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Patrimoni domestici capoverdiani in viaggio: da casa a casa tra Terra Longe e Terra Mamaizinha

Centro nazionale per l’artigianato, l’arte e il design di Capo Verde

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CIP

di Martina Giuffrè 

Nei miei studi e nella mia ricerca negli anni ho attraversato diversi mondi migranti sempre in una prospettiva di analisi multisituata e transnazionale, guardando alle relazioni dei migranti tra luoghi di immigrazione e luoghi di origine sia che si trattasse degli eoliani emigrati in Australia sia delle donne capoverdiane in Italia (Giuffrè, 2021; 2017; 2010a; 2010b; 2007). Gli “oggetti migranti” [1]  hanno un ruolo fondamentale nel definire e ridefinire relazioni, appartenenze, identità, rinegoziando il senso di casa e di famiglia e hanno spesso il compito di estendere la nozione di casa, di domesticità, in questo spazio transnazionale.

In questo senso studiare le migrazioni capendo in che modo le persone domesticano gli spazi attraverso gli oggetti migranti, li fanno propri incorporandoli, trattando le culture domestiche migranti come insieme di relazioni, diventa fondamentale: relazioni tra persone, tra oggetti, tra persone e cose, tra persone e spazi (Meloni, 2014). La casa diventa in questa prospettiva non solo luogo dove si stratificano gli oggetti e contenitore storico, ma anche luogo di rinegoziazione e risignificazione dei processi di mobilità attraverso l’esposizione degli oggetti che simbolicamente rappresentano i luoghi e le identità migranti.

Se gli oggetti hanno il potere di creare relazioni tra soggetti (Miller, 2008), nei contesti migratori gli oggetti che si spostano attraverso gli spazi tra luogo d’origine e luogo d’immigrazione hanno un valore simbolicamente ancora più pregnante; in molti casi diventano la relazione stessa traslata, come nel caso degli oggetti che le madri migranti mandano ai figli left behind.

9788869957932_0_536_0_75Oltre alle rimesse in tutti i contesti migratori di cui mi sono occupata, sono numerosi gli oggetti comprati, scelti, incartati con cura e inviati dai migranti a coloro che restano; questi oggetti che passano di casa in casa, da luogo d’immigrazione a luogo d’origine ribadiscono e costruiscono relazioni, alleanze, stringono e fortificano relazioni familiari. E così viceversa gli oggetti che provengono dal luogo d’origine e che i migranti espongono nelle case come segno evidente della propria appartenenza diventano “oggetti densi” (Weiner, 2011), carichi di significato. La casa, infatti, come sostiene de Cearteau (2001), è uno spazio che si costruisce attraverso le pratiche dei suoi abitanti e diventa «uno spazio transitato, narrato e semantizzato» (Meloni, 2014: 426). Il rapporto con gli oggetti migranti è legato ancora di più alla domesticazione di uno spazio “estraneo” nel luogo d’immigrazione e di uno spazio conosciuto che ingloba l’esterno e lo rende familiare nel luogo d’origine, un modo di «viaggiare nel risiedere» e «risiedere nel viaggiare», come direbbe Clifford (2008), nel tentativo di autenticare il luogo che si abita (Meloni, 2014) rendendolo proprio, riconoscibile, denso di significato.

L’esposizione nei luoghi domestici dei Paesi di origine e dei Paesi di immigrazione di oggetti migranti, che sono stati selezionati da coloro che abitano le case e per questo sono densi di significato, è un vero e proprio atto di patrimonializzazione, di riconoscimento del valore simbolico, affettivo, economico (per esempio del successo migratorio dei familiari migranti che si estende a coloro che restano e che lo rendono visibile attraverso l’esposizione di oggetti che vengono da fuori). Gli oggetti migranti hanno un valore aggiunto, il valore dell’esterno. Se l’esposizione nello spazio domestico rende manifesta la «biografia degli oggetti» (Kopytoff, 2009) e delle persone che li possiedono, nello spazio domestico migratorio le cose mutano ulteriormente la propria “biografia culturale”: ratificano e rinsaldano il legame transnazionale tra luoghi e persone.

