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Memoria e aree interne

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di Pietro Clemente 

Un lutto, un racconto di famiglia

Ancora una volta il mio editoriale e la rubrica Il centro in periferia, si aprono con un necrologio. Il ricordo appare più lontano per Claudine De France e per l’eredità della sua ‘antropologia filmica’ rispetto alla contiguità e la rilevanza di guida che aveva Alberto Magnaghi negli studi territorialisti sulle aree interne d’Italia ma anche d’Europa. Ma è facile ugualmente trovare il nesso che connette Claudine de France al Centro in periferia. In tutti i ricordi, suscitati da Silvia Paggi che ne fu allieva, la antropologa regista francese viene connessa con un nucleo elementare dello sguardo antropologico: documentare azioni umane semplici con strumenti tecnologici usati in modo coerente. È anche uno dei nodi centrali del tema del riabitare le zone interne: usare le tecnologie in modo adeguato a contesti in cui esse devono adattarsi a una dimensione ambientale primaria.

Ma c’è ancora di più, nel racconto limpido elementare e densissimo che la De France fa in queste pagine della sua prima ricerca su un cestaio dello Châtillonnais, sono in evidenza i gesti primari delle azioni tecniche, gesti che anche oggi a distanza di tanto tempo ricordano la base del lavoro umano, quel rapporto abile con il mondo naturale che non lo altera ma lo usa adeguatamente, rapporto che resta il modello del riabitare i mondi abbandonati. Claudine mette in scena la centralità del saper fare con le mani. E questa resta alla base sia dei ritorni che delle restanze che delle tecnologie. Nella storia di Claudine de France c’è anche la centralità della adeguatezza tra l’atto del filmare e l’azione di chi compie i gesti che sono filmati. 

81x-tyvmpl-_ac_uf10001000_ql80_Ricordare dei maestri porta sempre sorprese, nel nesso tra Claudine de France e André Leroi-Gourhan, che Silvia Paggi ci ricorda, emerge un altro nesso che ci connette tutti e quattro (Silvia Paggi, Riccardo Putti, Felice Tiragallo e me) che è quello tra Alberto Cirese e la cultura materiale in buona parte legato al pensiero di Leroi Gourhan. Le estetiche funzionali che Cirese metteva a fondamento dell’arte stanno tra il cestaio di Claudine, il mondo artigiano cui appartiene in gran parte l’artigianato di montagna e di campagna, e le riflessioni di Leroi Gourhan. Negli anni ’70 l’Università di Siena fu luogo di dialoghi su questi temi, oggi legati anche ai ‘saperi pratici’ dei riconoscimenti Unesco per il Patrimonio Immateriale. Paggi, Putti e Tiragallo li hanno anche nella memoria di alcuni loro film antropologici.

A Siena venne nei primi anni ’80 Claudine de France, su nostro invito, dalla sua lezione mi parve si configurasse una sorta di antropologia francescana, un cinema antropologico senza spettacolarità, sul dialogo stretto tra i partner dell’incontro etnografico. La parola ‘francescano’ mi capita di usarla ancora. Forse anche per alcuni caratteri della museografia etnografica DEA. O anche più in generale per una etnografia collaborativa, semplice, che non ruba ma condivide, che non sa e quindi socraticamente impara.

Ma c’è un’altra coincidenza in questi racconti di memoria: ed è che Claudine ricorda che fu Claude Lévi Strauss, indirettamente, a commissionarle la ricerca sul cestaio, che lo aveva colpito osservandolo nel paese in cui lo stesso antropologo francese aveva una ‘seconda casa’. Quindi anche Lévi Strauss viene chiamato in causa. Lèvi Strauss fa parte del sistema di dialettica antropologica in cui la mia generazione è cresciuta. Lèvi Strauss che Alberto Cirese, dopo averne assunto l’approccio strutturale e formale, criticò per difetto di ‘logica’ e che De Martino dal capezzale di morte disse a Cesare Cases: “bisogna distruggerlo”, perché lo vedeva come l’esponente di un irrazionalismo conservatore. C’è un’aria di famiglia tra tutte le persone che ho nominato fin qui.

