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Aspettando il Festival Sole Luna

COPERTINA.  di Gabriella D’Agostino

Il Festival Sole Luna rappresenta da alcuni anni un punto di riferimento per la città di Palermo, e non solo, e un’arena dove si discutono e si portano alla conoscenza di un vasto pubblico i temi sensibili del nostro tempo, l’emigrazione, il dialogo   interculturale, ma anche il luogo dove si raccontano storie ‘ordinarie’, visioni sul mondo, sulla vita, sul senso dell’esserci che ci accompagnano a “nuove visioni”. Nato nel 2006 con uno specifico focus sul Mediterraneo e l’Islam, dal 2011 il Festival si è dato come sottotitolo Bridging through documentary film estendendo progressivamente il proprio sguardo ovunque ci fosse da raccontare di diritti, di guerra, di pace, di dialogo. In un momento storico epocale in cui l’Europa mostra il volto più disumano di fronte a una migrazione di dimensioni impensabili in un lasso temporale così ristretto, mettendoci di fronte alle nostre più pesanti responsabilità, ricordare il lavoro svolto da questo Festival può essere significativo. Le immagini della giornalista ungherese che fa lo sgambetto ai profughi siriani, passate in televisione nei mesi scorsi, è una tragica, insopportabile, metafora di ciò che siamo e che possiamo diventare. Nel 2015 il Festival ha compiuto dieci anni e si avvia, tra molte difficoltà, a organizzare l’undicesima edizione.

Se il tratto distintivo degli esseri umani risiede nella dimensione comunicativa, la comunicazione è tanto più significativa quanto più ampio è la scarto tra i codici degli attori coinvolti. In altri termini, se emittente e destinatario hanno codici uguali, la comunicazione sarà perfetta ma il valore dell’informazione scambiata sarà minimo, perché essi si comprenderanno perfettamente ma non avranno di che parlare. Se, viceversa, tra l’uno e l’altro non c’è una perfetta identità, il valore del messaggio si accresce. L’interesse della comunicazione risiede in questa situazione paradossale: da un lato, nell’aspirazione ad ampliare lo spazio di intersezione tra i soggetti coinvolti, dall’altro nell’accrescere la distanza per accrescere il valore del messaggio. Il Festival Sole Luna su questa tensione tra codici ha fondato una parte non marginale del proprio progetto.

Le vicende tragiche di questi ultimi mesi hanno rivelato una volta di più e in modo assolutamente non procrastinabile la necessità di rimettere al centro della riflessione la questione migratoria in modo non cinico, non ipocrita, non demagogico. Da un lato, forze politiche indegne di stare in un consesso democratico, facendo leva sulla paura, individuano la soluzione nei respingimenti senza ripensamenti, producendo un discorso ideologico e razzista dello stesso tenore di quello che rilevava una discendenza diretta di un ex ministra della nostra Repubblica dallo scimpanzé. In nessun Paese civile simili affermazioni avrebbero potuto trovare accoglienza e avere credito. Dall’altro, forze politiche che della difesa dei diritti hanno fatto uno dei capisaldi del loro sistema concettuale e interpretativo oltre che obiettivo centrale dei loro programmi, proclamano lo sdegno, denunciano l’indifferenza, ma non riescono a incidere in modo risolutivo su situazioni certamente complesse.

Eppure, il buon senso potrebbe suggerire l’unica soluzione capace di sottrarre alla criminalità il commercio dei nuovi schiavi del nostro tempo: consentire a tutti la libera circolazione, secondo quanto recita la Dichiarazione universale dei diritti umani, proclamata dall’Assemblea Generale delle Nazioni Unite il 10 dicembre 1948. Come si legge all’articolo 13.2: «Ogni individuo ha diritto di lasciare qualsiasi paese, incluso il proprio, e di ritornare nel proprio paese». È persino superfluo ricordare che ancor di più questo diritto dovrebbe essere assicurato se si fugge da paesi in guerra, da dittature, da persecuzioni. Cosa accadrebbe se questo diritto alla mobilità fosse davvero assicurato? Uno degli effetti, probabilmente, sarebbe quello di tagliare una delle fonti di finanziamento alla criminalità e a quel terrorismo islamista che viene indicato come uno dei pericoli degli sbarchi senza controllo. Si tratta della stessa ipocrita logica che combatte le droghe, lasciandone il commercio nelle mani dei cartelli. Chi crede che se gli individui fossero lasciati liberi di circolare si assisterebbe a esodi di massa verso i Paesi dell’Occidente, o è in malafede o non riflette abbastanza su quali sono le spinte, le motivazioni, i progetti alla base degli spostamenti delle persone. Come non riflette abbastanza sulle ragioni per cui si soffre e su quelle per cui si sta bene o si è felici, su quali sono i sogni e attraverso quali vie è possibile metterli in atto o adoperarsi perché si realizzino, almeno in parte.

