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Vita sociale e religiosa a Lama dei Peligni dal 1922 al 1945

Lama dei Peligni

Lama dei Peligni

di Amelio Pezzetta

La popolazione e l’economia locale 

Nel periodo considerato la popolazione residente oscillò tra 3958 individui registrati durante il censimento del 1921 e 3015 individui del 1936 [1]. Poiché il luogo era interessato da un rilevante flusso migratorio, nel 1921, la popolazione presente a Lama dei Peligni ammontava a 3640 unità e nel 1936 a 2929 [2]. Lo scarto di 943 individui registrato tra i residenti del 1921 e del 1936 dimostra che molte famiglie di emigranti restarono a vivere nei luoghi d’accoglienza. Nello stesso periodo gli alfabetizzati passarono dal 49,9 % della popolazione presente nel 1921 al 59,5% del 1931 e continuarono a crescere negli anni successivi [3].

Per quanto riguarda le attività economiche, nel 1929 l’agricoltura era quella dominante con 2005 addetti che corrispondevano al 71% della popolazione presente. Essi erano ripartiti in 422 famiglie di cui 393 coltivavano terreni propri, 4 erano fittavole e 25 vivevano di lavoro salariato [4]. In questi anni, l’agricoltura generalmente di sussistenza non assicurava un buon tenore di vita. A tal proposito Panfilo Caprara ha scritto che nel 1929 «Mia madre e mia zia ogni giorno in campagna riportano la verdura campagnola nel senale. Ogni giorno verdura, verdura e verdura con non tant’olio, perché c’era scarsità, ed era così difficile comprarlo, anche il sale perché era monopolio dello Stato. Sembra non vero ma era difficile comprare anche i fiammiferi» [5]. Riguardo all’alimentazione, Caprara fa anche presente che: «Quando facevamo la polenta, per abitudine la mettevamo sulla tavola allargata con il condimento sopra, ognuno con la forchetta tagliava il suo pezzettino e se lo mangiava…Quello era, non c’era il secondo, era solo polenta con quel po’ d’olio sopra o il sughetto senza carne» [6].

A sua volta Giulio D’Eramo riferendosi alla fine degli anni 30, fa presente che furono anni difficili: «Attraversammo gli anni della carestia e gli stenti non finivamo mai. Ci alzavamo da tavola sempre affamati o come diceva mia madre con la famarella. Non vedevamo l’ora di sederci di nuovo a tavola anche se quello che ci si poteva mettere sopra era sempre poco» [7].

Molti abitanti continuavano a lasciare il luogo d’origine per cercare fortuna altrove e migliorare le proprie condizioni economiche. Rispetto al passato, anziché dirigersi in maggioranza verso le Americhe preferirono gli Stati europei, le località dell’Italia settentrionale e le grosse città peninsulari. Un’altra importante novità è rappresentata dal fatto che una gran parte di questi emigranti restò a vivere nei luoghi d’accoglienza. Quelli che facevano ritorno in paese, di solito emigravano da soli e lasciavano alle loro mogli il compito di occuparsi delle faccende domestiche e dei terreni. A causa di ciò, come ha sottolineato Giuseppina Enrica Cinque nel paese s’era consolidato un matriarcato reso più forte, «dall’enorme mole di lavoro svolto dalle donne che faceva risaltare la loro maggior forza, la loro maggior resistenza rispetto agli uomini» [8]. 

Lama dei Peligni, Convento

Lama dei Peligni, Convento di Santa Maria della Misericordia

Le associazioni laiche e religiose 

L’avvento del fascismo a Lama dei Peligni portò all’estinzione di alcune associazioni prima esistenti e alla fondazione di altre fiancheggiatrici del regime. Quelle che cessarono la loro attività furono: la Congrega di Carità, la Società di Mutuo Soccorso Fratellanza Peligna, l’Unione Cooperativa di Consumo, la Lega dei Contadini e la Camera del Lavoro. Le nuove associazioni ed enti che invece furono fondati furono: la sezione del Fascio locale che si insediò nel mese di dicembre del 1922 e nel 1925 superò i cento iscritti, la Società Tiro a Segno, la Società Operaia Fascio e Littorio, i Figli della Lupa, l’Opera Nazionale Balilla, la Gioventù Italiana del Littorio, l’Opera Maternità ed Infanzia e L’ECA.

La Società Tiro a Segno era un ente ricreativo che gestiva un ambito del luogo in cui durante il ventennio si organizzava una colonia estiva che accoglieva bambini maschi e femmine. Essa fece costruire anche un poligono di tiro e un edificio antistante che fungeva da struttura ricettiva per i ragazzi e ragazze che lo frequentavano.

Della Società Operaia Fascio e Littorio si hanno scarse notizie. Probabilmente fu fondata per offrire un’alternativa alle associazioni socialiste esistenti nel luogo. Come si vedrà in seguito è documentato che i suoi quadri parteciparono ad alcune manifestazioni locali organizzate dai rappresentanti del regime. L’Opera Nazionale Balilla, anche a Lama dei Peligni fu istituita nel 1927 e verso la fine degli anni trenta fu assorbita dalla Gioventù Italiana del Littorio.

L’Opera Nazionale Maternità e Infanzia era un ente assistenziale statale con lo scopo di proteggere e tutelare le madri e i bambini in difficoltà. Un forte impulso alla sua fondazione a Lama dei Peligni lo fornì il dott. Giampietro Tabassi, che nominato commissario mise a disposizione dell’ente alcuni locali della sua abitazione signorile e s’impegnò per renderla efficiente.

A Lama dei Peligni, nel 1937 fu istituita l’ECA (Ente Comunale di Assistenza) che acquisì tutte le competenze della Congrega di Carità, a sua volta fondata nel 1875. Riguardo alle attività apprendiamo da una relazione datata il 23 novembre 1933 che il dottor Tabassi inviò al prefetto di Chieti che

«Questa Congrega di Carità ha pochi cespiti attivi con i quali a malapena riesce a far fronte alle spese più urgenti di amministrazione e manutenzione stabili nonché al pagamento delle tasse, più trova margine di elargire qualche sussidio al locale Asilo Infantile e di sovvenire di medicinali e di qualche modico sussidio quelli tra i poveri più bisognosi. Gli altri cespiti sono costituiti da censi e canoni che da anni non vengono esatti e ciò per due gravi ragioni: l’una che è dipesa da quel buon vento comunistico di cui han subito fatto tesoro i contribuenti col sospendere ad enti e privati ogni pagamento di canoni [9]; Gravi erano le condizioni finanziarie dell’Ente: «dovute alla mancata esazione delle rendite, dei censi e dei canoni, oggi per vero resa anche più difficile della peggiorata condizione economica della popolazione causata dalla grandinata prima e poscia dal terremoto che ha demolito e raso al suolo anche qualche casa del vecchio paese su cui gravava qualche piccolo censo a favore della Congrega di Carità» [10].

Dalla relazione del dottor Tabassi non emergono contributi forniti dalla Congrega alle istituzioni ecclesiastiche. Le sue rendite che dal XVII alla prima metà del XIX secolo erano annesse alle cappelle laicali e si utilizzavano per attività di culto, durante il ventennio fascista furono destinate a finalità diverse da quelle originarie tra cui il sovvenzionamento dell’Asilo Infantile e dell’Opera di Maternità ed Infanzia.

Alcune indicazioni che invece riguardano le attività che furono svolte dall’ECA si ricavano dalle seguenti voci del bilancio relativo agli anni 1936-1937:

ENTRATE: 1) affitto della caserma, altri fabbricati e fondi rustici Lire 3760; 2) rendite su titoli di debito pubblico Lire 491,5; 3) interessi su crediti ed altro Lire 310,5; 4) canoni in vino mosto su fondi rustici: Lire 96; 5) canoni in grano su fondi rustici Lire 591; 6) canoni in olio su fondi rustici Lire 1148; 7) totale delle entrate Lire 15156,33; 8) fondo d’avanzo amministrativo: Lire 37932; 7) totale generale Lire 53079,25.
USCITE: 1) tassa e bollo figurativo Lire 430; 2) rimborso al Comune per spese di ospedalità Lire 200; 3) provviste di biancheria ai poveri Lire 300; 4) sussidi di allattamento ai fanciulli poveri Lire 500; 5) sussidi ai balilla poveri (quaderni, libri, ecc.) Lire 500; 6) sussidi alle piccole italiane povere Lire 500; 7) contributi all’Opera Maternità ed Infanzia Lire 433,35; 8) sussidi ai poveri del Comune Lire 866; 9) Sussidio all’Asilo Infantile Lire 1000; 10) sussidio straordinario all’Asilo Infantile Lire 2000; 11) sussidi alle famiglie povere numerose Lire 2.654,45; 12) assegni al tesoriere, al segretario ed all’inserviente Lire 616; 13) spese d’ufficio: Lire 200; 14) tassa per la manomorta Lire 225; 15) spese piccole per il rinnovo dei titoli: Lire 5000; 16) manutenzione di fabbricati e mobili Lire 500; 17) spese per la compilazione di conti arretrati Lire 2.000; 18) totale spese ordinarie e straordinarie Lire 15.914,96 [11].

I dati riportati dimostrano che il bilancio di quegli anni fu attivo e le uscite generalmente riguardarono spese amministrative, per opere di beneficenza, l’assistenza sociale e contributi a favore delle istituzioni create dal regime (l’Opera di Maternità ed Infanzia) e le persone bisognose iscritte alle organizzazioni fasciste quali i Balilla poveri e le Piccole Italiane povere.