Questo aspetto dell’importanza degli oggetti migranti, e della loro esposizione, è emerso in modo significativo nei contesti migratori che ho attraversato, sia tra gli Eoliani d’Australia, che in molti casi costruiscono all’interno delle mura domestiche dei veri e propri altarini espositivi sacri e profani tra statuette religiose, rosari, foto delle isole, quadretti (Giuffrè, 2010b), sia nel contesto capoverdiano, in cui lo scambio di oggetti e l’esposizione nelle case diventa l’elemento centrale nell’elaborazione dei processi di mobilità e identitari.  Mi soffermo sul caso capoverdiano proprio perché qui gli oggetti migranti, più che in altri contesti da me attraversati, sono al centro dei processi di mobilità.

247369005_3948149131953175_6749723646013065704_nRecentemente presso l’Università di Parma abbiamo organizzato un incontro proprio sul tema degli oggetti migranti a Capo Verde con un’antropologa capoverdiana, Celeste Fortes, che insegna presso l’Università di Capo Verde e che ha presentato un suo significativo documentario dal titolo Bidon [2].Quasi tutte le persone che vivono a Capo Verde (anche io durante la mia ricerca sul campo a Santo Antão) hanno ricevuto un bidone e gran parte dei migranti ne invia diversi durante la loro permanenza all’estero. Cosa sono i bidon? I bidoni sono dei grandi contenitori di metallo che chi resta riceve da chi parte e che rappresentano il successo dell’emigrazione incarnando la presenza di coloro che sono dovuti partire. Le capoverdiane e i capoverdiani che vivono altrove riempiono grandi bidoni di “cose”: oggetti vari, scarpe, medicine, caramelle e dolcetti vari, abiti, strumenti di diverso tipo, scatolette, posate, bicchieri, soprammobili, coperte, cibo, apparecchi elettronici e molto altro – e li inviano a coloro che restano a casa nel luogo d’origine. 

millerIl film documentario di Celeste Fortes e Edson Silva mette insieme tre storie di donne e mostra il ruolo dei bidoni nel mediare il rapporto tra chi è rimasto e chi è partito. La storia di una rabidantes [3] che rivende di casa in casa i vestiti che vengono inviati nei bidoni; la storia di una donna che non ha mai ricevuto un bidone, caso più unico che raro, e che proprio in questa assenza del bidone e quindi assenza del legame con la Terra Longe [4] d’Oltreoceano, con tutto il portato simbolico di questa assenza, decide di comprarne uno per poter anche lei disporre degli oggetti della migrazione, anche perché, come abbiamo visto, essi, provenendo da fuori, hanno un valore aggiunto; ed infine il matrimonio di una delle protagoniste che viene organizzato dalla madre, emigrata in America, che con cura sceglie e seleziona nel dettaglio gli oggetti da inviare alla figlia per il grande giorno.

Tutta l’organizzazione avviene attraverso continue telefonate tra madre e figlia, che assieme decidono fedi, bicchieri da brindisi, e vari oggetti, poi inviati alla figlia in un bidon prima del matrimonio, oggetti che “odorano della madre”, come dice la protagonista.  Anche alcuni miei interlocutori durante l’apertura dei bidoni mi dicevano che le cose in esso contenute “odoravano d’Italia” (Giuffrè, 2007). L’epilogo della storia vede la madre assistere al matrimonio della figlia via Skype, dalla cerimonia in chiesa alla festa finale, nello stesso tempo riproducendo anche in America lo stesso setting, con gli stessi oggetti e lo stesso cibo, la stessa torta nuziale, in modo da poter “assaggiare” gli stessi momenti vissuti dalla figlia, come se attraverso quegli stessi oggetti potesse sentire le stesse emozioni.

Centro nazionale per l’artigianato, l’arte e il design di Capo Verde

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L’apertura dei bidoni è un momento importantissimo, a volte collettivo, altre volte più intimo e familiare; gli oggetti vengono tirati fuori a uno a uno dai destinatari mettendo in scena una pratica che coinvolge tutti i sensi: gli oggetti vengono toccati, accarezzati, odorati, guardati con stupore. I bidoni hanno un valore altamente simbolico tanto che a essi è stato dedicato il nuovo Centro nazionale per l’artigianato, l’arte e il design di Capo Verde a Mindelo, nell’isola di São Vincente. Il palazzo è ricoperto dai tappi dei bidoni di plastica e di metallo colorati che in base al colore rappresentano anche una nota musicale. L’insieme delle note espresse dai colori richiama una composizione del musicista Vasco Martins.

