di Marta Gentilucci
«Oh, guardatevi dalla gelosia, mio signore. È un mostro dagli occhi verdi che dileggia il cibo di cui si nutre» – dice Iago a Otello, nella III scena del III atto. E verde – letteralmente – diventa il viso di Iago, impersonato da Antonio De Curtis (sarebbe morto poco dopo), nella poetica trasposizione in chiave comica che Pasolini fece dell’Otello shakesperiano nel 1967, contenuta nel film a episodi Capriccio all’italiana. L’espressività di Totò, insieme a quella di Ninetto Davoli (Otello), Laura Betti (Desdemona), Franco Franchi (Cassio) e Ciccio Ingrassia (Roderigo), colora di tinte surreali la più nota storia di gelosia della letteratura teatrale.
Il dramma shakespeariano diviene rappresentazione nella rappresentazione: uno spettacolo di marionette animate di fronte a un pubblico popolare che scalpita e insorge, mettendo in discussione il tacito gioco delle parti del teatro tradizionale. Rompendo la barriera che separa spettatori e rappresentazione artistica, come ne Las Meninas di Velázquez – quadro peraltro ritratto all’inizio del film – il pubblico si sente coinvolto al punto tale da intervenire sul finale: per volontà popolare non sarà Desdemona a soccombere, ma Iago e Otello ad essere picchiati a morte al ritmo di Offenbach. Del quadro di Velázquez Pasolini subiva grande fascinazione, probabilmente per intermediazione di Foucault e di Lacan, che ne avevano scritto rispettivamente nel 1964 e nel 1966. Il saggio di Michel Foucault, poi confluito ne Le parole e le cose, si intitolava Le damigelle d’onore ed era incentrato sulla questione – prettamente filosofica – della capacità del dipinto di rappresentare un particolare modo della rappresentazione stessa: il vero fuoco del quadro, infatti, non è nel quadro, ma fuori di esso. Foucault suggerisce di accompagnare la linea che partiva dallo sguardo del pittore con altre due linee, che partano rispettivamente dallo sguardo dei sovrani e della bambina: esse convergeranno strettamente in un luogo di assenza. Si può supporre, allora, che i veri protagonisti del quadro siano stati elisi dalla rappresentazione: è questa la rivoluzione introdotta dal quadro di Velázquez. Il soggetto è un soggetto assente.
Una interpretazione altrettanto autorevole, sebbene forse meno conosciuta, è quella che Jacques Lacan fornisce nel corso di alcune lezioni di un seminario intitolato L’oggetto della psicoanalisi, che tenne tra il 1965 e il 1966: per lo psicoanalista, da un lato, la singolare logica interna secondo cui gli elementi del quadro sono disposti, attira lo sguardo stimolando il desiderio di indagine; dall’altro, è proprio lo sguardo in quanto forma dell’oggetto a essere catturato nel quadro sotto forma di riflesso, grazie alla presenza dello specchio (che rappresenta, del resto, uno degli stadi della psicoanalisi lacaniana). In entrambe le interpretazioni, risultava evidente la centralità della funzione dello spettatore rispetto alla comprensione di Las Meninas. Allo stesso modo, Pasolini sceglie di conferire un ruolo fondamentale agli spettatori della rappresentazione teatrale dei suoi burattini: a loro spetta l’ultima parola, quella decisiva.
Ma non è tutto: in Che cosa sono le nuvole Pasolini dona nuova poesia al dramma di Shakespeare e mette in rilievo le psicosi più intime dei personaggi. È il burattinaio-cantastorie, dall’alto della scena, a svelare la natura autolesionista di Desdemona, amante degli schiaffi, a cui «forse piace essere ammazzata». Del resto, nel testo shakespeariano, era lei a ribadire che da Otello le «piaceva anche essere offesa»: l’ossessione sessuale per il marito sfocia in quello che freudianamente potremmo definire masochismo erogeno. Ma anche il razzismo di fondo dell’opera del drammaturgo inglese – tema che diverrà poi il fulcro delle riscritture post-coloniali [1] (solo per citarne alcune: Not now, sweet Desdemona di Murray Carlin, Home and Exile di Lewis Nkosi, My Son’s Story di Nadine Gordimer o Looking on Darkness di André Brink) – viene esorcizzato dalla comicità verbale con cui il retore più persuasivo del teatro mondiale tuona contro il Moro, definendolo «quel negro porco zozzo puzzolente», «negro dappertutto, l’ho visto io». Iago diviene per Pasolini anche morboso voyer che assiste a uno scambio di frutta – sublimazione dei preliminari di un rapporto sessuale – tra i due coniugi, ma la sua irriverente vis comica annulla la portata “seria” del razzismo tanto contestato al dramma shakespeariano.
