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Il “Caminhos de Pedra” di Bento Gonçalves. Patrimonializzare la migrazione italiana

Brasile panorama

Veduta della Comunità di Sao Pedro sulla Linha Palmeiro 4, 1950

CIP

di Daniele Parbuono 

Questo saggio rappresenta, in sintesi, la prima parziale razionalizzazione di un nuovo percorso di ricerca che, se da un lato recupera il mio pregresso interesse nei confronti della realizzazione di progetti ecomuseali in punti diversi del Pianeta – dalle esperienze del modello museologico open-air “Skansen” (Nordenson 1992) [1] che ho studiato e visitato nel Nord e nell’Est dell’Europa, alla diffusione regionale degli ecomusei in Italia [2], dagli ecomusei Cinesi del Guizhou [3] ai progetti di ri-attivazione territoriale ispirati alla prospettiva della Nouvelle Muséologie  [4] –, dall’altro si testa in un terreno per me inedito come quello della migrazione italiana in Brasile, con specifico riferimento allo Stato di Rio Grande do Sul.

L’occasione di sistematizzare per la prima volta i materiali di una ricerca avviata nel 2017, ricerca che coinvolge oltre a me alcuni colleghi e amici brasiliani – tra loro in particolare Henrique Aniceto Kujawa e Beatrix Paulus –, due ormai ex studenti di “Arquitetura e Urbanismo” di cui sono stato coorientador nel mestrado, Paula Fogaça e Adilson Giglioli (che oggi seguo come co-tutor di dottorato in un progetto sugli ecomusei tra Brasile e Italia, presso l’Università di Santa Cruz do Sul), nonché Sabina Gala che seguo nel suo dottorato presso l’Università degli Studi di Perugia sull’“Ecomuseo della Dorsale Appenninica Umbra”, mi è stata offerta dal convegno “Ci sono case che sono musei, ci sono musei che sono case”, organizzato dal Museo Ettore Guatelli il 20 e 21 ottobre 2023.

I contenuti di questo scritto sono, infatti, esito di una trascrizione [5] ragionata, rivista e corretta dell’intervento che avevo preparato per l’occasione e che avevo intitolato: “Il “Caminhos de Pedra” di Bento Gonçalves. Patrimonializzare la migrazione italiana”. Si tratta in sostanza di un percorso fotografico commentato e arricchito da alcune premesse e qualche osservazione finale.

Ci troviamo a Rio Grande do Sul, nella parte interna dello Stato che dialoga con la zona costiera di Porto Alegre, un’area che i più, forse, conoscono perché ricompresa e/o limitrofa alla regione montuosa della Serra Gaúcha, area fortemente interessata dall’immigrazione italiana di fine XIX secolo in cui è assai frequente sentir parlare talian (dialetto che i primi immigrati hanno portato dalle regioni del Nord-Est d’Italia), piuttosto che portoghese.

Due intervalli temporali mi pare utile appuntare nel percorso che proverò a definire: 1875-1890 e 1987-1992. Il primo riguarda i quindici anni in cui i più ingenti flussi migratori dal Nord-Est dell’Italia hanno raggiunto il Brasile e in particolare lo Stato di Rio Grande do Sul. Più in generale, allargando lo sguardo va ricordato che in Brasile, tra il 1875 e il 1935, arrivarono più di un milione e mezzo di Italiani, di cui il 70% rimase a San Paolo. Invece, nello specifico, quelli destinati a Rio Grande do Sul provenivano dal Veneto (54%), dalla Lombardia (33%), dal Trentino (7%), dal Friuli (4,5%). Tra il 1875 e il 1914 arrivarono a Rio Grande do Sul ottantamila-centomila italiani. I terreni dello Stato erano venduti dall’Impero, a prezzo modesto, in blocchi o linee, lungo cui si trovavano appezzamenti rurali di dimensioni variabili, da quindici a trentacinque ettari (Posenato 1983). La “linea Palmeiro” (dove si trova “Caminhos de Pedra”), fa parte dell’insieme di linee e valichi che costituivano l’ex colonia “Dona Isabel”, dove si stabilirono gli immigrati italiani arrivati dal 1875 in poi.

