di Franca Bellucci
L’Europa e i suoi Paesi, dopo decenni di avanzamento in pace, ecco, ora sentono guerra. Ricapitolo i punti essenziali: questa condizione si è verificata negli ultimi due anni, per due situazioni. Una vige dal 24 febbraio 2022, sul confine orientale, per sostenere il diritto dell’Ucraina a candidarsi, appunto in Europa, svincolandosi dal legame con la Federazione russa: ente che, per impedirne la mossa ha aggredito il Paese. La seconda si prolunga nel territorio israelo-palestinese dal 7 ottobre 2023, giorno in cui il gruppo Hamas ha compiuto un atto nefando, provocando lo Stato di Israele alla guerra: a quella data, Hamas ha fatto una irruzione sanguinaria e proditoria, con una strage di oltre mille vittime e la riduzione in prigionia di circa 250 persone, adulti e bambini.
Ma l’angoscia, per chi segue le informazioni, si prolunga e si turba: perché la risposta di Israele prende di mira, con una guerra scientifica che denomina “La spada di ferro”, l’intera popolazione del territorio di Gaza, dove Hamas ha la sua base, equiparata tout court a quel gruppo terrorista. La situazione statutaria tra i due soggetti è contesa e sospesa: non rispettate le risoluzioni ONU dai soggetti implicati – e inerte al fianco di Israele l’Europa.
Di lontano, ascolto, cerco di decifrare. Guerra: in che senso “scientifica”? Come c’entra la scienza? Certo “spietata” e tale da fare vittime, come avvertiva Gino Strada osservando la contemporaneità proprio nei teatri di guerra, principalmente tra i civili: sono messi in conto, meri “danni collaterali”. Infine, una guerra “s-pietata”, che impatta quell’istituto che è la “rappresaglia”: mal definito, perché, leggo su un sito del Ministero della Difesa in data 19 giugno 2015 [1] si giudica ancora oggi riguardo a «guerra, fascismo, nazismo» secondo le regole prebelliche, non secondo le «democrazie postbelliche».
I legami dell’“Occidente” – una geografia politica e culturale che si autodefinisce così, enfatizzando la contrapposizione a “Oriente” [2] –, e che comprende la stessa Italia, hanno una saldatura forte con lo Stato di Israele: tale Stato si è costituito in forza di un progetto sostenuto proprio nel gruppo politico- culturale dell’Occidente. Intrinseco alla storia contemporanea, quella degli “Stati – nazione”, base del paradigma dell’ordine vigente, il progetto di quello Stato, vago abbozzo lungo il XIX secolo, fu poi vero impegno dal 1917, in un passaggio importante della Prima Grande Guerra. Fu infine costituito poco oltre la fine della Seconda Grande Guerra, nel 1948, in risarcimento delle sofferenze e dello sterminio di cui gli ebrei erano stati segno in Occidente, e particolarmente in Germania e in Italia.
Il passaggio 1917, nella Prima Guerra, è importante: è l’ingresso degli USA; è la resa dello zar di Russia; è il cedimento di Caporetto, per l’Italia in guerra con l’Austria; è, con l’evento della Rivoluzione sovietica, la ridefinizione, per tutti i partecipanti, dei possibili obiettivi; è infine, a oriente, la defezione della Mesopotamia dall’impero Ottomano, prodromo alla resa di tale stato agli Alleati nel 1918, avvenuta a Mudros di Lemno, nell’Egeo settentrionale. Lunghissimi, all’esaurimento del grande scenario di guerra, i calcoli: per le compensazioni, le innovazioni, le delusioni. In particolare, quali “guadagni”, per i vincitori? Certo calcolati su molti piani: con gerarchie di priorità che molte volte delusero: a partire dalla reazione dell’Italia, che definì la sua vittoria, pur riconosciuta, “mutilata”. Calcoli sofisticati riguardarono le definizioni degli Stati emersi nello spazio dell’Impero Ottomano: in quanto concertazione di consolidate, complesse autonomie, i nuovi Stati furono oggetto di diatribe, che anche si appuntavano sul senso e la dignità del concetto di “nazione” – in particolare mettendola in dubbio per l’Oriente: che, si consideri, tra rivendicazioni e ricorso alle armi, vide declinata in più lingue la parola “catastrofe”: come in lingua greca la “catastrophē” del 1923 indica l’esodo dei greci dall’Asia minore, così in lingua araba la “nakba” del 1948, quando fu formalizzato lo Stato di Israele.