Le dicotomie che animavano l’Otello di Shakespeare tornano nella trasposizione pasoliniana: libertà e costrizione, verità e menzogna, realtà e rappresentazione. Gli estremi negativi sembrano essere la costante di una vita il cui significato profondo si svela nella farsa: da qui la scelta di riprodurre i protagonisti come marionette intrappolate in un microcosmo da cui è preclusa ogni conoscenza della verità. In un «sogno nel sogno» che ricorda il mito della caverna di Platone. La felicità della nascita («Perché so’ così contento?», dice Otello/Ninetto Davoli, con marcato accento romano. «Perché sei nato», gli spiegano gli altri attori-burattini) si scontra ben presto con l’infelicità atavica che comporta l’essere al mondo, a stretto contatto con la malvagità e la menzogna. Otello, simile a Pasolini nel rimpianto di un’ingenuità che sembra non essere più prerogativa umana, chiede stupito e affranto a Iago: «Perché dobbiamo esse così diversi da come ci crediamo? Perché?». Se da un lato la morte coincide col divenire monnezza, scarti che un camionista-netturbino (Domenico Modugno) deposita distrattamente in una discarica abusiva open air in cui si accatastano i cadaveri, rifiuti tra i rifiuti; dall’altro è anche l’unica pacificazione possibile: con sé stessi, con l’altro (il tradito e il traditore trovano nuova, definitiva, armonia) e con il mondo.
Le “nuvole” sono rivelazione di una bellezza finalmente riconciliante («Ah, straziante meravigliosa bellezza del creato!»), di una libertà salvifica. La circolarità della parabola nascita-morte è suggellata dalla canzone che Pasolini chiese a Modugno di comporre appo- sitamente per il suo film e il cui testo contiene citazioni letterali dell’ipotesto shakespeariano ma anche un’importante inversione semantica dei versi con cui Otello, nel dramma originale, si decide a divenire uxoricida: «Ecco, Iago: in un soffio, io disperdo nell’aria il mio folle amore. Così è svanito…». Mentre Modugno canta: «Tutto il mio folle amore lo soffia il cielo… ». Anche l’amore – così come la bellezza, simbolizzata dalle nuvole – diviene prerogativa esclusiva del cielo.
«Per la terza volta, dopo Uccellacci e uccellini, dopo La terra vista dalla luna, Pasolini sceglie questa coppia di padre e figlio, maestro e allievo, per parlare del passaggio da un mondo all’altro, di una possibile salvezza oltre la fine di questo mondo. Con Totò e Ninetto sembra aprirsi una nuova epoca. Non più la finzione e la gelosia (Iago contro Otello) ma la pura visione del creato» [2].
Se l’incipit di Che cosa sono le nuvole coincideva con Las Meninas, è un altro quadro di Velázquez a rappresentarne l’epilogo: Venere allo specchio. La dea simbolo di creazione potrebbe così suggellare la nuova nascita di Iago e Otello, sancita dalla riconciliazione con il cielo e dalla scoperta della bellezza vitale, sulle note del Quartetto K.516 di Mozart. Ma c’è anche un esplicito omaggio a Luis Buñuel, nella riproposizione della scena finale di Los olvidados, opera in cui il maestro del cinema spagnolo ripercorreva i destini di alcuni “ragazzi di vita” messicani. Il film terminava con la morte del protagonista Jaibo, il cui corpo veniva gettato in un campo abbandonato, proprio come quelli di Iago e Otello, «sullo scarico delle immondizie, fra i gatti ammazzati e le scatole di conserva».
Del resto, associare Otello il Moro a un’ingenuità primigenia che la società occidentale contemporanea avrebbe perduto, rientrerebbe in un’idea più generale che Pasolini stava sviluppando giusto in quegli anni e che trova prima espressione letteraria in una poesia del 1961 intitolata Frammento alla morte. In quella poesia, poi raccolta ne La religione del mio tempo, lo scrittore corsaro scriveva: «E ora… ah, il deserto assordato/ dal vento, lo stupendo e immondo/ sole dell’Africa che illumina il mondo.// Africa! Unica mia/ alternativa... ». Un anno dopo avrebbe provato a redigere la sceneggiatura di un film che non verrà mai realizzato: Il padre selvaggio, storia ambientata tra i cortili e le baracche-dormitorio della scuola di Kado, in Nigeria. E l’Africa continua ad essere l’unica sua alternativa, forse più della periferia, più del sobborgo, anche anni dopo, quando compì un viaggio tra Uganda e Tanzania con l’intenzione di girare la trasposizione cinematografica dell’Orestea di Eschilo, a distanza di quasi dieci anni dalla traduzione della trilogia commissionatagli da Vittorio Gassman. Di quel viaggio, di quell’intenzione, non resta che un altro “film da farsi”.
Metanarrativo, volutamente frammentario, Appunti per un’Orestiade africana si definisce per negazioni: non un film, non un documentario. Forse il compendio delle due anime del Pasolini regista: quella che si rifà al cinema d’invenzione, inaugurata da Accattone e proseguita con Mamma Roma e Uccellacci uccellini, e quello più vicina al documentario, di Comizi d’amore, de La rabbia. Il risultato è un insieme ibrido di riprese amatoriali e inquadrature imperfette: primi piani di visi scarni – i possibili attori del film – incuriositi o eccitati alla vista della telecamera, “gente colta nel suo da fare quotidiano”, scenari da preistoria, capanne che si stagliano solitarie in un paesaggio brullo. «Niente di più lontano dal classicismo greco», come precisa il timbro inconfondibile della voce fuoricampo del regista.