  Fotografia di Daniele Parbuono, Bento Gonçalves, ottobre 2018


Umbu, Bento Gonçalves, ottobre 2018 (ph. Daniele Parbuono)

Per entrare più nello specifico delle vicende prodromiche alla creazione del “Caminhos de Pedra” credo sia utile soffermarci su una prima immagine che da sola può raccontare in modo eloquente le condizioni esistenziali di partenza dei primi immigrati italiani. 

L’albero soggetto principale dell’immagine è il cosiddetto Umbu (Phytolacca dioica), un albero a cui gli immigrati italiani sono ancora particolarmente affezionati perché ravviva la memoria dell’indigenza, della sofferenza traumatica dell’arrivo. Si tratta infatti di giganteschi alberi sotto le cui radici furono organizzati alloggi per quei primi audaci che, con pochi oggetti, con scarsi mezzi, prevalentemente addentrandosi dalla costa via fiume e a piedi nei tratti asciutti, conquistarono la linea di colonia alloggiando anche in cotali ripari di fortuna. L’albero al centro dell’immagine è molto importante perché ad oggi rappresenta una delle poche testimonianze rimaste intatte nella zona in relazione a queste prime e “avventurose” soluzioni abitative di necessità. 

Successivamente, a distanza di pochi anni dall’arrivo, quando gli italiani riuscirono a stabilizzare con le attività professionali anche le pratiche dell’abitare, cominciarono a realizzare case impiegando le tecniche di costruzione che meglio conoscevano, che avevano già sperimentato “in patria” e che avevano poi portato in Brasile come know-how ormai innovativo, perché adattato alle condizioni contingenti, come processo creativo che plasma la conoscenza alle risorse disponibili e utilizzabili (Ingold 2013). Quei “saperi” artigianali (Angioni 1986; Sennet 2008) che avevano attraversato l’Oceano, quelle pratiche di trasformazione delle risorse locali e di adattamento dell’ambiente alle necessità della vita quotidiana che in combinato oggi potremmo definire “patrimonio culturale immateriale”, hanno dato origine a una forma di architettura spuria e specifica: una base solida realizzata in pietra basaltica (chiamata material) e una parte superiore realizzata in legno (madeira).

 Bento Gonçalves, anni 50

Bento Gonçalves, anni 50

Nell’intervallo 1987-1992 questa tecnica di costruzione, che ha garantito lungo tutto il XX secolo organizzazione delle attività professionali legate alla terra, quindi sopravvivenza, ha suscitato una rinnovata attenzione da parte dei proprietari, ma anche da parte di stakeholder locali attivi nel settore del turismo. Si tratta di uno stile costruttivo esito di competenze importate dall’Italia e adattate alle esigenze del nuovo contesto di vita. Si tratta di un edificato che a distanza di cento anni, dietro l’estetica assai particolare e l’efficacia delle soluzioni statiche in grado di permetterne la resistenza nel tempo, può raccontare decenni di indigenza e di sofferenze; indigenza e sofferenza che poi negli anni si sono trasformate in attività lavorative prevalentemente di sussistenza.

Nelle abitazioni in questione si producevano alimenti di prima necessità come pane, pomodoro (anche in salsa), vino, grano e farine, trasformate e vendute grazie a un sistema di carattere collaborativo che garantiva, se pur ai limiti, la sopravvivenza delle famiglie. Nel 1987 gli estremi di questa vicenda vengono riletti sotto una nuova luce. L’imprenditore Tarcísio Vasco Michelon, insieme all’architetto Júlio Posenato, comincia a capire, proprio a partire da una riflessione di carattere architettonico, che quella tecnica di costruzione poteva essere valorizzata e porsi come base per una nuova narrazione della storia di migrazione a cavallo tra la patrimonializzazione di elementi territoriali e la musealizzazione, in particolare di queste abitazioni molto peculiari.