A queste istituzioni e associazioni laiche sono da aggiungere quelle religiose fondate nella parrocchia di San Nicola. Una di esse era l’Unione Cattolica Femminile che fu fondata da Don Silvio Sacchetti nel 1921 e durante il regime continuò ad essere operativa. Nel 1926 raggiunse la quota di 106 iscritte di cui 88 ragazze e 18 adulte. Queste associazioni, proponendo alle donne un impegno sociale di tipo religioso, favorivano la loro iniziativa, autonomia e nuove forme socializzazione che consentivano loro di realizzarsi anche nella vita civile e non solo nell’ambito famigliare come mogli e madri.

Nel 1927 il parroco Ermenegildo Scarci fondò anche la Gioventù Cattolica Maschile. Negli anni 30 le organizzazioni cattoliche lamesi continuarono a registrare crescenti iscrizioni. Le loro attività furono esclusivamente religiose per non creare motivi d’attrito con le organizzazioni fasciste. Esse collaboravano con il parroco per favorire una maggiore partecipazione popolare alla vita della Chiesa, promuovere la raccolta dei fondi per le opere pie o religiose e diffondere la stampa cattolica. Delle altre associazioni cattoliche preesistenti all’avvento del fascismo non sono state ritrovate notizie e non si sa se furono sciolte o continuarono ad essere operative. 

Lama dei Peligni, chiesa dei Corpi santi

Lama dei Peligni, chiesa dei Corpi santi

La vita civile e religiosa della popolazione locale 

La vita sociale e religiosa nell’epoca in esame è costituita da varie vicende che videro l’intreccio della filosofia e finalità del fascismo con quelle della Chiesa e dei rapporti che s’instaurarono tra le autorità ecclesiastiche locali con quelle del regime.

Per quanto riguarda la filosofia del regime si può dire che anche a Lama dei Peligni il fascismo assunse i caratteri di una specie di religione civile che affiancava quella cattolica e ne esaltava alcuni suoi valori. A dimostrazione di questa tesi concorre il seguente testo che fu pubblicato il 6 settembre 1923 sul Risorgimento d’Abruzzo: «Il fascismo da noi sorvola sul partito, è religione, profonda religione di razza, nei millenni passati era purezza di libertà, era Roma Imperiale, ora è l’Italia che risorge e incede luminosa» [12].

I principali caratteri della “religione civile fascista” sono i seguenti: 1) l’ubbidienza e la fede; 2) il culto della patria, dello Stato totalitario e del carisma di Mussolini; 3) la dottrina di rigenerazione della stirpe latina; 4) una propria ritualità con la diffusione di una morale guerresca, il saluto romano, l’adozione di vari simboli materiali, riferimenti storici, propri comandamenti (tra essi il celebre motto “credere, obbedire e combattere”) e l’istituzione di un calendario di regime [13].

A Lama dei Peligni l’intreccio sopra delineato fu caratterizzato da una generalizzata collaborazione tra le autorità civili e quelle religiose e, come vedremo in seguito, anche da un momento di piccolo scontro. In particolare, il clero lamese, durante il ventennio fascista, assunse un atteggiamento che, nel rispetto delle autorità politiche dell’epoca, consentiva loro di avere il controllo e la guida spirituale della popolazione.

Dai racconti che anni fa mi fecero alcune persone del luogo, sembra che nel 1923 Benito Mussolini giunse di passaggio a Lama ove si fermò per pochi istanti. Nell’occasione fu accolto dalle autorità civili e religiose, gli furono tributati calorosi festeggiamenti e un notabile gli regalò un grosso littorio di fiori.

Un altro episodio dimostrativo del rapporto collaborativo esistente tra il parroco e i gerarchi fascisti lamesi si ebbe il 4 novembre 1923 durante la cerimonia pubblica di commemorazione dell’anniversario della Vittoria del primo conflitto mondiale. Nell’occasione il segretario della sezione lamese del Partito Fascista tenne un discorso pubblico in cui ricordò i caduti, mentre il parroco Don Silvio Sacchetti celebrò nella chiesa di San Nicola una messa di suffragio durante la quale tenne un fervente discorso patriottico-religioso. Dopo la messa fu organizzato un corteo dal municipio alla lapide del Milite Ignoto ove fu depositata una corona di fiori. Ad esso parteciparono le rappresentanze comunali del Tiro a Segno, della Società Operaia Fascio e Littorio, della Banca Cooperativa, dell’Asilo infantile e di militi fascisti. Pochi giorni dopo, durante la commemorazione della Marcia su Roma, Don Silvio Sacchetti, contravvenendo alle disposizioni del vescovo che proibiva ai parroci di partecipare alle cerimonie fasciste, commemorò l’evento con una messa.

Don Silvio nutriva una simpatia per il fascismo e la sua filosofia, come conferma una lettera che nel 1924 inviò alla curia arcivescovile di Chieti, in cui tra l’altro scrive: «nel dopoguerra nella forania di Lama c’era stato un crollo della disciplina religiosa del popolo a causa della mancanza d’istruzione religiosa, della trascuratezza nella vigilanza per la conservazione dei buoni costumi ed alla pusillanimità nel punire» [14]. Per risolvere questi problemi Don Silvio proponeva:

«l’istruzione religiosa che insegna che Iddio è ordine e che dove manca l’ordine cristiano pericolano la fede e la moralità; (…)  l’insegnamento della disciplina per far capire che senza di essa non riescono appieno le prediche, la catechesi, il culto e quanto c’è di grande in essi; (…) l’opera precipua di vigilanza per la conservazione dei buoni costumi si faccia consistere nel propugnare contro l’inclinazione rivoluzionaria dello spirito contemporaneo frutto del liberalismo nato dalla rivoluzione francese il costume avito dai romani mos o disciplina maiorum predicando all’uopo lo spirito conservatore che come il vecchio Catone proponeva l’unilaterale ed esclusivista adesione all’antico senza contrastare col presente, né trascendere colla necessaria Restaurazione a filoneismo o a moda»[15].

Nei pensieri espressi in questo documento dal parroco lamese sono presenti i seguenti elementi tipici della cultura cattolica reazionaria ed antimoderna che giustificano ampiamente la sua simpatia per il regime: il richiamo al passato, l’assenza nella contemporaneità di un ordine sociale cristiano, il conservatorismo, il bisogno di rifarsi a valori tradizionali e la non considerazione di vari temi appartenenti alla dottrina sociale della Chiesa.

Nell’anno 1924 la prima notizia da cui si ricavano alcune interessanti indicazioni sulla vita religiosa locale, la fornisce una lettera scritta all’Arcivescovo Nicola Monterisi da Don Giuseppe Verna, ex parroco di Lama dei Peligni. Nella sua missiva Don Giuseppe Verna fece innanzitutto presente che nella chiesa parrocchiale di San Nicola c’era l’uso di mettere delle sedie private riservate i cui proprietari potevano venirle ad occupare in qualsiasi momento delle funzioni religiose. Inoltre aggiunse:

«A Lama dei Peligni, dopo fatto parroco, per regolare le sedie in chiesa, poco mancò che non fossi fischiato. Avendo restaurato la chiesa ero riuscito a togliere completamente le sedie dei privati, che pretendevano di trovare libera ognuna la propria a qualunque punto della messa e altra funzione arrivassero, e se non avveniva così, dopo aver scavalcato tutto e tutti, la reclamavano persino con bestemmie. Le avevo dunque sostituite con sedie mie che venivano distribuite e ritirate dal sacrestano con tanto vantaggio della disciplina, della devozione, dell’igiene e anche del lato economico e cosi il mio successore credette bene vendere i posti, ed ha creato così una causa più che sufficiente per mandare innanzi al tribunale il parroco che volesse di nuovo eliminare l’inconveniente» [16].

Quanto segnalato nella lettera, dimostra che dentro la chiesa parrocchiale, attraverso il diritto di occupare posti riservati, anziché la fratellanza e l’uguaglianza predicate dal Vangelo si riproponevano le gerarchie sociali e le differenze di status esistenti nella vita civile.

La seconda notizia è rappresentata dal fatto che Don Silvio Sacchetti organizzò un corso di esercizi spirituali in funzione del precetto pasquale e per questo motivo l’arcivescovo Monterisi gli manifestò il suo plauso [17].

Le elezioni politiche che si tennero il 6 aprile anche a Lama dei Peligni portarono all’affermazione totale del fascismo, come dimostra il seguente responso delle urne: Partito Fascista 637 voti, Aquila con Fascio 152 voti, liberal-democratici 13 voti, Associazione ex combattenti 13 voti, Partito Socialista 1 voto e Partito Popolare nessun voto. Si può osservare che il Partito Fascista e le sue organizzazioni fiancheggiatrici ebbero oltre il 90% dei consensi.

Nel contesto della riforma delle foranie diocesane ordinata dall’arcivescovo di Chieti Nicola Monterisi Lama dei Peligni fu eletta nuova sede di forania [18]. Il 10 dicembre 1924 Don Silvio Sacchetti in una relazione al vescovo scrisse anche che bisognava punire i parroci che benedicevano le case dei concubini, celebravano i funerali di pubblici peccatori, autorizzavano le questue in chiesa ai borghesi, l’appropriazione del denaro raccolto per i santi da parte dei comitati feste, o l’ingresso in chiesa alle bande che suonavano musiche civili e non sacre o addirittura Giovinezza o l’Inno dei lavoratori. Non è dato di sapere quali e quanti riferimenti locali potessero avere queste asserzioni.