FOTO1Recentemente, la città di Palermo ha redatto la Carta di Palermo 2015 sulla mobilità umana internazionale, che reca come titolo “Dalla migrazione come sofferenza alla mobilità come diritto umano inalienabile”. Nella Carta, tra l’altro, si chiede l’abolizione del permesso di soggiorno e si spiega: «L’abolizione del permesso di soggiorno non è una provocazione, non è uno slogan velleitario. È la conferma di una scelta progettuale e valoriale, che impone l’eliminazione di apparati normativi emergenziali e disumani. La storia è piena di apparati normativi emergenziali che pervertono il valore della sicurezza e il valore del rispetto della persona umana. La storia è piena di legalità disumana».

La questione migratoria e quella del dialogo interreligioso sono tra i temi che hanno trovato nelle diverse edizioni del Festival uno spazio di riflessione e di confronto importante. I recenti attentati terroristici non possono, in nessun caso, essere letti come l’esito di concezioni religiose, e chi intende raccontare che l’Islam abbia a che fare con queste azioni mente sapendo di mentire. Raimundo Panikkar (1918-2010) ha incarnato il dialogo interculturale e interreligioso essendo stato cristiano, induista e buddista “senza cessare di essere cristiano”, come lui stesso ha scritto. Ci ha consegnato un’importante lezione di metodo che invita a ripensare alcuni principi che, nel comune sentire, sono considerati capisaldi e appannaggio esclusivo della sola cultura occidentale. Tra questi i più importanti – libertà, tolleranza, democrazia, diritti umani – si ritiene che siano esportabili nella loro declinazione di matrice occidentale appunto perché considerati universali. Gli specialisti sanno bene che il dibattito intorno a questi temi e il loro ripensamento critico vantano una nutrita e articolata bibliografia, mentre, nello stesso tempo, nel nome di questo supposto universalismo sono state combattute molte guerre e calpestati proprio quei principi.

 Raimundo Panikkar

Raimundo Panikkar

Panikkar ha svolto una puntuale riflessione critica proprio in riferimento a tutte quelle filosofie e teologie che, assumendo il proprio punto di vista come “obiettivo”, guardano a ogni altro sistema di pensiero con un atteggiamento che lui definiva “colonialismo intellettuale” considerandolo come una improvvida estensione “della sindrome occidentale” assetata di universalità. A questo tipo di atteggiamento opponeva invece la ricerca di analogie non tanto tra i principi di religioni (o filosofie) diverse quanto piuttosto di spazi omologhi occupati da quei principi nei rispettivi sistemi di riferimento, omologhe correlazioni di funzioni. La nozione di “equivalenti omeomorfi” nella sua riflessione sta a indicare appunto un approccio di tipo comparativo (e non “imperativo”) che consista nella individuazione di equivalenze funzionali tra principi considerati basilari in diverse tradizioni culturali, forme simili tra specifiche credenze di tradizioni religiose diverse.

Parafrasando una sua metafora: ognuno di noi guarda il mondo attraverso la finestra che la propria cultura gli fornisce e attraverso essa ne ricava “la visione di un ordine umano giusto”. La propria finestra, tuttavia, non può essere vista se non facendo ricorso alla finestra di un’altra cultura che, a sua volta, non vede la propria. Nessuna finestra può essere ampliata sino a farne un’unica apertura sul mondo, perché si andrebbe incontro al rischio di un crollo di ordine “strutturale”. Si può però fare in modo di essere consapevoli dell’esistenza delle finestre, del fatto che esse sono necessarie ma che devono essere tante. Il Festival Sole Luna ambisce ad essere una di queste finestre e al suo interno ne contiene tante altre e le moltiplica con uno scopo: dare un contributo alla costruzione di una visione di un ordine umano più giusto.

Il lettore che volesse saperne di più può consultare il sito www.solelunadoc.org.

Dialoghi Mediterranei, n.18, marzo 2016

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Gabriella D’Agostino, docente di Antropologia culturale nell’Università di Palermo, è direttore responsabile del semestrale di scienze umane, Archivio Antropologico Mediterraneo, e direttore scientifico della rassegna cinematografica, Sole Luna. Un ponte tra le culture. Ha pubblicato con Sellerio, Da vicino e da lontano. Uomini e cose di Sicilia (2002), con Flaccovio, Forme del tempo. Introduzione a un immaginario popolare (2008). Tra i suoi lavori più recenti: Histories de vie, témoignages, autobiographies de terrain, con M. Kilani e S. Montes (Lit Verlag, 2010), la curatela dell’edizione italiana del libro di T. Todorov, Una vita da passatore. Conversazione con C. Portevin (Sellerio 2010), Altre storie. Memoria dell’Italia in Eritrea (Archetipolibri 2012), nonché la Prefazione e la curatela dell’edizione italiana (con V. Matera), in R. H. Robbins, Antropologia. Un approccio per problemi (Utet 2009, 2a ed. 2015).

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