La ricetta che propone Tarcísio Vasco Michelon ai proprietari dei terreni e delle abitazioni col senno di poi risulta chiara, lineare, comprensibile e si potrebbe riassumere come segue: avete per le mani una delle forme architettoniche più interessanti nella zona del sud del Brasile, quindi possiamo costruire un progetto che attiri attenzione e trasformi questa memoria della sofferenza, questa memoria cattiva anche per le nuove generazioni che negli anni se ne stanno andando, cercando fortuna altrove attraverso lo studio universitario, in un progetto di valorizzazione e di rilancio. Certo all’inizio è stato complesso creare e diffondere un sentimento di fiducia e di ottimismo tra gli abitanti; Michelon ha dovuto impiegare tenacia e grande capacità di convincimento, come racconta in talian il viticoltore Vilso Strapazzon: 

Vilso: «Questa alora l’è ‘na storia anche la longa. Quande g’has cominzia la mudanza granda qua… tutt el nostr Caminhos de Pedra quand’ è gas cominza el turismo nel novantadue. Fin novantadue… alora s’è da parlar de la casa, capir com’è ghe l’ha funzionat. Alora l’è stata abitada intorno de quindici venti ani, dopo alora è stato la cantina… fa il vino, però la lia no… del sessanta, millenovencentosessanta al millenovesentonovanta queste case de sassi, queste case de legno gavemo scominsia’ aver vergogna… case vece, case brute, case che se sea abandonate, case che caschea, case che se desmasea perché l’era brutte, porché el visigno l’avea bel che fatto, l’era più furbo, l’avea più schei lu’ e quei ch’avea case vece era poveri […] non ve’ avanti, la famija non cressea, tocchea tratar le case vece. Però el novantadue vien esto Tarcísio Michelon: «questa casa podemo verderla por ricevere i turisti che vien de San Paolo, Rio de Janeiro, Belo Horizonte, gente che pol vendre da Italia. “Tarcísio te sei matto, sei fora de testa».
Daniele: «tu hai pensato che era matto?»
Vilso: «si mah, tante famije qua l’avemo fatto correr; “via de qua, ti te se’ furbo; ti te vol venir qua portarmi via la tera; ti te vol guadagnar soldi insieme de mi!”. ‘N g’ avemo mia credesto de inizio, de primera […] “questo lu vol passarme ‘n drio!” Ma lu l’è stato ‘na persona persistente, come dise ‘l talian, telmoso, l’ha mia deistio, el g’ha continua’ a parlar… perché g’ha parla’ con tante famije… nessun ch’ha credesse. Ma alora el g’ha visto che quatro o cinque famije è state pie… pie calme, n’è state agressive. Alora g’ has cominsia a lavorare ‘nsieme a queste persone… a domesticarme… che ‘s’era beli brutti, cativi [sorridiamo]… farme intender che se podea guadagnar qualche sghei. “No ma la casa l’è vecia, l’è bruta”, “no la casa l’è storica” lui disea…. “no l’è vecia” “no l’è storica”… “ma l’è la mesma roba”, “no ni è la mesma roba”. Avemo questo attrito» [6].   

In sostanza i discenti dei primi immigrati italiani possedevano case, significative da un punto di vista architettonico ma che stavano crollando; vivevano vendendo vino alla cooperativa o prodotti della terra nei mercati di zona riuscendo a resistere con fatica alle annate di scarsità e, per questa ragione, molti dei loro figli abbandonavano quei luoghi per cercare soddisfazione professionale in altre aree del Brasile, soprattutto nelle città. Poi tra la fine degli anni Ottanta e l’inizio degli anni Novanta, l’imprenditore alberghiero Tarcísio Vasco Michelon li va a cercare casa per casa convincendoli di possedere beni di valore. I proprietari reagiscono con sospetto, immaginando che Michelon volesse rubare loro la terra con qualche sotterfugio o appropriarsi di parte dei loro ricavati. Dal canto suo Tarcísio assume un atteggiamento “persistente”, li “addomestica”, utilizzando le parole di Strapazzon, spiegando che la loro convinzione di possedere solo “robe vece e brutte” avrebbe dovuto essere rimpiazzata con la consapevolezza di poter contare su un pezzo importante della storia del Diciannovesimo e del Ventesimo secolo, da valorizzare in termini di progettazione contemporanea. Di fatto costruisce una narrazione, uno storytelling, lavorando sulla semantica stessa delle loro convinzioni: le case non sono più “vece” ma “storiche” e la “storia”, evidentemente, può avere un valore anche in relazione ai gusti dei turisti, brasiliani in primis, ma anche italiani. 