Una situazione presente sottotraccia ancora: nella grave guerra attuale tra i due Stati vicini, Israele e Palestina, il pregiudizio che “Palestina” sia agglomerato di consuetudini, ma non nazione, è una componente della condizione sospesa: e l’Occidente, certo, ha compatibilità più larga con Israele, parte intrinseca del suo blocco, parte consueta di ogni concertazione che intraprenda, della sua diplomazia in generale.
Nel senso di disorientamento che la situazione induce, l’insoddisfazione è aggravata dal fatto che l’informazione intorno ai due scenari di guerra, presso le varie testate operanti, è in prevalenza stereotipata, anche desultoria, sempre reticente. Intanto gli uffici preposti, tra esecutivo e ordinaria vigilanza, tendono a frenare, a convincere di inadeguatezza la popolazione che cerca di informarsi e di esprimersi in forme organizzate, come fosse interdetta dal dare parole alle reazioni. Quello che sta accadendo è certamente tremendo in riferimento a ciascuno dei due scenari di guerra. Ma mi accorgo che avverto con maggiore fastidio la passività nei confronti dello scontro sull’area palestinese. Credo che valga anche per me il canone culturale del già definito Occidente, consolidatosi nel XIX secolo e attivo tuttora, menzionato nei programmi di studio, nelle commemorazioni, nelle riflessioni degli intellettuali. Suggestioni storiche?
È certo che nel canone molto più discontinui sono i riferimenti all’Oltre-Don. Rare, evanescenti anche le implementazioni che possono essere occorse: le cronache dei tradizionali commercianti di pellicce, qualche racconto dei reduci dalla Campagna di Russia. In particolare questi ultimi evocavano la lotta ingaggiata per la sopravvivenza, consapevoli di essere traditi. Rappresentavano un panorama glaciale uniforme, dal Don al Volga, letale, a meno che non soccorresse la pietà dei locali. Contrasta, sorprendono ora, contrastanti con i racconti “stremati” dei reduci, memorie della antica lettura di Kaputt, di Curzio Malaparte. Il libro è il resoconto personale e lucido del graduato che, per dovere d’ufficio, percorre tutti i teatri di guerra, di fatto dalla parte degli aggressori, eppure riconoscendo il valore e il dramma degli sconfitti. Non ne desume condotte: passa in mezzo come scienziato antropologo, che traccia appunti sull’umanità nel suo taccuino. Quella lettura, ricordo, mi turbò – una geografia di molti dandy in divisa, esibizionisti nel teatro di umani sopraffatti, e di una natura malata e esclusa –. Ho tenuta latente finora questa lettura di disfacimento, di miasmi, di tensioni beffarde. L’affioramento nella memoria si delinea ora, verificando con sorpresa che lo spazio della guerra ucraina, e perfino la previsione della guerra, in Malaparte c’è già. E, mentre constato i percorsi della memoria, le amnesie e le anamnesi incontrollate, constato come nemmeno la memoria pubblica abbia rilevato questa pur pertinente associazione con il teatro di guerra.
Mentre mi confermo riguardo all’inconsistente informazione sulla guerra d’Ucraina, invece risalta, tra contributi postati sui social, tra ricerche diffuse dai canali di aree politiche contrapposte, come «storia avvertita in continuità e passione» quella che attiene alla costa orientale del Mediterraneo. Ponte che collega alla geografia dell’Asia, quella storia è intrinseca agli eventi, alla geografia, ai culti che in vario modo, si perpetuano nei territori intorno, giacimento cui attingono le proposte culturali, nei vari linguaggi. “Oggetto” di storia, ma anche “specchio”: nel senso che quello spazio, nelle sue linee, nei suoi fatti, nei suoi miraggi, comunque in riferimenti attuali, è complesso che vale, riproposto in arte, ma anche rivisitato, e perfino travisato, in gesti e fantasie personali.