Alla fine degli anni Sessanta, l’Africa per Pasolini era ancora il perfetto compendio tra la società arcaica e quella moderna, dimostrazione di come la tradizione non debba per forza soccombere sotto il peso schiacciante dell’avvento del capitalismo, bensì di come possa coesistere con i nuovi assetti socio-economici. A dimostrarlo era la compresenza di elementi «ancora molto vicini alla preistoria», come il mercato abbandonato sulla strada per Kikoma o i momenti mitico-sacrali delle danze della tribù dei Wa-Gogo, in Tanzania, con la modernità della scuola di Livingstone o di Kampala.
Per Pasolini l’Orestea diveniva allora il pretesto per parlare di altro: anche Oreste, come Otello, è colui che subisce drammaticamente il passaggio dall’ingenuità di una società pre-moderna (rappresentata simboli- camente dalle Erinni, che Pasolini sceglie di raffigurare sotto la forma inumana di alberi scossi dal vento) a quella moderna (simbolizzata dalle Eumenidi). Ma è al contempo colui che supera la crisi, ritrovando un nuovo equilibrio. In fase di montaggio, Pasolini accosterà le immagini girate all’università di Dar-Es-Salaam che dovevano rappresentare il processo ad Oreste nel tempio di Apollo a quelle, risalenti a otto anni prima, delle prime elezioni dell’Africa indipendente, secondo un chiaro procedimento analogico.
Quello che viene fuori da Appunti per un’Orestiade africana è un continente dai contorni incerti, ritratto nella sua contraddizione, nell’essere contemporaneamente preistoria e “ansia di futuro”. Irreale perché probabilmente già anacronistico, come fanno notare al regista gli studenti africani che aveva voluto incontrare all’Università “La Sapienza” di Roma proprio per chiedere loro un’opinione sul film. Se quell’ “ipotesi” è da un lato l’espressione forse più autentica della concezione pasoliniana – della storia, del mito, del progresso – , dall’altro non poteva che essere un film fallito, perché fallita è l’utopia di una sintesi tra il mondo arcaico, materno, viscerale della tradizione e il mondo nuovo, moderno, capitalista e borghese.
Il potere salvifico che aveva assunto l’Africa per Pasolini alla fine degli anni Sessanta, prima che ricadesse nel pessimismo più buio del periodo che ne precede la morte, è ben espresso nell’ultima scena di uno spettacolo di teatro-danza che il coreografo Enzo Cosimi ha allestito circa dieci anni fa – e che ha riproposto recentemente – dedicato all’ultima notte dello scrittore di Ragazzi di vita. Lo spettacolo si chiama Bastard Sunday (“domenica bastarda”, appunto). Una ballerina dal corpo androgino (Paola Lattanzi) impersona Pino Pelosi detto La Rana, diciassettenne per il quale quella sanguinosa domenica di inizio novembre rappresenta lo spartiacque tra un’adolescenza ingenua, trascorsa tra una partita di calcetto e una serata con gli amici (rappresentata da Cosimi dal pallone di calcio con cui la ballerina gioca all’inizio dello spettacolo) e una maturità forzata, tragica, di presa di responsabilità e ricaduta in un baratro esistenziale ineludibile. Il viso della ballerina, che per tutta la durata dello spettacolo era indurito da una smorfia di dolore, si scioglie finalmente in una risata liberatoria solo nel finale, ambientato, appunto, in Africa. Laddove il peso delle parole dei media, del senso di colpa, della propria giovinezza perduta, non contano più.
Dialoghi Mediterranei, n.18, marzo 2016
Note
[1] Per approfondire l’argomento, cfr.: Postcolonial Shakespeare, a cura di Masolino D’Amico e Simona Corso, Edizioni di Storia e Letteratura, Roma 2009: 136 sgg. «L’appropriazione conflittuale è interessante a proposito di Otello, un dramma che sta sostituendo sempre più La Tempesta come terreno di dibattito nella critica postcoloniale forse perché molte società devono affrontare il rapporto razziale e le ineguaglianze che provoca».
[2] Marco Antonio Bazzocchi, I burattini filosofi. Pasolini dalla letteratura al cinema, Mondadori, Milano 2007: 104.
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Marta Gentilucci, giovane laureata in Italianistica presso l’Università degli Studi di Bologna, ha collaborato con la Cineteca Lumière di Bologna e si occupa di giornalismo ed editoria. Tra i suoi interessi di ricerca, lo studio della letteratura delle migrazioni. Ha insegnato nel laboratorio di video-giornalismo presso il Liceo classico F. Scaduto di Bagheria. Ha partecipato a stage e seminari su identità di genere, letteratura post-coloniale e scritture migranti.
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