cover-4Un CIP un po’ particolare

Non so se è venuto fuori un Centro in Periferia (CIP) n.64 natalizio, per temi e struttura. Lévi Strauss appena chiamato in causa ha scritto uno straordinario saggio degli anni ’50 su Babbo Natale giustiziato (pubblicato insieme ad altri scritti da Sellerio, Palermo, 1995, ed. or. 1952). In esso l’autore lega il Natale al rapporto tra morti, anziani e bambini. Sono temi del ciclo invernale del folklore europeo. Il dialogo con e tra Leroi Gourhan, Cirese e Lévi Strauss, che ho appena evocato, ha i tratti di un dialogo coi morti, coi nostri morti, per fare i conti con la loro presenza dentro di noi. Ed è questo anche il senso oggi del salutare e interrogarsi su Claudine De France. Ma nello spirito della ‘strenna’ aggiungo anche una connessione che ci offre l’articolo di Fabrizio Ferreri (Rigenerare lo sguardo, ricostruire comunità: il Festival di Poesia a San Mauro Castelverde), perché il dialogo con i morti è una parte del mondo della poesia. L’emblema per me è da sempre Ungaretti: «ma nel mio cuore nessuna croce manca».

Sento che la dimensione del ciclo dell’anno invernale, della incubazione di esperienze e di pensieri di raccordo tra morti e viventi, abbia anche a che fare con il ‘riabitare l’Italia’. Avere storie di riferimento, memorie vive, è una risorsa per chi ripercorre all’inverso la strada dell’abbandono, per i singoli come per i musei, per le comunità che guardano al futuro. La poesia non crea sviluppo locale ma può essere anticipazione di mondi ancora invisibili. Mi è capitato da poco di rileggere uno scritto di Umberto Eco del 1966 [1]:

«L’arte tenta sempre di dire quello che non so ancora…assalendomi con qualcosa che non mi attendevo, con un ‘taglio’. Una prospettiva ‘strana’ capace di mostrami le cose in luce nuova…».

Nella mia storia intellettuale la poesia ha avuto questa funzione. E mi pare interessante connetterla con l’idea di tornare ad abitare i paesi abbandonati, non tanto come iniziativa che porta turisti, ma come mondo artistico capace di immaginare civiltà, sguardi inediti sulla vita quotidiana, sul senso stesso di essa. Quando Mariangela Gualtieri scrive nella poesia Ringraziare desidero i due versi

(ringraziare desidero)
I nostri morti
Che fanno della morte un luogo abitato.

è come se connettesse le nostre storie a quelle di nostri antenati, ridesse senso ai nostri cimiteri e alle nostre domande ‘dove sarò sepolto’? Gualtieri parla di tutti noi, di una società che ha perso i grandi nessi genealogici e forse anche il senso della morte, ed indica la ricchezza di qual senso in poche parole, un po’ come la ‘sorella nostra morte corporale’ di Francesco di Assisi. In fondo anche Lévi Strauss, Leroi Gourhan, Alberto Cirese, Alberto Magnaghi, e ora anche Claudine De France fanno della morte un paese abitato, dentro e fuori di noi. Fanno di noi parte di una storia comune. Li presenteremo un giorno in una immaginazione di mondi ulteriori ai nostri genitori e nonni. Pensieri da notte di Natale o da ultime ore dell’anno. Così in una intervista dice lo scrittore Ben Laener, in una pagina de La lettura del 26.11.23:

«Parte del potere della poesia sta non in ciò che si può ottenere, ma nel modo in cui può descrivere il desiderio di qualcosa che non può essere ancora attualizzato E in quella soglia tra poesia e prosa, tra due mondi, per un attimo senti che un altro mondo è possibile. La poesia non è una tecnologia per realizzare quel mondo, ma ti fa sentire che il mondo, il linguaggio, le relazioni potrebbero essere un pochino diversi».