Così, di fronte all’annientamento dei palestinesi che è in corso, verifico in particolare la misura inadeguata della mia sollecitudine. E ritornano, forse inappropriate per l’attualità, considerazioni moraleggianti, coincidenti con exempla evangelici, ravvivati spesso nella quotidianità. Così il tema del “Buon samaritano”. Lo si ripete ai ragazzi educandoli alla “buona azione quotidiana”, ma non solo: è pure la riflessione che dà profondità alle imprese internazionali generose di cura, dalla Croce rossa alla Mezzaluna verde, a Médecins sans frontières, a Gino Strada fondatore di Emergéncy. O così la figura di Erode banditore della “Strage degli innocenti”, per eliminare competitori nel futuro: un tema di cui si sono fatti carico i filosofi, anche assimilando le istituzioni coercitive. Vengono a mente le riflessioni sul potere che seleziona, in Voltaire, in Foucault; l’allarme contro lo strapotere, e il primato dell’etica, in Spinoza. Viene a mente la “guerra igiene del mondo” con cui Marinetti nel 1909 spingeva la nostra gente fuori dai loro progetti, nella mischia, partendo dal “disprezzo della donna” e certo, non menzionati, dei bambini. Guerra e strage, guerra e manipolazioni di ambienti, comunità, individui erano del resto prove in atto da tempo, nelle acquisizioni di colonie. Nella Seconda Grande Guerra quelle prove sarebbero state portate accanto, nello spazio europeo: ma indicibili fino al momento della composizione diplomatica. Il dubbio ora è che non si siano affatto bandite quelle logiche opposte alla vita.
È un fatto che il piano che Israele sta realizzando, l’operazione “Spade di ferro”, è esplicitamente mirato a abbattere la popolazione civile nell’exclave di Gaza e a cancellare la possibilità che possa continuare a essere abitabile. Trovo tali dati, ritengo oggettivi, nell’articolo Guerra Hamas-Israele del 2023, in “Wikipedia”: un contenitore, basato su cooperazione internazionale, che nella circostanza risulta avere assunto una prospettiva abbastanza ampia, nonché prudente, avvertendo in testata di fornire delle prime risultanze. Il quadro degli eventi è adeguato, con indicazione delle fonti. Le leggo, dunque: dodici volte sono riferite fonti italiane, quarantuno volte le fonti straniere.
L’editoria, i più affidabili dei centri della produzione di saggistica attuale, hanno posto la questione della guerra nel Medio Oriente in prima linea nella loro produzione. Certo, mi dico, non possono che attingere a autori e studi già collaudati, considerando i tempi di preparazione necessari: aggiornandoli in modo ben calibrato. Le mie conoscenze pregresse, generiche, non consentono di orientarmi. È il nome di Paola Caridi quello su cui mi appunto: perché è ago della bilancia in trasmissioni di attualità politica, che ne dimostrano l’aggiornamento e la pratica dei personaggi-chiave, delle fonti, degli organismi. Nel primo incontro, in tempi di molto anteriori, l’avevo apprezzata nei deliziosi libri per bambini – come Il volo di Nura, come Gerusalemme. La storia dell’altro – racconti che avvicinano ai contrasti del convivere in Palestina, e al dialogo possibile, anzi praticato. Ne avevo apprezzato il punto di vista, che le generazioni convivono e si mischiano, che educare sia esplorare il mondo per quello che è, senza nascondimenti, ma anche senza pregiudizi.
Caridi però non è solo autrice di storie alla portata dei bambini: è una testimone importante. È storica di grande preparazione, e che ha per metodo di esplorare da vicino, e non solo negli archivi, le situazioni che tratta. È specializzata su quelle del Vicino Oriente: operatrice per Lettera 22, impresa di giornalismo cooperativo attenta ai problemi sociali e ambientali nel mondo, ha condotto gli approfondimenti in lunghe trasferte: in Egitto, in Israele; ora vive in Giordania. Saluto dunque con sollievo l’uscita, presso Feltrinelli, dell’edizione nuova e aggiornata, rispetto all’edizione del 2009. Allora già erano maturati eventi che Israele e l’Occidente non accettavano: nella Striscia di Gaza, il primato ottenuto da Hamas nelle elezioni del 2006, pur ritenute legittime, relative al governo dell’Anp – l’Autorità nazionale palestinese –. Lo studio ora uscito, Hamas. Dalla resistenza al regime parla in modo circostanziato del gruppo di Hamas, inquadrandolo rispetto alla storia passata e contemporanea della Palestina, citando il silenzio equivoco opposto in Occidente ai pronunciamenti dell’ONU, quando contrari alle infrazioni compiute e non corrette da Israele, allargandosi su aree di Cisgiordania e Gaza: un evidente contributo a screditare tale organismo, ma anche, aggiungo, una tendenza scivolosa a incappare in posture coloniali.
