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L’umorismo di Carlo Bini

                                                        di  Lorenzo Greco

copertina Ormai da decenni si attendeva la pubblicazione delle opere di Carlo Bini. Per iniziativa di un manipolo di docenti livornesi che all’impresa filologicamente ardua si sono dedicati a lungo, finalmente giungono alle stampe col sostegno della Fondazione cittadina tre volumi ben curati ed esaurienti, con un saggio introduttivo molto ampio di Mario Baglini. Carlo Bini (1806-1842) ha ricevuto dalla critica letteraria forse meno di quel che meritava, con qualche eccezione di peso: è citato per esempio nelle pagine del saggio sull’Umorismo di Luigi Pirandello e nell’articolo Carlo Bini: un dimenticato di Federigo Tozzi, dove Bini viene ricordato soprattutto come letterato, esempio di umorista e scrittore sperimentale. Proprio su questi aspetti centra oggi la sua attenzione Laura Diafani in un saggio Carlo Bini, Una poetica dell’umorismo (Società Editrice Fiorentina 2015), in cui la studiosa non trascura di sottolineare il ruolo di arringatore di Bini nella sua Livorno, intorno agli anni trenta dell’Ottocento, capace di parlare come nessun altro al «rozzo popolo» labronico tra i caffè e le bettole del porto, ai giovani e miseri navicellai fra i quali diffondeva con slancio il verbo mazziniano.

Nel ritratto dedicato allo scrittore livornese morto troppo giovane,  si evidenzia come la posizione intellettuale ed etica di Bini non fosse riconducibile del tutto alle istanze politiche e patriottiche dei democratici, piuttosto disincantata circa le capacità di riscossa storica del popolo italiano (e lo affermava da Livorno, una delle città in quei decenni più accese di fervore politico). La sua era soprattutto una acuta sensibilità sociale che presenta aspetti ignoti agli altri suoi pur generosi compagni di strada: se poi consideriamo quanto le sue pagine siano dettate da una diretta esperienza esistenziale, possiamo parlare di Bini come di  un memorialista umoristico e di un intellettuale civile che per di più scelse di non scrivere, e quando ha scritto non ha pubblicato. Bini è dunque da considerare un intellettuale pienamente espressione dell’epoca romantica, un letterato traduttore dei più romantici tra i romantici stranieri (Byron, lo Schiller della Maria Stuarda), ma di più fu uno scrittore che in letteratura faceva prevalere la sua spesso corrosiva vena umorista mentre rinunciava a fare il titano (di esempi ben diversi ce n’erano anche vicino a lui, come il Guerrazzi).

Nel Forte della Stella, una delle due operette scritte in carcere, si legge una disputa fra il personaggio Bini e un interlocutore che lo visita in cella. Una prima parte della breve pièce risulta un confronto dialettico un po’ risaputo, ma nell’insieme non mancano accenti sorprendenti. Sembra di sentir parlare un illuminista nel senso più interessante del termine. Si ostenta insieme la spregiudicatezza morale con cui l’autore parla di comportamenti dettati dalla ricerca del piacere e come tali rivendicati, e l’esigenza di affermare la libertà piena dell’individuo, ma anche – ed è questa la firma davvero moderna e non trascurabile – l’esaltazione della dignità e libertà della donna. Scrive: «Poche n’ho desiderate per amore, tutte per piacere. Poi non m’inquieto a informarmi se la donna sia sciolta o legata, se appartenga a Tizio o a Sempronio. È un pensiero che io lascio volentieri a Tizio o a Sempronio».  E naturalmente l’interlocutore di Carlo che lo interroga in carcere gli dice: «mandate un odor di zolfo, che fa morire. L’Inferno l’avete accanto…. Buon per voi che l’Inquisizione ha consumato tutte le sue fascine!».

Non mi ha davvero stupito ritrovare fra gli studiosi novecenteschi di Bini, con cui la sintonia è innegabile, uno scrittore piemontese della prima metà del Novecento, Arrigo Cajumi, fine letterato e francesista molto competente, che si esprimeva in molti luoghi con accenti non dissimili da vero libertino illuminista. Al tempo stesso è esplicitato il ben più ampio risvolto politico di questa spregiudicatezza e indipendenza ideologica dalle convenzioni e dai valori, non solo del perbenismo e del bigottismo, ma proprio di una intera cultura. Scrive infatti Bini: «io sono stato sempre nemico giurato di tutte le Accademie letterarie, religiose, politiche e di qualunque specie vogliate, perché non ci credo. Io sono convinto nel mio interno che un’Accademia qualunque, il meglio che possa essere sia una cosa ridicola, e il peggio una cosa inutile; e che non sia in istato di fare altra rivoluzione, fuorché facendo una capriola».