Ecoterritorialismo

Con questo titolo caro a Magnaghi connetto altri tre contributi al CIP 64 che hanno al centro la biodiversità, la natura, l’energia, lo sviluppo locale (Bindi-Buonvino-Mancini, e poi Tucci, e Cossu). Sono tre testi che rappresentano il cuore de Il centro in periferia con i tratti sia di battaglia culturale e sociale, sia di diffusione di modelli di ‘nuova vita’.

«Non dobbiamo dimenticare che le comunità locali, rurali e montane, hanno elaborato diversi sistemi di relazione con le comunità animali e vegetali che le circondano, spazi di condivisione e di prossimità, suggerendo il superamento di un’idea di abitare centrata sull’Antropocene, in una chiave di maggiore inclusività e rispetto, nell’ottica di una coesistenza interspecifica. Una risignificazione cosiffatta dei territori stimola le popolazioni e gli artisti locali, proponendo nuove sfide, orientando gradualmente i gruppi verso modalità più rispettose e sostenibili di vivere e di appropriarsi degli spazi comuni per l’espressione e la costruzione di comunità».

bindi_immagine-cover-1-1Anche in questo testo (Bindi-Buonvino-Mancini La biodiversità come lavoro culturale. Innovazione sociale e progettazione creativa a Castel del Giudice) c’è uno spazio per gli artisti. E c’è il tema della rigenerazione del territorio legata alla critica di uno sviluppo che lo depreda e impoverisce.

Nel testo di Roberta Tucci (“Nel verde incanto”: un film dentro i roccoli e le bressane del Friuli), torna in scena uno dei più significativi ecomusei italiani, quello delle Acque di Gemona (anche in un numero precedente di Dialoghi Mediterranei, n. 60, marzo 2023, su La carta dei principi delle latterie turnarie):

«Nella proiezione del film al Centro polifunzionale di Montenars, affollatissima e applauditissima, nei volti emozionati delle persone che vi hanno assistito, si è potuto percepire il valore di ciò che una piccola struttura come l’Ecomuseo delle Acque ha progettato e portato avanti, con tenacia, convinzione e visione, in tempi lunghi e non senza difficoltà, con l’obiettivo di attivare conoscenza e sentimento su un patrimonio culturale e paesaggistico di grande rilievo, la cui sopravvivenza è in funzione dell’interesse che se ne è creato e che si continuerà a tenere vivo. Il film di Michele Trentini, che verrà pubblicato e distribuito dall’Ecomuseo sotto forma di DVD-book, rappresenta un contributo insostituibile in questo percorso, perché restituisce, con la forza della cinematografia, l’intensità e la motivazione di persone che, nell’attribuire valore al proprio territorio, sanno dove guardare e come guardare».

In questo caso è in scena la partecipazione della comunità, gli strumenti di cui si dota e con i quali misura anche il suo percorso nel tempo.

L’aspetto critico generale prevale nel contributo di Costantino Cossu sul tema della Snai a partire da un recente libro di bilancio (Dalle aree interne al Mezzogiorno, la crescita dal basso contro le politiche di intervento straordinario). Ricordo che la SNAI, Strategia Nazionale Aree Interne, è uno dei soggetti – forse il principale – che hanno fondato l’idea stessa di rinascita delle aree interne:

