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Omogenitorialità. Una critica non omofoba

stepchild-adoptiondi Neri Pollastri 

Nel corso di quest’anno, complici alcune decisioni da prendere in campo legislativo e la contemporanea ascesa al governo di partiti conservatori e alla direzione del principale partito d’opposizione di una segretaria dichiaratamente omosessuale, ha preso un certo spazio sui media il dibattito sul tema della genitorialità delle coppie monogenere. Sfortunatamente, tuttavia, l’estensione del dibattito non è stata accompagnata da una sua maggiore profondità; anzi, come spesso succede, il fatto che il tema fosse assunto da più parti con posizioni di principio e che se ne facesse, ancorché in modo opposto, una bandiera, ha non solo reso ancor più schematico e argomentativamente povero il confronto, ma anche quasi impossibile l’intervento di chi si volesse porre in una posizione “terza”.

In particolare, è risultato assai difficile porre in dubbio da una posizione né omofoba, né conservatrice dell’idea di famiglia, la consistenza del proclamato “diritto alla genitorialità”, la pretesa non problematicità della “gestazione per altri” (GPA) e la sensatezza del riconoscimento di figli ottenuti all’estero attraverso quelle tecniche da parte di genitori dello stesso sesso. Questioni, queste, estremamente complesse e difficili da dirimere, ma che coinvolgono senza dubbio una molteplicità di problematiche che sono state da entrambe le parti contendenti perlopiù aggirate, quando non oscurate e nascoste, a favore di una semplicistica riduzione ideologica.

Si è così assistito alla solidificazione di due schieramenti contrapposti, impegnati in una guerriglia ideologica ben più che in un confronto prima etico e poi politico: da una parte, chi reclama per le coppie omosessuali diritti totalmente identici a quelli delle coppie eterosessuali, accusando gli altri di conservatorismo, dogmatismo paraconfessionale, pregiudizio e omofobia; dall’altra, chi invece respinge tali diritti in parte o in toto, appellandosi a consuetudini, codici di comportamento, concetti di “natura”, presunti rischi per i bambini. Pochi, dall’una o dall’altra parte, si sono interrogati autocriticamente sul significato e la fondatezza di quei diritti o di quelle consuetudini, sulla portata della loro ratifica o rigetto, sulle loro condizioni di validità.

Proprio a quest’ultima lacuna cercheremo in queste pagine di porre qualche rimedio, provando ad analizzare alcuni degli argomenti (piú spesso retorici che logici) e di capire come sia possibile rompere la reciproca sordità. Anche alla luce del fatto che, dietro l’immagine di una netta contrapposizione offerta dal dibattito politico documentato dai media, c’è in realtà una silenziosa trasversalità di sensibilità e di opinioni che porta cittadini politicamente conservatori ad aderire alle richieste avanzate dalle coppie omosessuali e, viceversa, cittadini politicamente liberali e progressisti a ritenere quelle richieste dubbie, quando non inaccettabili. Una cosa, questa, che rende oltremodo confuso anche il dibattito politico generale: è noto infatti come la sinistra sia da tempo accusata di essere “radical chic” – non solo dai suoi avversari, ma anche da suoi antichi sostenitori – proprio a causa della centralità nelle sue battaglie di temi di questo genere, ovvero dei “diritti civili”, a scapito di quelle sui “diritti sociali”, riguardanti più specificamente una più equa redistribuzione delle condizioni materiali ed economiche e delle possibilità di affrontare l’esistenza.

image_92948233L’annoso problema dei diritti

Il tema dei diritti, attorno al quale ruota una parte importante del dibattito politico contemporaneo, è un territorio molto accidentato. Se da un lato manca infatti una chiara definizione di cosa sia un diritto e, soprattutto, su quali fondamenti (etici, politici, ontologici) una qualsiasi rivendicazione si possa legittimamente ritenere un diritto, dall’altro manca anche una teorizzazione sufficientemente dettagliata riguardo al nesso che lega necessariamente i diritti a quei doveri senza i quali essi né possono essere garantiti, né hanno alcun senso concreto. Queste lacune, precipitate in un dibattito pubblico sempre più rissoso e partigiano e sempre meno “politico” – intendendo questo termine nel suo senso originario di ricerca intersoggettiva del giusto modo di convivere nella polis fa sì che quasi sempre, quando si discute di un presunto diritto, i partecipanti al dibattito si guardino bene dall’analizzarlo attentamente per stabilirne il reale statuto, ma si limitino invece a combattersi l’un l’altro a colpi di argomentazioni retoriche e di accuse moralistiche, senza né comprendere le reciproche ragioni, né mettere in luce i propri doveri da osservare. Questo triste e (per tutti) dannoso spettacolo va in scena in moltissimi casi, ben esemplificati da due recentemente molto discussi: il diritto di non sottoporsi a vaccini, balzato con violenza all’ordine del giorno nel periodo della pandemia da COVID19, e quello di ricevere una pensione dopo un certo numero di anni di lavoro, frequentemente dibattuto un po’ ovunque e particolarmente presente in Francia.

Senza scendere nei complessi dettagli, cosa che richiederebbe un articolo a parte, è evidente che nel primo caso il diritto a non sottoporre il proprio corpo a un trattamento medico preventivo, per molti versi probabilmente sacrosanto, per essere reclamato richiede a sua volta l’osservanza di un dovere (che molti, anche se non tutti, coloro che rivendicavano il diritto di non vaccinarsi rifiutavano), vale a dire il rispetto di una diversa, ma non meno efficace misura cautelativa preventiva, tale da garantire il non meno sacrosanto diritto di terzi di non essere contagiati e/o di non trovare le strutture mediche già stracolme di non vaccinati. Analogo il discorso per il secondo caso, nel quale chi reclama il diritto di ricevere una pensione a una determinata età evita sistematicamente di confrontarsi con l’evidente cambiamento delle condizioni demografiche ed economiche rispetto a quando tale età è stata stabilita, cosa che ha reso molto più gravosi i doveri di chi, lavorando, finanzia l’assegno pensionistico: anche qui, un diritto è garantito dall’osservazione di un dovere, l’aggravamento del quale rende doveroso un ricalcolo degli equilibri e una rivalutazione del diritto.