Il 22 dicembre 1925 il segretario comunale del fascio di Lama dei Peligni scrisse una lettera al suo omonimo provinciale per segnalare che, al fine di aumentare le iscrizioni di donne al partito, aveva organizzato una festicciola con ballo ma a causa dell’ostilità del circolo femminile cattolico, si erano registrate alcune difficoltà all’attività di tesseramento. A tal proposito scrisse:

«Devo dire, per verità, che quello che maggiormente ostacola l’attuazione di tale programma è l’esistenza qui di un circolo femminile cattolico, ove sono, troppo pretinamente caldeggiate idee a tali riunioni, specie poi al ballo, ecc. Il segretario provinciale gli rispose dicendogli di svolgere «la massima attività per assorbire nella “nostra orbita” il circolo cattolico e se questo non si possa ottenere cerchi di sfasciarlo» [19]. 

Nel 1927 Don Ermenegildo Scarci che il 13 aprile 1926 prese possesso della parrocchia di San Nicola, si rese protagonista dell’avvio di diverse iniziative finalizzate a rinnovare la vita religiosa locale e a favorire una maggiore partecipazione all’associazionismo cattolico. Uno degli obiettivi che si pose fu di alimentare la partecipazione e l’interesse dei ragazzi alle attività catechistiche. A tal fine Don Ermenegildo acquistò un dispositivo con cui proiettava immagini e filmati a chi seguiva le lezioni di catechismo ottenendo risultati, a suo avviso, molto positivi.

Il 6 gennaio 1928, anche Lama dei Peligni fu organizzata per la prima volta la Befana fascista, una manifestazione benefica del regime in favore dell’infanzia delle classi meno abbienti. Nell’occasione i gerarchi locali organizzarono una pesca di beneficenza e il premio messo in palio consistette in una bambola.

Lama dei Peligni, chiesa di santi Nicola e Clemente

Lama dei Peligni, chiesa di santi Nicola e Clemente

Nel 1929 l’arcivescovo Nicola Monterisi venne a Lama dei Peligni in visita pastorale. Dalla relazione della visita risulta che 127 ragazzi furono cresimati e rispetto al 1920 erano aumentate le coppie conviventi non sposate e i matrimoni post fugam [20]. Questi ultimi rappresentavano il 15% dei matrimoni locali e si celebravano di buon mattino dietro l’altare maggiore della chiesa parrocchiale. Essi più che rivelare un decadimento dei valori religiosi, esprimevano la volontà dei giovani innamorati di essere liberi di decidere il proprio destino senza subire condizionamenti famigliari ed erano anche un modo per riabilitare l’onore delle donne che avevano avuto rapporti prematrimoniali. Di solito vi ricorrevano le giovani coppie che si sposavano senza il consenso delle rispettive famiglie o non avevano le possibilità economiche per organizzare una sontuosa cerimonia. Talvolta durante la fuga non c’erano i rapporti sessuali, poiché secondo la morale dell’epoca «l’uomo doveva rispettare la propria compagna prima del matrimonio». All’epoca le donne locali che seguivano la morale dominante dicevano in gergo «Io mi sposo come mi ha fatto mia madre». Inoltre prima dei matrimoni cosiddetti “regolari”, il parroco riuniva le giovani coppie e le interrogava per accertare se ci fossero eventuali ostacoli alle future unioni.

Dalla relazione della visita pastorale risulta anche che nelle chiese delle foranie di Lama dei Peligni i fedeli intonavano inni religiosi. In particolare a Lama, secondo le autorità diocesane furono eseguiti “inappuntabilmente” il canto gregoriano e i secondi vespri dell’Ascensione [21].

Dopo il Concordato del 1929, tra la Santa Sede e il regime fascista iniziò un rapporto di collaborazione che, anche se caratterizzato da contrasti vari tra cui il problema delle organizzazioni giovanili e dell’Azione Cattolica, si dimostrò sostanzialmente utile e costruttivo per entrambe le parti. Anche a Lama dei Peligni dopo quell’accordo, i rapporti tra i parroci e gli esponenti locali del regime migliorarono notevolmente e furono nel complesso ottimi.

In diversi momenti del ventennio fascista, a Lama dei Peligni alcune cariche ufficiali del Comune e delle organizzazioni fasciste lamesi da una parte e degli enti e delle organizzazioni cattoliche dall’altra furono occupate dalla stessa persona o da membri della stessa famiglia. Infatti, durante gli anni 30: i parroci Don Ermenegildo Scarci e Don Vincenzo De Franceschi ricoprirono la carica di assistenti spirituali della sezione locale dell’Opera Nazionale Balilla; nel 1931, alla stessa persona furono affidate le presidenze locali della Gioventù Italiana del Littorio e dell’Associazione Cattolica; nel corso di alcuni anni due soggetti tra loro famigliari occuparono le cariche di vicario foraneo e di podestà di Lama dei Peligni; erano famigliari anche altre due persone che per alcuni anni occuparono le cariche di segretario politico del fascio lamese e di presidentessa dell’associazione cattolica femminile. Questi fatti, oltre che a migliorare i rapporti tra la chiesa locale e le autorità di regime, dimostrano che una parte del notabilato dell’epoca, al fine di conservare e rinforzare il proprio prestigio sociale, cercava di occupare tutte le posizioni di potere disponibili.

Durante una manifestazione del regime degli anni 30, un ardente antifascista del paese non si tolse il cappello quando un plotone di camicie nere attraversò la strada. Per questo motivo fu schiaffeggiato pubblicamente da un gerarca del luogo senza che nessuno intervenisse e poi fu accompagnato in carcere da un plotone della milizia.

Dalla relazione della visita pastorale fatta a Lama dei Peligni nel 1932 dall’arcivescovo Giuseppe Venturi, emergono altre interessanti notizie sulla vita sociale e religiosa locale. In quell’anno: le coppie, generalmente non battezzavano i figli subito dopo la nascita nonostante le raccomandazioni del parroco;  solo tre coppie convivevano senza aver celebrato il matrimonio; annualmente nascevano non più di 1-2 bambini da relazioni extra-matrimoniali; la maggioranza dei fedeli non rispettava il riposo festivo e non osservava le prescrizioni della Chiesa sulle astinenze e i digiuni penitenziali; la maggioranza degli uomini non si accostava ai sacramenti; una campana della chiesa parrocchiale suonava per invitare gli alunni alla frequenza scolastica [22].

Da quanto scritto emerge che nel 1932 la religiosità popolare lamese aveva i seguenti tratti caratteristici: una generalizzata osservanza e condivisione delle leggi della Chiesa in materia di costumi sessuali e di vita matrimoniale; una maggiore attenzione della popolazione agli aspetti riguardanti le pratiche rituali ed il culto esterno; l’ampia osservanza di pratiche sacramentali che solennizzassero i momenti più importanti della vita individuale; uno scarso interesse e partecipazione alle prescrizioni della Chiesa riguardanti il rispetto del precetto festivo, del digiuno; un certo sentimentalismo secondo cui la commozione e la pratica di opere di bene erano elementi sufficienti per fare un buon cristiano; il formalismo in base al quale la pratica di certi riti esteriori contribuiva a fare un buon cristiano; le credenze superstiziose che avevano per oggetto simboli cristiani.

Un’antica tradizione dell’epoca che è stata abbandonata solo da pochi decenni consisteva nel far venire in paese un predicatore quaresimale al quale si assegnava il compito di preparare i fedeli al mistero pasquale. Un’altra consuetudine tuttora viva consiste nel far benedire dal parroco la propria abitazione. Quest’usanza dimostra che la popolazione locale attribuisce un carattere sacro alla propria dimora e che, in base ad un modello culturale dominante, la benedizione cristiana contribuisce a proteggere l’edificio e chi ci abita. La benedizione delle abitazioni era anche uno strumento di controllo sociale a disposizione del parroco. Infatti, visitando ogni casa, egli si accertava se i membri delle varie famiglie avevano ricevuto i sacramenti, santificavano le feste e se erano diffuse stampe, quadri osceni e pubblicazioni contrarie alla morale cattolica. In un numero del Bollettino diocesano teatino del 1933, la curia arcivescovile raccomandava ai parroci che visitavano le abitazioni di suggerire le scelte più morali a figli e genitori e di consigliare la lettura della stampa cattolica.

Negli anni ‘30 la Curia arcivescovile inviò varie sollecitazioni ai parroci volte a promuovere nuove forme di devozione e culto nella diocesi e tentare di eliminare superstizioni, antiche usanze e cerimoniali non prettamente cristiani. In particolare nel 1933 fu chiesto ai parroci di non far suonare le campane della chiesa per fatti civili, furono date disposizioni per evitare i matrimoni “post-fugam”, fu raccomandato di tenere più regolarmente le lezioni di catechismo ai bambini in più giorni della settimana e di non omettere mai di celebrare le funzioni vespertine durante le domeniche e le feste.

Il 25 marzo 1933 l’arcivescovo mons. Venturi, al fine di iniziare santamente l’anno giubilare della Redenzione, dispose che in tutte le parrocchie della diocesi, dal pomeriggio del 6 aprile si facesse un’ora di pubblica adorazione per richiamare ai fedeli le sofferenze del Divin Redentore nell’Orto degli Olivi.