Hamas è oggi il più importante movimento islamista. Ma, sorto a fine anni ’80 nel secolo precedente, con una Carta costituente che mira al “rigetto di Israele” è rimasto periferico per un certo periodo, quando l’Olp, l’Organizzazione per la liberazione della Palestina, fondata circa venti anni prima, guidata da Arafat, fu ritenuta affidabile per giungere alla costituzione formale dello Stato palestinese. Così previdero gli accordi di Oslo del 1993, che costituirono l’Anp, l’Autorità nazionale palestinese. Invece nel turbinare di anni infausti, in cui scomparvero i protagonisti degli accordi, l’Olp non ha mai oltrepassato la soglia di una singola organizzazione: è rimasta un segmento rispetto alle varie espressioni politiche, in pratica uno tra molti partiti, cui non è riconosciuta autorità morale, nonostante che all’ONU sia riconosciuta, in quanto ammessa come osservatore permanente, di rappresentatività generale. Nel frattempo, è Hamas che ha raccolto la maggioranza dei voti, con le elezioni legislative del 2006. Regolari per gli osservatori internazionali, ma poi sconfessate di fatto in quanto inaccettabili per l’ottica di Israele, la Palestina – tra atti ostili di Hamas e degrado di Gaza, la roccaforte di Hamas, che Israele ha volutamente perseguito – ha visto diminuire unità interna e prestigio esterno. Rispetto alla proposta dei due Stati l’autrice, alla fine del libro, chiudendo sulla strage del 7 ottobre 2023 operata dall’ala militare di Hamas, palesa un tono pessimistico: «La svolta “partecipazionista” di Hamas è finita: l’ala politica non esprime nessun dubbio … Non è finita, né a Gaza né tantomeno in Cisgiordania, e in generale nell’opinione pubblica palestinese, una richiesta di “resistenza all’occupazione”» (ivi: 377).
È dunque notevole che nel saggio Caridi, svincolandosi dal punto di vista occidentale, ci si interroghi sul perché del successo di Hamas interno a Gaza, il 25 gennaio del 2006, e sul prestigio che i palestinesi in generale accordano. Poiché non trova risposte nella comunità internazionale, gira la domanda a persone di comprovata cultura che vivono nei luoghi, registrando con sorpresa le risposte fornite da personaggi non compiacenti, che vanno oltre lo stigma del terrorismo, delineando invece un’altra fisionomia. Così risponde un noto giornalista e storico israeliano, Tom Segev: «Hamas non è un’organizzazione terroristica che tiene i residenti di Gaza come ostaggi: è un movimento nazionalista religioso, e la maggioranza dei residenti di Gaza crede in questa linea» (ivi: 17).
L’excursus corposo che segue è dunque una ricognizione ampia sui fatti della quotidianità in Palestina, ma in particolare a Gaza, per gli ultimi due decenni, in cui l’autrice reperisce documenti e testimonianze di piena credibilità, eventualmente discutendone nelle note, poste alla fine del libro, in 17 pagine fitte. Per chi legge, è come assumere un’ottica che, scendendo dalla cornice, l’annalistica dei fatti, percorre i gironi dei pochi decenni sulle orme dei e delle palestinesi. Oggi due terzi della popolazione di Gaza ha la designazione di “rifugiati”, profughi, per lo più discendenti della guerra arabo-israeliana del 1948: una qualifica scomoda, disturbante anche per chi legge, e che si riaffaccia più volte: il «passato, quello prima del 1948, fornisce il mito e nello stesso tempo il comportamento sociale, e con un presente, quello da rifugiati, che cerca di reinterpretare tutto alla luce delle necessità pratiche…» (ivi: 58). Persi i territori, riposta come bene prezioso la “chiave”, molti palestinesi furono allora concentrati nella località di Majdal, in un ristretto quartiere, «denominato dagli israeliani “ghetto” [...Poi da qui] in tremila furono deportati verso Gaza nel 1950» (ivi: 56). Sono queste, ovviamente, espressioni attutite dall’uso, in Israele: ma pesano comunque come piombo. Le condizioni generali si riverberano sull’architettura: mentre le colonie israeliane disposte tra 2005 e 2008 «per spaccare la Striscia in tre parti [... presentano] piccole enclave, compound graziosi con villette, aiuole e piscine» (ivi: 185), ecco invece che «Gaza City è piena di palazzi alti, fino e oltre dieci piani, una tendenza architettonica che nasce da una necessità di base: nella Striscia c’è pochissimo spazio, l’unico modo per tamponare i problemi abitativi è costruire in altezza» (ivi: 256): sono dunque questi gli spezzoni disintegrati, i cumuli che completano i notiziari odierni.