Fotografie di Daniele Parbuono, “Casa da memória Merlin”, Bento Gonçalves, ottobre 2022

“Casa da memória Merlin”, Bento Gonçalves, ottobre 2022 (ph. Daniele Parbuono)

Ecco come nasce l’idea del “Caminhos de Pedra”: Tarcísio, così come alcune famiglie di discendenti degli immigrati, investe una parte delle proprie risorse nella realizzazione di un progetto pilota che avrebbe poi portato nell’arco di un decennio alla creazione di un’ipotesi di valorizzazione da applicare nell’areale attraversato da una strada lunga circa dieci chilometri. In rete attivano una ricerca, il 10 luglio 1997 fondano l’“Associazione Caminhos de Pedra”, censiscono un centinaio di attività professionali (agricole e artigianali) importate dagli italiani e sviluppate nella zona durante i primi decenni di permanenza: il pomodoro, l’artigianato, la pietra, il vino, i salumi, il prosciutto. Ogni tema è assegnato dall’Associazione alla famiglia che per prima ne fa richiesta, cercando di non creare sovrapposizioni.

“Casa da memória Merlin”, Bento Gonçalves, ottobre 2022 (ph. Parbuoni)

“Casa da memória Merlin”, Bento Gonçalves, ottobre 2022 (ph. Parbuono)

Seguendo questo criterio l’Associazione prova a dar forma a un’idea di lavoro congiunto puntando, attraverso l’intercettazione dei flussi turistici, a generare un incremento economico rispetto ai limitati margini derivanti dal conferimento dei prodotti in cooperativa o nelle reti di commercio precedenti. Solo a titolo esemplificativo proverò a descrivere alcune delle esperienze più significative del percorso. 

“Casa da memória Merlin”, Bento Gonçalves, ottobre 2022 (ph. Daniele Parbuono)

“Casa da memória Merlin”, Bento Gonçalves, ottobre 2022 (ph. Daniele Parbuono)

La “Casa da memória Merlin” è il punto centrale, il riferimento anche associativo del “Caminhos de Pedra”. La famiglia Merlin diventa ricca e nota in Brasile attraverso la produzione di olio di lino che commercializza in tutto il mondo. Proprio grazie alla ricchezza accumulata i suoi membri riescono ad acquistare abitazioni in diverse zone del Paese, per questo decidono di donare la loro casa di Bento Gonçalves al progetto. La casa donata non solo rappresenta una forma di valorizzazione della memoria e della memoria produttiva della famiglia Merlin, ma diviene il punto di incontro e la sede istituzionale dell’Associazione.

Fotografie di Daniele Parbuono, “Pietra trattoria. Casa da escultura”, Bento Gonçalves, ottobre 2022

“Pietra trattoria. Casa da escultura”, Bento Gonçalves, ottobre 2022 (ph. Daniele Parbuono)

“Pietra trattoria. Casa da escultura” è una casa ristrutturata che presenta la classica forma costruttiva con base in pietra e primo piano in legno, madeira di pinheiro. Oggi al pian terreno è aperta una rivendita di pietra trasformata attraverso tecniche innovative sviluppate anche grazie ai progetti del “Caminhos de Pedra”. Da qualche anno, per esempio è attivo un importante concorso grazie a cui arrivano a Bento Gonçalves artisti prevalentemente europei che realizzano forme innovative di scultura con la pietra di zona, il basalto; tali sculture vengono in parte riprodotte e rese acquistabili proprio nello shop. Questa parte della casa è quindi adibita in parte alla vendita delle sculture riprodotte, in parte all’esposizione degli utensili (antichi e contemporanei) impiegati nella loro lavorazione.