Il tema del rapporto tra diritti e doveri è annoso e forse irresolubile, come mostra una vicenda che merita menzionare concludendo questa introduzione. Com’è noto, il 10 dicembre del 1948 l’Assemblea Generale dell’ONU, riunita a Parigi, adottò la Dichiarazione Universale dei Diritti dell’Uomo, il principale documento internazionale a cui ci si riferisce quando si parla di diritti. Meno noto è invece che quasi mezzo secolo più tardi, nel 1997, l’Unesco – Organizzazione delle Nazioni Unite per l’Educazione, la Scienza e la Cultura – avviò un progetto che aveva per obiettivo la stesura di una “Carta Universale dei Doveri dell’Uomo”, da presentare e adottare in occasione appunto del cinquantesimo anniversario della Dichiarazione dei Diritti. Il progetto prevedeva un percorso partecipato da una selezione di personalità rappresentative della cultura e della spiritualità – filosofi, letterati, giuristi, religiosi, eccetera – provenienti da ogni parte del mondo e prendeva l’avvio dall’intuizione che una carta dei diritti senza una corrispondente carta dei doveri fosse sterile e pressoché inapplicabile, in quanto un diritto diventa inesigibile senza l’osservanza del dovere che gli è necessariamente correlato. L’intento del progetto, quindi, era l’individuazione dei doveri necessari a rendere esigibili i diritti della Dichiarazione Universale e la loro organizzazione in una carta che fosse a essa speculare.

Chi scrive prese parte da uditore al secondo incontro del progetto, svoltosi a Napoli nel dicembre del 1997 [1] (il primo si era svolto a Parigi nel marzo precedente), dove erano presenti intellettuali e studiosi del calibro di Karl Otto Apel e Hans Küng, Samuel Fleischaker e Brian Berry, oltre a personalità della cultura del mondo islamico e confuciano, tutti rigorosamente d’accordo sulla Dichiarazione Universale dei Diritti e altrettanto convinti della necessità di completarla con una carta dei doveri. Il problema, palpabile, era tuttavia che se sui diritti l’accordo c’era, sui doveri era invece lontanissimo da raggiungere. La distanza si poté osservare in tutta la sua ampiezza in uno scambio che avvenne tra due filosofi, uno di cultura islamica dell’Università del Cairo e uno statunitense: il primo presentò una relazione nella quale, nella sostanza, sosteneva che la carta dei doveri era nelle sue linee generali già pronta ed era contenuta nel Corano, dal quale trasse tra l’altro alcune indicazioni riguardanti i doveri dei cittadini, incluse le donne; il secondo, al termine della relazione, gli rispose educatamente indicando alcuni aspetti sui quali dissentiva radicalmente e sottolineando in conclusione che il relatore era fortunato che tra il pubblico non fosse presente sua moglie, perché in quel caso le obiezioni sarebbero state espresse in modo assai meno pacato.

Pur tra le interessanti questioni che emersero e furono discusse, complessivamente il convegno mise in evidenza che se sulle rivendicazioni (dei diritti) un accordo si può (quasi) sempre trovare, perché idealmente garantiscono maggiore libertà, sulle obbligazioni (dei doveri) è invece molto più difficile ottenerlo, perché in questo caso è viceversa necessario proprio limitare il proprio arbitrio a beneficio degli altri. Un nocciolo problematico che, tuttavia, riemerge ogniqualvolta ci si confronti concretamente su un diritto, perché la rivendicazione di un diritto implica necessariamente la messa in gioco di quei doveri che ne garantiscano la fruizione e che si tenta ogni volta di tenere strenuamente fuori dal dibattito in quanto sgraditi, rendendo in tal modo il confronto sterile e rissoso.

Per inciso, a quanto in seguito mi comunicò uno dei filosofi che ne erano coinvolti attivamente, il progetto Unesco non riuscì ad andare oltre l’incontro napoletano e di una carta universale dei doveri non si è poi più parlato. Fatte queste premesse, addentriamoci nell’argomento, iniziando con una sua sintetica descrizione.

roccella-utero-in-affitto-genitorialitaBreve descrizione del contesto

La generazione di un bambino necessita inderogabilmente dell’unione di due fattori biologici, uno maschile (lo spermatozoo) e uno femminile (l’ovulo), e di un corpo (femminile) che permetta di portare a termine lo sviluppo che segue dal loro incontro. Tale unione fino a non molte decine d’anni fa si è sempre verificata attraverso quella di due soggetti di sesso opposto, detta tecnicamente coito o amplesso e più romanticamente definita anche “amore”, la quale fa sì che essa avvenga già all’interno del corpo femminile che si farà carico del processo di sviluppo fino al momento in cui possa proseguire in modo biologicamente autonomo.

Da non moltissimi anni il progresso della medicina e delle biotecnologie ha messo a punto una pratica che rende possibile l’incontro dei due fattori biologici anche senza il coito e all’esterno di un corpo femminile (in vitro); quest’ultimo rimane tuttavia insostituibile per lo sviluppo dell’embrione generato dall’unione di spermatozoo e ovulo, il quale vi viene perciò reinserito con altri interventi biomedici. A seguito dell’utilizzo delle suddette pratiche mediche, è divenuta possibile anche una totale indipendenza dei tre attori umani in gioco nella generazione: i soggetti titolari di spermatozoo, ovulo e utero gestatore possono infatti anche non conoscersi e non venire mai a contatto tra loro, laddove invece gli specifici elementi biologici del loro corpo interagiscono e generano una nuova vita.

Questo mutato scenario delle possibilità generative ha originato nuove aspettative e nuovi desideri, una volta semplicemente estranei alla realtà, quali quelli di avere figli da parte di coppie sterili o di coppie omosessuali. E poiché le nostre società prosperano economicamente proprio grazie alla circolazione di denaro in cambio dell’esaudimento di ogni tipo di bisogno e desiderio, sono prontamente sorti in varie parti del mondo servizi in grado di offrire, dietro pagamento (in genere lauto), il concepimento in vitro e la gestazione per altri (GPA), volgarmente detta “utero in affitto”.

Per una serie di ragioni che qui non abbiamo la possibilità di prendere in considerazione, numerosi Paesi, tra cui l’Italia, hanno però limitato o perfino proibito in toto questo tipo di pratiche e i servizi che le organizzano. Di conseguenza, alcuni degli interessati a fruirne lo hanno fatto recandosi all’estero, rientrando nel nostro Paese con il “prodotto” (cioè con un bambino) e richiedendo poi che esso fosse riconosciuto come legittimo figlio della coppia che aveva commissionato le pratiche per averlo (in giurisprudenza denominati “genitori d’intenzione”). Una tal cosa è però in contrasto con alcuni aspetti costituzionali e legali dello Stato Italiano, senza tuttavia essere regolamentata in modo sufficientemente preciso, tanto da lasciare aperta la possibilità di una registrazione da parte delle anagrafi comunali, che in alcuni casi – perlopiù perché in disaccordo con il divieto – lo hanno fatto.