Nel mese di settembre del 1933 Lama dei Peligni fu sconvolta da un terremoto molto violento che provocò sette morti, diversi feriti e distrusse completamente il suo rione più antico. In quell’occasione, a livello di fede e devozione individuale, in base a varie testimonianze raccolte dallo scrivente, non mancarono i momenti individuali di preghiera, d’invocazioni di protezione e di ringraziamento per lo scampato pericolo, consuetudini ovvie e scontate, considerate le modalità con cui si esprimeva la religiosità della popolazione. Al fine di superare tutte le difficoltà provocate dall’evento sismico, le autorità civili, quelle religiose e varie personalità del luogo si resero promotori e interpreti di varie iniziative.

Una pagina della  relazione del dott.  Giampietro Tabassi sulla Congrega di Carità di Lama  dei Peligni (Archivio di Stato di Chieti).

Una pagina della relazione del dott. Giampietro Tabassi sulla Congrega di Carità di Lama dei Peligni (Archivio di Stato di Chieti)

Il dott. Giampietro Tabassi mise a disposizione alcuni locali della propria abitazione per fornire alle persone ferite un primo soccorso locale. In seguito il Partito Nazionale Fascista di Chieti inviò alla moglie del dott. Tabassi una lettera di apprezzamento per l’opera di soccorso e di assistenza prestata a favore della popolazione. A loro volta le autorità civili allestirono inizialmente un accampamento di tende ove ospitare temporaneamente i senzatetto e iniziarono la costruzione di un nuovo quartiere residenziale ove trovarono una nuova e fissa dimora. Anche l’arcivescovo di Chieti e tutto il clero diocesano non restarono insensibili alla tragedia dell’evento sismico. Infatti, il 26 settembre 1933 Mons. Giuseppe Venturi scrisse una lettera al pontefice con cui lo informò che alcuni Comuni della diocesi erano stati colpiti da un evento sismico che nel complesso aveva provocato: dieci vittime, circa 200 feriti più o meno gravi, lesioni alle chiese e crolli di abitazioni private ivi compreso quelle di diversi parroci. Nella successiva risposta del 27 settembre 1933 la Segreteria di Stato comunicò a Mons. Venturi di rimettergli la somma di lire 5000 Lire per provvedere ai bisogni urgenti della popolazione diocesana colpita dal sisma.

Nel 1935 la curia diocesana raccomandò ai parroci di stabilire con le autorità comunali dell’Opera Nazionale Balilla, adeguati accordi utili a favorire l’educazione religiosa dei giovani iscritti all’associazione. Questa iniziativa non è indicativa di una completa acquiescenza dell’autorità diocesana alla politica del regime ma della sua volontà di portare il messaggio cristiano in tutte le situazioni che la realtà contingente imponeva e di una nuova funzione assunta dai parroci nell’epoca in esame.

In quegli anni i ragazzi lamesi dell’associazione Balilla, durante le vacanze scolastiche frequentavano la colonia estiva del Tira a segno che era posta nella stessa località ed era organizzata e diretta dai gerarchi fascisti. Durante tale soggiorno era prevista l’assistenza religiosa affidata al parroco di San Nicola e i ragazzi partecipavano a varie attività tra cui le immancabili esercitazioni ginniche e le marce.

Giulio D’Eramo in un racconto autobiografico ha descritto come si svolgeva un’esercitazione dei figli della lupa a Lama dei Peligni e a tal proposito ha fatto presente che: dopo la ginnastica si doveva fare un’ora di marcia; messi in fila per due, l’istruttore scandiva il passo; quando l’istruttore diceva “passo” tutti dovevano battere un piede e quando diceva “cadenzato” tutti dovevano battere un piede tre volte consecutive e affermare contemporaneamente “duce, duce, duce” [23].

Un’altra prova della collaborazione esistente nella Provincia di Chieti tra le autorità ecclesiastiche e quelle del regime la fornisce un documento della curia arcivescovile pubblicato in un numero del Bollettino diocesano teatino del 1935 in cui s’invitavano i fedeli a dimostrare il proprio amore per la patria donando alle autorità del regime ferro, rame ed altri metalli, specialmente oro. Ovviamente la raccolta dell’oro fu fatta anche a Lama dei Peligni e a tal riguardo ci sono due particolari testimonianze. Nella prima, una donna del luogo ha scritto su un sito facebook che sua nonna poiché madre di sette figli fu premiata dalle autorità fasciste e in occasione della raccolta dell’oro per la patria consegnò la sua fede matrimoniale e una spilla d’oro ricevuta da una zia emigrata negli Stati Uniti. Durante una manifestazione locale notò che la sua spilla faceva bella vista su un abito della moglie di un gerarca. Anche Giulio D’Eramo ha confermato che qualche oggetto d’oro, anziché la patria arricchì la dotazione dei famigliari di qualche gerarca, come dimostrano le seguenti note: «Durante la domenica o le feste ricorrenti, i vari mandanti e mandatari non avevano alcun ritegno a mostrare sui loro vestiti i vari fermagli e monili ritirati dai buoni e semplici contadini» [24].

Nel 1935 sia a Lama dei Peligni che nel resto della provincia di Chieti molti giovani, spinti dalla propaganda del regime e da motivazioni economiche, partirono volontari per la guerra d’Etiopia. Prima della loro partenza, il segretario locale del fascio tenne in piazza un ardente discorso patriottico in cui li elogiò pubblicamente mentre il parroco e il vicario foraneo celebrarono una messa a loro favore nella chiesa di San Nicola. Il giorno 8 settembre dello stesso anno a Chieti l’arcivescovo mons. Giuseppe Venturi si recò di persona a benedire i volontari della provincia di Chieti che partirono in guerra. Inoltre dette disposizioni affinché ogni parroco conservasse gli elenchi dei soldati partiti, mantenesse con loro regolari relazioni epistolari, inviasse la rivista “Voce Amica” o qualche libro e soprattutto contribuisse a sostenere il loro coraggio e il loro spirito religioso. Quando i volontari lamesi per l’Abissinia fecero ritorno, furono accolti all’ingresso del paese dalle autorità locali civili e poi accompagnati nella chiesa parrocchiale per partecipare a una messa in cui s’intonò un Te Deum di ringraziamento e si benedissero i loro elmetti.

Nel 1935 la curia diocesana, oltre ad appoggiare pubblicamente il regime, attraverso le lettere pastorali, le raccomandazioni ai parroci e gli articoli sul Bollettino diocesano, diffuse le proprie vedute e norme riguardanti il costume, le forme di devozione e in generale la condotta morale e religiosa. A tal proposito attraverso il Bollettino diocesano teatino del 1935 si raccomandava alle donne di entrare in chiesa a capo coperto poiché: «lo stabiliva il diritto canonico; era consuetudine della Chiesa; era richiesto alla onestà delle donne; la donna è soggetta all’uomo e ciò viene dimostrato anche coprendosi il capo; la natura stessa ha fornito la donna di un velo naturale per non esser d’inciampo agli angeli». Il parroco Don Ermenegildo Scarci durante le omelie domenicali ricordava ai fedeli tali disposizioni diocesane e generalmente era ascoltato.

Nella prima metà degli anni trenta, nel rispetto delle norme concordatarie del 1929, anche a Lama dei Peligni iniziò l’insegnamento della religione cattolica nelle scuole elementari. In diversi numeri del Bollettino diocesano teatino di quegli anni si suggeriva agli insegnanti di catechismo il metodo da adottare durante l’attività didattica. Innanzitutto si raccomandava a tutti gli insegnanti d’intrattenere con i ragazzi un’iniziale conversazione famigliare e non tenere una lezione, conferenza o predica. Inoltre nelle ultime classi elementari, le ore di religione dovevano essere suddivise nelle seguenti tre parti: una prima parte in cui agli alunni si facevano alcune domande di richiamo di catechismo; una seconda in cui si dovevano tenere lezioni frontali di carattere formativo; una terza ed ultima parte in cui agli alunni si fornivano gli avvertimenti necessari per condurre una buona vita cristiana, tra cui la necessità di assolvere al precetto festivo frequentando la messa.

Nel 1934 sul totale di undici classi elementari attivate a Lama (360 alunni), in sei s’impartivano lezioni di catechismo a cui assistettero 186 alunni. Nell’anno successivo gli alunni iscritti alle lezioni di catechismo furono 261 di cui 250 furono frequentanti. All’esame finale parteciparono 221 alunni e 153 furono promossi. Il 22 giugno 1935 a Lama dei Peligni fu organizzata una gara catechistica a cui parteciparono quasi tutti gli alunni delle classi elementari. Dette gare erano vere e proprie feste catechistiche che si organizzavano per assegnare piccoli premi e riconoscimenti pubblici a chi mostrava conoscenze più approfondite della dottrina cristiana. Negli anni successivi la popolazione scolastica lamese che frequentava i corsi di catechismo aumentò. Infatti, nel 1936 si registrarono 360 iscritti e 270 frequentanti. Nel 1938, gli iscritti furono 278 e i frequentanti 260.

Nel 1936, dopo il trasferimento di Don Ermenegildo Scarci, fu nominato parroco di San Nicola Don Vincenzo de Franceschi, che mantenne la cura della parrocchia sino al 1961, anno in cui morì. Don Vincenzo riuscì a farsi subito benvolere sia dalla gente comune che dalle autorità locali del regime. Per questo motivo fu nominato assistente spirituale dei Balilla e parroco della milizia.