Fotografie di Daniele Parbuono, “Pietra trattoria. Casa da escultura”, Bento Gonçalves, ottobre 2022

“Pietra trattoria. Casa da escultura”, Bento Gonçalves, ottobre 2022 (ph. Daniele Parbuono)

Al piano superiore, allestendo immagini fotografiche che raccontano spaccati di vita degli ultimi cento anni nell’area del “Caminhos de Pedra”, è stato aperto un ristorante apprezzato da turisti e locali, quindi assai frequentato. A differenza di qualche decennio fa, quando la zona era chiamata in modo dispregiativo il lisio dei talian, la ‘piana degli Italiani’, che pochi volevano frequentare, oggi “Caminhos de pedra” è diventato un luogo alla moda, dove non solo giungono turisti da tutto il Brasile e da altre aree del mondo, ma in cui le persone della zona ambiscono a trascorrere le giornate festive raccontando ai figli la storia degli italiani, possibilmente mangiando “buon cibo” e bevendo “buon vino” in qualcuno dei ristoranti recentemente inaugurati. 

Fotografie di Daniele Parbuono, “Casa do Tomate”, Bento Gonçalves, ottobre 2022

“Casa do Tomate”, Bento Gonçalves, ottobre 2022 (ph. Daniele Parbuono)

La “Casa do tomate” è stata realizzata da Maristela Pastorello, un ex insegnante che al momento della pensione, in accordo con l’intera famiglia, ha costruito ex novo un’abitazione seguendo esteticamente il consueto stile architettonico di zona, ma aggiornandolo utilizzando materiali edilizi industriali contemporanei. Nei terreni adiacenti ha cominciato a produrre pomodoro, lavorandolo e trasformandolo, seguendo l’esempio dei nonni italiani, nelle pertinenze dell’abitazione. L’esperienza di Maristela attira grandi quantità di visitatori, turisti e scolaresche, che lei stessa guida nella visita: in una zona specifica dei fabbricati vende i trasformati del pomodoro, in un’altra, una sorta di “accesso museale”, spiega non solo le particolarità della “Casa do tomate”, ma l’intero percorso: la “Casa do tomate” è, infatti, il primo punto in cui le persone approdano avviandosi nel “Caminhos de pedra”.

Fotografie di Daniele Parbuono, “Casa do Tomate”, Bento Gonçalves, ottobre 2022

“Casa do Tomate”, Bento Gonçalves, ottobre 2022 (ph. Daniele Parbuono)

Nella loro prima abitazione hanno realizzato quello che loro definiscono “il museo”, più tecnicamente un’esposizione della storia di famiglia, con oggetti utilizzati dalla fine dell’Ottocento fino agli anni Novanta del Novecento.

La “Cantina Strapazzon” è un’azienda di proprietà di Vilso Strapazzon, in cui si produce e si commercializza vino del vitigno Isabel (una tipologia di uva fragola), ma anche una serie di altri prodotti che nella sua famiglia, per decenni, hanno rappresentato la quotidianità alimentare – come il salame, il prosciutto –, oltre a prodotti cosmetici a base di uva recentemente messi a punto.

Fotografia di Daniele Parbuono, Museo di famiglia - “Casa do Tomate”, Bento Gonçalves, ottobre 2022

Museo di famiglia – “Casa do Tomate”, Bento Gonçalves, ottobre 2022 (ph. Daniele Parbuono)

Dal 2018 sto riflettendo sull’esperienza del “Caminhos de pedra” tenendo il parallelo con il dibattito museologico e museografico italiano, ma anche e soprattutto pensando alle forme applicative della teoria ecomuseale. Nella prima definizione di ecomuseo proposta da Georges-Henri Riviere e da Hugues de Varine nel 1971 alla IX conferenza ICOM: 

«An ecomuseum is an instrument conceived, fashioned and operated jointly by a public authority and a local population. […] It is a mirror in which the local population views itself to discover its own image, in which it seeks an explanation of the territory to which it is attached and of the populations that have preceded it, seen either as circumscribed in time or in terms of the continuity of generations. It is a mirror that the local population holds up to its visitors so that it may be better understood and so that its industry, customs and identity may command respect. It is an expression of man and nature. It situates man in his natural environment. It portrays nature in its wildness, but also as adapted by traditional and industrial society in their own image. It is an expression of time […]. It is an interpretation of space […]. It is a laboratory […]. It is a conservation centre […]. It is a school in so far as it involves the population in its work of study and protection and encourages it to have a clearer grasp of its own future» (Rivière 1985: 182-183). 