Con l’avvento dell’attuale governo di destra e, in particolare, della Ministra della Famiglia Eugenia Roccella, i Prefetti hanno emanato un ordine di cancellazione delle registrazioni anagrafiche già effettuate, finalizzato a ristabilire la legalità; al tempo stesso il Governo ha anche presentato la proposta di considerare la GPA un “reato universale”, forma giuridica (peraltro di dubbia consistenza) atta a renderla reato nel nostro Paese indipendentemente dallo Stato in cui sia stata eseguita e/o commissionata. Tali prese di posizione da parte del Governo hanno suscitato nel corso dell’anno forti proteste da parte delle coppie omosessuali e delle organizzazioni politiche che ne difendono interessi e diritti, in quanto ritenute discriminatorie, omofobe e, in particolare, lesive del “diritto alla genitorialità” degli omosessuali.

2505020Alcuni capisaldi del dibattito

Come articolano le loro posizioni i contendenti? Le argomentazioni sono ovviamente varie, anche perché non manca una certa trasversalità rispetto ai tradizionali schieramenti – conservatori (destra) versus progressisti (sinistra). Tuttavia, volendo riassumerle in modo semplificato, potremmo schematizzarle nel modo seguente. 

Chi si oppone alla GPA e alla registrazione come genitori dei bambini da essa nati da parte di chi l’ha utilizzata sostiene che tali atti avrebbero molteplici aspetti critici: Distruggerebbero la famiglia naturale, composta da un padre e una madre di sessi diversi; Danneggerebbero lo sviluppo dei bambini, che necessiterebbe della presenza e della cura di un padre e di una madre di sessi diversi; Toglierebbero ai bambini il diritto a conoscere i loro genitori biologici; Creerebbero un vero e proprio “mercato” dei bambini, con commercio di sperma, ovuli e affitto di corpi femminili; Originerebbero uno sfruttamento delle donne, in particolare di quelle indigenti, che sarebbero spinte a usare il loro corpo e la loro intima esperienza di maternità per ottenere denaro. 

Chi viceversa è favorevole alla GPA e alla registrazione dei bambini da essa nati come figli di chi l’ha utilizzata nega gran parte di queste accuse e ne ridimensiona le rimanenti, evidenziando invece che sia una discriminazione omofoba negare alle coppie omosessuali quel “diritto alla genitorialità” di cui godrebbero le coppie eterosessuali.

Analizzando le argomentazioni addotte da questa parte [2] e tenendo conto da un lato del fatto che, con frequenza, le critiche fanno parte di una concezione tradizionalista dei legami affettivi che si oppone anche alle unioni civili tra coppie dello stesso sesso, dall’altro che la difesa dei diritti degli omosessuali da decenni è parte della politica liberal-progressista, non è difficile rendersi conto che proprio questo “diritto alla genitorialità” è il principale argomento di chi prende partito a favore dell’omogenitorialità e della GPA.

Proviamo dunque a fare una lucida riflessione sugli argomenti generali sopra esposti, iniziando da quelli contrari a omogenitorialità e GPA. 

Raggi, "rimuovere manifesti campagna pro vita, sono omofobi"Distruzione della famiglia naturale 

Com’è noto, l’impiego dell’aggettivo “naturale” è molto problematico ed è sempre possibile revocarlo: sebbene convenzionalmente si definisca “naturale” ciò che esiste indipendentemente dall’ideazione e/o dall’azione dell’uomo, essendo quest’ultimo comunque parte della natura resta sempre lecito considerare “naturale” anche ciò che scaturisce dalla sua creatività. Pertanto, basare una disputa sulla “naturalità” di qualcosa rischia da un lato di essere un argomento debole, dall’altro di aprire un conflitto senza fine.

Inoltre, anche se dovuto a sfortunate coincidenze, è “naturale” anche che una famiglia resti priva di uno dei coniugi, o che questi – in genere il maschio – sia quasi totalmente assente e le sue veci siano fatte da un terzo di sesso opposto – un esempio frequente sono le nonne che affiancano la madre per sopperire alla latitanza del padre. Avremmo perciò esempi di famiglia “naturalmente” monogenere.

Infine – e forse soprattutto – non si può certo sostenere che la famiglia “naturale”, cioè quella che ha egemonizzato in modo pressoché totale la storia dell’uomo, sia qualcosa di talmente ben riuscito e funzionale da dover essere difesa a ogni costo, visto che, come riportano le statistiche, la maggior parte dei reati di violenza avvengono al suo interno e che la psicoterapia sta lì a mostrarci come proprio dall’esperienza vissuta da piccoli al suo interno scaturiscano gran parte delle sofferenze degli individui adulti. Dunque, anche ammesso – e non ancora concesso – che una delle conseguenze di GPA e omogenitorialità sia la distruzione della famiglia naturale, ciò è tutt’altro che una buona ragione per opporvisi. 

Danneggiamento dello sviluppo dei bambini 

Anche sul fatto che una famiglia composta da una coppia monogenere danneggi lo sviluppo dei figli ci sono molti dubbi di fatto e ancor più di principio. Innanzitutto, su questo punto anche psicologi e pedagogisti sono fortemente divisi; inoltre, le loro opinioni poggiano principalmente su studi e teorie basate su dati raccolti in contesti e dinamiche sociali che prevedevano l’egemonia della famiglia tradizionale, cosa che ne falsa in partenza i risultati. Non ci sono ragioni di principio per ritenere che un bambino cresca bene solo in presenza di un padre e una madre, né esistono teorie dello sviluppo costruite a partire da dati raccolti in realtà nelle quali le coppie monogenere fossero già una normalità; di conseguenza, ritenere che solo una famiglia tradizionale possa garantire un buono sviluppo dei figli è un assoluto pregiudizio, come lo era cinquant’anni fa ritenere che non lo potesse garantire una coppia di genitori separati. In quest’ultimo caso i fatti hanno dimostrato come il pregiudizio fosse anche completamente errato.

Ciò che sicuramente serve per un buono sviluppo di un bambino sono genitori bravi, affiatati, che abbiano cura di lui nel modo migliore e con equilibrio, a prescindere dal fatto che vivano o meno assieme o siano equamente assortiti sessualmente. Che ci si occupi di quest’ultimo aspetto quando ci si preoccupa così poco della qualità e della preparazione dei genitori è qualcosa di veramente grave.

Dunque, sebbene ovviamente l’argomento possa (e debba) essere sempre tenuto da conto, la semplice assunzione della dannosità per i figli del non avere un padre e una madre di sesso diverso come argomento contro la GPA e l’omogenitorialità non sta in piedi. 