«Con il mancato rinnovo del coordinatore centrale del progetto (SNAI) e la destrutturazione definitiva del gruppo tecnico di supporto, le politiche verso le aree interne sono state sostanzialmente ricondotte nell’alveo delle politiche compensative tradizionali verso zone in deficit strutturale di sviluppo». La denuncia di Tantillo è netta: “La richiesta di avere più risorse per le aree interne oggi sembra unanime. C’è modo e modo, però, di fare politiche per questi territori: si può scegliere la via tradizionale, che è anche la strada su cui un’amministrazione pubblica in gravi difficoltà si sente più sicura e che vede come “naturalmente” residuali le aree interne e prova (senza successo) a mantenerle in vita attraverso compensazioni e deroghe; oppure si può scegliere una via che mira a promuovere discontinuità, tornando a investire in queste zone per produrre beni pubblici, considerandole parte non trascurabile del futuro del Paese”. “Oggi – conclude Tantillo – in una sorta di strabismo istituzionale se da un lato formalmente si predica il decentramento, dall’altro si opera per accentrare; se da un lato si dichiara di voler promuovere diversità e complessità, dall’altro si pratica la semplificazione e la standardizzazione degli interventi”. È la solita vecchia politica dell’intervento straordinario, centralistico e compensativo, la stessa che, nella storia recente d’Italia, ha segnato di sé il fallimento dei piani di sviluppo non di singole aree periferiche ma dell’intero Mezzogiorno, Sicilia e Sardegna comprese. E ancora si persevera, come mostrano (per citare solo due casi) i progetti monstre della costruzione del ponte sullo Stretto di Messina e della realizzazione in Sardegna di un mega gasdotto per portare il metano da Sassari a Cagliari. Una continuità di indirizzo di fronte alla quale si pone ineludibile una domanda: al mantenimento di quali equilibri di potere, a Roma e nei territori, è funzionale il perseverare nell’errore?»

È lo stato delle cose qui ad essere al centro di una denuncia che concerne anche la cattiva applicazione dell’occasione unica del PNRR per rilanciare le aree interne basandosi su un modello di sviluppo diverso. Un’occasione unica per ora mancata.

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Il Centro in periferia ha sempre dato rilievo ai musei come risorsa del territorio. In queste pagine, in tanti numeri, ci sono state discussioni sullo stato attuale dei musei e su come essi possono essere fattori di sviluppo locale, ci sono stati contributi di singoli ecomusei (Casentino, Gemona) ma anche della Rete degli Ecomusei piemontesi. In questo caso abbiamo voluto dare conto di un convegno che si è tenuto nel novembre scorso nei locali del Museo Ettore Guatelli (MEG), pubblicandone gli atti (ancora non totali). Il MEG, luogo simbolico centrale della museografia antropologica italiana, ci ha accolti nell’anno in cui, dopo 20 anni, si chiude il rapporto di Direzione che Mario Turci ha avuto col museo. Venti anni in cui, avendolo ereditato in custodia e cura dopo la morte di Ettore per iniziativa della Regione Emilia Romagna, lo ha rispettato e fatto crescere rendendo possibile la vita di un museo concluso che correva il rischio di essere un’opera d’arte museografica non gestibile e senza futuro. Il progetto del convegno nasceva dallo stesso direttore e si è ispirato al lavoro di Guatelli come spiega il titolo:

Ci sono case che sono musei, ci sono musei che sono case.

Un titolo che facilita incontri tra soggetti diversi e diverse idee di museo ma intorno a un tema centrale che aveva avuto una grande attenzione attraverso il Manifesto di Orhan Pamuk, premio Nobel della letteratura e fondatore di un Museo dell’Innocenza a Istanbul.  Così dice la call qui avanti ripresa nell’intervento di apertura di Mario Turci:

«La casa della famiglia Guatelli, nel podere Bellafoglia, è diventata un museo e una casa museo (è interessante e significativa l’intera vicenda della lenta trasformazione/metamorfosi). La profezia con cui Orhan Pamuk conclude il suo Modesto manifesto per i musei, annuncia che “Il futuro dei musei è nelle nostre case”. Ci sono case nutrite dagli oggetti del collezionista sino alla trasformazione degli spazi privati in spazi per il pubblico (visitatori). C’è chi vive in case che in certi giorni e orari diventano accessibili/visitabili».

Tra vari soggetti presenti (la Regione Emilia Romagna, Il Museo Cervi, l’Associazione Casa della memoria e i temi plurali che si colgono già dai titoli degli interventi qui di seguito, il museo prende evidenza in tutti i testi come strumento di iniziativa culturale, come trait d’union tra modi d’essere diversi, storie e generazioni diverse. Dalle pagine che seguono e da quelle che pubblicheremo nel prossimo numero emerge la capacità del museo di essere organizzatore di cultura e di comunità, strumento di orientamento, di creazione di leggi, di politica e di educazione.