L’emigrazione è un fenomeno strutturale della società capoverdiana, ma a partire dagli anni Settanta del Novecento l’emigrazione capoverdiana si è femminilizzata e oggi sono soprattutto le donne a partire. In particolare nei miei studi pluriennali su Capo Verde ho lavorato sul nuovo senso di casa che viene costruito dalle donne migrate e da coloro che restano nel nuovo spazio transnazionale in cui le relazioni affettive famigliari si giocano (Giuffrè, 2021; 2017; 2010a). Molto spesso le donne migranti lasciano i propri figli ad altre donne che restano a cui inviano oggetti e rimesse. In questo nuovo spazio transnazionale, il significato della casa è profondamente connesso alla maternità lungo tre poli (figli, madre migrante e madre surrogata). Il confine tra interno ed esterno si espande fino a comprendere la Terra Longe, che diventa un’estensione della casa.

gabacciaLe mappe mentali della casa delle donne capoverdiane cambiano in maniera costante. Attraverso la creazione di una «sfera privata diasporica» (Baldassar e Gabaccia 2011) e l’estensione della domesticità al di fuori della casa, lo spazio della migrazione, precedentemente percepito come pericoloso (quando ad emigrare erano gli uomini) viene addomesticato dalla presenza delle donne nella Terra Longe. Questo addomesticamento avviene anche attraverso il flusso continuo di oggetti all’interno di quella che possiamo chiamare sfera domestica transnazionale matrifocale. In linea con quanto notava anche l’antropologa Ruba Salih quando parlava dell’emigrazione femminile marocchina in Italia (2002), a Santo Antão, isola nella quale ho svolto la ricerca, il flusso di beni è articolato dal concetto di casa. Attraverso gli oggetti, le donne capoverdiane costruiscono gli spazi che abitano e negoziano la continuità tra il luogo di origine e quello di migrazione. La casa diventa sia lo spazio fisico abitato, sia la concettualizzazione simbolica dell’appartenenza. Come afferma Salih, «le donne vivono la casa come uno spazio costruito dall’interazione e dalla combinazione di beni che simboleggiano la loro doppia appartenenza» (Salih 2002: 65). Questa femminilizzazione avviene in due modi. In primo luogo, “l’esterno” entra nelle case delle donne migranti, come segno del successo migratorio, e viene addomesticato. Il flusso di beni come elettrodomestici e vestiti dall’esterno stabilisce anche visivamente l’appartenenza della famiglia alla sfera transnazionale e distingue le case delle migranti e dei loro parenti dalle altre.

Nel contesto migratorio, il ruolo della casa si sposta dall’intimità domestica alla rappresentazione pubblica del successo migratorio del suo proprietario attraverso l’esposizione di oggetti. Un piano o l’altro è spesso in costruzione e vengono sempre aggiunti bagni moderni, elettrodomestici, televisori e altri oggetti significativi. Pur non essendo abitate dai migranti se non durante le visite estive, queste case rappresentano pubblicamente lo status sociale raggiunto da loro e dalle loro famiglie. Non è raro trovare oggetti esposti e non utilizzati, persino cibo, per indicare il legame con l’Italia, o con altri luoghi della migrazione. D’altra parte, visitando le case dei miei interlocutori in Italia, diversi elementi hanno immediatamente segnalato la loro origine: poster della loro isola appesi alle pareti, fotografie e numerosi CD di musica capoverdiana. Anche in cucina la loro “capoverdianità” è spesso evidente: cucinano la catchupa [5] e altri piatti tradizionali, offrono agli ospiti un bicchiere di grogue [6] o di pontche [7], preparano i pasteis [8]. Per le feste di compleanno o di matrimonio tra connazionali, la prima generazione di immigrati prepara piatti capoverdiani, spesso mescolandoli con quelli italiani, suona musica capoverdiana e parla creolo.