Nel 1938 la Curia teatina attraverso il Bollettino diocesano volle far sentire la propria opinione anche sul ballo, ossia un fatto di un pubblico divertimento popolare. A tal proposito pubblicò la seguente opinione sul ballo precedentemente apparsa sul Bollettino del Patriarcato di Venezia:

«il ballo, specie se promiscuo è condannato dalla morale cattolica; tale condanna è motivata dal pericolo grave che il ballo ordinariamente reca, di offesa alla moralità pubblica per lo scandalo dei presenti, e della popolazione che ne viene a conoscenza; durante il ballo non possono essere impediti i peccati interni, che pure sono vietati dai Comandamenti di Dio; ognuno sa che le peggiori conseguenze del ballo non sono immediate sul posto ed al momento, ma succedono in seguito, in luoghi e circostanze a cui il ballo ha dato occasione».

Lama dei Peligni era uno dei pochi comuni della valle dell’Aventino in cui nell’anteguerra si facevano balli promiscui e si è visto che nel 1925 una festa con il ballo promosso dalle autorità fasciste fu osteggiato dal circolo cattolico femminile. Nel 1938 il parroco Don Vincenzo de Franceschi nel rispetto delle prescrizioni diocesane, durante le sue omelie domenicali, fece presente che il ballo promiscuo era condannato dalle autorità diocesane poiché contrario alla morale cattolica. Egli tuttavia non fu ascoltato e gli abitanti del luogo continuarono a praticarlo. 

Lama dei Peligni, il SantoBambino

Lama dei Peligni, il Santo Bambino

I lavoratori emigranti e la chiesa lamese 

Durante il ventennio fascista molti lamesi continuarono a lavorare lontani dalla propria terra e dai propri cari. Nei loro confronti i parroci locali sostenuti anche dalle autorità diocesane adottarono un atteggiamento caratterizzato da una volontà di assistenza e nello stesso tempo anche da una certa diffidenza per le possibili ripercussioni che le loro esperienze sociali nei luoghi d’accoglienza potessero provocare sulla religiosità locale.

Alla volontà di assistenza agli emigranti si collega la raccomandazione fatta nel 1922 dalla Sacra Congregazione Concistoriale ai parroci della diocesi di Chieti di fornire gratis la tessera ecclesiastica a chi lasciava la propria terra al fine di essere riconosciuti dalle autorità religiose dei luoghi di arrivo. A questa iniziativa si aggiunse un decreto del sinodo diocesano teatino del 1926 che ordinava ai parroci di occuparsi degli emigranti fornendo loro la tessera suddetta e indirizzandoli agli istituti religiosi d’assistenza. Don Silvio Sacchetti, Don Ermenegildo Scarci e Don Vincenzo de Franceschi, obbedendo alle prescrizioni diocesane, si occuparono dei lamesi che lasciarono la loro terra, mantenendo la corrispondenza tra i famigliari analfabeti e in diversi casi curando anche le loro pratiche matrimoniali.

La diffidenza verso il lavoratore emigrante era dovuta alla convinzione che a causa loro aumentava l’irreligiosità locale in quanto diffondevano i modelli religiosi acquisiti nei luoghi di lavoro. Questa tesi è dimostrata da un memoriale riguardante lo stato della parrocchia che nel 1924 fu presentato al sinodo diocesano da Don Silvio Sacchetti. In quest’occasione Don Silvio fece presente che a Lama c’era molto disprezzo della religione a causa della corruzione dei costumi e dell’ignoranza. A suo avviso l’una e l’altra aumentarono con l’emigrazione che portava i cristiani a venire a contatto con ambienti irreligiosi e corrotti per cui perdevano la loro tipica religiosità paesana [25]. Don Silvio proponeva di intervenire con una maggiore istruzione religiosa preparando gli emigranti, mettendoli in guardia dai pericoli spirituali, premiandoli per le loro iniziative in difesa della religione, seguendoli durante il soggiorno in terra straniera e vigilando affinché al loro ritorno fossero messi in condizione di non danneggiare i paesani.

In generale, nonostante nei paesi d’accoglienza gli emigranti lamesi venivano a contatto con altre realtà culturali e scoprivano modi diversi di vivere, essi, tuttavia non sempre accoglievano i modelli religiosi dei luoghi di lavoro, ma tendevano a conservare quelli delle località d’origine. A provare questa tesi contribuisce il fatto che gli emigranti stessi: fornivano importanti contributi finanziari agli organizzatori delle feste paesane che li contattavano; sceglievano questi momenti festivi per far ritorno in paese, curare i propri beni, rivedere gli amici e i parenti. Considerati tutti questi aspetti si può dire che generalmente gli emigranti lamesi erano portatori di una religiosità con i seguenti tratti caratteristici: la strumentalità finalizzata a chiedere a Dio e ai santi assistenza e grazie per la propria salute e il benessere materiale; il sentimentalismo basato sul rispetto della famiglia, delle tradizioni e delle feste patronali. 

 Lama dei Pelign, Gruppo di lamesi con un'internata (l'ultima a destra).

Lama dei Pelign, Gruppo di lamesi con un’internata (l’ultima a destra).

Lama dei Peligni durante il Secondo conflitto mondiale e la Chiesa 

I tragici avvenimenti della Seconda guerra mondiale ebbero due importanti riflessi sulla vita sociale e religiosa di Lama dei Peligni. Gli avvenimenti conseguenti alla partenza dei soldati per il fronte e le decisioni delle autorità civili ed ecclesiastiche influenzarono la vita del paese sino all’arrivo dei tedeschi del 20 settembre 1943, all’occupazione e alla conclusione del conflitto.

La partenza di molti giovani chiamati alle armi ripropose e ingigantì il problema dell’assenza in paese della forza lavoro maschile. Di conseguenza molte donne furono costrette a farsi carico di alcuni lavori precedentemente eseguiti dai loro figli o mariti. Quando esse non potevano permetterselo l’economia famigliare andò incontro a un periodo di crisi.

Da parte sua la curia arcivescovile di Chieti, durante il conflitto prese diverse iniziative. Innanzitutto invitò i fedeli a pregare per la patria e a mantenere i contatti con i soldati. Nel 1941 al fine di non mettere in pericolo la vita dei fedeli a causa degli attacchi aerei, Mons. Venturi ordinò che le processioni dovevano rientrare in chiesa prima dell’oscuramento e a quell’ora tutti gli edifici di culto dovevano essere sfollati e chiusi. In seguito il presule impose il divieto di organizzare le processioni, tranne quelle del Corpus Domini, del Venerdì Santo e dei Santi Patroni. Di conseguenza a Lama dei Peligni si ridussero le processioni pubbliche e una che continuò ad essere organizzata fu quella del Santo Bambino. Il 20 settembre 1943, mentre a Lama dei Peligni si svolgeva la sua processione arrivò in paese l’esercito germanico.

Durante il periodo di occupazione, i tedeschi furono protagonisti di varie azioni di rappresaglia contro la popolazione civile che nel complesso provocarono la morte di circa 40 individui a cui vanno aggiunti 13 dispersi. Una parte della popolazione locale di fronte ai saccheggi, i furti e le uccisioni di civili inermi non restò a guardare e decise di combattere gli invasori, aderendo alla formazione partigiana della Brigata Maiella. La popolazione locale, per non rischiare le azioni di rappresaglia, fu costretta a sfollare in diversi paesi vicini precedentemente liberati dall’esercito alleato. Alcuni sfollati addirittura trovarono ospitalità a Camposampiero, un Comune veneto della Provincia di Padova. Nel 1944, prima di ritirarsi dal paese, i tedeschi lo minarono e causarono la distruzione di quasi tutti i suoi edifici. Rimasero intatti la chiesa di San Nicola, il municipio ed alcune abitazioni che circondavano la piazza principale.

Durante il periodo di sfollamento ci fu chi non dimenticò la propria devozione al Santo Bambino e così noncurante dei rischi a cui andava incontro, pensò di allontanare temporaneamente la sua sacra effige dalla chiesa di San Nicola per nasconderla e sotterrarla nei pressi di un casolare di campagna, ove essa fu effettivamente tenuta sino al termine degli eventi bellici.

il retro di una  cartolina spedita da un internato sloveno a Lama  dei Peligni.

il retro di una cartolina spedita da un internato sloveno a Lama dei Peligni

Nella primavera del 1944 in paese giunse l’esercito alleato con alcuni reparti di soldati indiani che per il loro aspetto e colore della pelle destarono notevole curiosità. I reparti alleati parlavano l’inglese, una lingua che molti avevano conosciuto dai racconti dei loro parenti emigrati e che ora per la prima volta sentivano usare anche nella propria terra. Nel luogo alcune persone accolsero benevolmente i soldati alleati e fraternizzarono con loro.