Il diritto di conoscere i propri genitori biologici 

Ciascuno di noi è un essere biologico, fatto di un corpo nel quale avvengono reazioni chimiche, condizione essenziale per poter essere anche un essere simbolico, avente una mente che produce significati e identità, rendendo così possibili emozioni e affetti. Sebbene, come è stato fatto notare [3], determini solo in certa misura il nostro essere simbolico, la nostra costituzione biologica lo supporta e perciò ne è parte: è inammissibile che a un essere umano sia reso impossibile, o anche solo difficoltoso, conoscere coloro che sono stati gli artefici di quella costituzione biologica. I quali, peraltro, sono letteralmente i suoi soli genitori, dato che questo termine deriva dal verbo generare e che la generazione è appunto un affare biologico che avviene, come dicevamo in apertura, attraverso un processo che richiede l’azione biochimica di un fattore maschile e di uno femminile. Egli ha dunque l’inalienabile diritto di attingere, se lo vuole, a quella conoscenza.

Se dunque la GPA e l’omogenitorialità tolgono o ostacolano la possibilità che l’essere generato goda del diritto di conoscere i suoi genitori biologici, esse fanno qualcosa di inaccettabile che deve essere impedita. Ma lo fanno davvero? In molti casi, purtroppo, sì: spesso, infatti, il donatore di sperma/ovulo e persino la prestatrice di utero richiedono espressamente l’anonimato e/o l’oblio; non solo, con frequenza ciò viene richiesto anche da chi commissiona la loro prestazione; né, del resto, è previsto che nell’atto di registrazione del figlio al rientro in Italia siano indicate le generalità di quei prestatori d’opera, nonostante che, di fatto, essi siano i genitori biologici del registrato.

È pur vero che a questo problema si potrebbe porre rimedio legiferando in modo che il diritto del bambino sia garantito: ma che fare quando ciò non sia possibile, anche solo perché il prestatore d’opera non ha acconsentito a lasciare le proprie generalità? E come assicurarsi che ciò sia dipeso da lui e non sia stata, invece, un’imposizione dei “genitori d’intenzione”, necessaria a sentire il figlio interamente loro? [4] La normazione del processo appare in realtà molto complessa e praticamente ancor più incerta; ne consegue che, su questo punto, chi si oppone ha ben fondate ragioni, del tutto irriducibili all’omofobia o alla dogmatica adesione a ideologici modelli tradizionali di famiglia. 

121625662_3993019590732555_935693111681310205_nUn mercato dei bambini

Non meno cogente è l’accusa rivolta alla GPA di dar vita a un “mercato” dei figli: è infatti innegabile che questo ci sia già, anzi, se non ci fosse neppure esisterebbe il problema della registrazione dei figli omogenitoriali. La questione, semmai, è se tale mercato sia da condannare, e perché.

Prima facie la criticità di un tale mercato viene percepita per la sua affinità con la compravendita di bambini generati in modo tradizionale; ma in realtà qui la differenza è enorme: in quel mercato (che peraltro in forma sotterranea già esiste nell’ambito delle adozioni) i bambini vengono tolti in qualche modo più o meno legittimo ai loro genitori e consegnati a chi ne fa domanda, dietro pagamento delle strutture che svolgono mediazione e (neppure sempre) a chi li ha generati; qui, viceversa, c’è un accordo di prestazione d’opera che è preliminare all’esistenza del bambino, il quale senza di esso neppure verrebbe al mondo; inoltre, il pagamento riguarda non un essere umano ma una prestazione d’opera, o fisico-biologica (questa neppure sempre, perché talvolta a titolo donativo), oppure legata alle strutture e alle competenze mediche alla riuscita del processo. Non tutto è limpidissimo, c’è sicuramente una qualche mercificazione del processo riproduttivo, ma la distanza da un mercato di esseri viventi è netta.

Il solo punto veramente critico riguarda la possibilità che a questo mercato qualcuno sia in qualche modo obbligato a partecipare, ovvero che vi sia di fatto uno sfruttamento della funzione del corpo femminile per la GPA, oppure di quelli maschili e femminili per la cessione dello sperma e degli ovuli [5]. Di questo ci occuperemo nel paragrafo successivo. Andando però oltre l’impressione prima facie, ci sono in realtà diverse altre ragioni per poter biasimare moralmente la trasformazione della generazione di un figlio in un “desiderio”, la cui soddisfazione passa attraverso non già un semplice e spontaneo uso del proprio corpo, bensì un sistema complesso, organizzato ed economicamente profittevole per una molteplicità di persone altre rispetto ai desideranti. Anche di questo diremo qualcosa più avanti. 

13247_n_petizione_utero_affitto_reato_universaleLo sfruttamento delle donne, del loro corpo e dell’esperienza esistenziale della procreazione 

Come appena accennato, il maggiore aspetto critico dell’esistenza di un “mercato dei figli” consiste nel rischio che esso produca lo sfruttamento delle donne, in particolare di quelle che mettano a disposizione il loro corpo per la GPA. Anche in questo caso è ipotizzabile che una buona regolamentazione della pratica possa azzerare, o quantomeno ridurre fortemente il rischio: si potrebbe per esempio vietare tassativamente ogni forma di pagamento per i prestatori d’opera “biologici”, limitando la pratica alla donazione, come avviene per il sangue o per gli organi, e consentendo la remunerazione solo di chi svolge il lavoro medico. Ciò renderebbe trasparente ed etico il mercato, al quale potrebbero rivolgersi tutti coloro che, pur desiderando avere dei figli, fossero impossibilitati a generarli in modo tradizionale, quali le coppie omosessuali o le eterosessuali affette da sterilità. E tuttavia, di nuovo, è assai dubbia la reale efficacia di un tal genere di normative: non è infatti facile assicurarsi né delle reali intenzioni di una persona, né della presenza di compensi sottobanco od offerti sotto forma di “favori”, né di sempre possibili minacce o violenze psicologiche che spingano donne fragili o indigenti a prestarsi anche contro la loro reale volontà. Tutto questo senza contare che non è chiaro neppure chi dovrebbe controllare.

Ma non basta, perché nessuna regolamentazione sarebbe comunque in grado di coprire l’aspetto più generale del problema, quello che va aldilà dello sfruttamento delle singole donne e concerne quello dell’immagine stessa della donna, un momento qualificante della quale è proprio il suo poter essere madre, che verrebbe irrimediabilmente depauperato dalla sua riduzione a merce di scambio [6]. La delicata questione è pertanto molto complessa e sorprende il modo assai poco approfondito in cui è stata affrontata da chi, favorevole alla GPA, ha cercato di contenerne la portata. 