Così le donne migranti portano Capo Verde nelle loro case italiane e l’Italia nelle loro case capoverdiane, in un continuum che fa di Terra Longe e Terra Mamaizinha un unico quadro di riferimento gestito dalle donne. La nuova casa matrifocale [9] transnazionale capoverdiana è mantenuta in vita da contatti costanti via telefono o web, soprattutto tra i giovani che utilizzano i social network, e da frequenti viaggi nelle isole, in genere ad anni alterni. Di solito i migranti tornano per circa un mese durante l’estate. Queste visite, che richiedono una preparazione significativa, sono eventi importanti per le donne capoverdiane. Il periodo di preparazione può durare fino a due mesi; in alcuni casi l’intera vita in Italia può funzionare come preparazione al ritorno estivo. Due delle mie interlocutrici che vivono a New York, ad esempio, hanno iniziato a prepararsi per le vacanze estive a Capo Verde con sei mesi di anticipo, chiamando quasi quotidianamente le loro famiglie per parlare di oggetti di casa, vestiti, accessori, scarpe e altre cose da portare con sé. 

51dtr2sr9al-_ac_uf10001000_ql80_Quando il “fuori” diventa lo scenario delle pratiche femminili, la Terra Longe diventa quindi un’estensione delle isole e delle case delle donne, un nuovo spazio transnazionale in cui il significato di casa viene rinegoziato e diventa connesso a un regime di co-maternità, cioè una nuova domesticità tutta al femminile gestita da un capofamiglia locale “surrogato” e da un capofamiglia a distanza (Giuffrè, 2017). In questo modo i confini tra l’interno e l’esterno si allargano. Come sottolinea La Cecla (1993), lo spazio è anche lo “spazio sentito”; le categorie spaziali fluttuano e le persone usano mappe mentali per rappresentare la propria “casa”. Per le donne migranti capoverdiane e per quelle che rimangono a Capo Verde per crescere i loro figli, la “casa” diventa uno spazio transnazionale e cogestito, in cui la Terra Longe gioca un ruolo fondamentale. L’opposizione tra interno ed esterno si risolve nelle dimensioni della casa allargata e nell’estensione dell’interno nella Terra Longe e, viceversa, della Terra Longe “dentro” la casa. E questo legame tra Terra Longe e Terra Madre avviene principalmente attraverso l’esposizione speculare di oggetti migranti che tracciano un filo di connessione tra i diversi luoghi della migrazione.

L’immagine delle isole abitate esclusivamente da donne a causa dell’assenza di maschi migranti si sovrappone ora all’immagine di una Terra Longe, i cui confini non sono più molto chiari, popolata da donne migranti che si muovono in spazi transnazionali, che viaggiano e tornano periodicamente al loro luogo d’origine, che mantengono i contatti con la famiglia e gli amici, che inviano oggetti e rimesse e che diventano capofamiglia a distanza. In questo circuito composto da donne che viaggiano da Terra Longe a Terra Mamaizinha e viceversa, l’Estero viene “addomesticato”, sembra quasi diventare un’estensione delle isole “femminili” e del confortevole calore di Terra Mamaizinha. Allo stesso tempo, la Terra Longe entra nel luogo d’origine attraverso gli oggetti provenienti dall’estero che vengono utilizzati ed esposti nelle case dei migranti come espressione del successo migratorio raggiunto.

Nel caso di Capo Verde, dunque, le donne non sono preda del fenomeno di non sentirsi mai a casa in nessun luogo; al contrario, il “fuori” diventa un’estensione del mondo femminile delle isole e, attraverso un potente processo di genderizzazione, anche il “fuori” diventa casa, in particolar modo attraverso questo scambio continuo di oggetti migranti che si muovono tra luogo d’immigrazione e luogo d’origine. Questi oggetti sono, perciò, significativamente narrativi e densi, potremmo definirli dei veri e propri “iperoggetti” fortemente relazionali, storici e esistenziali (cfr. Turci, 2015; Clemente, Rossi 1999)[10]. La relazione fra case e oggetti, fra cose che si desidera esporre nelle case per farle partecipare alla propria storia, alla narrazione della propria vicenda, possono delinearsi, dunque, quali atti di patrimonializzazione che partecipano ad una sorta di metamusei domestici il cui obiettivo è la messa in circolo di storie di vita di mobilità.