bini 1Quanto al suo umorismo, a cui la studiosa fa riferimento già nel titolo del volume, nell’altra opera il Manoscritto di un prigioniero c’è un elogio di Sancio Pansa: «Sancio Pansa è il buon umore incarnato, grazioso nei suoi sali, grazioso nelle sue balordaggini, grazioso a piedi, grazioso sull’asino. Sancio Pansa ha ormai la sua nicchia nella storia, e vi sta saldo, inchiodato, imperterrito  – potete scuotere a vostra posta, Sancio Pansa non si muove, non crolla. Egli e il suo asino occupano pacificamente tante miglia quadrate di fama, quanto il primo conquistatore di prima classe: citate pure Alessandro, citate Cesare o Buonaparte. Eterne grazie a Cervantes che me lo diede a conoscere! Io l’ho benedetto le mille volte Sancio Pansa, perché mi ha fatto del bene».

C’è nell’umorismo di Bini una vena per quanto minima che forse possiamo definire anche surreale o fantastica. Parlando dei poveri, con una sensibilità sociale, che davvero è importante nel suo profilo umano, dice:

 «Dalle vostre soffitte Voi vedete le stelle, chi non fosse povero bestemmierebbe,  penserebbe al freddo,  alla guazza, alla pioggia, al malore che gliene potrebbe incogliere. E voi pensate invece che quegli astri scintillanti un dì saranno casa vostra, che passerete dall’uno all’altro a vostro talento, che avrete tutti i giorni domenica, che le anime vostre potranno svoltolarsi a bell’agio sull’azzurro molle del firmamento come sopra un tappeto. Così sognate ad occhi aperti, e non sentite la durezza del letto, e l’inclemenza dell’aria. La speranza pietosa di tanti bisogni, di tanti dolori, coll’ambrosia del suo alito v’inebria, vi affascina il cuore, colle sue divine melodie vi culla i sensi in una calma profonda. O poveri! Voi siete ricchi di pazienza, e Dio, se non sa darvi di meglio, vi mantenga perenne quel dono. Che se un giorno la perdeste, se rompeste le dighe che al presente vi contengono, qual sarebbe allora la faccia del mondo? La gerarchia sociale resisterebbe al fiotto dei vostri milioni? La piramide starebbe, quando si sommuovesse la base? Cosa sarà la superficie di questo suolo, quando il vulcano l’avrà lambita colle sue mille lingue di fuoco?».

È una invettiva di forte indignazione contro gli oppressori dei poveri, in sintonia con la vita degli emarginati espressa in toni peculiari. E altrove ci sono altri argomenti che rasentano il surreale, con quanto anche  di orrido e di grottesco si possa evocare,  pur di raffigurare con energia polemica la condizione dei più miseri e derelitti della società.

Se non surreale, fantastica è certo l’idea di poter avere i poteri del diavolo zoppo (invenzione letteraria primo settecentesca di Lesage) di scoperchiare i tetti delle case per poter vedervi dentro. Quanto alla sua esperienza di carcerato così descrive la vita quotidiana dei ricchi coi loro privilegi anche in regime di detenzione: dallo champagne alla lettura dei vari giornali e poi il bicchiere di porto, il rum Giamaica  e poi il caffè Moka. E anche la comodità del letto e del sonno e anche le lettere che il carcerato benestante può  scrivere all’esterno per perorare la sua liberazione.

Letterariamente si impastano insieme il saggio di moralità e l’autobiografia, e l’Autore non teme di parlare direttamente di sè e della propria personale detenzione. Si racconta come i primi giorni che l’uomo passa in prigione, stano per l’anima sua giorni nebbiosi: l’anima non ha ancora fatto l’occhio a quel clima; vede confusamente, talvolta non vede gli oggetti, talvolta li vede doppi;  il suo palato non ha sapore; un ronzìo continuo gli alberga le orecchie; lo spirito giace stordito, e non sa pensare; e il cuore sente di star sotto a un fascio enorme di sensazioni, ma non sa darne ragione. Se la mente non gli crolla, è una prova soddisfacente della sua buona tempra.

Se, come in altri luoghi fa Laura Diafani, posso fare anche io un salto di oltre cento anni, dopo la metà del Novecento le stesse tematiche le ha fatte conoscere un altro scrittore livornese Silvano Ceccarini (che però di carcere per altro anche egli all’Isola d’Elba per sfortuna sua e anche per ben altri motivi, certo non politici, ne fece infinitamente di più di Carlo).