Sembra che ogni volta che si è pronti a dire che i musei sono vecchi e non servono più (come ancora si usa dire spesso per pigrizia culturale), basta un incontro di chi lavora in essi e per essi per mostrare l’evidenza di tante problematiche sottolineate negli anni in dibattiti regionali, nazionali e internazionali. Ovvero che il Museo è il principale istituto che, nato e cresciuto nell’Occidente, ha avuto la capacità di resistere al tempo e di trasformarsi via via arricchendosi delle tecnologie, che ha luogo e radici nelle aree interne d’Italia, estendendosi anche alle culture non occidentali, dove spesso è stato usato per rappresentare la lotta dei nativi contro il colonialismo e la cancellazione culturale.

Alla fine di questo incontro presso il Museo Guatelli il mio pensiero era: occorre fare il punto sul museo come strumento culturale e rilanciarlo come modo della politica della conoscenza, strumento di formazione, non come mondo DEA ma con tutti gli altri soggetti, mettendo in evidenza i tratti che li accomunano. Per il mondo DEA il fatto che i musei siano strumenti di costruzione partecipativa di comunità patrimoniali e fattori di sviluppo locale è ormai una via senza ritorno.

Cagliari 1968, Manifestazioni di protesta contro la guerra in Vietnam

Cagliari 1968, Manifestazioni di protesta contro la guerra in Vietnam

Auguri

Cosa c’è di più banale degli auguri che ci facciamo tra Natale e Capodanno, spesso sono i meme di carattere comico quelli più originali. Forse succede così perché riguardano temi così grandi della nostra vita (la nascita, il ciclo dell’anno) che si riesce solo a dire cose semplici, elementari. In tutti gli auguri ora si accentua il tema della pace, delle guerre in corso. Augurarsi che cessino è proprio una illusione ma noi ce lo auguriamo con tutto il cuore, ci stringiamo alle preghiere del Papa, come agli sforzi della diplomazia. Ma in questo primo gennaio del 2024 sono certo che prevale ancora la disperazione rispetto alla pace, la non speranza. Io sono nato dentro una guerra che non vedevo, ma che significava sfollamento, assenza di cibo, bombardamenti. Cagliari dove ho vissuto dopo i 5 anni secondo un rapporto bellico alla fine del 1943 era

«[...] quasi completamente distrutta. Sono rimaste in piedi poche case [...]. Qualsiasi servizio di interesse pubblico è interrotto. L’energia elettrica potrà essere distribuita tra quindici giorni, ma solo a determinate zone di interesse militare. Il problema dell’acqua è gravissimo in quanto [...] le condutture principali sono state distrutte [...]. La città è pressoché deserta. [...]» [2].
Poggibonsi bombardata 29 dicembre 1943

Poggibonsi bombardata 29 dicembre 1943

Con migliaia di morti e moltissimi sfollati (tra i quali anche la mia famiglia), mia madre mi raccontava il raccogliersi nei rifugi del porto, le sirene. Il 29 dicembre del 1943, ottanta anni e tre giorni fa, gli Alleati bombardarono Poggibonsi distruggendola quasi interamente e facendo quasi 200 morti. È rimasto il ricordo anche con la canzone di Battiato (Poggibonsi è stata evacuata e Gerusalemme liberata). Abbiamo pubblicato un libro dei ricordi di quel tempo. Può essere utile leggerlo per pensare a Gaza, a Marjupol. Proprio perché chi bombardava erano i ‘liberatori’ quel che viene condannato non è l’alleato ma la guerra.

Quando ho cominciato ad avere idee politiche sul mondo, una delle mie ragioni di lotta era la minaccia dell’atomica tra russi e americani. La fine del mondo e i saggi di Ernesto De Martino sulle Apocalissi culturali erano legati a quella temperie, alla minaccia di distruzione dell’umanità.