Dialoghi Mediterranei, n. 65, gennaio 2024
Note
[1] Chiamo così gli oggetti che provengono dai luoghi d’origine e dai luoghi di immigrazione e che si muovono attraverso i confini nei contesti migratori tra questi luoghi.
[2] Il documentario Bidon: Nação Ilhéu (2019), di Celeste Fortes e Edson Silva  è stato proiettato presso L’Università di Parma lunedì 11 settembre alle 16 nell’Aula C del Plesso D’Azeglio, alla presenza dell’autrice e regista Celeste Fortes, antropologa dell’Universidade de Cabo Verde in un appuntamento organizzato dal Centro Universitario per la Cooperazione Internazionale – CUCI e dal Dipartimento di Discipline Umanistiche, Sociali e delle Imprese Culturali nell’ambito della collaborazione in atto tra CUCI e Universidade de Cabo Verde.
[3] Le rabidantes sono commercianti informali transnazionali e prendono il loro nome dal creolo “rabidar”, vale a dire “arrangiarsi”, “riuscire a cavarsela” (Grassi, 2006). Le rabidantes comprano prodotti all’estero per poi rivenderli al dettaglio a Capo Verde a prezzi più bassi rispetto ai negozi. Il raggio di azione delle rabidantes è piuttosto ampio: Brasile, Portogallo, Stati Uniti, Senegal, Mauritania, Marocco, Canarie, Cina, Hong Kong e Macau.
[4] I capoverdiani utilizzano Terra Longe per indicare la terra lontano, d’oltremare, in generale l’estero e Terra Mamaizinha per indicare invece la terra madre, il luogo d’origine.
[5] Piatto tipico capoverdiano a base di fagioli, mais, verdure e o carne o pesce.
[6] Tipo di acquavite distillato dalla canna da zucchero. 
[7] Bevanda alcolica che si ottiene dalla miscela del grogue, del miele di canna da zucchero e del limone.
[8] Pastelle fritte a forma rettangolare o di mezza luna ripiena di un impasto fatto di pesce, aglio e prezzemolo triturati.
[9] Per matrifocalità si intende per matrifocalità, nel senso attribuitogli da Nancy Tanner, un’organizzazione sociale in cui la madre detiene un ruolo centrale nella famiglia da un punto di vista strutturale, culturale e affettivo, e dove la diade madre-figlio diviene la relazione primaria rispetto a quella coniugale (Tanner, 1974).
[10] Questa definizione di iperoggetti che si rifà alla definizione di iperluoghi di Marc Augé ed è di Mario Turci. In particolare mi riferisco a molte delle sue lezioni presso l’Università di Parma nei corsi da me tenuti di Antropologia Culturale negli anni che vanno dal 2019 al 2023.
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Martina Giuffrè, professoressa Associata di Antropologia Culturale presso l’Università di Parma, ha lavorato su tematiche migratorie (sia emigrazione italiana all’estero che immigrazione straniera in Italia), di genere, su rapporto locale-globale e sulle fonti orali. Negli ultimi anni si è occupata di questioni legate alle comunità rom e delle nuove configurazioni della famiglia contemporanea. Ha insegnato in diverse università italiane: all’Università di Sassari, all’Orientale di Napoli, alla Sapienza di Roma e all’università di Firenze. Ha condotto numerose ricerche sul campo a Capo Verde, in Australia, in Belgio, in Spagna, in Romania e in Italia. Ha organizzato diversi convegni, ricerche, gemellaggi; ha partecipato come relatore a diversi convegni e coordinato progetti nazionali e internazionali. È specializzata anche come mediatrice interculturale. Dal 2010 è direttore della collana “Migrazioni” della casa editrice CISU (Centro di informazione e Stampa Universitaria). È membro del comitato scientifico della rivista antropologica LARES pubblicata da Olschki, della Fondazione Museo Ettore Guatelli, della Collana Storia Orale della casa editrice Edit Press. Ha lavorato come formatrice e consulente per diverse Ong e Onlus. Ha pubblicato diversi saggi e libri. 

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