A distanza di qualche anno Hugues de Varine, in un dialogo con Stefano Buroni del 2008, spiega: 

«Per me (l’ecomuseo) è una azione portata avanti da una comunità, a partire dal suo patrimonio, per il suo sviluppo. L’ecomuseo è quindi un progetto sociale, poi ha un contenuto culturale e infine s’appoggia su delle culture popolari e sulle conoscenze scientifiche. Quello che non è: una collezione, una trappola per turisti, una struttura aristocratica, un museo delle belle arti etc. Un ecomuseo che sviluppa una collezione importante e ne fa il suo obbiettivo non è più un ecomuseo, poiché diventa schiavo della sua collezione» [7]. 
Strapazzon”, Bento Gonçalves, ottobre 2022 (ph. Daniele Parbuono)

Cantina Strapazzon”, Bento Gonçalves, ottobre 2022 (ph. Daniele Parbuono)

Si passa, quindi, dalle prime definizioni in cui Rivière e de Varine immaginano un ecomuseo come specchio, come forma di riconoscimento della storia, lunga nel tempo, del territorio e degli esseri umani che vivono nei contesti di pertinenza, a quelle più contemporanee, esito di decenni di osservazioni e di pazienti  sperimentazioni, in cui lo stesso de Varine sottolinea la prospettiva dello sviluppo locale, del progetto sociale. Soprattutto nel suo ultimo libro (de Varine 2021), spiega quali sono le trappole e i potenziali limiti di un ecomuseo, ma anche le forme possibili di valorizzazione, le ricadute pratiche, professionali, economiche, socio-culturali; sviluppo può significare creazione di risorse, di posti di lavoro, può significare qualità della vita.

, “Cantina Strapazzon”, Bento Gonçalves, ottobre 2022

Cantina Strapazzon”, Bento Gonçalves, ottobre 2022 (ph. Daniele Parbuono)

In questo senso l’esperienza di Bento Gonçalves che, utilizzando la definizione proposta nella “Dichiarazione di Santiago del Cile” del 1972 [8] e per questo maggiormente diffusa in Sud America, potremmo definire «integral or integrated museum» (Brulon Soares, Mellado 2022: 26), ha portato a risultati importanti: settanta membri dell’Associazione “Caminhos de Pedra”; trenta punti di visita; circa centomila visitatori all’anno; quasi trecento posti di lavoro diretti; molti giovani, figli e figlie, degli attuali proprietari, anche dopo i percorsi universitari, possono scegliere di “restare” o di “tornare” [9] e ambire a un’alta qualità della vita. Il progetto ha inoltre generato un importante economia di indotto per Bento Gonçalves; solo a titolo esemplificativo è utile ricordare che negli ultimi trent’anni le attività alberghiere sono passate da cinque a cinquanta.

, “Pietra trattoria. Casa da escultura”, Bento Gonçalves, ottobre 2022

“Pietra trattoria. Casa da escultura”, Bento Gonçalves, ottobre 2022 (ph. Daniele Parbuono)

A mo’ di conclusione voglio pormi alcune domande da utilizzare come traccia di lavoro per il prosieguo delle mie ricerche attive in questo ambito in Italia, in Brasile e in Cina. Cosa vuol dire fare museo o ecomuseo oggi? Quali sono i pubblici del museo o dell’ecomuseo? A chi serve il museo o l’ecomuseo?

È evidente che nel “Caminhos de Pedra” il concetto ecomuseale di riconoscimento e di autocoscienza della migrazione abbia favorito la creazione di un progetto pratico finalizzato a ottenere migliori condizioni: si tratta di un luogo oggi creativo e propositivo, in cui le persone sono consapevoli di “stare bene” e di poter contare su un’alta qualità della vita. Ciò ha reso possibile trasformare, anche e soprattutto nei loro immaginari, il ricordo pesante di un passato di sofferenza, in una memoria che con Claude Lévi-Strauss potremmo definire “buona da pensare” (Lévi-Strauss 1962). Quando racconta la storia recente della sua famiglia Vilso Strapazzon quasi si commuove e con orgoglio sottolinea: «grazie alla sofferenza di questa terra, che qualche anno fa abbiamo voluto pensare in un altro modo, oggi posso permettermi di stare qui con la mia famiglia e posso permettermi di lavorare quando voglio, come voglio e ai ritmi che dico io. E i miei figli possono fare lo stesso!» [10].