Il diritto alla genitorialità 

Il “diritto alla genitorialità” delle coppie omosessuali è, come abbiamo accennato, al centro degli argomenti di chi è favorevole a omogenitorialità e GPA. Cerchiamo di comprendere di cosa si tratti. Ciascun essere umano ha la possibilità di generare dei figli e, di norma, è anche libero di farlo, previo il rispetto di una serie di condizioni senza le quali il processo generativo non può avvenire. Essendo per molti umani la generazione di figli e la loro crescita un momento fondamentale dell’esistenza, ha senz’altro senso ritenere un diritto poterlo fare. Pertanto – fatto salvo che, come ogni diritto, anche questo possa occasionalmente revocato in circostanze straordinarie che mettano a repentaglio altri e più importanti diritti degli individui e della collettività – in condizioni ordinarie il diritto di poter avere figli è giusto sia tutelato per tutte le categorie di cittadini.

Se però osserviamo quali siano le condizioni che l’individuo stesso deve osservare affinché il processo generativo possa avvenire, troviamo che tra esse c’è la scelta di un cooperante di sesso diverso con il quale iniziarlo biologicamente, con il coito, e portarlo avanti materialmente, con la gestazione, formando una famiglia che si prenda cura prima della gestante, poi del bambino fino al momento in cui diventi autonomo. Ma una tale scelta è per l’appunto rifiutata dai membri delle coppie omosessuali, in ragione del loro essere affettivamente attratte da persone del loro stesso sesso. Ciò significa, perciò, che non viene negato loro il diritto di essere genitori, bensì sono essi stessi a non voler intraprendere il processo che porta alla generazione. Infatti, fino a quando la scienza medica ha messo a punto le tecniche necessarie a effettuare riproduzione in vitro e GPA, le coppie omosessuali non rivendicavano affatto il diritto alla genitorialità, perché questa era semplicemente impossibile, se non attraverso una vera e propria compravendita di figli altrui, che fortunatamente nessuno ha però mai rivendicato.

La domanda è allora: se rifiutiamo di eseguire il processo che permette a tutti di ottenerla e pretendiamo di averla attraverso un processo tutto diverso, si ha ancora diritto a qualcosa che ci spetta? La risposta non è affatto scontata e richiede quantomeno che si valutino i rispettivi processi. Una cosa che nessuno sembra aver fatto nel dibattito pubblico in corso e che affronteremo adesso.

1409579050_gayLa genitorialità non è sempre un diritto

Iniziamo dal riassumere sinteticamente quanto già evidenziato. Dall’origine dell’uomo fino a poche decine di anni orsono c’era un solo modo per diventare genitori: avere un coito con un essere dell’altro sesso e con esso prendersi cura del processo biologico avviato da quel coito. È del resto per questo che esiste quella cellula della società che chiamiamo famiglia: perché senza un accordo che permetta ai due attori del coito anche la cooperazione nella cura sarebbe stata impossibile, in passato, la riproduzione della specie. L’astuzia dell’evoluzione ha invece favorito le tribù umane che hanno scelto l’accordo cooperativo che sta alla base della famiglia e, con il passare del tempo, ha anche originato una sovrastruttura simbolica ed emozionale grazie alla quale quella che materialmente è una mera impresa economica – oltre a un sostegno alla generazione la famiglia è anche il vettore per la trasmissione di beni di generazione in generazione – viene coronata e cementata da legami di tipo affettivo. E tuttavia né la cooperazione familiare economicamente finalizzata, né la sovrastruttura affettiva esisterebbero se non ve ne fosse stato il bisogno per supportare il processo biologico di generazione e crescita dei figli. Detto diversamente e in modo un po’ drastico: se i cuccioli di uomo avessero uno sviluppo più rapido o se la sola madre fosse stata fin dall’inizio capace di crescerli da sola, l’umanità non conoscerebbe né la coppia, né la famiglia, né l’amore romantico.

Da qualche decennio, tuttavia, almeno nei Paesi industrializzati ed economicamente avanzati, è diventato possibile sia crescere i figli senza il supporto di una famiglia, sia generarli senza bisogno del coito: grazie al benessere economico e ai servizi forniti dalla società, infatti, anche la cura di un singolo – sia esso uomo o donna – è quasi sempre sufficiente alla crescita dei figli, mentre le fecondazioni in vitro con sperma e/o ovuli di terzi e la gestazione in uteri messi a disposizione da donne consenzienti rendono possibile un processo generativo biologicamente separato, in parte o in toto, dai soggetti intenzionati ad avere i figli (genitori d’intenzione). Ed è appunto da quel momento che si inizia a rivendicare il diritto di avere figli anche seguendo un processo generativo fino ad allora impossibile.

Ma il desiderio, o l’intenzione, di avere dei figli è sufficiente per rivendicare un diritto ad averli, quando si scelga volontariamente di rigettare uno dei passi indispensabili del processo necessario a generarli? È sufficiente la messa a punto di un nuovo processo e la richiesta di renderne legittima la pratica? In questo caso, a nostro giudizio, no. Per molteplici ragioni.

pride-roma-2023-foto-veronica-altimariIn primo luogo, volere figli senza la cooperazione attiva e continuativa con un essere dell’altro sesso distorce il significato stesso del termine e del concetto di “genitore”, il quale come già osservato deriva dal verbo “generare” e riguarda propriamente l’aspetto biologico. “Genera” colui che, con il proprio materiale genetico e il supporto del proprio corpo, partecipa al processo biologico, ed è per questo che può essere definito “genitore”. Chi presta cura, dona affetto e contribuisce alla formazione “alleva” o “educa”, non “genera”. Chi lo fa non è meno importante del genitore biologico, anzi, ha senso ed è legittimo sostenere che sia anche più importante; ma resta comunque vero che, non generando, non è un genitore. Può restare aperto alla discussione se chi alleva, educa, dona affetto e cura possa essere considerato “padre” o “madre”; ma ciò implicherebbe a rigore, per le ragioni suddette, che il significato di “genitore” fosse scisso da questi termini, del resto già da tempo separati dalla genitorialità in molteplici campi [7]. Per ragioni oscure sta invece accadendo l’opposto, se è vero che, come abbiamo già osservato, la giurisprudenza è arrivata a definire anche chi con la generazione non ha niente a che fare “genitore d’intenzione” – una formula sorprendente e ai limiti dell’autocontraddizione, visto che la qualifica “d’intenzione” ha giustappunto il significato di negare che il denominato sia realmente un “genitore”, bensì qualcuno vorrebbe essere genitore, ma non può diventarlo.