Al termine del conflitto i lamesi sfollati fecero ritorno in paese e dovettero affrontare molti problemi tra cui: il reperimento dei mezzi necessari per la sussistenza e di un posto al coperto; il trasporto della salma di un proprio caro defunto durante lo sfollamento sino al cimitero del paese e via dicendo. All’epoca tutta la popolazione avvertiva la necessità di un’assistenza materiale per sopperire alle più elementari necessità. In questi frangenti la famiglia Tabassi ospitò nel proprio palazzo signorile alcune famiglie del luogo che avevano perso la propria abitazione. Anche la Chiesa non rimase a guardare e cercò di intervenire con proprie modalità per alleviare le sorti della popolazione colpita dagli eventi bellici utilizzando tutti i mezzi a sua disposizione. Ad avviso di Costantino Felice dopo il 1944-45 le strutture ecclesiastiche regionali quali vescovadi, parrocchie e organizzazioni cattoliche caritativo-assistenziali che affiancarono il clero, mantennero le forze e nella crisi delle istituzioni statali riuscirono addirittura a rafforzare il loro prestigio [26].

La prima iniziativa ecclesiastica a sostegno della popolazione lamese fu presa dal parroco Don Vincenzo de Franceschi che a partire dal 1943 fece sospendere il pagamento di tutti i canoni sui beni della parrocchia. La seconda iniziativa la mise in atto la Pontificia Commissione di Assistenza istituita presso la Curia arcivescovile di Chieti. Nel 1945, il suo intervento assistenziale a Lama dei Peligni portò all’apertura del refettorio del papa al fine di fornire aiuti alimentari alla popolazione locale. Nello stesso anno, a Lama si costituì anche un Comitato comunale di assistenza formato dal sindaco, il parroco, un delegato della Croce Rossa e l’ufficiale sanitario locale. Il suo fine era di distribuire gli aiuti alle persone bisognose per conto dell’E.N.D.S.I. (Ente Nazionale per Distribuzione dei Soccorsi in Italia) che aveva sede a Roma.

Dai primi di dicembre del 1945, anche una commissione mista italo-americana iniziò la distribuzione di aiuti vari (soprattutto oggetti di vestiario) a tutti gli abitanti dei Comuni colpiti dagli eventi bellici. Gli aiuti alla popolazione lamese furono forniti anche dai parenti emigrati, soprattutto quelli residenti negli Stati Uniti che periodicamente inviavano denaro o pacchi dono con abiti ed altro.

Lettera d'elogio inviata dalla segreteria provinciale del partito fascista di Chieti, alla Signora Tabassi per l'assistenza ai terremotati del 1933 (Archivio privato famiglia Tabassi):

Lettera d’elogio inviata dalla segreteria provinciale del partito fascista di Chieti, alla Signora Tabassi per l’assistenza ai terremotati del 1933 (Archivio privato famiglia Tabassi)

Purtroppo questi interventi nel loro complesso non riuscirono a risolvere tutti i problemi posti dalla guerra e pertanto ognuno cercò di arrangiarsi come meglio poteva. In questi frangenti generalmente la fede religiosa non abbandonò la popolazione e per molti individui fu un importante presidio morale con cui riuscire ad accettare più serenamente i tragici eventi in corso e poi sperare di superarli. 

Il confino politico di Lama dei Peligni 

Il confino era – come è noto – uno strumento di repressione politica adottato dal regime fascista che consisteva nell’obbligo per il confinato di andare ad abitare in una località lontana da quella di residenza. La scelta del centro di confino cadeva sui luoghi isolati, di difficile raggiungimento, non densamente abitati e con gli abitanti poco politicizzati.

Dal 1936 è documentata l’esistenza a Lama dei Peligni di un confino di polizia nel quale furono ospitate persone provenienti da diverse città italiane e jugoslave [27]. A partire dal 1940 è invece documentata l’esistenza nel luogo di un campo d’internamento libero costituito da un grosso edificio posto al centro del paese. Esso fu operativo sino all’8 settembre 1943 e accolse ebrei, oppositori politici, stranieri apolidi e prigionieri di guerra. In questi campi i soggetti internati erano obbligati al domicilio coatto e a seguire un insieme di divieti limitativi delle loro libertà. I pochi servizi disponibili, le precarie condizioni igieniche e le basse temperature resero ancor più difficoltoso il periodo d’internamento.

La presenza temporanea di questi personaggi a Lama dei Peligni ebbe vari effetti sulle relazioni sociali e il tessuto culturale locale. Innanzitutto il campo d’internamento fu un momento d’incontro culturale per gli abitanti del luogo che non si erano mai allontanati dal paese poiché, per la prima volta nella loro vita, vennero a contatto con persone di lingua, idee politiche e religione diverse dalle proprie.  Essi durante le ore diurne, poiché erano liberi di muoversi per il paese, ebbero la possibilità di instaurare relazioni sociali più o meno profonde con gli abitanti locali.

Ragazzi presenti a un'esercitazione  dei giovani Balilla al  Tirasegno.

Ragazzi presenti a un’esercitazione dei giovani Balilla al Tirasegno

Gli internati, pur essendo sottoposti a un regime di controllo poliziesco, non godevano di cattiva fama. In base a una testimonianza, a Lama dei Peligni essi erano chiamati “ribelli” e avevano «l’unica colpa di pensarla diversamente dal fascismo» [28]. Alcuni confinati non erano disprezzati neanche dalle autorità fasciste che li dovevano controllare ed erano oggetto di frequenti visite per fare insieme conversazioni libere, giochi a carte ed altro. Giuseppina Cinque racconta che i lamesi consideravano gli internati bravi, educati e colti. Essi tuttavia alimentavano i pettegolezzi e le chiacchiere paesane poiché le ragazze del paese, specie quelle da marito, trovavano ogni scusa per passeggiare presso l’edificio in cui abitavano e sperare di vedere o ammirare coloro che erano considerati dei bei ragazzi [29]. Addirittura una giovane dell’epoca riuscì a far colpo su un confinato di origini bergamasche che, dopo averla conosciuta, la sposò e in seguito restò a vivere in paese sino alla sua morte. Di conseguenza questo signore venendo a Lama, anziché soffrire la punizione dell’isolamento e del confino, trovò l’amore della sua vita.

Una fotografia recentemente pubblicata su “Lamarcord”, un sito facebook dedicato a Lama dei Peligni, ritrae un’internata ebrea abbracciata da una donna locale. Mario Amorosi, una persona originaria del luogo, a commento della foto ha scritto:

«La dittatura fascista voleva forgiare un nuovo italiano, cioè un essere violento e disposto ad odiare gli ebrei, i nemici politici e i nemici stranieri (a cui noi avevamo mosso guerra…) operazione perfettamente non riuscita. Questa foto scattata a Lama durante il periodo in cui c’erano gli internati ne è la dimostrazione visiva e storica lampante, perché i lamesi non solo non odiarono gli internati, ma addirittura (e giustamente) familiarizzarono con loro. La donna che si trova all’estrema destra della foto è un’internata, una donna che secondo il fascismo aveva “la colpa” di essere di origine ebraica: il suo cognome è Ascarelli… Notate bene la signora Ascarelli non solo è presente nella foto insieme ad altre persone di Lama, ma è abbracciata da una donna di Lama» [30]. 
Veduta parziale di Lama dei Peligni con il Tirasegno (in alto a sinistra).

Veduta parziale di Lama dei Peligni con il Tirasegno (in alto a sinistra)

Le feste religiose

Il periodo in esame a Lama dei Peligni è caratterizzato da feste religiose antiche che continuavano a persistere, da altre nuove che furono introdotte e da numerose disposizioni della curia teatina riguardanti la loro organizzazione e in particolare quella delle processioni.

Nel 1926 l’arcivescovo Monterisi convocò un sinodo diocesano per rinnovare la vita religiosa della diocesi ed eliminare dalle pratiche di culto i residui di religiosità naturale, pagana e non tipicamente cristiana ancora esistenti. Riguardo alle feste religiose si deliberò quanto segue: sono considerate profanazioni intollerabili in chiesa le cosiddette “frasche e canocchie”, i carri con polli e dolci, le saltarelle, i convegni pubblici con regali reciproci tra fidanzati o fidanzandi nella notte di Natale e nella festa di San Giovanni Battista, le licitazioni di statue per le processioni ed altri abusi simili; è vuoto formalismo celebrare feste sfarzose, dispendiosissime che di religioso hanno solo il titolo del programma; è profanazione indegna aggiungere alle feste religiose, spettacoli di senso pagano come le maggiolate, i concorsi di bellezza e le cinematografie scorrette all’aperto; i seguenti abusi che si commettono durante le processioni si devono eliminare: a) l’imposizione e direzione delle processioni dai laici e non dall’autorità ecclesiastica; b) l’itinerario lungo, le fermate arbitrarie e i rinfreschi con bevande alcoliche lungo il percorso; c) i cortei religiosi con continui ed assordanti rumori di bande e fuochi d’artificio; d) la raccolta di offerte delle commissioni laiche senza darne conto all’Autorità ecclesiastica; e) la troppa frequenza delle processioni senza ragione canonica, ordine e dignità di corteo; f) l’inserimento di molte statue nelle processioni, la loro licitazione a denaro e l’affido a donne, cristiani non praticanti, bestemmiatori e persone che non osservano le leggi della morale cristiana; g) l’affissione di banconote alle statue; h) fare della drammatica poco dignitosa con le varie statue; i) fare della cosiddetta torcia un oggetto sacro da portare col Santo in processione e licitarla continuamente al migliore offerente lungo il percorso; durante le processioni, i sacerdoti introducano la recita del Rosario, i canti liturgici e popolari, mentre la banda suoni solo musiche d’accompagnamento religiosi [31].