Questo mi pare il risultato più significativo raggiunto dai protagonisti della mutazione che ha trasformato il lisio dei talian in Caminhos de Pedra. 

Dialoghi Mediterranei, n. 66, marzo 2024 
Note
[1] Su questo tema, più in generale, rimando alla rivista «Museum», 175, XLIV, 3, 1992; numero intitolato Ethnographic and open-air museum.
[2] Oltre a tenere l’insegnamento di “Ecomusei e risorse territoriali” presso la Scuola di specializzazione in Beni demoetnoantropologici dell’Università degli Studi di Perugia (in convenzione con le Università degli Studi della Basilicata, di Firenze, di Siena e di Torino), a partire dal 2020 sono stato nominato, su proposta del Magnifico Rettore dell’Università degli Studi di Perugia «in qualità di esperto di comprovata professionalità in materia di storia, cultura e antropologia culturale, geografia e paesaggio, come previsto dall’art. 6, comma 1 della legge regionale 34/2007» nel “Comitato tecnico scientifico per la promozione e la disciplina degli Ecomusei” della Regione Umbria.
[3] Sulle mie ricerche relative al gruppo degli Ecomusei dei Guizhou rimando a: Croci, Parbuono 2018; Parbuono 2018a; Parbuono 2019.  
[4] Da un decennio, insieme a Cinzia Marchesini e altri/e colleghi/e che negli anni si sono avvicendati, lavoro al progetto “TrasiMemo. Banca della memoria del Trasimemo” nel Comune di Paciano (Parbuono 2015; Parbuono 2018b; Giacomelli, Marchesini, Parbuono 2020; Marchesini, Parbuono 2020; Marchesini, Parbuono 2022). Nel 2020, come Università degli Studi di Perugia, abbiamo ottenuto una borsa di dottorato comunale, poi allocata presso il “Dottorato in Scienze Umane”, da me coordinata e assegnata, appunto, a Sabina Gala, finalizzata a svolgere ricerca sulle attività dell’“Ecomuseo della dorsale appenninica umbra”. Inoltre, da questo anno, all’interno del Dottorato di interesse nazionale in “Patrimoni archeologici, storici architettonici e paesaggistici mediterranei” con capofila l’Università degli Studi di Bari, come Università degli Studi di Perugia, abbiamo attivato una borsa, da me coordinata, assegnata a Paola Bertoncini e finalizzata a sviluppare un progetto di ricerca e valorizzazione delle memorie locali nel Comune di Montecastello di Vibio (Pg), peraltro già interessato dalle ricerche relative al PRIN “Abitare i margini oggi. Etnografie di paesi in Italia”, di cui sono P.I.
[5] Ringrazio Sabina Gala per avermi aiutato a trascrivere le parole del mio intervento al convegno, base da cui ho poi sviluppato la versione definitiva di questo saggio.  
[6] Intervista a Vilso Strapazzon, realizzata da Daniele Parbuono ed Henrique Aniceto Kujawa, Bento Gonçalves, 22 ottobre 2022.
[7] https://terraceleste.wordpress.com/2008/07/29/piccolo-dialogo-con-hugues-de-varine-sugli-ecomusei-di-stefano-buroni/ (visitato in data 18 dicembre 2023).
[8] «In 1972 a meeting was held in Santiago de Chile on “La importancia y el desarrollo de los museos en el mundo contemporáneo” (“The Importance and Development of Museums in the Contemporary World”), which gave rise to a statement known as the Declaration of the Round Table of Santiago (UNESCO, 1973). The origins of this initiative date back to the 16th General Conference of UNESCO, which approved a Resolution to promote the development of museums in the member states and stimulated them to adapt to the requirements of their current reality. Simultaneously, within the framework of the recently concluded Third United Nations Conference on Trade and Development (UNCTAD III), a call for proposals was launched to conduct a meeting in Chile that would include museum professionals and specialists in other areas. This event was convened by UNESCO, the International Council of Museums (ICOM) and the Chilean Committee of Museums (ICOM-Chile), at that time chaired by Dr Grete Mostny. From 20 to 31 May 1972 meetings, field visits and encounters were carried out, which culminated in resolutions that were followed by the signing of the Declaración de Santiago de Chile» (Brulon Soares, Mellado 2022: 25).
[9] Sui concetti di “restare”, “tornare” o “scegliere” un territorio quale luogo di vita, in Italia ha molto lavorato Vito Teti (si veda ad esempio Teti 2022).
[10] Diario di campo, Daniele Parbuono, 22 ottobre 2022. 
Riferimenti bibliografici 
Angioni Giulio, 1986, Il sapere della mano, Sellerio, Palermo.
Brulon Soares Bruno, Leonardo Mellado, 2022, Introduction. 50 years of the Round Table of Santiago de Chile: current key readings, «ICOFOM Study Series», 50-1: 25-33.
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De Varine Hugues, 2021, L’ecomuseo singolare e plurale. Una testimonianza su cinquant’anni di museologia comunitaria nel mondo, Utopie Concrete, Gemona del Friuli.  
Giacomelli Monica Maria, Marchesini Cinzia, Parbuono Daniele, 2020, “TrasiMemo. Banca della memoria del Trasimeno”. Dialoghi, in Ballacchino Katia, Bindi Letizia, Broccolini Alessandra (a cura di), Ri-tornare. Pratiche etnografiche tra comunità e patrimoni culturali, Pàtron, Bologna: 99-117.
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Lévi-Strauss Claude, 1962, Le totemisme aujourd’hui, Puf, Paris.
Marchesini Cinzia, Parbuono Daniele, 2020, Esperienze per un uso sociale della ricerca a TrasiMemo. Diversità e disabilità, «AM. Rivista della Società italiana di antropologia medica fondata da Tullio Seppilli», 50: 347-368.    
Marchesini Cinzia, Parbuono Daniele, 2022, “TrasiMemo. Banca della memoria del Trasimeno”. Pensare e vivere un paese, in Bindi Letizia (a cura di), Bio-cultural Heritage and Communities of Practice. Participatory Processes in Territorial Development as a multidisciplinary Fieldwork, «Perspectives on rural development», 6: 67-89.
Nordenson Eva, 1992, In the beginning… Skansen, «Museum», 175, XLIV, 3: 149-150. 
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Teti Vito, 2022, La restanza, Einaudi, Torino.