In certi passaggi il cambiamento sociale si armonizza con quello occidentale. Ecco che intorno agli anni ’70, indebolitosi il notabilato, si fanno avanti giovani che «provengono dai ceti più bassi». Per molti aspetti ricordiamo il movimento studentesco intorno al ’68, leggendo della cosiddetta “terza generazione” dei Fratelli musulmani palestinesi, che, innovando, si formano nelle università. Assecondano un esperimento di Tel Aviv, quello di fornire «istruzione autonoma, slegata dai paesi arabi» tradizionali (ivi: 73): le nuove università, nell’esperimento, devono distogliere la frequentazione degli atenei egiziani. Le passioni politiche di questi giovani si alimentano però di devozione religiosa. Non ci sarà stabilità sociale: come si intensifica, da parte di Israele, l’insediamento di colonie, dal 1972 al decennio successivo, così si creerà tensione, fino alla Prima Intifada. La Seconda Intifada accadrà nel tempo in cui, dopo Oslo, si è detto, rimasto sospeso il processo di pacificazione tra i due Stati, nella distanza degli obiettivi si pongono provocazioni, attentati, sanzioni. Proprio in una situazione tanto condizionata, tuttavia, Hamas ha accresciuto prestigio e séguito
Interessanti “Istantanee” (così il titolo del capitolo, ivi: 88 – 111) descrivono, in una situazione tanto condizionata, i ritmi di vita della popolazione: le poderose istituzioni di assistenza – primeggia l’associazione di beneficenza Al Salah, fondata nel 1978, con licenza delle autorità israeliane – che si prendono cura delle migliaia di orfani, ma che organizzano anche le scuole, per ragazzi e ragazze.
Le “istantanee” del capitolo, con una sorpresa, che devo ammettere, mette a nudo la mia sprovvedutezza, si soffermano più volte sulle donne: Hamas cura di avviare le donne alla scuola, ai laboratori, ai consultori. Gli abiti delle adulte non rispondono a prescrizioni, ma è appropriata una certa modestia, sia che la donna opti per i jeans, sia che preferisca l’abito lungo, certo di colore spento: in ogni caso si prevede il fazzoletto in testa. La poligamia è ammessa, ed è ragionevole che la donna la assecondi. È pratica diffusa la monogamia: comunque con figli numerosi.
Lo spirito a cui gli attivisti si ispirano è quella del “servizio al popolo”. Nella lettura se ne coglie l’elemento della radicalità, che, pur laica, ha un’ampiezza che evoca la religiosità, l’assoluto. “Hamas” è insieme acronimo, per “Movimento Islamico di Resistenza”, ma è anche parola autonoma, significante “entusiasmo”, “zelo”: dunque, sì, servizio: nel caso, messo a disposizione del popolo.
I palestinesi: popolo o nazione? La questione, si è detto, è stata posta. La cito, senza afferrare bene la profondità della questione: so che in latino “natio” vale altro, è infatti il “luogo di nascita” che ciascuno può dichiarare; che nel Rinascimento la Roma papale, quando si faceva splendida d’arte, attrezzava anche rappresentanze estere con singole chiese di riferimento definite “nationes”, mentre lo storico Corrado Malandrino, nell’Enciclopedia storica Zanichelli del 2000 curata da Massimo L. Salvadori (“nazione”: 1112-1114), riferita l’esistenza del termine “nazione”, ma con mero significato descrittivo fino al Settecento, associa il termine a “Stato nazionale” a partire dalla “Rivoluzione francese”, rilevandone la forza in movimenti del XIX secolo nello spazio europeo: Francia, Inghilterra, Germania, passando quindi alla concertazione umanitaria della Società delle Nazioni, in base a cui, nel secondo dopoguerra, si designò l’ONU. Sotto il lemma “nazionalismo”, si rileva che questo concetto esaspera l’“idea del primato” – di vario campo –, sostanzialmente con “petizioni di principio”.
Nel libro di Caridi il piano teorico della questione è adombrato. Certo è un approfondimento che tocca constatare come la disparità di definizione, tra Israele nazione e Palestina candidata a esserlo, comporta abissali svantaggi. Tanto più che il territorio impatta con un’area larghissima di valore strategico, su cui in particolare dall’11 settembre 2001 l’attenzione degli USA è dichiarata. Negli anni intercorsi tra Oslo e il governo di Hamas su Gaza, si constata il peso dell’ingerenza di Israele e USA sugli istituti di beneficenza islamici: sorveglianza sul possibile finanziamento al terrorismo, certo. In definitiva, i conti bancari «sono stati congelati sul territorio statunitense», con divieto dei cittadini americani di avere rapporti con Al Salah. Il focus sull’area comprensiva di Israele e Palestina, insomma, non dimentica quanto questa abbia valore strategico: così che accende l’interesse statunitense e ne impegna le politiche in Medio Oriente.