In secondo luogo, volere figli assieme a un essere del proprio sesso impedisce alla coppia di realizzare il senso intrinseco dell’unione, che – a differenza delle coppie etero – non può essere quello della procreazione e della genitorialità. Com’è infatti noto, a prescindere dalla sovrastruttura romantica costruita attorno al gioco delle coppie, l’attrazione tra uomini e donne si basa su elementi concreti (bellezza, prestanza fisica, intelligenza, cultura, abilità pratiche, perfino status sociale ed economico) che originano sentimenti comunque riconducibili alla percezione che il partner sia un buon cooperante nella genitorialità. Questo dato, spesso respinto con sdegno dalla cultura di massa, è stato recentemente confermato da alcune scoperte scientifiche, quali il fatto – comprovato da test – che l’odore maschile preferito da una donna, così importante nella costruzione di una relazione amorosa, corrisponde, con percentuali prossime al cento per cento, a quello di un uomo con il codice genetico complementare. È innegabile che vi sia attrazione erotico-affettiva anche tra persone dello stesso sesso, ma essa non può evidentemente basarsi sugli stessi elementi di quella tra persone di sesso diverso; ricondurla, indirettamente e del tutto impropriamente, all’attrazione procreativa rende per la coppia difficile, se non impossibile, mettere a fuoco e valorizzare le specifiche e assolutamente uniche ragioni della loro unione – cosa che invece accade, per esempio, a quelle coppie eterosessuali che decidono biunivocamente di non avere figli e sono perciò obbligate a individuare il diverso senso che ha dato origine alla loro unione.

locandina_iniziativa_readyIn terzo luogo, come conseguenza dell’osservazione precedente, desiderare figli assieme a un essere del proprio sesso impedisce alle coppie omosessuali anche di svolgere un importante ruolo storico-culturale: quello di avanguardie del superamento della famiglia, organizzazione come già osservato oggi non più indispensabile (i figli possono essere cresciuti anche da singoli e, di fatto, passano spesso fin da piccolissimi più tempo in strutture sociali che in ambito familiare) e della quale non possono più essere ignorati i gravi difetti, che producono molteplici danni a carico non solo, come già osservato, degli individui, ma anche della collettività: anche lasciando da parte il “familismo amorale” e la corruzione nepotista, la priorità delle responsabilità nei confronti dei propri figli rispetto quelli altrui è di fatto immorale, in quanto viola il principio di universalizzazione, fondamento dell’etica. Se le coppie eterosessuali, imbrigliate dal loro progetto esistenziale entro una tradizione che trova origine nella costituzione genetica della specie, hanno comprensibili difficoltà a uscire dalle arcaiche e perigliose mura familiari, le coppie omosessuali, la cui attrattività affettiva non può che dipendere da altro, hanno ben più possibilità di guidare l’intera società verso una liberatoria rivoluzione culturale; il ripiegamento su un modello che non può esser loro proprio – e che infatti fino a solo quarant’anni fa, in piena lotta per i diritti degli omosessuali, non lo era nemmeno nelle loro coscienze – e che appare solo la risposta a un’esigenza di omologazione alle coppie “normali” [8], si configura come un ostacolo tanto alla piena assunzione di questo ruolo, quanto alla valorizzazione della loro specificità di coppia unita da motivazioni diverse da quelle procreative.

Del resto, la stessa attivazione di un processo che non preveda la piena e/o continuativa cooperazione di due e solo due soggetti di sesso diverso priva di senso il progetto genitoriale di coppia, semplicemente perché rende superflua la famiglia: se si ammette infatti che non ci sia bisogno del processo che lega in un rapporto di cooperazione genitoriale i due attori del coito, non si capisce perché il rapporto dovrebbe legare due soggetti che neppure sono attori della generazione biologica: si lasci che a crescere il figlio sia solo il genitore biologico, visto che ciò è oggi possibile, o addirittura si riconosca che i genitori e la famiglia, con tutti i loro difetti, sono istituti non più necessari e da superare, iniziando a sperimentare – con l’opportuna cautela e la giusta lentezza, perché il cambiamento delle tradizioni culturali richiede tempi lunghissimi – modi diversi, sociali e collettivi, per crescere i figli. Detto diversamente, se si vuol sciogliere la genitorialità biologica dalla crescita dei figli, che lo si faccia rendendo i bambini figli della collettività, liberandoli da quella dipendenza psicologica, affettiva e troppo spesso anche materiale che i genitori hanno sui figli [9].

Né, si noti, bastano l’intenzione o il desiderio a giustificare il riconoscimento di un progetto genitoriale di coppia che rifiuti il processo biologico coinvolgente entrambi i suoi attori; anzi, tutto al contrario, desiderio e intenzione possono persino ostare a tale riconoscimento, perché – come ben ci mostrano già le coppie eterosessuali – troppo spesso dietro di essi si celano interessi personali e narcisismo, che sarà proprio il bambino a pagare pesantemente sulla propria pelle.

Infine, desiderare di avere figli assieme a un essere dello stesso sesso implica la necessità di attivare un processo diverso da quello biologico a disposizione di tutti (inclusi coloro che rifiutano di esserne attori), cosa che ha rilevanti conseguenze economiche e sociali: il nuovo processo richiede infatti l’utilizzo di un sovrannumero di risorse rispetto al precedente. L’obiezione è certo contingente e non di principio, ma va tuttavia valutata attentamente, perché i mutamenti economici e sociali non possono che avere conseguenze sul godimento di altri diritti, a maggior ragione dal momento che le risorse necessarie al nuovo processo vengono sottratte a un settore particolarmente importante e delicato qual è quello medico, per giunta ovunque negli ultimi anni in crescente sofferenza. Un settore che dovrebbe garantire – se ancora fosse in grado di farlo – un diritto ancor più fondamentale di quello alla genitorialità, vale a dire il diritto alla salute. Perciò, anche a prescindere delle obiezioni precedenti, non sembra possibile riconoscere che sia un diritto realizzare qualcosa, che pure spetta, se per farlo si rifiuta una modalità disponibile e si pretende l’attivazione di una diversa modalità, la quale però mette a rischio un diritto ancor più fondamentale della collettività.

