movimenti irregolari che mettono a rischio la vita delle persone», conclude. Parole che contraddicono la strategia che orienta la politica delle migrazioni in Italia e in Europa.
Dialoghi Mediterranei, n. 65, gennaio 2024
______________________________________________________________
Emiliano Abramo, sin da giovane ha aderito alla Comunità di Sant’Egidio e tutt’oggi svolge un’intensa attività di servizio ai poveri, specialmente per favorire l’integrazione tra culture e religioni. È stato membro, con nomina del Ministero dell’Interno del Governo Italiano, della Commissione Territoriale per i Richiedenti Asilo Politico di Catania. Attualmente è membro del Consiglio di Amministrazione dell’Università di Catania e ha svolto la sua attività di ricerca e insegnamento presso l’Università Roma Tor Vergata e Link Campus University. Collabora con numerose testate giornalistiche italiane e straniere, specialmente sui temi sociali e delle migrazioni nel Mediterraneo e ha ricevuto diversi premi nazionali ed internazionali come la “Colomba d’oro per la Pace 2015”. Sempre sul tema dell’accoglienza ha di recente pubblicato, per San Paolo editore, Welcome, sussidio per i giovani sulla accoglienza e sull’inclusione.
______________________________________________________________