Caridi non dà formule conclusive sulla “nazione palestinese”. Tuttavia la profezia di David Ben-Gurion, il politico fondatore dell’esecutivo di Israele, tra il 1948 e il 1963: «I vecchi moriranno e i giovani dimenticheranno» non si sta verificando: si succedono le generazioni, e i discendenti non dimenticano. Quale che sia l’esito degli eventi, sarà arduo provare che la Palestina sia solo una memoria inattuale, o una memoria tutta polemica contro ebraismo e ebrei: il capitolo della documentazione e dell’analisi è da portarsi avanti, certo in cooperazione, comunque per approfondire il dialogo. Non diversamente, dell’Italia preunitaria, le cancellerie dicevano: «L’Italia è una penisola, un’entità geografica»: la coscienza della nazione, in gran parte, è poi passata dalla coscienza del patrimonio storico e culturale. Nella storia successiva alla fine del Secondo Conflitto, il movimento di decolonizzazione, con la definizione di nuovi Stati-nazione è stato ampio. È un movimento giusto: in questo il criterio dell’autodeterminazione, della chiara politica relativa alla cultura e alle istituzioni che ordinano la società, a partire da quelle culturali, è decisivo. Di fatto, Israele stessa si è costituita in nazione, alveo di molti fiumi, in particolare unendosi intorno alla lingua, imponendola nelle istituzioni culturali, raccogliendo la passione del teatro, della narrazione, della musica in una produzione ampia, impegnata, capace di esprimersi e di dialogare con ogni cultura. Credo possibile, tuttavia, che possano esserci sviluppi e cambiamenti: come comporta il tempo, e in particolare come può svilupparsi da una pacata riflessione sulla relazione tra ambito sacro e ambito civile. È un ambito importante, e che oggi impegna tutte le culture religiose, ma in particolare quelle del “libro”: oggi questo ambito constata una diversità fortissima, nel confronto delle due nazioni. La nazione radicata nell’“Occidente” dà l’impressione di una forte propensione alla modernità tecnologica, innovativa su questo piano, ma ligia alla lettera riguardo alle Scritture che accompagnano la sua religione e insofferente rispetto ai “sacri testi” altrui. Questo risulta imbarazzante per chi abbia altre condotte non solo religiose, ma anche morali. Tanto più che, se questo fosse il piano su cui confrontarsi, le grandi aree mediorientali, pur se hanno pure diversioni turbano i rapporti, possono però presentarsi in una continuità lunghissima di presenza, di interpretazione, di scambio interni: non c’è che da auspicare un dialogo, magari per singoli temi tra i due vicini in guerra.
Grande e continua, avverto la civiltà del Vicino Oriente: non posso dire “conosco”, perché non mi fondo che su cicli di lettura, sull’interpretazione: mero sogno, alla fine. Certo ritengo una occorrenza di grande peso che della cultura nazionale peninsulare, quando se ne è fatto il monitoraggio, in un sentore di “risorgimento” in embrione, abbiamo avuto come faro Dante: che espone una cultura amplissima, inclusiva dei classici, della bibbia, della patristica, della filosofia anagogica, che aiuta a interpretare ma anche a distaccarsi, delle arti del fare in ogni forma, gestendo questa molteplicità di orizzonte e di cronologia sempre con coerenza morale. Con un fondamento tale, tra tanti incidenti, disastri, abomini sul percorso, è però possibile confermarci come in collegata cittadinanza: in nazione. E come non associare subito a Dante il francescanesimo, e quindi la svolta, rispetto alla cultura anteriore “in arme” in oriente, di ascolto e disponibilità.
Ma Gerusalemme, in questo senso, è centro, meta di meditazione. Verso questo luogo si dispone il tappeto di preghiera, ma così anche l’abside delle chiese cristiane. Presso di noi, su un piano forse un po’ supponente, ma certo sincero, si pose la rivisitazione di Gerusalemme, forse in età rinascimentale e moderna, negli allestimenti dei Sacri Monti, “viae crucis” artistiche e di grande formato, in disparte rispetto agli abitati, tuttora visibili. Il più famoso è il Sacro Monte di Varallo, ma nel mio territorio ne ho uno prossimo, San Vivaldo, sulle colline tra la Valdelsa e la Val d’Era, un luogo di conduzione francescana. Comunque si inquadrino i passaggi della meditazione su Gerusalemme, si constata che le tradizioni si sono accumulate in promiscuità, costituendo così narrazioni, spesso modellate su usi di altro senso, in un folklore in genere più conviviale che escludente: le figure pietose inscenate sui Sacri Monti convivevano con l’impegno di Tasso a Ferrara, a rianimare in poesia l’epopea crociata. Fare valutazioni realistiche su poteri, intenti, propaganda comporta un impegno, che non è in contesa con l’apprendimento del passato. L’epoca delle spedizioni “in arme” in Oriente aveva lasciato memorie e storie, da conoscere e rappresentare, in temperie che, diverse, declinavano tuttavia emozioni attuali.