Alla luce di quanto abbiamo osservato, si può quindi concludere che la genitorialità è un diritto solo se nel corso della sua realizzazione si rispettano determinati doveri, tra i quali c’è quello di svolgere l’intero processo genitoriale assieme a una persona di sesso diverso. La libera scelta di saltare questo passo del processo fa decadere il diritto, anche nel caso che si cerchi di recuperarlo attraverso un processo diverso, che in questo caso però mette a rischio altri e più fondamentali diritti. Né questa conclusione vale ad hominem solo per il diritto alla genitorialità per le coppie omosessuali: il diritto di voto è inviolabile, ma lo si perde se, per esempio, si pretende di votare un giorno in cui i seggi sono chiusi, o di farlo senza che al seggio ci siano altri elettori; si ha il diritto di realizzare la propria vita svolgendo il lavoro che si preferisce, ma per goderne si ha anche il dovere di rispettare alcune regole della collettività, ragione per cui si perde il diritto di fare il medico se non si ottempera il dovere di prendere la laurea in medicina.

Possibili obiezioni

Riguardo alle considerazioni fatte sopra a proposito dell’inopportunità della GPA, è stato obiettato che una tale pratica ha il merito di candidarsi a terapia per una malattia, l’infertilità, che affligge un numero significativo di coppie eterosessuali, unitesi con il preciso progetto di essere genitori, e causante loro gravi sofferenze psicologiche. È per esempio quel che ha sostenuto nel maggio del 2023, cioè nel pieno del dibattito, il medico e Senatore del Partito Democratico Andrea Crisanti [10].

Su tale questione credo la discussione debba rimanere aperta, a condizione però che – specie alla luce di quanto detto sopra – tale apertura sia davvero radicale: stanti i limiti intrinseci del modello familiare e il suo superamento dal punto di vista materiale, le obiezioni avanzate verso le coppie omosessuali non possono infatti non essere fatte valere anche per quelle etero. Appurata l’impossibilità di generare ed effettuate tutte le terapie biologiche per curarla, andrebbe seriamente indagato se per la coppia sterile non sia possibile realizzare in altro modo l’unione e, in caso negativo, capire bene il perché. Nel caso sia impossibile trovare tali alternative esistenziali, o queste destabilizzino un legame nato sotto altri auspici, andrebbe esplorata la possibilità di realizzare il progetto genitoriale tramite un’adozione – un eventuale rifiuto della quale aprirebbe preoccupanti interrogativi circa le motivazioni profonde dell’intenzione genitoriale.

photo-2023-05-11-11-36-16-2Nel caso poi che tutte queste strade risultassero impossibili, ci si dovrebbe interrogare sulla possibilità di risolvere la conseguente sofferenza psicologica in altro modo, visto che l’intreccio di simbolico ed emotivo a cui essa rimanda non è certo qualcosa di monolitico. Infine, se come ultima ratio si volesse ricorrere alla GPA come “cura” di una “patologia”, lo si faccia pure; ma è evidente che l’eventuale passaggio al suo impiego per le coppie omosessuali sarebbe a questo punto possibile solo a una ben precisa condizione: che esse assumessero il medesimo status di coppie malate. Solo in quel caso, infatti, esse potrebbero pretendere lo stesso trattamento delle coppie eterosessuali sterili; solo in quel caso avrebbe senso l’impiego di strutture sanitarie per soddisfare un loro desiderio; solo in quel caso riceverebbero risposta alcuni degli interrogativi sopra sollevati – per esempio quelli relativi alle ragioni dell’attrazione erotico-affettiva e al senso progettuale della coppia, risolvibili assegnando la responsabilità a una distorsione percettiva causata appunto dalla patologia.

Voglio essere ben chiaro: io sono totalmente contrario a questa opzione. Non ritengo, né ho mai ritenuto, l’omosessualità una patologia; penso che considerare la (reale) sterilità delle coppie omosessuali un handicap o una malattia costituisca un grave passo indietro nel riconoscimento della loro piena dignità, oltretutto pericolosissimo perché potenzialmente foriero di numerose altre discriminazioni nei loro confronti; infine, credo che – fortunatamente – nessun omosessuale sarebbe mai disposto ad accettare uno stigma del genere in cambio dell’accesso alla GPA. Ciò che volevo mostrare con la mia argomentazione è solo che, anche nel caso in cui la GPA fosse autorizzata come opzione terapeutica per le coppie etorosessuali affette da sterilità, essa non potrebbe in alcun modo diventare praticabile da quelle omosessuali, le quali, per quanto sterili, non lo sono a seguito di una patologia, bensì di una scelta, di una preferenza. Una coppia omosessuale non solo conosce fin dall’inizio la propria sterilità, ma è anche mossa da attrazioni e spinte non riconducibili alla procreazione. È dovere della coppia, verso la società e verso se stessa, assumersi la responsabilità della propria scelta e realizzare la specificità del proprio legame, piuttosto che cercare di emulare le coppie eterosessuali con l’aiuto della tecnica e attraverso perniciosi percorsi alternativi.

Riguardo invece le criticità sopra osservate concernenti il “mercato” sorto a seguito della richiesta di GPA e il suo impatto nefasto sulle risorse del sistema sanitario, stupisce francamente il silenzio dei partiti e dei movimenti che difendono gli interessi delle classi meno abbienti, ancor più se si considera il plateale dato che, a oggi, solo coppie decisamente benestanti possono accedere al processo generativo che passa per quella pratica. Da questo punto di vista, sono esemplari i già citati interventi del filosofo Gianfranco Pellegrino comparsi sul quotidiano “Domani” [11], tutti tesi a ridurre le critiche alla GPA e alla registrazione dei figli omogenitoriali a posizioni ideologiche omofobe, confessionali e tradizionaliste riguardo al modello di famiglia. Nel cercare di dimostrare questa tesi, a partire dall’indiscussa assunzione del diritto alla genitorialità delle coppie omosessuali [12], Pellegrino costruisce argomentazioni talvolta di discutibile coerenza logica, talaltra sorprendentemente ingenue e persino un po’ inquietanti, come nel caso dell’articolo del 21 marzo 2023, significativamente intitolato L’accanimento della destra contro la maternità surrogata è solo ideologia omofobica. Qui l’autore elenca alcune argomentazioni contro la GPA, criticandole a sua volta, ma di fatto limitandosi a riconoscere la consistenza di alcune di esse per poi distrarre il discorso contrapponendo loro altri problemi, senza in alcun modo indicare come porre rimedio alla loro criticità.

Così, se «è certo che i bambini non si debbano vendere», «questo dovrebbe valere anche per i bambini che non provengono da gestazione per altri. Chi usa queste argomentazioni dovrebbe essere contro il lavoro minorile nei vari Paesi dove esso avviene», cosa che non riduce minimamente il problema del mercato nato con la GPA; «che i bambini abbiano diritto a conoscere la propria origine è ovvio», «meno ovvio è (…) che l’origine si riduca alla mera biologia», cosa che tuttavia non risolve la frequente negazione del diritto dei bambini nati per GPA di conoscere i loro genitori biologici; «nessuno può negare che è possibile che in alcuni casi la gestazione per altri sia un modo per sfruttare donne in precarie condizioni economiche», ma «se lottiamo contro lo sfruttamento in questo caso, dovremmo farlo in molti altri casi» e «non è detto che la destra lo preveda o accetti», anche se francamente cosa pensi di fare la destra negli altri casi non toglie che si sia un problema di possibile sfruttamento nella GPA.