Silvano Ceccherini

Silvano Ceccherini

Manoscritto di un prigioniero, pur toccando argomenti in parte comuni col dialogo Il Forte della Stella, presenta una maggiore complessità di composizione. Non si possono escludere infatti cospicue reminiscenze letterarie (Sterne e il Foscolo didimeo), che non sono però sovrapposte all’intimo sentire del Bini; al contrario egli, avvertendo sintonia con l’autobiografismo, lo psicologismo e il frammentarismo dello stile e del discorso dei due autori, li assume come suoi. Il sentimentalismo di Sterne però diventa spesso nel Bini un sentire appassionato e doloroso, profondamente vissuto, sia pure controllato dall’ironia sempre desta.

Il Manoscritto che è composto di ventidue capitoli presenta una paginetta di chiusura, dedicata a un commosso ritratto della madre. Questo segue ripensamenti personali sulle considerazioni più dibattute nell’ultima intensa e incalzante parte dell’opera: che cosa sia la verità e come la si raggiunga, sulla religione naturale e su quella rivelata, sull’anima e il corpo, l’egoismo, il diritto al suicidio il tema della noia. Ma queste riflessioni in genere sono in definitiva collegate tutte allo spunto sociale, che rimane essenziale. Da esso traggono ispirazione gli iniziali e riusciti capitoli sul ricco e il povero in prigione; le considerazioni sulla rivoluzione, come opera di popolo, compiuta dalla classe sociale apparentemente più debole; la constatazione del privilegio morale e politico; queste sono le argomentazioni dell’ultimo capitolo, una ventina di pagine in cui il Bini compie una disamina attenta e realistica delle condizioni in cui si trova la società e prospetta la possibilità di miglioramento. «La società presente è falsa, ingiusta, putrida in ogni sua fibra… La luce è penetrata nelle forre più chiuse e ha rivelato le molle più intime di questa macchina… La scienza è lo spirito vivificante delle moderne opinioni e sembra che voglia assidersi regina dell’avvenire». E perfino si toccano tematiche premarxiste: «Nella società di oggi vi è troppo ristagno di potere e di ricchezza»; unica soluzione sarà il combattimento «inevitabile e finale» dei diseredati contro gli usurpatori.

Una prospettiva di questo genere lascia facilmente trapelare la conoscenza degli scrittori socialisti, principalmente di Saint-Simon, e fra gli illuministi almeno di Rousseau, per i continui richiami alla bontà della natura. Appare evidente anche la fiducia nutrita dal Bini in un miglioramento che è già possibile constatare, pur attraverso gli «ingombri» che si oppongono: l’uomo sarà vicino ad essere felice quando «giungeremo ad uno stato di tolleranza universale» che sembra essere solo un momento di passaggio, prima di ritrovare nell’anima la «luce di cui rivestire la natura umana».

L’ideologia di Carlo Bini all’altezza del 1833,  tempo del Manoscritto, scavalcata la fase romantica e mazziniana degli anni dell’Indicatore livornese, si differenzia  come si può intuire dall’ambito sociologico in cui si muove la letteratura primo-ottocentesca. Negli anni Trenta dell’Ottocento i suoi lettori ideali, i lettori ambiti di riferimento, nemmeno sanno leggere, e tra quelli che sanno leggere non ci sono interlocutori possibili. La storia che Bini ha da scrivere nessuno la vuole o nessuno la può leggere. Questa storia e la letteratura non potevano incontrarsi e non si sono incontrate, almeno per un  altro centinaio di anni, forse fino al romanzo di fabbrica, alla narrativa industriale di pieno Novecento. Un anticipo niente male, per un cosiddetto minore dell’Ottocento che viveva in una provincia (ma quanto aperta al mondo alle sue culture e alle sue lingue!) come Livorno. Anche questa osservazione è dell’autrice che dunque non solo all’umorismo del letterato ha dedicato riflessioni acute ma che della sensibilità sociale ed etica di Carlo Bini pure ha fatto un ritratto convincente.

Dialoghi Mediterranei, n.18, marzo 2016

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 Lorenzo Greco, ha insegnato presso la Facoltà di Lettere di Pisa dal 1975 al 2003, occupandosi di teoria e critica letteraria e di sociologia della comunicazione. È stato docente presso l’Accademia navale di Livorno. Ha collaborato con quotidiani come “Il Giorno”, “Italia oggi”, “La Repubblica”. È autore di saggi critici su Montale, Caproni e altri scrittori del Novecento e ha pubblicato numerose opere di poesia e narrativa. Il suo  romanzo Il confessore di Cavour è entrato nel 2011 nella rosa dei finalisti del Premio Strega.

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