Dopo la conclusione del sinodo furono inviate direttive al clero diocesano al fine di rendere applicativi tutti i suoi decreti. Inoltre nel 1927, in appoggio a quelli sulle processioni e le feste, il prefetto di Chieti diffuse un’ordinanza in cui faceva presente quanto segue: i comitati delle feste religiose devono essere composti dal podestà, il parroco, il segretario locale del partito fascista e persone che per esperienza ed attività sono utili ai fini della migliore riuscita dei festeggiamenti; è vietato eseguire fuochi d’artificio durante le processioni; il programma dei festeggiamenti deve seguire le tradizioni locali e le civili aspirazioni popolari evitando le attività di turbamento dell’ordine pubblico;  non sono ammesse ingerenze del comitato feste sui fondi raccolti in chiese e non è tollerato nemmeno il raccoglierli nelle loro vicinanze;  l’unica personalità competente per le funzioni religiose sia dentro che fuori la chiesa è sempre  il parroco.

Una tradizione di Lama dei Peligni che contrastava con i decreti sinodali era detta “il carrino” e consisteva nell’organizzazione di un’asta per scegliere le persone che portavano le statue in processione. I partecipanti alle aste erano sempre numerosi e le offerte sia in natura che in denaro oltre che per devozione avevano anche una funzione propiziatoria poiché si facevano nella speranza di assicurarsi l’intervento protettivo del Santo che si festeggiava. La licitazione delle statue, poiché consentiva di portarle in processione solo a chi faceva le maggiori offerte, riaffermava anche in un’attività di devozione collettiva le gerarchie economico-sociali comunitarie e la loro capacità di controllo sulle norme e i valori religiosi della popolazione.

Veduta parziale di Lama dei Peligni dopo il terremoto del 1933.

Veduta parziale di Lama dei Peligni dopo il terremoto del 1933

Un’altra tradizione locale che contrastava con i decreti sinodali era l’abitudine di appendere le banconote alle statue dei santi. Il rivestimento di statue con cartamoneta è un modo ostentato di manifestare la propria devozione e una religiosità di tipo contrattuale, nel senso che all’offerta di denaro si presuma corrisponda una grazia o altro tipo d’intervento soprannaturale del Santo a cui si fa il dono. Il sinodo teatino del 1926 dichiarò illecita quest’abitudine poiché un Santo doveva essere venerato per le sue virtù cristiane e non per i suoi presunti poteri taumaturgici.

A Lama dei Peligni furono prese diverse iniziative per applicare i decreti sinodali ed eliminare le tradizioni locali che contrastavano con essi. Il 27 maggio 1927 il parroco Don Ermenegildo Scarci, con la seguente lettera informò l’arcivescovo di Chieti sulla loro applicazione:

«Profitto dell’occasione per dirle che le riforme volute dalle leggi sinodali procedono a gonfie vele. Niente lecitazioni, niente torce, niente raccolta di offerte durante la processione. Ieri poi la processione dell’Ascensione si è svolta con il solo Salvatore senza l’ombra di qualsiasi protesta o lagnanza; fatto rilevante quando si pensi che l’Abate Verna il quale volle proibire la rivista dei Santi fu costretto l’anno seguente a ripristinarla. Ho fatto precedere a queste riforme la minuta spiegazione del Sinodo nella messa domenicale dell’alba ed una intensa propaganda spiegando come della cosa era investita la stessa autorità di pubblica sicurezza ed allora tutti zitti. Non mi illudo però, difficoltà ne incontrerò perché vi sono alcuni abusi ancor più gravi da togliere ma ho tutta la fiducia di riuscire senza provocare spiacevoli incidenti» [32]. 

Durante la festa di Sant’Antonio da Padova del 1927, anche i frati minori del convento di Santa Maria della Misericordia dettero esempio di disciplina, rispetto ed applicazione dei decreti sinodali poiché non permisero che si appendesse neanche un centesimo né alla statua del Santo né alle bandiere portate in processione. Essi mediante il manifesto pubblicato per quella circostanza, invitarono i fedeli a dare prima e dopo la processione le loro offerte per non disturbare la solennità e la serietà dell’atto liturgico [33].

Dalla relazione della visita pastorale risulta che nel 1932 a Lama dei Peligni si organizzarono processioni in occasione delle seguenti ricorrenze festive: San Sebastiano, San Giuseppe, Venerdì Santo, Ascensione, Corpus Domini, il Santo Bambino (due processioni di cui una a maggio e l’altra a settembre), la Madonna di Corpi Santi, San Cesidio, Sant’Antonio da Padova, San Gabriele e la Madonna del Carmine [34]. A tali cerimonie c’era sempre la partecipazione delle autorità fasciste locali che si disponevano subito dopo la statua per riaffermare il loro prestigio, dimostrare la condivisione dei valori religiosi locali e una rispettosa adesione alle attività promosse dalla parrocchia.

Durante la festa di San Sebastiano, che era il santo patrono di Lama dei Peligni, le scuole e gli altri edifici pubblici restavano chiusi. Durante la festa di San Cesidio che si celebrava nel mese di agosto, c’era la consuetudine di offrire dei donativi per ringraziare materialmente il Santo per il buon esito del raccolto. Nell’elenco delle processioni del 1932 non è citata quella di San Domenico di Cocullo la cui festa si organizzava a Lama dei Peligni durante il ventennio fascista. Secondo Profeta, durante la sua processione, i fedeli si rivolgevano famigliarmente a San Domenico per chiedergli se avesse gradito i fuochi d’artificio. Allora i portatori della statua la inclinavano in avanti, obbligandola a particolari movimenti. L’inchino della statua era considerato di buon auspicio per il raccolto e pertanto era salutato da acclamazioni [35]. Durante una sua processione degli anni 30, il parroco andò in una direzione e i portatori con la statua seguirono un’altra strada.

Il culto di San Gabriele dell’Addolorata a Lama dei Peligni si diffuse verso la fine degli anni 20 per iniziativa dei padri passionisti che con molta frequenza erano invitati in paese per assolvere alla funzione di predicatori quaresimali. Agli inizi degli anni ‘30 fu ordinata una statua di San Gabriele che ora si conserva nella chiesa parrocchiale di San Nicola. Alcune persone anziane locali hanno riferito che molti fedeli si recarono ad aspettare il suo arrivo lungo la strada statale, a circa un km dall’ingresso in paese. Quando la statua arrivò, fu scaricata dal mezzo meccanico su cui aveva viaggiato e, insieme alle persone accorse, fu trasportata a spalla sino alla chiesa parrocchiale di San Nicola. In seguito, si decise di organizzare una novena di preghiere e una festa del giovane santo passionista che fu abbinata a quella di Sant’Antonio da Padova.

Durante le feste natalizie degli anni 30, Caprara riferisce che le donne si riunivano per giocare a tombola, mentre lui e gli amici per stare al caldo giocavano in stalla. La mattina dell’Epifania, a causa delle precarie condizioni economiche, nella calza appesa sotto il camino di solito trovava un arancio, una mela, fichi secchi, qualche torroncino, carbone e talvolta la cenere [36].

Il 20 settembre del 1933, la festa di Gesù Bambino fu allietata da due bande musicali che durante la serata si esibirono contemporaneamente in altrettante piazze del paese. Una di esse intonò la Marcia Trionfale dell’Aida e per aumentare gli effetti spettacolari, quattro trombettieri la suonarono da due balconi di abitazioni diverse. La serata festiva si concluse con il brillamento di fuochi pirotecnici [37].  Un’altra particolarità che caratterizzava questa festa sino al 1943 era la benedizione che il parroco impartiva ai campi coltivati nel momento in cui la processione attraversava la strada di un rione con un’ampia veduta panoramica [38]. Quest’usanza legava la festa stessa ai bisogni dei contadini locali e in tal senso dimostra che con la benedizione dei campi assolveva a una funzione propiziatoria di buon raccolto. Inoltre conferma che la religiosità locale aveva finalità strumentali.

Le processioni religiose lamesi dal 1933 dovevano seguire le nuove regole imposte dalla curia diocesana che, in continuità con le disposizioni di Mons. Monterisi fece il possibile per eliminare dalle stesse quanto non direttamente pertinente alla loro natura di momento di preghiera collettiva all’aperto. A tal proposito si ordinò a tutti i parroci della diocesi quanto segue: escludere dalle processioni quanto non rispondente alla natura delle medesime come portare le conche; far presente alle commissioni feste che nelle domande di autorizzazione alle processioni rivolte alla curia arcivescovile si doveva precisare il percorso da compiere e indicare anche le prevedibili fermate che sarebbero state autorizzate se fatte in numero limitato e a condizione che si effettuassero davanti a qualche chiesa o oratorio pubblico e non altrove; allontanarsi dalle processioni se si ammettevano le conche, effettuavano fermate in luoghi diversi da quelli previsti o si doveva assistere ai fuochi artificiali; far presente ai fedeli durante le feste religiose e prima delle processioni che il loro spirito non è quello di onorare i Santi ma di imitarli; l’obbligo di partecipazione di tutto il clero alle processioni locali e, ai fedeli che le accompagnavano, di cantare canzoni devote e recitare il Santissimo Rosario.

Durante le feste natalizie del 1934 il podestà di Lama dei Peligni deliberò di utilizzare 400 Lire per la confezione e distribuzione ad alcuni individui del luogo disoccupati e bisognosi di pacchi dono contenenti generi alimentari.

veduta di Lama  di Peligni nel 1945 con soldati dell'esercito alleato (per  gentile  concessione di Enrico Del Pizzo).