La descrizione, da parte di Caridi, della Gaza anteriore alla misera, ristretta condizione attuale ricorda l’alternarsi delle vicende, e insieme l’attesa del nuovo impulso:
«Gaza non è sempre stata come ora, povera, misera, isolata, chiusa al mondo. Terra dei filistei, ricordata dalla Torah…Gaza ha vissuto le scorribande di Alessandro Magno, la conquista islamica del 635 da parte di Omar, uno dei compagni del profeta Maometto…Battaglie campali, zoccoli di cavalli e scorrerie di guerrieri testimoniano anche del significato politico della Gaza antica, ritratta nei suoi confini e nei palazzi in un mosaico bizantino, “prodotto” e conservato in Giordania. È la famosa Mappa di Madaba, fondamentale per comprendere la geografia fisica, umana e politica di tutta l’area» (ivi: 57).
L’autrice prosegue elencando e inseguendo: l’ellenismo nella fase finale, Procopio, Coricio, Enea. Gaza è storia: è archivio da interrogare, da rivisitare periodicamente. Ogni rivisitazione, quando corretta, metodica, dà voce a fatti lontani, e insieme assume posture, aspirazioni, ricerca che riguarda l’oggi. Anche a me, dal mio scrittoio e dai miei libri, è occorso di ritrovare l’Oriente, di specchiarmi in memorie e ricerche, riportando da lì più chiari affondi nell’attualità. Un orizzonte, che dal Mediterraneo raggiunge i grandi fiumi, Eufrate e Tigri, che disegna la Mezzaluna fertile, ma anche tocca l’interno dell’Anatolia, fino al mar Nero. Specialmente sullo sfondo dell’Oriente medito sulla donna (forse, la donna del neolitico?), sui passaggi che la tagliano fuori dalle narrazioni di fatti: come Arianna a Nasso, come Creusa a Troia, come Didone a Cartagine. Donne il cui passo sembra non addirsi alla storia.
Storie specifiche che riguardano gli Stati crociati in Oriente, tuttavia, pongono le donne alla pari tra i protagonisti. È la ricostruzione che presentano gli storici odierni, come Giuseppe Ligato [3] trattando di Sibilla d’Angiò (1160-1190), regina di Gerusalemme dal 1186 al 1190. Siamo a circa un secolo dalla conquista di Gerusalemme, di cui era stato protagonista Goffredo di Buglione nel 1099. A seguire, si erano organizzati quattro Stati: il regno di Gerusalemme, le contee di Tripoli e di Edessa e il principato di Antiochia. Una sua signoria personale, dopo la seconda crociata, si era costituito il temerario Rinaldo di Châtillon situata al di là del Giordano. Re di Gerusalemme non fu Goffredo, che rifiutò la corona, ma il fratello Baldovino. Nelle successioni, nel 1174 ricevette la corona Baldovino IV d’Angiò, il Lebbroso: affetto da un male grave e progressivo, pur valente, la trasmissione divenne critica. Fu allora che le sorelle, Sibilla e Isabella, divennero pretendenti, e che Sibilla si dimostrò intraprendente e opportuna calcolatrice: nelle circostanze divenute urgenti per dare successione al Lebbroso, approfittò delle sue nozze, celebrate nella Pasqua del 1180, con il secondo marito, Guido da Lusignano, per celebrare insieme la doppia incoronazione, sua e del marito. In tutto questo lo storico Ligato osserva un’alleanza forte della signora con l’Alta corte di Gerusalemme, organo collegiale partecipato dai feudatari, dall’alto clero, dagli ordini cavallereschi, i Templari e gli Ospitalieri, nonché il calcolo che sarebbe rimasta inefficace la consultazione sul continente lontano dell’arbitrato internazionale, costituito dal papa, l’imperatore, i re di Francia e d’Inghilterra, che avrebbe potuto preferire a lei la sorella Isabella. Guido non godeva di stima: tuttavia è probabile che i calcoli interni a Gerusalemme, oltre che la determinazione di Sibilla, lo abbiano favorito. Di lì a poco, nel 1187, lo scontro ai Corni di Hattin, presso Tiberiade, con il Saladino, comandante curdo, determinò il tracollo dei latini in Oriente. Gerusalemme fu persa divenendo capitale l’ospedale di San Giovanni d’Acri. Di Sibilla si perdono le tracce dal 1190. Guido da Lusignano ottenne Cipro, trattando con Riccardo Cuor di Leone. Sposata la cognata Isabella, fondò quel regno di Cipro che durò fino al 1489. Caterina Cornaro (1454-1510), vedova del re Giacomo II Lusignano, lasciò l’isola ponendo la dimora a Asolo: una corte rinascimentale, attiva di artisti e poeti, dove Pietro Bembo scrisse gli Asolani, modello di prosa in lingua italiana. E una spirale verso l’oggi.