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Daniele Parbuono, Phd in Etnologia e Antropologia, è Professore Associato di Antropologia Culturale e Direttore della Scuola di specializzazione in Beni demoetnoantropologici presso l’Università degli Studi di Perugia. È stato Full Professor presso la “Chongqing University of Arts and Sciences” (China) dove, insieme al prof. Liu Zhuang, tuttora dirige il “China-Europe cultural Heritage Centre”. È inoltre Special-Term Professor presso la Sichuan University (Cina). È socio SIAC (Società Italiana di Antropologia Culturale), SIAA (Società Italiana di Antropologia Applicata), ICOM (International Council of Museums) e AISC (Associazione Italiana Studi Cinesi). È co-direttore della collana “Heritage. Antropologia, musei, paesaggi”, Pàtron editore, Bologna; membro del Comitato di Redazione della collana “ITACA – Itinerari di Antropologia Culturale”, Morlacchi editore, Perugia; membro del Comitato Scientifico della collana “Proposte di Storia”, Pàtron Editore, Bologna. È inoltre membro dell’Executive Board della rivista “ANUAC. Rivista dell’Associazione Nazionale Universitaria Antropologi Culturali”. I suoi interessi di ricerca riguardano la demologia, le migrazioni, l’antropologia politica, i musei, i patrimoni linguistici e culturali con particolare attenzione ai processi di patrimonializzazione in Europa, in Cina e in Brasile.

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