Lama di Peligni nel 1945: soldati dell’esercito alleato (per gentile concessione di Enrico Del Pizzo)

Nel 1935 la curia arcivescovile dettò altre nuove norme riguardanti le feste religiose e le processioni tendenti ad eliminare le tradizioni contrarie ai principi e alla morale cristiana. In questo caso si fece presente quanto segue: erano intollerabili i fuochi d’artificio durante le processioni, l’utilizzo delle statue per la benedizione dei campi, l’accompagnamento dei pellegrini che partivano, la loro esposizione  durante i raccolti o in occasione dei temporali e il loro posizionamento presso le porte delle chiese per impedire che venga la grandine; si autorizzava la celebrazione delle feste e processioni in giorni diversi da quelli del calendario purché centenarie e non entrassero in contrasto con la liturgia ufficiale.

Nel 1935, in occasione della festa del Corpus Domini, il Bollettino diocesano teatino invitò i suoi lettori ad adoperarsi affinché: le strade attraversate dalla processione fossero ben pulite e disseminate di fiori; le abitazioni fossero addobbate e pavesate a festa; durante la processione gli uomini dovevano essere separati dalle donne e procedere con ordine e devozione in due file che non dovevano essere interrotte. A Lama dei Peligni questa tradizione esisteva e continua a persistere. Infatti, ancora oggi le piante, i fiori e le foglie si dispongono lungo le strade attraversate dalla processione, talvolta per ricavare spettacolari mosaici e anche senza tuttavia seguire una trama precisa.

Nel periodo in esame continuò ad organizzarsi la festa della Madonna di Corpi Santi nell’omonima contrada. Di tale festa si conosce il programma predisposto nel 1940 che, ad avviso di Giulio D’Eramo, fu caratterizzato dalle seguenti manifestazioni e attività: un giro mattutino della banda per le vie della contrada; un successivo giro della banda per le vie delle altre contrade lamesi insieme a un membro del comitato feste; una prima messa nella chiesa della Madonna stessa; una messa cantata attorno alle ore 12 preceduta da un piccolo concerto bandistico; il pranzo di ogni componente della banda con una famiglia del luogo; il ritiro delle “spase”, ovvero di grandi vassoi contenenti varie cibarie che erano preparate dalle famiglie di Corpi Santi e poi vendute all’asta per finanziare la festa [39]; la processione pomeridiana della Madonna per le vie della contrada; il brillamento di fuochi d’artificio prima del rientro della statua in chiesa; la vendita all’asta delle “spase”; la proiezione serale di un film all’aperto [40].

In quell’anno la processione fu aperta dal sacrestano con un crocefisso di legno, seguito da un gruppo di bambini più piccoli, le donne in doppia fila, la banda che intonava inni religiosi, la statua della Madonna posta su un piedistallo e portata da quattro uomini vestiti con i paramenti sacri, alcune bambine dette “le verginelle” che avevano ricevuto la prima comunione ed erano vestite di bianco, il parroco, due carabinieri, quattro donne che portavano un oggetto detto “il fiocco della Madonna” ed infine gli uomini in ordine sparso [41].

Alcune ricorrenze festive religiose del periodo in esame erano abbinate a fiere in cui prevalevano la vendita e il commercio di beni e prodotti legati all’agricoltura e alla zootecnia. Detti avvenimenti avevano finalità propiziatorie e dimostrano che le feste religiose contribuivano ad incrementare alcune attività economiche locali. Le fiere lamesi più importanti del periodo precedente il Secondo conflitto mondiale erano le seguenti: la fiera della Candelora il 2 febbraio, la fiera di San Giuseppe il 19 marzo, la fiera del Santo Bambino la terza domenica di maggio, la fiera di S. Domenico Abate la prima domenica di giugno, la fiera di San Francesco Saverio il 19 settembre e la fiera di Santa Barbara il 4 dicembre. 

Dialoghi Mediterranei, n. 66, marzo 2024 
Note
[1] Pezzetta A., Casa rurale, ambiente, agricoltura e società a Lama dei Peligni dal 1700 ai giorni nostri, Tip. Savorgnan, Monfalcone (Go),1994: 30.
[2] ivi: 30.
[3] ivi: 35.
[4] ISTAT (a cura), Catasto Agrario 1929 VIII. Compartimento degli Abruzzi e Molise, Provincia di Chieti, fasc.64, Istituto Poligrafico dello Stato, Roma, 1935: 31.
[5] Caprara P., Origini, Tip. Ianieri. Casoli (Ch), 1994: 45.
[6] ivi: 44.
[7] D’Eramo G., Mentre la Majella resta a guardare. Storia della Valle dell’Aventino, Grafiche Odorisio, Pescara, 2022: 56.
[8] Cinque G. E., Cent’anni sotto la Majella, Carabba Ed., Lanciano, 2016: 77.
[9] Il dott. Tabassi quando accenna al “vento comunistico” si riferisce all’attività politico-sindacale e alle proteste organizzate dalla Lega dei Contadini che contribuirono a eliminare o ridurre antichi canoni enfiteutici e interessi censuari dovuti dagli agricoltori locali ai proprietari dei terreni.
[10] Archivio di Stato di Chieti, Prefettura, IV versamento, Opere Pie, Lama dei Peligni, busta 127.
[11] Archivio di Stato di Chieti, Prefettura, ivi.
[12] Canosa R., Storia dell’Abruzzo nel ventennio fascista, Ed. Menabò, Ortona (Ch), 2006: 69.
[13] Si veda Gentile E., Il culto del littorio. La sacralizzazione della politica nell’Italia fascista, Laterza, Roma – Bari, 2009.
[14] Archivio della Curia Arcivescovile di Chieti, Relazione della forania di Lama dei Peligni per il Sinodo diocesano del 1926, busta n. 426.
[13] Archivio della Curia Arcivescovile di Chieti, Relazione della forania di Lama dei Peligni, ivi.
[15] Liberatoscioli G., Nicola Monterisi arcivescovo di Chieti-Vasto (1920-1929), Tinari, Villamagna (Ch), 2002: 242.
[16] ivi: 201-202.
[17] ivi: 194.
[18] ivi: 106-107.
[19] Paziente F., La provincia di Chieti da Giolitti a Mussolini (1915-1929). Società, Stato e Chiesa tra rinnovamento e restaurazione, Ed. Noubs, Chieti, 1999: 270.
[20] Archivio della Curia Arcivescovile di Chieti, Relazione della visita pastorale del 1929, busta n. 485.
[21] Liberatoscioli G., ivi: 200.
[22] Archivio della Curia Arcivescovile di Chieti, Relazione della visita pastorale del 1929, busta n. 490.
[23] D’Eramo G., ivi: 72.
[24] ivi: 100.
[25] Archivio della Curia Arcivescovile di Chieti, Relazione della forania di Lama dei Peligni per il Sinodo diocesano del 1926, busta n. 426.
[26] Felice C., Guerra, Resistenza, Dopoguerra in Abruzzo, Franco Angeli, Milano, 1993: 356.
[27] Spadaro D., La repressione del dissenso politico nel regime fascista: il confino di polizia di Lama dei Peligni, “Abruzzo Contemporaneo, Rivista di Storia e Scienze Sociali”, n. 45-46, 2017: 41.
[28] Spadaro, ivi: 43.
[29] Cinque G. E., ivi: 104.
[30] Amorosi M., Lama e gli internati, sito facebook Lamarcord, 29 marzo 2023.
[31] Monterisi N., Sinodo diocesano teatino: primo dopo la pubblicazione del codice, celebrato nei giorni 22, 23 e 24 luglio 1926 nella metropolitana di Chieti da mons. N. M. per le Diocesi di Chieti e Vasto, Casalbordino (Ch), 1926. 
[32] Bollettino diocesano teatino, n. 2, 1927: 45.
[33] Le processioni e il sinodo, Bollettino Diocesano Teatino n.8, 1927: 65-66.
[34] Archivio della Curia Arcivescovile di Chieti, Relazione della visita pastorale dal 1932, busta n. 490.
[35] Profeta G., S. Domenico Abate di Sora e di Cocullo, Ed. Libreria Colacchi, L’Aquila: 306-307.
[36] Caprara P., ivi: 48.
[37] Caprara P., ivi: 49-50.
[38] Verlengia F., Il Santo Bambino di Lama dei Peligni, Tip. Mancini, Lanciano (CH), 1957: 5.
[39] Di solito le “spase” potevano contenere: coniglio e/o pollo ripieno o ai ferri, contorni vari, frutta di stagione, una bottiglia di vino ed altro.
[40] D’Eramo G., ivi: 83-87.
[41] D’Eramo G., ivi: 86. 
Riferimenti bibliografici
Spadaro D., La repressione del dissenso politico nel regime fascista. Lama Dei Peligni, dal confino al campo di concentramento, Tinari, Villamagna (Ch), 2009
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Amelio Pezzetta, laureato in filosofia all’Università di Trieste è insegnante di Scuola Media in quiescenza. I suoi interessi principali sono la storia locale e le tradizioni popolari dei Comuni della Valle dell’Aventino (Prov. di Chieti, Abruzzo). Ha collaborato e collabora tuttora con varie riviste del settore tra cui: Aequa, Dada, L’Universo, Palaver, Rivista di Etnografia, Rivista Abruzzese e Utriculus e Valle del Sagittario.

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