Realtà da pensare e ripensare, poiché le interpretazioni possono perfezionarsi e dare tracce che completano o innovano le ipotesi, come dimostrano l’archeologia e le scienze che intorno a questa si sviluppano, arrivando a ipotizzare scenari di ambienti intorno ai reperti. Ipotesi di grande novità sono state avanzate di recente in un territorio, oggi della Turchia, in prossimità della Siria, in prossimità della città di Sanliurfa, Edessa in epoca precedente: non so se il recente grande terremoto l’abbia toccata, e in che misura. Il luogo, Göbekli Tepe, è stato oggetto di scavo da parte dell’archeologo tedesco Klaus Schmidt (1953 – 2014), che, nell’ambito di un progetto curato dall’Istituto Archeologico Germanico di Istanbul, vi ha lavorato dal 1995. Il resoconto, con il titolo Costruirono i primi templi, è stato pubblicato in lingua italiana nel 2011, ha ipotesi sconvolgenti: il sito, in più strati, risale a 11600 anni fa – 7000 anni anteriormente alle piramidi, dice la copertina –. Le costruzioni in pietra, in più strati, secondo cronologie che sono più antiche a livello di base, hanno come modello edificatorio pilastri a T, che risultano coperti di rilievi, in cui sembra di riconoscere perlopiù animali, ma anche molti altri segni. Luogo sacro? Osservatorio? Per quali pratiche? Questa civiltà paleolitica, è anteriore alla ceramica, eppure poderosa, certo imperniata su grandi e organizzate concentrazioni umane: con quale autorità e modi? Se, mentre infuriano distruzioni dolorose nella contemporaneità, le associazioni della mente scivolano su tempi lontanissimi, è soprattutto perché sento quanto nel vivere sia necessaria la cooperazione, e quindi la convivenza. “Fratelli tutti”: come dice il papa, confermando le scelte del santo di Assisi.
Dialoghi Mediterranei, n. 65, gennaio 2024
Note
[1] https://www.difesa.it/Giustizia_Militare/rassegna/Processi/Nordhorn/Pagine/17Larappresaglia.aspx,
[2] <https://www.treccani.it/vocabolario/occidente/> (visto 14.12.2023)
[3] Giuseppe Ligato, Sibilla regina crociata. Guerra, amore e diplomazia per il trono di Gerusalemme, Milano, B. Mondadori, 2005.
Riferimenti bibliografici
Caridi, Paola, Gerusalemme. La storia dell’altro, Milano, Feltrinelli Kids, 2019
Caridi, Paola, Il volo di Nura, Milano, Edizioni Terra Santa, 2020
Caridi, Paola, Hamas. Dalla resistenza al regime, Milano, Feltrinelli, 2023
Ligato, Giuseppe, Sibilla regina crociata. Guerra, amore e diplomazia per il trono di Gerusalemme, Milano, B. Mondadori, 2005
Malandrino, Corrado, “Nazione”, in Massimo L. Salvadori (a cura di), Enciclopedia storica, Bologna, Zanichelli, 2000: 1112-1114
Schmidt, Klaus, Costruirono i primi templi. 7000 anni prima delle piramidi, Genova, Oltre edizioni, 2011.
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Franca Bellucci, laureata in Lettere e in Storia, è dottore di ricerca in Filologia. Fra le pubblicazioni di ambito storico, si segnalano Donne e ceti fra romanticismo toscano e italiano (Pisa, 2008); La Grecia plurale del Risorgimento (1821 – 1915) (Pisa, 2012), nonché i numerosi articoli editi su riviste specializzate. Ha anche pubblicato raccolte di poesia: Bildungsroman. Professione insegnante (2002); Sodalizi. Axion to astikon. Due opere (2007); Libertà conferma estrema (2011).
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