Un’opera retorica diversiva, a fini propagandistici, che prende il posto di un argomentare rigoroso che almeno provi a indicare come contrastare le pur riconosciute criticità. Una mera battaglia ideologica contro l’omofobia e il tradizionalismo, da contrapporre all’ideologia dell’altra parte. Vera o presunta, oltretutto, poiché, come abbiamo visto, omofobia, conservatorismo e confessionalismo non sono necessariamente coinvolti nelle critiche all’omogenitorialità e alla GPA.

lo-studio-della-popolazione-lgbt-in-italia-e-nel-mondoConclusioni

Un tema di questa portata, così complesso e ramificato, non può certo essere trattato in poche pagine e meriterebbe ben altri approfondimenti di quelli fatti in quest’intervento. La cui finalità, comunque, era solo rompere la staticità di un fronte dibattimentale binario e mostrare come una ponderata e radicale critica alla GPA, all’omogenitorialità e a molte delle pratiche che sono con esse coinvolte possa essere sviluppata a partire da posizioni non omofobiche e critiche della famiglia tradizionale o “naturale”. La pur incompleta riflessione qui sviluppata, infatti, è sufficiente per affermare che il divieto della GPA e della registrazione all’anagrafe come figli dei “genitori d’intenzione” dei bambini da essa nati non nega il diritto alla genitorialità agli omosessuali – che possono comunque diventare genitori attraverso il processo da sempre disponibile, con la piena e continuativa cooperazione di un solo soggetto dell’altro sesso – e non ha le sue ragioni né nell’omofobia, né nel tradizionalismo della famiglia: nel primo caso, perché le ragioni del divieto includono il rispetto e la valorizzazione delle ragioni per cui due persone dello stesso sesso sentano il desiderio di unirsi in una coppia; nel secondo, perché esse includono una ponderata e radicale critica alla famiglia tradizionale, che invitano a superare anche con l’aiuto delle stesse coppie omosessuali. 

Siamo consapevoli del fatto che, con ogni probabilità, questo contributo striderà alle orecchie dei rappresentanti di entrambe le parti e avrà perciò ben pochi estimatori; quel che ciononostante ci auspichiamo è che l’atipicità degli argomenti addotti possa riuscire a cambiare qualcosa nel modo in cui il dibattito è stato finora condotto, offrendo opportunità argomentative per tornare a essere un autentico dialogo, per quanto critico e conflittuale, piuttosto che un mero scambio di urla tra sordi. 

Dialoghi Mediterranei, n. 65, gennaio 2024 
Note
[1] Cfr. Neri Pollastri, Etica universale e globalizzazione: un progetto Unesco, “Il Ponte”, LIV, 4, 1998: 151-156.
[2] Vedi in proposito quanto osserviamo più avanti riguardo l’articolo di Gianfranco Pellegrino L’accanimento della destra contro la maternità surrogata è solo ideologia omofobica, comparso sul quaotidiano “Domani” il 21 marzo 2023.
[3] Cfr. Gianfranco Pellegrino, La posizione materialista della ministra Roccella con i figli di coppie omosessuali, in “Domani”, 16 marzo 2023. Si noti che qui Pellegrino mostra sì che la conoscenza dell’origine biologica è solo parte dell’identità e della storia di un individuo, ma non dice niente riguardo né al danno che può arrecare il non poterla avere, né alle modalità per evitare che ciò avvenga.
[4] Una cosa, questa, che peraltro getterebbe anche delle ombre sulla qualità della loro “intenzione”.
[5] È singolare e meriterebbe una riflessione il fatto che questo tipo di sfruttamento sia menzionato assai raramente
[6] È interessante osservare come questa cosa sia stata sottolineata criticamente da alcune femministe in una lettera alla segretaria del PD Elly Schein ma che uno dei più accesi difensori della GPA, il già citato Pellegrino, sostenga di non riuscire neppure a capire dove stia il problema. Probabilmente perché è un uomo, preoccupato solo dai risvolti maschili ed omosessuali della questione. Cfr. Gianfranco Pellegrino, Il rischio di umiliare paternità e genitorialità intenzionale, “Domani”, 20 aprile 2023.
[7] In realtà questa scissione vale più nel caso del termine maschile che di quello femminile: viene detto “padre” l’ecclesiastico, l’autorità della corrente spirituale (anche laica), il fondatore di una specialità; per “madre” quest’uso è più limitato, anche se certo include quello della responsabile nelle comunità religiose.
[8] Si utilizza qui il termine in senso statistico, e perciò descrittivo, non in quello normativo, e perciò valutativo.
[9] Riguardo all’ultimo aspetto, basti pensare alla deleteria invadenza che i genitori hanno oggi nella scuola, ove pretendono di decidere quale educazione e persino quale cultura debba essere impartita ai loro figli, quasi fossero loro proprietà e non avessero il diritto di essere messi in condizione di scegliere liberamente che tipo di persone diventare.
[10] Cfr. Andrea Crisanti, L’infertilità è una malattia e la surrogata è la cura, “Domani”, 25 maggio 2023.
[11] Non avendo qui lo spazio per analizzarli tutti in dettaglio, indichiamo le date delle loro uscite: 16 febbraio, 16 marzo, 21 marzo, 20 aprile, 23 giugno, 21 luglio, tutti del 2023.
[12] Indiscussa nel senso che Pellegrino dà il diritto semplicemente per buono, come se non esistesse alcuna obiezione nei suoi confronti.

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Neri Pollastri, filosofo, è nato, vive e lavora a Firenze. Dal 2000, primo in Italia, svolge la professione di consulente filosofico, privatamente e in strutture pubbliche. Sulla materia ha pubblicato tre libri e una cinquantina di articoli, l’ha insegnata in diverse Università ed è stato relatore in convegni italiani e internazionali. Si è occupato attivamente anche del pensiero di G.W.F. Hegel, sul quale ha pubblicato un libro, di filosofia della scienza, filosofia politica e di estetica musicale. Scrive sul blog Filosopolis (filosopolis.wordpress.com), il suo sito Internet è www.neripollastri.it, quello del suo istituto di ricerca e formazione www.istitutodiconsulenzafilosofica.it.

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