La guerra non è altrove, lontana da noi, ci siamo nati dentro o cresciuti con la minaccia del conflitto. Ci serve ricordarlo per poter sopportare il mondo che abbiamo davanti, e forse per raccontare ai più giovani quello che abbiamo vissuto e saputo. La connessione tra Poggibonsi e Gerusalemme torna quasi come una paradossale intuizione del tempo di ora. Distruzioni continue, città spettro. I morti civili, decisione che nel secondo dopoguerra fu poi presa dall’ONU non avrebbero dovuto più esserci, sono invece la carne da macello di tutte le guerre locali. La mia generazione ormai matura negli anni ‘60 decise di prendere posizione per la pace, contro l’invasione del Vietnam. Certo con errori che oggi riconosciamo, ma farlo era anche un modo di conoscere, di studiare, di leggere, di fare incontri, di discutere e formarsi insieme.

L’anno che è appena cominciato è l’80° della Resistenza italiana diventata ormai matura, cresciuta fino a diventare un esercito pronto per la vittoria del 25 aprile del 1945. In Toscana è anche l’anno della Liberazione di Siena e di Firenze e l’anno delle più spietate ed esecrabili stragi naziste consumate sulla popolazione inerme ed innocente. Studiando la memoria delle stragi con i nostri studenti di antropologia ci apparivano mondi della memoria bruciati, martoriati, segnati per sempre. La guerra che non si dimentica, che diventa carne e sangue, incubo ormai disponibile ad essere raccontato a chi ne accogliesse il dolore.

A cosa serve ricordarlo non mi è del tutto chiaro. Dopo il ‘44 maturò l’idea di un mondo nuovo e di una Costituzione che è ancora base e progetto della nostra vita collettiva. Negli anni della minaccia atomica tra Usa e URSS nacque un movimento mondiale per la pace, la mia prima azione politica sarda fu quella di costituire un Movimento d’Azione per la pace.

Forse nel 2024, ottant’anni dopo l’anno che fu il cuore della Resistenza, dobbiamo ritornare a resistere, ad associarci per la pace, guardando il passato con occhi pieni di futuro. Cercando di superare l’orrore e il dolore del mondo e riaprendo il cuore alla speranza. Forse.

Dialoghi Mediterranei, n. 65, gennaio 2024 
Note
[1] Era su La Nazione e questo stesso giornale quotidiano lo ha ripubblicato sotto Natale in una rubrica I  grandi scrittori su “La Nazione” 
[2] https://it.wikipedia.org/wiki/Bombardamenti_di_Cagliari_del_1943 

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Pietro Clemente, già professore ordinario di discipline demoetnoantropologiche in pensione. Ha insegnato Antropologia Culturale presso l’Università di Firenze e in quella di Roma, e prima ancora Storia delle tradizioni popolari a Siena. È presidente onorario della Società Italiana per la Museografia e i Beni DemoEtnoAntropologici (SIMBDEA); membro della redazione di LARES, e della redazione di Antropologia Museale. Tra le pubblicazioni recenti si segnalano: Antropologi tra museo e patrimonio in I. Maffi, a cura di, Il patrimonio culturale, numero unico di “Antropologia” (2006); L’antropologia del patrimonio culturale in L. Faldini, E. Pili, a cura di, Saperi antropologici, media e società civile nell’Italia contemporanea (2011); Le parole degli altri. Gli antropologi e le storie della vita (2013); Le culture popolari e l’impatto con le regioni, in M. Salvati, L. Sciolla, a cura di, “L’Italia e le sue regioni”, Istituto della Enciclopedia italiana (2014); Raccontami una storia. Fiabe, fiabisti, narratori (con A. M. Cirese, Edizioni Museo Pasqualino, Palermo 2021); Tra musei e patrimonio. Prospettive demoetnoantropologiche del nuovo millennio (a cura di Emanuela Rossi, Edizioni Museo Pasqualino, Palermo 2021); I Musei della Dea, Patron edizioni Bologna 2023). Nel 2018 ha ricevuto il Premio Cocchiara e nel 2022 il Premio Nigra alla carriera.

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